16 Novembre, 2016

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L’art. 187-ter del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52, in prosieguo TUF), sotto la rubrica Manipolazione del mercato, dispone al comma 1: «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro cinque milioni chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari».
Detta disposizione è oggi sospettata di illegittimità costituzionale a causa della doppia comminazione sanzionatoria (penale e amministrativa) cui espone il medesimo soggetto a fronte della unicità della condotta fattuale a lui ascrivibile (1). Dubbio corroborato dalla presenza, nel corpo del documento normativo, di altre due norme di analogo, inequivoco segno: il successivo terzo comma, lett. c), per cui «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria di cui al comma 1 chiunque pone in essere: … c) operazioni od ordini di compravendita che utilizzano artifizi od ogni altro tipo di inganno o di espediente»; e soprattutto il precedente art. 185, recante per di più l’identica rubrica Manipolazione del mercato, che sanziona questa volta penalmente (con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da ventimila a cinque milioni di euro) colui che «diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari» (2).
Il tutto con espresso richiamo a una ancora fresca ma già celeberrima pronuncia della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito Corte EDU) – nota ai più, in virtù della fama del protagonista, come sentenza Grande Stevens (3) – la quale ha analizzato l’ampiezza del canone del ne bis in idem, consacrato nell’art. 4, paragrafo 1, del Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (di seguito CEDU) (4), e di conseguenza proibito il cumulo, non solo fra condanne penali ma anche tra un provvedimento amministrativo sanzionatorio con valenza afflittiva (e dunque penale), da una parte, e la condanna stricto sensu penale emanata con riferimento alla medesima condotta, dall’altra. Di più: la Corte di Strasburgo ha sancito che cozza irreparabilmente con il divieto del duplice binario sanzionatorio non solo l’irrogazione di una siffatta sanzione amministrativa dopo il passaggio in giudicato della decisione penale, ma persino la prosecuzione o anche solo l’avvio di uno dei due giudizi dopo che sull’altro è maturata la definitività (5).
Paradigma spendibile nell’occasione, posto che, passata ormai in giudicato la sentenza penale di condanna (tramite patteggiamento) per violazione dell’art. 185 del TUF, le sanzioni inflitte dall’autorità amministrativa, stante la loro elevata entità, possiedono indiscutibilmente – quanto meno in astratto – una spiccata accentazione punitiva.
L’imputato principale – anch’egli noto alle cronache: trattasi dell’immobiliarista e finanziere Stefano Ricucci, chiamato a rispondere insieme con due società gravitanti intorno a lui – è stato infatti condannato dalla Corte di Appello di Roma (adita dal Ricucci, solo in parte fruttuosamente, in opposizione alla sanzione inflittagli dalla Consob) a corrispondere, in solido con i correi, una sanzione pecuniaria di cospicuo importo (cinque milioni di euro, che si assomma a pesanti pene accessorie interdittive) per presunte attività manipolative del mercato (6). La fattispecie repressa è appunto quella enunciata dall’art. 187-ter del D.Lgs. n. 58/1998.
Superati agilmente due scogli preliminari intorno alla traslazione del dictum della decisione della Corte EDU (profili entrambi del tutto marginali rispetto all’odierno discorso) (7), l’ordinanza massimata ne ha ripercorso, facendoli propri, i passaggi salienti e, sulla loro scia, ha optato per l’eccezione di costituzionalità in luogo dell’altra strada, pure praticata da altro giudice interno, di applicazione diretta e omisso medio del principio.
Per comodità del Lettore, i passaggi in parola vengono qui sinteticamente riproposti seguendo l’ordine di esposizione. Riguardano: a) peso e ruolo della CEDU e della Corte EDU nel nostro ordinamento; e b) modalità della conformazione ad unum dei due regimi, quello internazionale pattizio e quello interno nazionale.
Quanto ad a), occorre ricordare che, a differenza della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, nota anche come Carta di Nizza (che forma il cosiddetto diritto interunione sovranazionale, alla cui interpretazione e al sanzionamento delle cui violazioni presiede la Corte di Giustizia con sede in Lussemburgo), la CEDU si configura come fonte pattizia, integrando un trattato internazionale necessitante di ratifica (intervenuta, per quanto riguarda il nostro Paese, con la legge ordinaria 4 agosto 1955, n. 848). Trattato che, per sua natura, «non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti», limitandosi – per così dire – a fare sorgere obblighi a carico degli Stati contraenti: obblighi primariamente di natura legislativa, nel senso di dovere gli stessi «adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte EDU, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione» (8). Ne consegue che il pensiero della Corte EDU (quello che potremmo definire il diritto vivente comunitario) è vincolante per ciò che attiene il significato da assegnare alle prescrizioni convenzionali; ciò nondimeno, queste ultime non sono munite di rango costituzionale (collocandosi, come è stato via via affermato, in una posizione “intermedia”, “sub-costituzionale”, “interposta”) (9), ergo le leggi ordinarie in vigore non decadono automaticamente solo perché in contrasto (quand’anche palese e dichiarato) con la lettura dei principi della CEDU fatta dall’unico organo a ciò preposto (come leggiamo nell’ordinanza: le sentenze della Corte EDU non hanno “efficacia diretta generale”). Insomma, occorre pur sempre il vaglio della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale – e così facendo ci addentriamo nella problematica sub b) – può/deve essere chiamata in causa dal giudice nazionale, ma solo qualora – insuperabile requisito preventivo per l’apertura del giudizio avanti il giudice delle leggi, altrettanto indispensabile quanto i due requisiti abituali della rilevanza e della non manifesta infondatezza del quesito (ex art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87) – costui non ritenga di addivenire a una decisione “convenzionalmente” (altrimenti detta “comunitariamente”) orientata: tappa che egli deve sempre proporsi come traguardo privilegiato, ma che non può mai presumere di raggiungere a costo di sacrificare la certezza letterale di un referto normativo munito di invincibile chiarezza disapplicandolo tout court. Ecco perché il tramite (l’aggancio testuale, il parametro di raffronto) per l’incardinamento dell’incidente di costituzionalità diventa – lo è qui, così come lo è stato nell’importante precedente di cui mi accingo a dare conto – l’art. 117, primo comma, Cost. («La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»). Duplice lo scrutinio che a quel punto incomberà ai giudici della Consulta: α) dapprima la verifica della perfetta coerenza (meglio: della totale simbiosi) fra precetto della CEDU sub iudice (assunto come “obbligo internazionale”) e i dettami della nostra Costituzione (nel loro insieme: «non soltanto i diritti fondamentali, ma anche tutte le [altre] disposizioni»), dettami che, lo si ripete, beneficiano di caratura superiore; β) in secondo luogo, e solo in caso di asticella superata, presa di posizione sul ventilato contrasto affacciato fra norma ordinaria interna e norma CEDU, quest’ultima recepita in armonia con l’interpretazione impressale dalla Corte EDU. L’abrogazione della norma interna anticonvenzionale (nonché, per quanto si è detto, anticostituzionale) seguirà de plano, ma solo allora.
