13 Gennaio, 2014

 Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti bancari ex art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 – Mancanza della preventiva autorizzazione all’accesso ai conti bancari o postali – Irrilevanza – Legittimità dell’accertamento – Consegue.

 

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti bancari ex art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 – Obbligo dell’Amministrazione di ricostruire la situazione reddituale complessiva tenendo conto delle componenti negative – Sussiste – Automatica inclusione tra le componenti negative dei prelievi effettuati sui conti correnti bancari – Esclusione – Qualificazione come ricavi delle operazioni attive e passive sul conto corrente riconducibile al contribuente – Legittimità – Onere del contribuente di provare eventuali costi deducibili – Sussiste.

 

In materia di accertamento tributario, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, quale l’omessa previa autorizzazione del comandante regionale della Guardia di finanza per gli accertamenti bancari, comporta, di per sé, l’inutilizzabilità dei dati acquisti irritualmente, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale,come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio.

 In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente, dovendosi peraltro escludere l’automatica inclusione, fra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili.

 [Corte di Cassazione, sez. VI (Pres. Cicala, rel. Bognanni), 5 ottobre 2012, ord. n. 17051]

 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. A.S. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale del Lazio n. 186/06/09, depositata il 24 novembre 2009, con la quale essa accoglieva l’appello dell’agenzia delle entrate nei confronti del contribuente, esercente la professione di medico ginecologo, contro la decisione di quella provinciale, sicché l’opposizione relativa all’avviso di accertamento per Irpef ed Ilor per il 1991 veniva rigettata. In particolare il giudice di secondo grado osservava che tutte le movimentazioni bancarie attenevano ad operazioni riferibili all’attività professionale e ai proventi inerenti alla partecipazione alla società Diagnostica Ultrasonica Tacito srl, a ristretta base familiare, non annotati nelle scritture contabili, giusta anche le risultanze della verifica della Guardia di finanza, senza che fosse necessaria la previa autorizzazione del Comandante regionale per l’utilizzabilità degli accertamenti bancari in materia tributaria, trattandosi semmai solo di rapporti interni in quel corpo di polizia. Peraltro l’appellato dal suo canto non aveva fornito prova dei suoi assunti se non in modo vago e generico.

 L’agenzia delle entrate resiste con controricorso, svolgendo a sua volta ricorso incidentale condizionato sulla base di due motivi.

 

[-protetto-]

 

MOTIVI DELLA DECISIONEA) Ricorso principale.

 2. Col primo motivo il ricorrente deduce violazione di norma di legge, in quanto la CTR non considerava che la mancata previa autorizzazione del comandante regionale della Guardia di finanza per gli accertamenti bancari a carico dei contribuenti costituisce una palese violazione della privacy dei medesimi, che incide anche sull’interesse pubblico al risparmio e alla gestione di esso da parte degli istituti bancari medesimi, con la conseguenza che i dati acquisiti dalla polizia tributaria non potevano essere utilizzati.

 Il motivo è infondato, in quanto, com’è noto, in materia tributaria, non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento comporta, di per sé, l’inutilizzabilità degli stessi, come nella specie, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, esclusi i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio [Cfr. anche Cass. Sentenze n. 27149 del 16/12/2011 (1), n. 22984 del 2010 (2)].

 3. Col secondo motivo il ricorrente denunzia violazione di norme di legge e vizi di motivazione, giacché il giudice del gravame non indicava le ragioni per le quali addiveniva al giudizio di infondatezza dell’opposizione all’accertamento, nonostante che l’appellato avesse addotto che parte delle movimentazioni bancarie si riferiva all’attività professionale della moglie, anch’ella medico libero professionista, nonché alle attività della partecipata società Diagnostica Ultrasonica srl, senza peraltro tenere in conto le spese necessarie per la produzione dei ricavi per i costosi macchinari e le complesse tecnologie inerenti agli interventi per la terapia della sterilità e di procreazione assistita.

 La censura non ha pregio, posto che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente, dovendosi, peraltro, escludere l’automatica inclusione, fra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili, che tuttavia non venivano dimostrati nella specie [V. pure Cass. Sentenze n. 5192 del 4/3/2011 (3), n. 3995 del 2009 (4)].

 4. Col terzo motivo il ricorrente lamenta violazione di norma di legge e vizio di motivazione, poiché il secondo giudice non indicava le ragioni, per le quali ometteva di pronunciare in ordine ai costi sostenuti e che andavano dedotti dai ricavi o compensi.

 La doglianza è inammissibile, per genericità, atteso che il ricorrente non riportava il tratto del ricorso in appello con cui essa sarebbe stata prospettata.

  B) Ricorso incidentale condizionato.

 5. Esso rimane assorbito dal primo, stante il suo carattere.

 6. Ne deriva che il ricorso principale va rigettato.

 7. Quanto alle spese del giudizio, esse seguono la soccombenza, e vengono liquidate come in dispositivo.

 P.Q.M. – La Corte Rigetta il ricorso principale; dichiara assorbito l’incidentale condizionato, e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio a favore della controricorrente, che liquida in complessivi Euro 5.000,00 (cinquemila/00) per onorario, oltre a quelle prenotate a debito.

 (1) In Boll. Trib. On-line.

 (2) Cass. 12 novembre 2010, n. 22984, in Boll. Trib. On-line.

 (3) In Boll. Trib. On-line.

 (4) Cass. 19 febbraio 2009, n. 3995, in Boll. Trib. On-line.

 

 

La controversa utilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente

dall’Amministrazione finanziaria nel corso dell’accertamento e il riconoscimento in capo al contribuente di una percentuale

di incidenza dei costi sui ricavi presunti

 

1. Premessa

La sentenza in rassegna ribadisce orientamenti già noti in materia di accertamenti bancari.

 In primo luogo la Suprema Corte afferma che, in ambito tributario, l’irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento – e, precisamente, la mancanza della previa autorizzazione del comandante regionale della Guardia di finanza per gli accertamenti bancari – non comporta l’inutilizzabilità degli stessi, in assenza di una specifica previsione normativa in tal senso.

 In secondo luogo la sentenza in commento conferma il principio consolidato secondo cui, negli accertamenti bancari, ove il contribuente sostenga che, a fronte dei maggiori ricavi accertati, sono stati sostenuti maggiori costi o che parte delle movimentazioni bancarie non sono riferibili all’attività professionale, ha l’onere di provare tali circostanze. Anche in ipotesi di accertamento induttivo, nel quale pure l’Ufficio deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano emerse dalle indagini compiute, è infatti esclusa l’automatica inclusione, tra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili.

 La controversia aveva ad oggetto un accertamento ai fini IRPEF e ILOR, per l’anno d’imposta 1991, emesso dall’Agenzia delle entrate nei confronti di un ginecologo. Per quanto è dato comprendere dalla succinta narrazione dello svolgimento del processo, l’accertamento era stato emesso in seguito ad indagine bancaria della Guardia di finanza, effettuata senza la previa autorizzazione del comandante regionale. Attraverso tale indagine venivano individuate movimentazioni bancarie, alle quali non corrispondevano annotazioni nelle scritture contabili, riferibili sia all’attività professionale del contribuente sia all’attività di una società, a ristretta base familiare, operante sempre in campo medico.

 La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, mentre il giudice di secondo grado accoglieva l’appello dell’Ufficio, ritenendo utilizzabili le risultanze delle indagini bancarie svolte dalla Guardia di finanza, nonostante l’omessa previa autorizzazione del comandante regionale.

 Il contribuente ricorreva per cassazione, sostenendo in primo luogo l’inutilizzabilità dei dati acquisiti mediante indagini bancarie dalla Guardia di finanza, poiché effettuate in assenza di autorizzazione da parte del comandante regionale, e denunciando, in secondo luogo, un vizio di motivazione della sentenza, in quanto il giudice del gravame non aveva indicato le ragioni per le quali era addivenuto al giudizio di infondatezza dell’opposizione all’accertamento, nonostante l’appellato avesse addotto che parte delle movimentazioni bancarie si riferiva all’attività professionale della moglie, anch’ella medico libero professionista, ed alle attività della partecipata società. Il contribuente contestava, infine, il fatto che non fossero state debitamente considerate le spese necessarie per la produzione dei ricavi, sostenute dal professionista per l’acquisto di costosi macchinari e per l’utilizzo di complesse tecnologie inerenti agli interventi per la terapia della sterilità e di procreazione assistita.

 La corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

2. L’autorizzazione prevista dall’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973

Il primo aspetto di rilievo che emerge dalla sentenza annotata riguarda l’esplicita affermazione del Supremo Collegio che la mancanza di un’autorizzazione preventiva allo svolgimento, da parte della polizia tributaria, delle indagini bancarie non comporta né l’inutilizzabilità delle risultanze ottenute, né l’illegittimità dell’accertamento fondato sui dati raccolti in assenza della suddetta autorizzazione (1).