L’art. 187-ter del citato D.Lgs. n. 58/1998 è stato dunque ritenuto affetto da illegittimità dal momento che l’imputato si vede esposto a una doppia punizione a causa di un’«unica e medesima condotta commessa da parte della stessa persona nella stessa data». È lo stesso iter mentale che, qualche mese fa, ha indotto il Tribunale Penale di Bologna a sollevare analoga eccezione di costituzionalità con riguardo all’art. 649 c.p.p. (Divieto di un secondo giudizio), in relazione all’art. 10-ter (Omesso versamento di IVA) del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio (appunto penale stricto sensu) al caso in cui, nell’ambito di un procedimento amministrativo, all’imputato sia già stata irrogata, per il medesimo fatto, una sanzione alla quale, al di là del nomen giuridico, debba riconoscersi natura penale ai sensi della Convenzione stessa (10).
Al riguardo il rimettente non esclude – e anzi verosimilmente caldeggia – una soluzione intermedia di coesistenza dei due regimi sanzionatori. Soluzione stimolata dalla vigenza di una disciplina comunitaria in materia di illeciti legati all’abuso di mercato (la Direttiva 2003/6/CE) che – non tanto implicitamente – lascia intendere la possibilità, a leggersi come facoltà rimessa ai singoli Stati legiferanti, di aprire al cumulo delle sanzioni attraverso un sistema a doppio binario.
Assai più tranchant è stato un altro giudice, stavolta penale di merito (11). Questi, posto dinanzi a un contesto in parte qua uguale, invece di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale ha disposto il non luogo a procedere a norma degli artt. 529 c.p.p. (Sentenza di non doversi procedere) e – appunto – 649 c.p.p., bypassando qualsiasi pronuncia additiva della Consulta, atteso che – come si legge nella relativa massima apparsa in questa Rivista – «specifiche norme di diritto internazionale, tra le quali spicca per importanza l’art. 54 della Convenzione di Schengen … estendono l’effetto preclusivo di un nuovo giudizio a provvedimenti definitivi di giudici penali stranieri, e sebbene nessuna norma preveda espressamente l’ipotesi di un provvedimento, afferente alla matiѐre pénale secondo i criteri Engel [leggi: i criteri individuati nella sentenza della Grande Camera della Corte EDU 8 giugno 1976] (12), ma formalmente qualificato come amministrativo ai sensi del sistema normativo italiano, l’applicabilità diretta dell’art. 649 c.p.p. anche a tale ultima ipotesi risulta teoricamente giustificata, a sua volta, dall’immediata applicabilità della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, risultando perciò perfettamente idonea a produrre effetto diretto negli ordinamenti degli Stati membri, con carattere di primazia rispetto ad eventuali norme nazionali contrastanti». In ogni caso, il giudice delle leggi non mancherà di pronunciarsi anche su questo versante, cioè sulla propria competenza e sulla necessità della mediazione della sua giurisdizione.
Torniamo all’annotata ordinanza. Ribadendo l’inconfutabile realtà, cioè che il divieto di bis in idem, nel nostro ordinamento, è contemplato espressamente solo in campo penale (cosicché, si ritiene pertinentemente di concludere, la mera disapplicazione di precetti contrastanti con tale divieto è impedita all’organo giudicante), essa mette in risalto, quasi cautelativamente, un aspetto procedurale, in tema di rilevanza, che può vantare numerose frecce al suo arco. Il giudice rimettente è infatti il primo a cogliere una potenziale preclusione tecnica non dappoco, ostativa al vaglio sostanziale della questione da parte della Corte Costituzionale, consistente nella incerta (e ancora da dimostrare) portata afflittiva della sentenza penale di condanna emessa contro il Ricucci: quanto alle pene inflitte, infatti, quella principale è stata totalmente estinta per indulto, mentre tuttora si ignorano (ché nessuno li ha mai formalmente analizzati, né vi era tenuto) i risvolti effettivi, nella sfera personale – psicologica e professionale – del condannato, delle pene accessorie applicate: pene peraltro di per sé, sul piano dell’immagine e degli sviluppi operativi, pesanti anzichenò, trattandosi di misure interdittive di cui una perpetua (quella dall’ufficio di componente di Commissione tributaria) e a tempo determinato (tre anni) tutte le altre, compresa quella dai pubblici uffici (13). Al riguardo occorre tuttavia osservare come, secondo la Corte europea dei Diritti dell’Uomo, l’indice significativo di gravità di una qualsiasi sanzione vada intercettato a priori, non in funzione della dimensione concretamente statuita (14).
Un’ultima annotazione, che può essere addebitata a un lapsus calami. Scrive testualmente il redattore dell’ordinanza: «il presupposto al quale è collegata l’efficacia preclusiva di un nuovo giudizio sullo stesso fatto storico è costituito dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce uno dei due procedimenti riconducibili alla materia penale». Ebbene, l’espressione è erronea perché, se è vero che passibile di passaggio in giudicato è solo una sentenza (cioè un provvedimento giurisdizionale) e non qualsiasi provvedimento, è altrettanto vero che, stando alla giurisprudenza europea, anche la definitività del provvedimento amministrativo determina la preclusione del rito penale. La “bidirezionalità” di cui parla lo stesso giudice (v. nota 7) determina infatti, in proposito, una simmetria perfetta.
Ora, questa della bidirezionalità è la linea intrapresa, cinque mesi fa, anche dal Tribunale di Bergamo (15). Tale giudice lombardo ha sospeso il giudizio penale in corso contro un soggetto imputato di violazione dell’art. 13-ter del D.Lgs. n. 74/2000 «dopo essere stato oggetto di un regolare procedimento amministrativo definitivamente concluso prima dell’instaurazione del procedimento penale, in relazione al quale procedimento amministrativo… l’autorità amministrativa sta riscuotendo l’intero ammontare dell’imposta non pagata oltre alla sanzione» e, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione, ha emesso un’ordinanza con la quale ha sollecitato la Corte di Giustizia dell’Unione europea a pronunciarsi, in sede di interpretazione preventiva, sul quesito «se la previsione dell’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, interpretata alla luce dell’art. 4 prot. n. 7 della CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte EDU, osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto (omesso versamento IVA) per cui il soggetto imputato abbia riportato sanzione amministrativa irrevocabile» (16).

Avv. Valdo Azzoni

(1) “Unicità” da leggere nell’accezione ravvisata dal giudice comunitario nella totale coincidenza dei fatti materiali, che devono essere inscindibilmente collegati tra loro nella dinamica storica, indipendentemente dalla qualificazione giuridica ricevuta (cfr. sentenza della Grande Camera della Corte Edu 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin contro Russia, ricorso n. 14939/03, e sentenza della Corte Edu 9 febbraio 2005, Welch contro Regno Unito, causa n. 307-A/1995).
(2) Lo scenario è appesantito dal tenore dell’ultimo comma del citato art. 185, che recita: «Il giudice può aumentare la multa fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dal reato quando, per la rilevante offensività del fatto, per le qualità personali del colpevole o per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dal reato, essa appare inadeguata anche se applicata nel massimo». Si aggiunga il dettato degli artt. 187-duodecies del TUF (Rapporti tra procedimento penale e procedimento amministrativo e di opposizione) e 187-terdecies del TUF (Esecuzione delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie nel processo penale), entrambi sottesi apertis verbis da un intento duplicativo delle sanzioni.
(3) Cfr. Corte EDU, sez. II, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri [Gabetti, Marrone, Exor s.p.a., Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a.] contro Italia, ricorsi riuniti nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10, versione pubblicata a cura del Ministero della giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, in Boll. Trib., 2015, 1014, con nota di V. AZZONI, Il sistema del doppio binario (amministrativo e penale) nel regime sanzionatorio tributario: è tutto l’edificio che scricchiola?, ivi, 1032, cui si rimanda per un excursus su precedenti e prospettive dell’importantissimo arresto.
(4) Art. 4 (Ne bis in idem), primo comma, del Protocollo n. 7 allegato alla CEDU: «Nessuno potrà essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza definitiva conforme alla legge ed alla procedura penale di tale Stato». L’assunto è presente anche nell’art. 50 (Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato) della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea: «Nessuno può essere giudicato o punito di nuovo in un procedimento penale per un reato per il quale lo stesso è già stato definitivamente assolto o condannato nell’Unione a norma di legge».
(5) Cfr. Corte EDU, sez. V, 27 novembre 2014 – 27 febbraio 2015, Lucky Dev contro Svezia, ricorso n. 7356/10. Da un’altra sentenza della Corte EDU (sez. IV, 20 maggio – 20 agosto 2014, Nykänen contro Finlandia, ricorso n. 11828/11) sembra doversi arguire che il divieto di bis in idem si materializzerebbe non solo quando uno dei procedimenti condanni a una sanzione dopo che un altro si è concluso con una decisione irrevocabile, ma anche quando, aperto un procedimento, un altro parallelo se ne apra o prosegua.
(6) Nella specie: anomalo andamento dei titoli RCS media Group s.p.a., determinato dalla diffusione di voci di scalata che avrebbero inciso sulla formazione dei relativi prezzi, e contestuale occultamento di informazioni obbligatorie alla Consob, organo addetto alla vigilanza.
(7) Correttamente, la Cassazione non ha valutato come significative le due varianti emerse nel caso da essa trattato: né che, nella vicenda-modello sottoposta alla Corte EDU, la definitività avesse riguardato la sanzione amministrativa e non quella penale (infatti «il principio espresso … è bidirezionale, trovando applicazione sia nel caso di sanzione amministrativa precedente a quella penale sia nel caso inverso»); né che la sentenza penale passata in giudicato sia giunta all’esito di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. (infatti i due tipi di sentenze devono in parte qua assimilarsi, vuoi in base ad argomenti tecnici vuoi in nome del principio del favor rei).
(8) Cfr. Corte Cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in Boll. Trib. On-line.
(9) Impostazione confermata in toto dalla Corte Costituzionale anche a «sopravvenuta entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea» (Così Corte Cost. 11 marzo 2011, n. 80, in Boll. Trib. On-line).
(10) Cfr. Trib. di Bologna, sez. I pen., ord. 21 aprile 2015, in Boll. Trib., 2015, 1008. L’art. 649 (Divieto di un secondo giudizio) c.p.p. stabilisce che «1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2, e 345. 2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo».
(11) Cfr. Trib. pen. di Asti 7 maggio 2015, n. 717, in Boll. Trib., 2015, 1346, con nota di V. AZZONI, La miccia è stata accesa, ivi, 1351.
(12) Engel e altri contro Paesi Bassi, ricorsi nn. 5100/71, 5101/71, 5102/71, 5354/72, 5370/72, serie A, n. 22, par. 82.
(13) La Sezione mette le mani avanti, consegnando il problema al giudice ad quem: «Trattasi di una valutazione di natura oggettiva che emerge dalle pronunce prodotte, che non implica alcuna valutazione di merito, eventualmente rimettibile al giudice del rinvio».
(14) Cfr. Corte EDU 11 giugno 2009, Dubus S.A. contro Francia, ricorso n. 5242/04, par. 37.
(15) Giudice monocratico A. Bertoja, ordinanza 16 settembre 2015, inedita. Nel provvedimento – che ripercorre il filone logico abbracciato, con destino infelice, dal Trib. pen. di Torino, sez. IV, ord. 27 ottobre 2014, mediante pronuncia ampiamente riprodotta in V. AZZONI, La miccia è stata accesa, cit. – sono evocate quattro sentenze di organismi europei: una della Grande Sezione della Corte di Giustizia (Aklagaren contro Hans Akelberg Fransson, 26 febbraio 2013, causa C-617/10) e le altre della Corte EDU (Grande Camera, 10 febbraio 2009, Sergey Zolotukhin contro Russia, cit.; sez. V, 27 febbraio 2015, Lucky Dev contro Svezia, cit.; e infine sez. IV, 20 maggio 2014, Nykänen contro Finlandia, 20 agosto 2014, ricorso n. 11828/11).
(16) Alcuni estratti dell’ordinanza meritano speciale menzione. Scrive il giudice lombardo: «La materia di interesse nel sistema italiano è specificatamente regolata dagli artt. 19 e seguenti del D.Lgs. n. 74/2000 [ove] è normativamente previsto che il procedimento penale e quello amministrativo procedano separati, cioè che nessuno dei due debba essere sospeso in attesa della definizione dell’altro; che l’Ufficio competente irroghi comunque le sanzioni amministrative relative alle violazioni finanziarie oggetto della notizia di reato; che tuttavia tali sanzioni non siano eseguibili, salvo che il procedimento penale sia definito con archiviazione o con sentenza irrevocabile di assoluzione o proscioglimento che escluda la rilevanza penale del fatto, e, in quest’ultimo caso, il termine per la riscossione decorre dalla data di comunicazione all’Ufficio del provvedimento assolutorio». Una costruzione edittale che, secondo l’estensore, «scongiura solo in astratto il pericolo che sanzione penale e sanzione amministrativa si cumulino in capo al responsabile, essendo in concreto possibile – e il caso in esame ne è prova evidente – che un soggetto si trovi sottoposto a procedimento penale dopo che gli è stata inflitta in via definitiva una sanzione amministrativa; ma soprattutto il sistema delineato entra in palese contraddizione con se stesso nel momento in cui è prevista, all’art. 13 del medesimo D.Lgs., l’attenuante speciale del pagamento del debito tributario (attenuante che, sola, rende altresì possibile il patteggiamento per i reati tributari), pagamento che, per espressa dizione del comma 2, deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene non applicabili all’imputato a norma dell’art. 19. Si desume insomma che chi voglia godere di benefici in sede penale deve volontariamente rinunciare al divieto di bis in idem». Epilogo palesemente incongruo e a forte dubbio di anticostituzionalità.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Applicazione bidirezionale – Sussiste.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Applicazione bidirezionale – Sussiste.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Divieto di duplicazione di giudizi penali e amministrativi e di doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per gli stessi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato – Sussiste.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Divieto di duplicazione di giudizi penali e amministrativi e di doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per gli stessi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato – Sussiste.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Presupposti di applicabilità – Carattere penale di una sanzione amministrativa – Necessità e criteri di individuazione.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria – Art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Presupposti di applicabilità – Carattere penale di una sanzione amministrativa – Necessità e criteri di individuazione.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 649 c.p.p. – Contenuto delle norme.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria – Art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e art. 649 c.p.p. – Contenuto delle norme.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 649 c.p.p. – Mancato allargamento di tale principio anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penale e sanzione amministrativa di natura penale – Sospetta incostituzionalità della norma – Previsione del doppio binario con cumulabilità tra sanzione penale e sanzione amministrativa – Possibile violazione dei principi sovranazionali sanciti dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo – Sussiste.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 649 c.p.p. – Mancato allargamento di tale principio anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penale e sanzione amministrativa di natura penale – Sospetta incostituzionalità della norma – Previsione del doppio binario con cumulabilità tra sanzione penale e sanzione amministrativa – Possibile violazione dei principi sovranazionali sanciti dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo – Sussiste.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria – Determinazione del rilievo della valutazione, da parte del giudice nazionale, dell’effettiva afflittività della sanzione penale – Rimessione della relativa questione alla Corte Costituzionale – Va disposta.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria – Determinazione del rilievo della valutazione, da parte del giudice nazionale, dell’effettiva afflittività della sanzione penale – Rimessione della relativa questione alla Corte Costituzionale – Va disposta.