 L’art. 32, primo comma, n. 7), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in materia di accertamento sulle imposte sui redditi, con riferimento ai poteri conferiti agli uffici in sede di accertamenti e controlli, nella versione vigente ratione temporis, stabiliva che «per l’adempimento dei loro compiti gli uffici delle imposte possono … richiedere, previa autorizzazione dell’ispettore compartimentale delle imposte dirette ovvero, per la Guardia di finanza, del comandante di zona, alle aziende e istituti di credito per quanto riguarda i rapporti con i clienti … copia dei conti intrattenuti con il contribuente con la specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a tali conti, comprese le garanzie prestate da terzi».

 Il dettato normativo è chiaro: il legislatore ha ritenuto doveroso subordinare l’attività di indagine bancaria, da parte dell’Agenzia delle entrate e della Guardia di finanza, alla preventiva autorizzazione, rispettivamente, dell’ispettore compartimentale delle imposte dirette e del comandante di zona. Ciò trova la sua ragione nella eccezionalità di un provvedimento evidentemente lesivo del diritto alla riservatezza del contribuente.

 È assente, tuttavia, nella norma una esplicita sanzione per l’inosservanza di tali prescrizioni che, ad avviso della Corte, non determinano violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale.

 Effettivamente, la norma si “limita” a prevedere la necessità di una «previa autorizzazione», senza stabilire esplicitamente l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti senza la prescritta autorizzazione: secondo la Corte di Cassazione ciò sarebbe sufficiente per considerare utilizzabili gli elementi ottenuti irritualmente, senza che siano stati violati diritti di rango costituzionale. Si tratta di un orientamento consolidato in giurisprudenza, ma non condiviso dalla dottrina prevalente.

Non è in discussione quindi l’irritualità del procedimento istruttorio, carente di preventiva autorizzazione, ma rilevano piuttosto l’utilizzabilità o meno, ai fini dell’accertamento, degli elementi acquisiti in modo irrituale e le sorti degli accertamenti fondati su tali elementi.

 Dottrina e giurisprudenza hanno elaborato sostanzialmente tre indirizzi interpretativi: un primo orientamento secondo cui l’illegittimità degli atti istruttori comporterebbe l’invalidità derivata dell’avviso di accertamento; un secondo orientamento secondo cui le prove illegittimamente acquisite sarebbero inutilizzabili, con conseguente annullabilità dell’avviso di accertamento, ove non giustificato da altre prove legittimamente acquisite; e un terzo orientamento, del quale è espressione la sentenza in commento, secondo cui l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti per l’accertamento non comporterebbe l’inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso.

2.1 L’invalidità derivata dell’avviso di accertamento

 

 L’orientamento secondo cui l’irrituale acquisizione di elementi determinanti per l’accertamento comporterebbe l’invalidità dell’avviso stesso è di derivazione amministrativistica. Si fonda sulla natura procedimentale dell’accertamento tributario, considerato come una sequenza di atti coordinati strutturalmente, collegati funzionalmente alla realizzazione della finalità di assicurare l’applicazione corretta delle imposte dovute (2).

 Questo orientamento assimila la nozione di procedimento in ambito tributario a quella di matrice amministrativistica, applicando così anche alla materia tributaria il principio secondo cui l’illegittimità degli atti presupposto della fattispecie procedimentale si riverbera sugli atti successivi della sequenza e sul provvedimento finale, determinandone l’illegittimità in via derivata (3).

 In tale prospettiva, si realizzerebbe la diffusione di eventuali illegittimità commesse dall’Amministrazione nella fase istruttoria, alla fase successiva, di accertamento (4): l’invalidità dell’atto istruttorio (presupposto) si comunicherebbe all’atto di accertamento (presupponente) (5).

 Secondo una parte della dottrina (6), ove fosse consentito all’Amministrazione finanziaria, durante la fase istruttoria, assumere indifferentemente condotte lecite e illecite, senza che ne derivi alcuna significativa conseguenza per la validità del provvedimento finale, diventerebbe oltremodo difficile interpretare le numerose disposizioni che, nel tentativo di assicurare la difesa dei diritti e della privacy del contribuente, pongono limiti e obblighi all’azione del fisco (7).

 La tesi dell’invalidità derivata dell’atto di accertamento ha trovato talvolta accoglimento anche da parte della Corte di Cassazione (8), che in alcune sentenze ha sostenuto esplicitamente il principio secondo cui il procedimento di accertamento tributario debba essere assimilato al procedimento amministrativo. In particolare, le Sezioni Unite (9) hanno avuto occasione di replicare alla tesi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui l’eventuale illegittimità del decreto autorizzatorio non determinerebbe l’inutilizzabilità in causa delle prove acquisite, poiché mancherebbe un’espressa previsione di legge in tal senso, statuendo che «detta inutilizzabilità non abbisogna di un’espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale secondo cui l’assenza del presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali si articola».

2.2 L’inutilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente

 

 Secondo altra dottrina (10), la nozione di procedimento in ambito tributario è caratterizzata da sensibili differenze rispetto a quella di matrice amministrativa. Infatti, mentre nel procedimento amministrativo vi è un nesso causale assai stretto tra i vari atti, ognuno dei quali, di massima, si pone come strumentale ed essenziale rispetto all’emanazione del provvedimento finale, un analogo legame non è ravvisabile tra gli atti del procedimento accertativo tributario. Pertanto, la nozione di procedimento di imposizione va intesa nel diritto tributario in senso atecnico e improprio, perché, a differenza del procedimento amministrativo in senso stretto, l’atto finale della sequenza non è subordinato in senso procedimentale ad alcun atto precedente (11). Tale dottrina quindi prende le distanze dalla teoria della invalidità derivata, sostenendo invece l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente.

 La sanzione dell’inutilizzabilità si pone su un piano diverso, anche se per taluni versi complementare, rispetto a quello della invalidità derivata. Infatti, l’acquisizione illegittima di elementi di prova non determina l’illegittimità dell’atto finale, bensì solo l’inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite (e solo di quelle). Di conseguenza, laddove l’atto di accertamento si fondi su altri elementi e circostanze, lo stesso sarebbe del tutto valido (12). Il contribuente, leso dall’illegittimo esercizio dei poteri istruttori da parte dell’Amministrazione finanziaria, è tutelato indirettamente attraverso la sanzione dell’inutilizzabilità delle prove irritualmente raccolte.

 I dati e le notizie acquisiti illegittimamente dall’Amministrazione finanziaria debbono quindi essere considerati come inidonei a fungere da prova, in quanto inutilizzabili, sia nella fase dell’accertamento amministrativo, sia in quella eventualmente contenziosa (13). Pertanto, gli accertamenti fondati su prove acquisite illecitamente sono viziati, non in quanto su di essi si ripercuota il vizio di un atto precedente (come ipotizzato dalla teoria dell’invalidità derivata), ma in quanto carenti di prova, non essendo utilizzabili i fatti emergenti da prove acquisite in modo irrituale.

 Questo orientamento si fonda sul presupposto che «l’inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite» rappresenti un principio generale dell’ordinamento (14), in quanto sanzione processuale coerente con il principio di legalità. Le prove ottenute con mezzi istruttori viziati o carenti sono inutilizzabili, perché così è implicitamente, ma inequivocabilmente, stabilito dalla stessa legge che disciplina i presupposti, le modalità e i limiti dei poteri autoritativi degli organi amministrativi (15).

Infine è il caso di sottolineare che, come affermato da autorevole dottrina (16), è lecito invocare il principio di inutilizzabilità solo nel caso in cui le disposizioni violate dall’Amministrazione finanziaria costituiscano lo strumento di tutela di posizioni soggettive del contribuente; diversamente, in presenza di mere irregolarità formali, inidonee a ledere gli interessi giuridici del contribuente, non si manifesterebbe alcun effetto negativo sulla legittimità della procedura accertativa.

2.3 L’utilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente

 

 Come anticipato, nella sentenza in commento il Supremo Collegio propende per l’utilizzabilità in ambito tributario dei dati acquisiti irritualmente dall’Amministrazione finanziaria.

 Presupposto su cui si fonda questa tesi è l’assenza nel diritto tributario di norme che regolamentino gli effetti degli atti compiuti dall’Amministrazione finanziaria senza l’osservanza delle modalità e dei limiti imposti dalla legge, a differenza di quanto invece previsto in ambito civilistico (17) e penale (18). Infatti il legislatore tributario si è limitato a stabilire alcune fattispecie in cui è espressamente prevista la sanzione della nullità degli atti emessi in assenza di determinati requisiti (19), senza prevedere, né con riferimento all’accertamento delle imposte sui redditi né con riferimento all’accertamento dell’IVA, norme di portata generale che prevedano conseguenze derivanti dall’acquisizione irrituale di elementi su cui si fonda l’atto di accertamento. Neppure lo Statuto dei diritti del contribuente contiene alcuna disposizione che disciplini l’utilizzabilità o meno degli elementi acquisiti in violazione di taluni diritti dal medesimo contemplati (20).