Imposte e tasse – Sanzioni – Carattere penale di una sanzione amministrativa – Configurabilità ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Sussistenza di una «accusa in materia penale» – Necessità e criteri di individuazione.

Procedimento – Configurabilità del carattere penale di una sanzione amministrativa ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Sussistenza di una «accusa in materia penale» – Necessità e criteri di individuazione.

Imposte e tasse – Sanzioni – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Divieto di sanzionare due volte in diversi processi lo stesso illecito – Portata di tale principio – Rimessione della relativa questione alla Corte Costituzionale – Va disposta.

Procedimento – Principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Prot. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – Divieto di sanzionare due volte in diversi processi lo stesso illecito – Portata di tale principio – Rimessione della relativa questione alla Corte Costituzionale – Va disposta.

Ancorché nella sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo 4 marzo 2014, causa Grande Stevens ed altri c. Italia, si faccia riferimento, ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria, ai rapporti tra condanna definitiva penale e sanzione amministrativa, deve ritenersi che il principio espresso dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo sia bidirezionale, trovando applicazione sia nel caso di sanzione amministrativa precedente a quella penale, sia nel caso inverso.

La pronuncia della Corte europea dei Diritti dell’Uomo 4 marzo 2014, causa Grande Stevens ed altri c. Italia, ha affermato il principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria alla luce dell’art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1995, n. 848, il quale vieta la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, conseguentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per gli stessi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato.

In base al principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria, previsto dall’art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1995, n. 848, è vietata la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, conseguentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per gli stessi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato, ed al fine di stabilire se i fatti su cui si è formato il giudicato siano da considerarsi i medesimi per i quali si procede in un altro giudizio occorre aver riguardo non al fatto inteso in senso giuridico, ossia alla fattispecie astratta descritta dalla normativa amministrativa o tributaria, ma al fatto in senso storico-naturalistico, ossia alla fattispecie concreta oggetto dei due procedimenti, a prescindere dagli elementi costitutivi rispettivamente previsti dalla normativa stessa, mentre il presupposto al quale è collegata l’efficacia preclusiva di un nuovo giudizio sul medesimo fatto storico è costituito dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce uno dei due procedimenti riconducibili alla materia penale, ed eventuali sanzioni, benché formalmente qualificate come amministrative dall’ordinamento italiano, devono essere ricondotte alla “materia penale” agli effetti del citato art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione, allorquando quest’ultima qualificazione si imponga in ragione sia della natura dell’illecito, ossia della rilevanza dei beni protetti e della funzione anche deterrente della fattispecie in questione, sia della natura e del grado di severità delle sanzioni, pecuniarie ed interdittive, previste dalla legge e concretamente comminate.

Il principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria è fissato in sede di diritto internazionale pattizio dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1995, n. 848, rubricato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte», il quale al primo comma dispone che «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato», mentre a livello interunione lo stesso divieto è previsto dall’art. 50 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. “Carta di Nizza”), intitolato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato», il quale stabilisce che «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge», ed infine la medesima garanzia in ambito nazionale è riconosciuta dall’art. 649 c.p.p., rubricato «Divieto di un secondo giudizio», il quale prescrive che «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2, e 345» c.p.p.

La mancata previsione dell’allargamento del principio del ne bis in idem di cui all’art. 649 c.p.p. anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penale e sanzione amministrativa di natura penale, appare non conforme alle norme costituzionali, giacché non è in linea coi principi sovranazionali sanciti dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo la previsione del doppio binario e, quindi, della cumulabilità tra sanzione penale e sanzione amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest’ultima abbia una sostanziale natura di sanzione penale, essendo a tal fine irrilevante se la questione riguardi la sanzione penale conseguente alla sanzione amministrativa oppure, viceversa, la sanzione amministrativa successiva alla sanzione penale.

Va rimessa alla Corte Costituzionale, alla luce dei principi elaborati dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, la determinazione del rilievo, ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria, della valutazione, da parte del giudice nazionale, della effettiva afflittività della sanzione penale allorquando essa sia limitata di fatto alle sole pene accessorie, stante l’integrale condono della pena principale, in difetto di prova, nel giudizio di merito, di un effettivo pregiudizio nella sfera personale e patrimoniale dell’imputato, non risultando comminata alcuna pena pecuniaria, ma solo una sanzione amministrativa di natura strettamente pecuniaria.

In base ai principi espressi dalla sentenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo 4 marzo 2014, causa Grande Stevens ed altri c. Italia, al fine di stabilire la sussistenza di una “accusa in materia penale”, agli effetti del principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1995, n. 848, occorre tenere presenti tre criteri, e cioè la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima e la natura e il grado di severità della sanzione, secondo criteri che peraltro sono alternativi e non cumulativi, di talché affinché si possa parlare di “accusa in materia penale” ai sensi dell’art. 6, p. 1, della predetta Convenzione, è sufficiente che il reato in causa sia di natura “penale” rispetto alla Convenzione stessa o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della “materia penale”, il che beninteso non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permetta di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza della predetta accusa in materia penale.