 In tale prospettiva, che restringe i diritti del contribuente, la mancanza di una norma espressa che vieti l’utilizzabilità delle risultanze delle attività istruttorie irritualmente svolte legittimerebbe, a contrario, la lecita apprensione, nel procedimento tributario, degli elementi documentali irritualmente acquisiti, non trovando applicazione l’art. 191 c.p.p., che avrebbe valenza esclusivamente processual-penalistica.

 La Corte di Cassazione ha definito questo orientamento in numerose sentenze (21), ribadendo che «la violazione delle regole dell’accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti», dal momento che «non esiste nell’ordinamento tributario un principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Tale principio è stato introdotto nel “nuovo” codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all’interno di tale specifico sistema procedurale (si veda l’art. 191 c.p.p.)» (22).

 La prevalente dottrina (23) ha obiettato che la tutela dei diritti del contribuente risulta evidentemente inadeguata, se le regole per la preparazione dell’accertamento possono essere violate senza alcuna conseguenza per l’atto finale.

 La sentenza in rassegna riconosce però l’eventualità dell’inutilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente nei casi in cui venga «in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio». Si tratta di un’importante precisazione, già condivisa da altre pronunce della Corte di Cassazione, che hanno confermato l’inutilizzabilità e, quindi, l’annullamento degli atti impositivi fondati su elementi acquisiti in violazione del diritto all’inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.), ovvero in caso di accesso, in assenza della preventiva e prescritta autorizzazione dell’Autorità giudiziaria (art. 52 del D.P.R. n. 633/1972), presso locali adibiti promiscuamente ad attività lavorativa e abitazione del contribuente (ciò vale anche nell’ipotesi in cui i locali abitativi siano contigui e comunicanti con quelli destinati all’esercizio dell’attività d’impresa o di lavoro autonomo) (24). Allo stesso modo sono stati ritenuti inutilizzabili i dati ottenuti mediante accesso, non preventivamente autorizzato dal Pubblico Ministero, presso la casa/studio di un commercialista (25) e presso l’abitazione del contribuente, debitamente autorizzato dal Pubblico Ministero, ma in assenza dei «gravi indizi» di violazione delle norme tributarie previsti dalla legge per l’espletamento di tali accessi (26).

3. Novità in materia di indagini bancarie introdotte dal D.L. n. 201/2011

 

 L’art. 11, secondo comma, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, cosiddetto “decreto salva Italia”), ha modificato parzialmente le procedure in tema di indagini bancarie, disponendo che «a far corso dal 1° gennaio 2012, gli operatori finanziari sono obbligati a comunicare periodicamente all’anagrafe tributaria le movimentazioni che hanno interessato i rapporti di cui all’art. 7, sesto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, ed ogni informazione relativa ai predetti rapporti necessaria ai fini dei controlli fiscali, nonché l’importo delle operazioni finanziarie indicate nella predetta disposizione».

 Le comunicazioni indirizzate all’Anagrafe tributaria non possono però essere utilizzate dall’Agenzia delle entrate indiscriminatamente: permane l’obbligo in capo all’Ufficio di richiedere le preventive autorizzazioni. Infatti, l’art. 11, quarto comma, del citato D.L. n. 201/2011, stabilisce che «oltre che ai fini previsti dall’art. 7, undicesimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 605, le informazioni comunicate ai sensi dell’art. 7, sesto comma, del predetto decreto e del precedente comma 2 sono utilizzate dall’Agenzia delle entrate per la individuazione dei contribuenti a maggior rischio di evasione da sottoporre a controllo».

 L’esplicito riferimento all’art. 7, undicesimo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 605, che disciplina le comunicazioni all’Anagrafe tributaria, comporta che le comunicazioni sopra citate possano essere utilizzate soltanto ai fini delle richieste e delle risposte in via telematica di cui agli artt. 32, primo comma, n. 7), del D.P.R. n. 600/1973, e 51, secondo comma, n. 7), del D.P.R. n. 633/1972, in quanto espressamente richiamati dalla norma stessa. Le comunicazioni possono quindi essere utilizzate, ai fini accertativi, solo previa autorizzazione del direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, ovvero, per il corpo della Guardia di finanza, del comandante regionale.

 Fuori dalle ipotesi previste dagli artt. 32 del D.P.R. n. 600/1973 e 51 del D.P.R. n. 633/1972, le comunicazioni introdotte con il citato D.L. n. 201/2011 possono essere utilizzate dall’Agenzia delle entrate solo per l’individuazione dei contribuenti a maggior rischio di evasione, da sottoporre a successivi controlli fiscali.

 Sulla scorta delle considerazioni svolte nei paragrafi precedenti, è doveroso però evidenziare che il persistere dell’obbligo di previa autorizzazione costituisce una garanzia svuotata di efficacia, se la giurisprudenza dominante consente l’utilizzabilità dei dati acquisiti irritualmente dall’Amministrazione finanziaria. L’orientamento sostenuto dalla Suprema Corte, nella sentenza in esame, comporta una compressione delle garanzie poste dal legislatore a favore del contribuente. Del resto, se i vizi dell’attività istruttoria vengono privati di rilevanza sulla legittimità dell’atto di accertamento, allora tutta la disciplina predisposta dal legislatore per l’esercizio dei poteri di controllo sarebbe inutile e priva di senso, dal momento che la sua inosservanza da parte dell’Ufficio rimarrebbe immune da qualsivoglia tipo di sanzione (27). Sicuramente degna di nota è la deroga riconosciuta dalla Corte di Cassazione, secondo cui deve essere disposta l’inutilizzabilità degli elementi acquisiti irritualmente dall’Amministrazione finanziaria nei casi in cui vengano violati diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio. È il caso di evidenziare che il diritto alla riservatezza dei dati bancari e finanziari non ha alcun fondamento di rango costituzionale (28), pertanto si tratta di una precisazione che non può comportare alcuna conseguenza con riferimento alle indagini bancarie.

4. Presunzione di ricavi o compensi sui prelevamenti e onere della prova

 

 Il secondo aspetto di rilievo affrontato dalla sentenza in commento consiste nell’affermazione secondo cui negli accertamenti bancari il contribuente, ove sostenga che, a fronte dei maggiori ricavi accertati, sono stati sostenuti determinati costi o che parte delle movimentazioni bancarie non sono riferibili all’attività professionale, ha l’onere di provare puntualmente tali elementi. La Corte di Cassazione esclude esplicitamente l’automatica inclusione, tra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili.

 L’art. 32, primo comma, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, con riferimento alle imposte sui redditi, e l’art. 51, primo comma, n. 2), del D.P.R. n. 633/1972, con riferimento all’IVA, prevedono che, se vi sono incassi non registrati, si presume che agli stessi corrispondano ricavi o corrispettivi non registrati.

 Quando invece, da indagini bancarie, emergono prelevamenti non registrati, opera, ai fini delle imposte sui redditi, una presunzione relativa secondo cui ai prelevamenti corrispondono ricavi o compensi non dichiarati, sempreché non venga fornita una giustificazione da parte del contribuente, mediante l’indicazione del beneficiario dei prelievi. Tale disposizione si fonda su una doppia presunzione: che il prelevamento sia stato utilizzato per remunerare un acquisto inerente alla produzione del reddito e che al costo non contabilizzato corrisponda un ricavo non contabilizzato (29).

 Ai sensi dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973, i ricavi e i compensi così determinati sono «posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41» dello stesso decreto. Ciò significa che assumono, a seconda della metodologia e tipologia di accertamento prescelte, distinta valenza nell’ambito della determinazione della pretesa tributaria, anche in funzione dell’ammissibilità e delle modalità del riconoscimento dei componenti negativi.

 Con riferimento all’accertamento induttivo, disciplinato dal secondo comma del citato art. 39 e utilizzato dall’Agenzia delle entrate nella controversia decisa dalla sentenza in commento, per espressa disposizione dell’Amministrazione finanziaria «l’ufficio non può non tenere conto, soprattutto in assenza di documentazione certa, di un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi accertati; regola che, ovviamente, vale anche se in tutto o in parte i maggiori ricavi siano stati assunti tramite indagini bancarie» (30). Anche la Corte Costituzionale (31), esprimendosi con riferimento a fattispecie riguardante l’equiparazione dei prelevamenti effettuati da un imprenditore a ricavi non contabilizzati, ha stabilito che la presunzione relativa, sancita dall’art. 32, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, resta indenne da qualsiasi censura di illegittimità in quanto risulta pienamente ammissibile «l’incidenza percentuale dei costi relativi», conseguentemente detraibili dall’ammontare dei prelievi non giustificati, trattandosi evidentemente di accertamento induttivo, in senso stretto, corrispondente al modello ricostruttivo di cui all’art. 39, secondo comma.