Va rimessa alla Corte Costituzionale la questione se il principio del ne bis in idem in materia sanzionatoria fissato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1995, n. 848, vieti tout court di sanzionare, in diversi processi, due volte lo stesso illecito, impedendo allo Stato membro di comminare una sanzione amministrativa di natura penale in presenza di una sanzione penale per gli stessi fatti, o viceversa, e quindi se sia sufficiente l’astratta comminatoria di una sanzione penale a rendere illegittima la successiva sanzione amministrativa, sempre che abbia natura penale, oppure se debba comunque tenersi conto, nella determinazione della sanzione amministrativa, della sanzione penale, in ossequio ai principi di effettività e proporzionalità.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Merone, rel. Chindemi), 21 gennaio 2015, ord. n. 950, ric. Garlsson Real Estate s.a. in liquidazione e altri c. Consob]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con sentenza n. 4297/08 in data 23.10.2008, la Corte di Appello di Roma, in parziale accoglimento delle opposizioni riunite proposte da R.S., Magiste International s.a. e Garlsson Real Estate, avverso il provvedimento sanzionatorio della Consob n. 16113/07, determinava in 5 milioni di Euro la somma irrogata a R.S. e alle società indicate quali obbligate in solido, ai sensi dell’art. 187-ter T.U.F. in relazione alla condotta illecita di manipolazione del mercato, confermando, nel resto, la delibera impugnata con riferimento alle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate alla Magiste International s.a. e Garlsson Real Estate (Euro 103.291,00 per ciascuna società).
Le sanzioni erano state irrogate per l’anomalo andamento dei titoli RCS mediaGroup s.p.a., riconducibile a condotte manipolative poste in essere da R.S. nell’ambito di una strategia tesa a richiamare l’attenzione del pubblico sui titoli in questione e, per tale via, a sostenerne le quotazioni per il perseguimento di finalità personali, sia attraverso operazioni di mercato sia attraverso informazioni diffuse al pubblico, alimentando aspettative di scalata di RCS e influendo sulla formazione dei prezzi del titolo, compiendo direttamente o per interposta persona una serie di atti volti a celare alla Consob fatti e circostanze relativi alla attività posta in essere sul titolo RCS.
R.S., Magiste International s.a. e Garlsson Real Estate impugnano la sentenza della Corte d’appello deducendo i seguenti motivi:
(Omissis).

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Ammissibilità della produzione documentale in data 21.10.2014

(Omissis).

2. Rilevanza nei presente giudizio della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia), e la sua efficacia nell’ordinamento nazionale.

2.1 Ancorché nella indicata pronuncia si faccia riferimento, ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem tra condanna definitiva penale e amministrativa (relativa ad una fattispecie analoga, ma non simile, in quanto, nella fattispecie oggetto di esame da parte della CEDU trattavasi di sentenza penale successiva a giudicato sulla sanzione amministrativa e non viceversa, come nel presente giudizio in cui si è esaurito prima il giudizio penale rispetto a quello amministrativo ancora sub iudice), si ritiene che il principio espresso dalla CEDU sia bidirezionale trovando applicazione sia nel caso di sanzione amministrativa precedente a quella penale sia nel caso inverso.
In forza del principio del favor rei, va assimilata la sentenza di patteggiamento a quella penale di condanna, rivestendone tale sostanziale natura, conservata pur dopo la espressa previsione della sua assoggettabilità a revisione, contenuta nell’art. 629 cod. proc. pen., nel testo modificato dall’art. 3, comma primo, della legge 12 giugno 2003, n. 134, pur non implicando un accertamento della penale responsabilità dell’imputato, con relativo obbligo di motivazione, ma richiedendo solo la verifica dell’insussistenza delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 cod. proc. pen. (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 28192 del 4/3/2004 Ud. (dep. 23/06/2004)
In particolare, ai fini della valutazione dei principi ricavabili dalla pronuncia della CEDU cit., si ritiene che siano equiparabili la sentenza penale di condanna e quella di patteggiamento di cui siano spirati i termini per l’impugnazione peraltro confermata, nei soli confronti, del R., dalla Corte di cassazione e che, quindi, al giudicato penale sia equiparabile la sentenza di patteggiamento ormai definitiva o perché non impugnata (nei confronti delle società ricorrenti) o a seguito di impugnazione (nei confronti del R.).
Infatti il c.d. patteggiamento, regolato dall’art 444 c.p.p. e segg., è un istituto processuale in base al quale il p.m. e l’imputato si accordano sulla qualificazione giuridica del fatto contestato, sulla concorrenza e comparazione delle circostanze, sull’entità della pena con rinunzia a far valere eccezioni e difese di natura sostanziale (nei limiti dell’art. 129 c.p.p.) e processuale (nei limiti dell’art. 179 c.p.p.) salvo che si tratti di eccezioni attinenti alla richiesta di patteggiamento e al consenso prestato.
La natura di sentenza di condanna del patteggiamento e comunque di sanzione penale, è ulteriormente confermata dalla possibilità per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. sia pure nei casi in cui emergano chiaramente le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell’imputato (cfr Cass. pen. Sez. 2, Sentenza n. 9174 del 19/2/2008 Ud. – dep. 29/2/2008).
Né inficia tale valutazione la possibilità di revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove, che comporta una valutazione di queste ultime alla luce della regola di giudizio posta per il rito alternativo, sicché le stesse devono consistere in elementi tali da dimostrare che l’interessato deve essere prosciolto secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 cod. proc. pen., sì come applicabile nel patteggiamento (cfr Cass. Sez. 6, Sentenza n. 31374 del 24/5/2011 Cc. (dep. 5/8/2011).
In ogni caso trattasi, comunque, di pronuncia che ha chiara natura di sanzione penale.