 Nonostante le indicazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria e la fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione (32) ha più volte espresso un orientamento meno garantista nei confronti del contribuente. Secondo la Corte «l’affermazione secondo cui l’Ufficio finanziario che procede all’accertamento del reddito in via induttiva deve tener conto dei costi in quanto elementi negativi del reddito è senz’altro condivisibile, ma con la precisazione non meno importante che tali costi vanno valutati non già come componente astratta ed indeterminata, ma solo in quanto essi risultano dall’accertamento stesso ovvero siano effettivamente indicati e dimostrati dal contribuente» (33).In particolare, «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, e con riferimento all’acquisizione dei movimenti di un conto corrente bancario riconducibili ad un’attività d’impresa, debbono essere considerati ricavi sia le operazioni attive che quelle passive, senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili» (34).

 Secondo quanto si evince dal testo dell’annotata sentenza, l’Agenzia delle entrate, nel caso di specie, ha provveduto ad accertare maggiori redditi mediante accertamento induttivo, senza tenere conto delle componenti negative del reddito. La Suprema Corte ha considerato non valide le giustificazioni addotte dal contribuente, sia con riferimento al fatto che alcune movimentazioni si riferivano all’attività professionale della moglie e alle attività della società, sia con riferimento ai costi relativi ai macchinari e tecnologie inerenti all’attività professionale. Avendo l’Ufficio effettuato accertamento induttivo, alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale e riconosciuto nelle interpretazioni ufficiali (35), doveva essere riconosciuta al contribuente una percentuale di incidenza dei costi sui ricavi presunti, mentre con la sentenza in commento i giudici hanno ritenuto non spettante alcuna deduzione di costi, in quanto non specificamente dimostrati dal contribuente.

 In considerazione di quanto esposto pare auspicabile che la giurisprudenza garantisca un maggior equilibrio tra la posizione del contribuente e gli strumenti a disposizione dell’Amministrazione finanziaria. Non è condivisibile infatti che, a fronte di maggior compensi determinati dall’Agenzia delle entrate sulla base di una doppia presunzione relativa (36), il contribuente debba fornire prova analitica e puntuale dei costi da portare in deduzione e che, in difetto della suddetta prova, non venga riconosciuta alcuna percentuale di incidenza dei costi sui maggiori compensi.

Dott. Federico Leone

 

(1) Cfr. amplius S. Micali, Profili procedimentali e riflessi processuali delle indagini bancarie, in Boll. Trib., 2009, 263.

 (2) Cfr. S. Capolupo P. Compagnone L. Vinciguerra P. Borrelli, Le ispezioni tributarie, Milano, 2009, 196.

 (3) F. Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, in Dir. prat. trib., 1983, I, 1918; cfr. altresì Cons. Stato, sez. IV, 5 dicembre 1995, n. 982, in Boll. Trib., 1996, 391, con nota di A. Voglino, Osservazioni critiche sul prevalente orientamento giurisprudenziale in tema di accesso ai documenti dei procedimenti tributari di accertamento.

 (4) A. Parlato, Considerazioni sui limiti all’acquisizione di prove nel procedimento e nel processo tributario, in il fisco, 2002, 5745.

 (5) Cfr. Cass., sez. un., 21 novembre 2002, n. 16424, in Boll. Trib., 2003, 467.

 (6) F. Moschetti, Avviso di accertamento tributario e garanzie del cittadino, cit., 89; e D. Stevanato, Vizi dell’istruttoria e illegittimità dell’avviso di accertamento, in Rass. trib., 1990, II, 88.

 (7) A. Amatucci, Ancora sull’inutilizzabilità delle prove acquisite in ambito penale, in Corr. trib., 2001, 2761.

 (8) Cfr. Cass., sez. un., 4 marzo 2008, n. 5791, in Boll. Trib. On-line, in materia di omessa notificazione di atto presupposto; Cass., sez. trib., 30 ottobre 2002, 15305, in Boll. Trib., 2003, 76; Cass., sez. trib., 3 dicembre 2001, n. 15230, ivi, 2002, 628; Cass., sez. trib., 29 novembre 2001, n. 15209, ibidem, 626; Cass., sez. trib., 26 febbraio 2001, n. 2775, ibidem, 391; e Cass., sez. I, 27 ottobre 1998, n. 10664, in Boll. Trib. On-line. Cfr. in dottrina L. Ferlazzo Natoli G. Ingrao, Nullità degli “atti successivi”, non preceduti dalla notifica degli “atti presupposto”, in Boll. Trib., 2007, 1561, in nota a Cass., sez. un., 25 luglio 2007, n. 16412; e B. Aiudi, Brevi considerazioni sulla mancata notifica dell’atto presupposto, ivi, 2010, 1513.