2.2 La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è una convenzione internazionale ratificata e resa esecutiva in Italia con legge ordinaria 4 agosto 1955 n. 848. Formalmente l’ordinamento della CEDU è differente e distinto da quello dell’Unione Europea.
Diversi sono anche gli strumenti e delle procedure previsti per garantire la conformità del diritto interno rispetto al diritto interunione e a quello di natura convenzionale della CEDU, essendo diversi anche i vincoli derivanti dall’appartenenza dello Stato italiano all’ordinamento CEDU rispetto a quello dell’Unione europea.
Questa Corte non ignora l’orientamento dottrinale che ritiene che anche le sentenze della CEDU, al pari di quelle della Corte di Giustizia, abbiano efficacia diretta generale nel nostro ordinamento.
Deve, al riguardo, distinguersi tra efficacia della pronuncia tra le stesse parti e efficacia generale erga omnes.
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una volta divenuta definitiva tra le parti ai sensi dell’art. 44 della CEDU, ha effetti precettivi immediati assimilabili al giudicato e, in quanto tale, deve essere tenuta in considerazione dall’organo dello Stato che, in ragione della sua competenza, è al momento il destinatario naturale dell’obbligo giuridico, derivante dall’art. 1 della CEDU, di conformare e di non contraddire la sua decisione al deliberato della Corte di Strasburgo per la parte in cui abbia acquistato autorità di cosa giudicata in riferimento alla stessa “quaestio disputanda” della quale continua ad occuparsi detto organo (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19985 del 30/9/2011).
Quanto all’efficacia diretta orizzontale, estesa erga omnes, il giudice nazionale deve ricorrere, ove possibile e ove la normativa lo consenta, alla interpretazione comunitariamente orientata che delle norme pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo, con la conseguenza che, nella realizzazione dell’equo processo ed allo scopo di assicurare la parità effettiva delle armi in senso sostanziale e processuale (art. 111, 1 comma, Cost.), il giudice interno, affinché la sua statuizione risulti aderente alle norme della Convenzione, deve tenere conto anche dell’elaborazione del diritto vivente quale proveniente proprio dalla Corte di Strasburgo, che della Convenzione è il più autorevole interprete.
In forza delle sentenze della Corte Costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007 emerge che la Convenzione costituisce una fonte interposta tra il piano costituzionale e quello delle leggi comuni, perché si profilerebbe l’eventuale esigenza di un bilanciamento tra i diritti della Convenzione e gli stessi diritti costituzionalmente protetti.
Va, quindi, riconosciuta, in termini generali, solo una efficacia esecutiva “indiretta” delle sentenze CEDU perché esse obbligano gli Stati ad adeguarvisi, pur lasciandoli liberi di scegliere le misure più idonee al riguardo.
Tuttavia sussiste l’obbligo, a carico degli Stati che abbiano commesso una violazione accertata dalla Corte, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, CEDU di adottare misure specifiche volte al superamento della stessa.
Quindi, le norme della Convenzione Europea non hanno una efficacia esecutiva diretta nel nostro ordinamento e vanno rispettate dal legislatore nazionale ai sensi dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, mediante un’interpretazione comunitariamente orientata, ove possibile, a differenza del regime previsto dagli articoli 244 e 256 TUE per le sentenze della Corte di Giustizia.
Il giudice nazionale deve, infatti, interpretare il proprio ordinamento in modo conforme alla CEDU, per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea.
La vincolatività di tale giurisprudenza (anche al di là del caso deciso) non può condurre, però, [a] disapplicare il diritto nazionale, quando esso ha un contenuto che non consenta in alcun modo una interpretazione conforme a detta giurisprudenza.
In tal caso si impone al giudice di sollevare una questione di costituzionalità.
Il problema interpretativo derivante dalla giurisprudenza della Corte europea si sostanzia, in estrema sintesi,, nella alternativa tra interpretazione conforme a detta giurisprudenza ed incidente di costituzionalità.
La Consulta (sentenze n. 348 e 349 del 2007) ha statuito, ed a tale orientamento il Collegio ritiene di attenersi, che nel caso in cui il giudice nazionale ravvisi una incompatibilità tra norma convenzionale e norma costituzionale, gli atti vanno rimessi al giudice delle leggi.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 348 del 2007 ha, al riguardo precisato che «la Convenzione europea … non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa è configurabile come un trattato internazionale multilaterale … da cui derivano “obblighi” per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti… per tutte le autorità interne degli Stati membri».
Ne consegue che il giudice non ha il potere di disapplicare la norma legislativa ordinaria ritenuta in contrasto con una norma CEDU, poiché “l’asserita incompatibilità tra le due si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, di esclusiva competenza del giudice delle leggi”.
Tale valutazione non è inficiata dall’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009), che ha modificato il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, avendo la Consulta rilevato che il Trattato di Lisbona non ha «comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione delle “norme interposte”», con la conseguenza che si deve «escludere che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l’art. 6» della CEDU. (Corte Cost. 1.3.2011 n. 80).
Le norme CEDU, così come interpretate dalla Corte di Strasburgo, si collocano, come già evidenziato, ad un livello sub-costituzionale e sono soggette al controllo di legittimità costituzionale da parte della Consulta, chiamata a verificare – previo giudizio di ammissibilità in punto di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo – che esse siano compatibili non soltanto con i diritti fondamentali ma anche con tutte le disposizioni della Costituzione italiana. La Corte costituzionale ha poi escluso che “le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, della Costituzione, e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione”.
La Consulta ha, altresì, chiarito, quanto ai rapporti tra le due Corti che “hanno in definitiva ruoli diversi, sia pure tesi al medesimo obiettivo di tutelare al meglio possibile i diritti fondamentali dell’uomo … l’interpretazione della Convenzione di Roma e dei Protocolli spetta alla Corte di Strasburgo … a questa Corte … spetta, invece, accertare il contrasto e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, garantiscano una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana”. (Corte Cost. sentenza n. 349 del 2007).
Ammettere un potere (o addirittura un obbligo di non applicare la legge, (in contrasto col principio Costituzionale che il giudice è soggetto unicamente alla legge (art. 101 Cost.), significherebbe aprire un pericoloso varco al principio di divisione dei poteri, avallando una funzione di revisione legislativa da parte del potere giudiziario, che appare estraneo al nostro sistema costituzionale, determinando il giudice eventuali limiti di applicazione della normativa nazionale per contrasto con pronunce della Corte di Giustizia, esorbitando dai suoi poteri. L’abrogazione della legge è vincolata alle ipotesi contemplate dall’art. 15 disp. prel. c.c. e 136 Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte del giudice, pur dovendo essere interpretata alla luce dei principi sovranazionali, con le puntualizzazioni sovra evidenziate.

3. Profili di incostituzionalità del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-ter, punto 1, alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 (Causa Grande Stevens ed altri c. Italia)

La pronuncia della CEDU cit. afferma, come già evidenziato, il principio del ne bis in idem alla luce dell’art. 4, par. 1, del Protocollo n. 7 della CEDU, il quale vieta la duplicazione di giudizi penali e amministrativi e, consequentemente, la doppia applicazione di sanzioni penali nei confronti dei medesimi soggetti e per i medesimi fatti oggetto di sentenza passata in giudicato.
In particolare, per quanto di interesse nel presente giudizio, la CEDU ha rilevato che:
a) al fine di stabilire se i fatti su cui si è formato il giudicato sono da considerarsi i medesimi per ì quali si procede in altro giudizio, occorre aver riguardo non al fatto inteso in senso giuridico, ossia alla fattispecie astratta descritta dagli artt. 187-ter e 185 TUF, ma al fatto in senso storico-naturalistico, ossia alla fattispecie concreta oggetto dei due procedimenti, a prescindere dagli elementi costitutivi rispettivamente previsti dai menzionati articoli;
b) il presupposto al quale è collegata l’efficacia preclusiva di un nuovo giudizio sullo stesso fatto storico è costituito dal passaggio in giudicato del provvedimento che definisce uno dei due procedimenti riconducibili alla materia penale;
c) le sanzioni irrogate dalla Consob per la fattispecie di manipolazione del mercato di cui all’art. 187-ter TUF, benché formalmente qualificate come amministrative dall’ordinamento italiano, debbono essere ricondotte alla “materia penale” agli effetti dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, e ciò in ragione sia della “natura dell’illecito” (ossia della rilevanza dei beni protetti e della funzione anche deterrente della fattispecie in questione) sia della natura e del grado di severità delle sanzioni (pecuniarie ed interdittive) previste dalla legge e concretamente comminate ai ricorrenti.
Il giudice nazionale non può ignorare, nella controversia che è chiamato a decidere, l’interpretazione che delle norme pattizie viene data dalla Corte di Strasburgo, con la conseguenza che, nella realizzazione dell’equo processo ed allo scopo di assicurare la parità effettiva delle armi in senso sostanziale e processuale (art. 111, 1° comma, Cost.), il giudice interno, affinché la sua statuizione risulti aderente alle norme della Convenzione, deve tenere conto anche dell’elaborazione del diritto vivente quale proveniente proprio dalla Corte di Strasburgo, che della Convenzione è il più autorevole interprete.
Vanno, per comodità espositiva, individuate le norme rilevanti nella fattispecie.
L’art. 185 TUF (Manipolazione del mercato), prevede che venga punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da Euro ventimila a Euro cinque milioni – «Chiunque diffonde notizie false o pone in essere operazioni simulate o altri artifizi concretamente idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo di strumenti finanziari», (prevedendo anche il raddoppio di dette pene ai sensi dell’art. 39, comma 1, della l. n. 262/2005).
Sotto il profilo amministrativo la legge n. 62/2005 ha rafforzato le competenze della Consob, cui è stata attribuita un’autonoma potestà sanzionatoria in via amministrativa, tra l’altro, delle condotte di manipolazione del mercato.
L’art. 187-ter, comma 1, TUF (Manipolazione del mercato), prevede: «Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro cinque milioni chiunque, tramite mezzi di informazione, compreso internet o ogni altro mezzo, diffonde informazioni, voci o notizie false o fuorvianti che forniscano o siano suscettibili di fornire indicazioni false ovvero fuorvianti in merito agli strumenti finanziari».
Il comma 3, lett. e), dell’art. 187-ter TUF, fa «salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato», prevedendo che le stesse sanzioni amministrative pecuniarie si applicano a chiunque pone in essere «operazioni od ordini di compravendita che utilizzano artifizi od ogni altro tipo di inganno o di espediente».
Dall’esame comparato delle predette norme si evince il sistema del c.d. doppio binario tra il reato di manipolazione del mercato (art. 185 TUF) e la analoga fattispecie amministrativa (art. 187-ter TUF) essendo prevista, nei rispettivi giudizi, una duplice sanzione penale ed amministrativa, in antitesi col principio espresso dalla sentenza CEDU “Grande Stevens”, cit., che ha, invece, affermato l’opposto ed antitetico principio del “ne bis in idem”.
Tale ultimo principio è individuabile in fonti di produzione normativa di livello internazionale e interunione, oltre ad essere affermato dalla giurisprudenza nazionale, ma solamente, in tale ultimo caso, con riferimento a sanzioni di carattere strettamente penale.
In sede di diritto internazionale pattizio, il principio del “ne bis in idem”, è sancito dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU, rubricato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte», il quale, al comma 1, dispone che «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato».
Il divieto del bis in idem, a livello interunione, è previsto dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. “Carta di Nizza”), intitolato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato», il quale stabilisce che «Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».
La medesima garanzia in ambito nazionale, è riconosciuta dall’art. 649 c.p.p., rubricato «Divieto di un secondo giudizio», il quale prescrive che «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli artt. 69, comma 2, e 345».
Nel caso “Grande Stevens” appare chiaro l’orientamento dei giudici di Strasburgo, di rimproverare agli organi giurisdizionali la mancata disapplicazione di un principio (ne bis in idem) che il legislatore nazionale ha introdotto in materia penale ma non nei rapporti tra sanzione amministrativa di natura penale e sanzione penale.
Va rilevato che i medesimi comportamenti oggetto della sentenza di patteggiamento sono in effetti puniti con una sanzione qualificata come «amministrativa» dall’art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, in aggiunta alla sanzione penale.
La mancata previsione dell’allargamento del principio “ne bis in idem” anche ai rapporti tra processi e, specificamente, tra sanzione penale e amministrativa di natura penale appare non conforme alle norme costituzionali, il che comporta che la questione di costituzionalità che con la presente ordinanza si solleva è rilevante nel giudizio de quo, giacché non appare conforme ai principi sovranazionali sanciti dalla CEDU la previsione del doppio binario e, quindi della cumulabilità tra sanzione penale e amministrativa, applicata in processi diversi, qualora quest’ultima abbia natura di sanzione penale, ancorché davanti alla CEDU la prospettazione riguardasse la sanzione penale conseguente alla sanzione amministrativa e nel presente giudizio si tratti di sanzione amministrativa comminata dalla Consob successiva a sanzione penale.
Va anche rimessa alla Consulta, alla luce dei principi CEDU, determinare il rilievo, ai fini della applicazione del principio del “ne bis in idem”, della valutazione, da parte del giudice nazionale, della effettiva afflittività della sanzione penale che, nella specie, è limitata, di fatto, alle sole pene accessorie (la pena in concreto inflitta – tre anni – è stata dichiarata interamente condonata), senza che sia emersa prova, nel giudizio di merito, di un effettivo pregiudizio nella sfera personale-patrimoniale del R., non risultando comminata alcuna pena pecuniaria, mentre la sanzione comminata dalla Consob è, invece, solamente di natura pecuniaria (€ 5.000.000).
Trattasi di una valutazione di natura oggettiva che emerge dalle pronunce prodotte, che non implica alcuna valutazione di merito, eventualmente rimettibile al giudice del rinvio.
Al fine di offrire una panoramica il più possibile completa, occorre anche verificare se la obbligatorietà delle sanzioni amministrative nel sistema degli illeciti di market abuse sia configgente col sistema del c.d. divieto del ne bis in idem, allorché venga preliminarmente emessa una sanzione penale e se, eventualmente, quest’ultima, a prescindere dalla sua afflittività e proporzionalità, in relazione al fatto commesso, sia preclusiva alla comminatoria della sanzione amministrativa, o se ne debba solamente tenere conto al fine della successiva comminatoria della sanzione amministrativa.