 (9) Cfr. Cass. n. 16424/2002, cit.; la sentenza riguarda un caso di autorizzazione del Procuratore della Repubblica illegittimamente rilasciata per un accesso domiciliare richiesto dalla polizia tributaria in base a notizie apprese da una fonte confidenziale mantenuta anonima. Nelle conclusioni del giudizio, il Supremo Collegio ha affermato l’inutilizzabilità a sostegno dell’accertamento tributario delle prove reperite mediante una perquisizione illegittima.

 (10) Cfr. A. Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 359; e I. Manzoni, Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993, 217.

 (11) A. Fantozzi, Il diritto tributario, cit., 359.

 (12) G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Padova, 2005, 580.

 (13) F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, 2006, 384.

 (14) R. Lupi, Manuale professionale di diritto tributario, Pisa, 2003, 277; e R. Schiavolin, I criteri interpretativi delle norme sulle indagini fiscali: a proposito dei limiti soggettivi al potere di accesso presso abitazioni, in Riv. dir. trib., 1996, II, 913.

 (15) R. Lupi, Manuale professionale, cit., 277; e E. Fortuna, Se l’autorizzazione è invalida, non sono utilizzabili le prove acquisite in occasione dell’accesso, in Riv. dir. trib., 2002, 797.

 (16) Cfr. Cass., sez. trib., 16 marzo 2001, n. 3852, in Boll. Trib., 2001, 624; e F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 1987, 182.

 (17) Artt. 1418 e 1425 c.c.

 (18) Artt. 177 e segg. c.p.p.; spec. art. 191 c.p.p.

 (19) Per esempio, cfr. l’art. 42, ultimo comma, del D.P.R. n. 600/1973, e l’art. 56, commi 2, 3, e 4, del D.P.R. n. 633/1972.

 (20) Cfr. G. Pezzuto, Irregolarità dell’accesso e inutilizzabilità di atti e documenti, in Notiziario della Scuola di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, 2003, 398.

 (21) Cass. n. 3852/2001, cit.; Cass., sez. trib., 21 luglio 2000, n. 9611, in Boll. Trib., 2000, 1506; e Cass., sez. I, 22 dicembre 1999, n. 14427, ibidem, 625.

 (22) Cfr. Cass., sez. trib., 19 giugno 2001, n. 8344, in Boll. Trib., 2001, 1348.

 (23) F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1986, 87; A. Marcheselli, Ai fini tributari è limitata l’utilizzazione di materiale proveniente da indagini penali, in Corr. trib., 2006, 2786; e A. Amatucci, Ancora sull’inutilizzabilità delle prove acquisite in ambito penale, cit., 2761.

 (24) Cfr. Cass., sez. trib., 28 luglio 2011, n. 16570, in Boll. Trib., 2012, 1336.

 (25) Cfr. Cass., sez. trib., 25 marzo 2011, n. 6908, in Boll. Trib., 2011, 1814.

 (26) Cfr. Cass., sez. trib., 16 ottobre 2009, n. 21974, in Boll. Trib. On-line.

 (27) F. Tesauro, L’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. fin., 1986, 87.

 (28) Né l’art. 47 Cost. né l’art. 41 Cost. garantirebbero una posizione giuridica soggettiva di tal fatta, costituzionalmente protetta; cfr. Corte Cost. 18 febbraio 1992, n. 51, in Boll. Trib., 1992, 711: «al dovere del segreto bancario, cui sono tradizionalmente tenute le imprese bancarie in relazione alle operazioni, ai conti e alle posizioni concernenti gli utenti dei servizi da esse erogati, non corrisponde nei singoli clienti delle banche una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente protetta, né, men che meno, un diritto della personalità».

 (29) F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, cit., 200.

 (30) Cfr. circ. 19 ottobre 2006, n. 32/E, in Boll. Trib., 2006, 1617.

 (31) Cfr. Corte Cost. 8 giugno 2005, n. 225, in Boll. Trib., 2005, 1081, con nota di A. Voglino, Accertamento bancario e deducibilità dei costi occulti (secondo la sentenza della Corte Costituzionale 8 giugno 2005, n. 225).

 (32) Cfr. Cass., sez. trib., 19 febbraio 2009, n. 3995; e Cass., sez. trib., 23 giugno 2006, n. 14675; entrambe in Boll. Trib. On-line.

 (33) Cass., sez. trib., 4 marzo 2011, n. 5192, in Boll. Trib. On-line.

 (34) Cass. n. 5192/2011, cit.

 (35) Circ. n. 32/E/2006, cit.

     (36) Secondo cui: 1) il prelevamento non giustificato è stato utilizzato per remunerare un acquisto inerente alla produzione del reddito; 2) al costo non contabilizzato corrisponde un ricavo non contabilizzato.

 

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