Tali riflessioni sono indotte dalla direttiva 2003/6/CE (c.d. Market Abuse Directive – MAD) che in materia di abusi di mercato impone agli Stati membri l’obbligo di adottare sanzioni amministrative – “effective, proportionate and dissuasive” – lasciando loro la facoltà di prevedere nel contempo anche sanzioni penali – c.d. “sistema a doppio binario” – in forza del quale, in caso di convergenza dei medesimi fatti, l’illecito penale concorre con il corrispondente illecito amministrativo, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, in deroga al principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689 del 1981.
Il sistema del doppio binario è anche previsto dall’art. 187-duodecies del TUF (Rapporti tra procedimento penale e procedimento amministrativo e di opposizione), prevedendosi che «il procedimento amministrativo di accertamento e il procedimento di opposizione di cui all’art. 187-septies non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento dipende la relativa definizione».
L’art. 187-terdecies del TUF (Esecuzione delle pene pecuniarie e delle sanzioni pecuniarie nel processo penale prevede, al comma 1, che «quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell’ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 187-septies … la esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall’Autorità amministrativa».
Trattasi del principio del “ne bis in idem attenuato” a cui fa da contraltare il principio del doppio binario attenuato che potrebbero trovare anche applicazione nella fattispecie in esame ove la Consulta dovesse propendere per una pronuncia additiva.
Potrebbe così anche trovare quantomeno parziale legittimità costituzionale il regime del c.d. “doppio binario”, sia pure nei limiti che eventualmente la Corte vorrà individuare, con conseguente cumulo delle rispettive sanzioni, valutando la possibile applicazione del principio della progressione illecita tra le due fattispecie, penale e amministrativa.
Nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia) «la Corte rammenta la sua consolidata giurisprudenza ai sensi della quale, al fine di stabilire la sussistenza di una “accusa in materia penale”», occorre tener presente tre criteri: la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima, e la natura e il grado di severità della «sanzione» (Engel e altri c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, p. 82, serie A n. 22). “Questi criteri sono peraltro alternativi e non cumulativi: affinché si possa parlare di «accusa in materia penale» ai sensi dell’art. 6 p. 1, è sufficiente che il reato in causa sia di natura «penale» rispetto alla Convenzione, o abbia esposto l’interessato a una sanzione che, per natura e livello di gravità, rientri in linea generale nell’ambito della «materia penale». Ciò non impedisce di adottare un approccio cumulativo se l’analisi separata di ogni criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una «accusa in materia penale» (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, p. 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, p. 31, CEDU 2007-IX (estratti)”.
L’imputazione di cui al capo g) della sentenza di patteggiamento (artt. 81, 185 D.lgs 24.2.1998 n. 58 e successive modifiche) prevede l’accusa, nei confronti del R., quale Presidente del Consiglio di Amministrazione della Magiste International s.a. e quale dominus di fatto della Garlsson Real Estate s.a. di “diffusione di notizie false concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo del titolo RCS Mediagroup”, mediante condotte specificamente evidenziate che sono sostanzialmente le medesime contestate con la violazione amministrativa.
Sempre in relazione al capo g) contestato al R., la sentenza penale prevede l’aumento per la continuazione determinato in mesi quattro di reclusione, mentre la pena inflitta è stata di complessivi anni 4 e mesi 6 di reclusione (di cui anni 4 per il reato di corruzione, anni 2, mesi 6 per la continuazione), pena ridotta ad anni 3 per la scelta del rito e quindi, estinta per indulto ex l. n. 241 del 2006.
Va anche considerato che sono state applicate al R. le pene accessorie della: a) interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per la durata di anni tre; b) incapacità di contrattare con la P.A. per anni 3, salvo che per ottenere la prestazione di un pubblico servizio; c) interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per anni 3; d) interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria; e) pubblicazione della sentenza su due quotidiani di rilevanza nazionale; f) interdizione dai pubblici uffici per anni 3. Va, tuttavia, rilevato che sia la condanna penale (con pena estinta per indulto), sia le sanzioni accessori sono state comminate in forza di reati in parte diversi da quelli oggetto della sanzione amministrativa [a cui corrisponde la pena inflitta, quale continuazione (art. 81 c.p.p.) di mesi 4].
In concreto la sanzione penale non risulta essere stata oggettivamente afflittiva, essendo stata interamente condonata a seguito di indulto e non essendo emerso, nel giudizio di merito che le pena accessorie abbiano avuto anch’esse efficacia, in concreto, oggettivamente afflittive, nei confronti del R..
Si chiede anche alla Consulta di verificare se il principio del “ne bis in idem” sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cedu), vieti tout court di sanzionare, in diversi processi, due volte lo stesso illecito, impedendo allo Stato membro di comminare una violazione amministrativa di natura penale in presenza di una sanzione penale per gli stessi fatti, o viceversa, e quindi se sia sufficiente l’astratta comminatoria di una sanzione penale a rendere illegittima la successiva sanzione amministrativa, sempre che abbia natura penale, oppure se debba, comunque, tenersi conto, nella determinazione della sanzione amministrativa, della sanzione penale, in ossequio ai principi di effettività e proporzionalità.
Le ragioni che precedono, riassumibili nell’impossibilità da parte di questa Corte, di disapplicare una legge dello Stato, pur ritenuta in contrasto con la C.E.D.U. escludono che la questione possa essere risolta in via interpretativa, con l’adozione di una lettura secundum constitutionem, anche facendo ricorso a tutti gli ordinari criteri ermeneutici, non essendo in grado questa Corte di applicare la legge nazionale conformemente alla CEDU nell’interpretazione fornita dalla stessa Corte EDU. I principi affermati dalla CEDU nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sez. II, del 4 marzo 2014 (causa Grande Stevens ed altri c. Italia) con riferimento all’art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, appaiono in contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost., e inducono a rimettere gli atti alla Corte Costituzionale per un rinnovato esame della norma, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che, come sopra spiegato, non consente di supplire alla funzione del legislatore mediante un coordinamento delle fonti nel senso di affermare la prevalenza di quella convenzionale su quella interna.
Conclusivamente, va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014, che ha ritenuto che le sanzioni amministrative previste dalla disciplina italiana sugli abusi di mercato siano da considerarsi “penali”, a prescindere dalla loro qualificazione formale nel diritto interno, per contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., anche alla luce degli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nella parte in cui, prevedendo la comminatoria congiunta della sanzione penale prevista dall’art. 185 del D.Lgs. n. 58 del 1998, e della sanzione amministrativa prevista per l’illecito di cui all’art. 187-ter D.lgs cit., violando i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, in ragione della definitività della sentenza del Tribunale di Roma n. 24796/08 del 10.12,2008, passata in giudicato nei confronti delle parti ricorrenti.
Ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, alla dichiarazione di rilevanza nel giudizio e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, segue la sospensione del giudizio, e l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

P.Q.M. – Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-ter punto 1 del decreto legislativo n. 58 del 1998, alla luce della sentenza della Corte EDU del 4 marzo 2014 e alla luce l’applicazione del principio del “ne bis in idem” di cui agli artt. 2 e 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in ragione della definitività della sentenza del Tribunale di Roma n. 24796/08 del 10.12.2008, passata in giudicato.
Dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e la sospensione dei giudizio.