SOMMARIO: 1. Il divieto della prova testimoniale stabilito dall’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546: contenuto e ratio – 2. Le dichiarazioni di terzi contenute negli atti dell’Amministrazione finanziaria – 3. Le dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente: in particolare le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà – 4. Le dichiarazioni stragiudiziali del contribuente – 5. Le dichiarazioni rese in giudizio dal contribuente: divieto espresso del giuramento e divieto implicito dell’interrogatorio formale e libero.
1. Il divieto della prova testimoniale di cui all’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546: contenuto e ratio
Il divieto della prova testimoniale nel processo tributario, sancito dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, preclude propriamente che le Commissioni tributarie, nel corso della trattazione della causa nella forma della pubblica udienza, possano procedere alla ammissione ed assunzione della prova orale testimoniale ai sensi degli artt. 244 e segg. c.p.c. Se il processo tributario si svolge nella forma dell’udienza camerale non partecipata, l’assunzione della prova testimoniale nel contraddittorio delle parti, prima che vietata dalla citata norma speciale, risulta incompatibile con il rito tributario che, in via ordinaria, prevede la trattazione della causa tributaria senza la presenza delle parti, ammesse a partecipare solo in caso di presentazione di apposita istanza di discussione in pubblica udienza (art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992).
Il divieto di assunzione della prova testimoniale è generale, quindi riguarda sia la tradizionale prova testimoniale orale, sia la testimonianza scritta resa su accordo delle parti disciplinata dagli artt. 257-bis c.p.c. e 103-bis disp. att. c.p.c., la quale partecipa delle caratteristiche proprie della testimonianza orale assunta direttamente dal giudice, richiedendo anch’essa la previa formulazione dei quesiti, l’ordinanza di ammissione del giudice e il giuramento del teste.
Il codice civile (art. 2729, comma 2, c.c.) abbina il divieto della prova testimoniale al divieto della prova per presunzioni semplici, nel senso che, nei casi specificamente previsti nei quali il codice civile non ammette la prova testimoniale, in quei medesimi casi è esclusa anche la prova per presunzioni semplici. In ambito tributario si verifica un fenomeno opposto. La prova per presunzioni semplici vi è ampiamente ammessa (art. 38, comma 3, e art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in materia di imposte sui redditi, e art. 54, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di rettifica della dichiarazione IVA), sino a consentire in alcuni particolari casi l’utilizzazione di presunzioni semplici sprovviste dei requisiti della gravità, precisione e concordanza (artt. 39, comma 2, e 41, comma 2, del D.P.R. n. 600/1973), legittimando una regola probatoria di esclusiva pertinenza del giudizio tributario, atteso che il giudizio civile (art. 2729 c.c.) ed il giudizio penale (art. 190, comma 2, c.p.p.) ammettono la prova presuntiva semplice nei limiti inderogabili della presunzione qualificata. Nel processo tributario il legame tra ammissibilità della prova testimoniale e della prova presuntiva semplice, postulato dal codice civile, risulta scisso, e la previsione eccezionalmente ampia della prova di tipo presuntivo coesiste con il divieto della prova testimoniale.
La ragione del divieto della prova testimoniale è generalmente individuata nel carattere spiccatamente documentale dell’accertamento tributario, essenzialmente basato su prove di tipo cartolare (scritture contabili, dichiarazioni fiscali del contribuente, documentazione relativa alla fase dell’accertamento tributario). L’esclusione della prova testimoniale in ragione della particolare natura del processo tributario è generalmente criticata dalla dottrina (1). La natura prettamente documentale degli accertamenti tributari non appare una giustificazione dirimente ai fini della esclusione della prova testimoniale. Il processo amministrativo, connotato da una natura documentale non dissimile, ammette la prova testimoniale di tipo scritto (art. 63 del codice del processo amministrativo di cui al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104); la sicura preminenza della prova documentale in ambito tributario non esclude che possano residuare spazi applicativi della prova testimoniale.
L’inammissibilità della prova testimoniale nel processo tributario non ha un fondamento teorico, ma si basa su una “ragion pratica”, individuabile nella speciale esigenza di tutela della esazione dei tributi che, a fronte di un contenzioso fiscale diffuso, ha indotto il legislatore a configurare il processo tributario in termini semplificati di processo tendenzialmente privo di una fase istruttoria e basato su prove documentali precostituite prodotte dalle parti, con espunzione delle prove costituende rappresentate in primis dalla prova testimoniale. Si tratta delle medesime esigenze di celere definizione delle controversie tributarie che conformano il rito tributario in termini di marcata specialità sotto il profilo delle modalità di trattazione della causa, che ordinariamente si esaurisce nella discussione sulle prove già introdotte con il ricorso del contribuente e le controdeduzioni dell’Ufficio (art. 34 del D.Lgs. n. 546/1992).
2. Le dichiarazioni di terzi contenute negli atti dell’Amministrazione finanziaria
Il divieto di prova testimoniale nel processo tributario ha superato il vaglio di legittimità costituzionale con la sentenza della Corte Costituzionale n. 18 del 2000 (2). La Consulta, dopo aver escluso che il divieto stabilito dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, contrasti con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost., con il diritto di difesa previsto dall’art. 24 Cost. e con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., ha proceduto ad una interpretazione della norma nei seguenti termini: la limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, riguarda esclusivamente la prova per testi assunta dal giudice nel processo, e non si estende alle dichiarazioni extraprocessuali rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria, alle quali deve riconoscersi il limitato valore probatorio «proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione» (3).
L’esegesi della norma svolta dalla Corte Costituzionale presenta alcuni elementi di incoerenza. Una volta stabilito che il divieto previsto dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, ha natura processuale, riguardando esclusivamente la diretta assunzione della testimonianza da parte del giudice tributario, non è chiarita la ragione per cui da esso debba derivare un declassamento della valenza di elementi probatori affatto diversi, rappresentati da prove documentali precostituite, contenenti anche dichiarazioni di terzi, formate od acquisite dall’Amministrazione finanziaria nell’esercizio dei compiti istituzionali di indagine e controllo dell’esatto adempimento degli obblighi tributari. Il depotenziamento della valenza probatoria delle dichiarazioni di terzi sconta una ulteriore incongruenza, costituita dalla impropria equiparazione di esse a mezzi di prova disomogenei e connotati da un regime probatorio differenziato quali sono “gli elementi indiziari”. La dichiarazione extraprocessuale di terzi, al pari della dichiarazione testimoniale resa in giudizio, appartiene alla categoria delle prove dirette, poiché il soggetto terzo riferisce intorno al fatto fiscalmente rilevante di cui ha avuto diretta conoscenza; essa è ontologicamente diversa dalla prova indiziaria o presuntiva (art. 2727 c.c.) che consiste nell’accertamento di un fatto diverso da quello oggetto di giudizio, ma dal quale il giudice risale al fatto da provare attraverso un procedimento logico-induttivo. La prova indiziaria o presuntiva semplice non richiede alcun elemento esterno di riscontro, ma deriva la propria efficacia probatoria dalla ricorrenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c., i quali conferiscono alla prova presuntiva semplice efficacia di prova sufficiente a fondare il giudizio al pari delle prove di tipo diretto. La nozione di elemento di prova da solo inidoneo a costituire prova piena non si attaglia alla prova indiziaria o presuntiva, ma richiama piuttosto un tipo di prova tipica del processo penale, costituita dalla dichiarazione resa da coimputato o imputato in procedimento connesso, le cui affermazioni, a prescindere dalla credibilità intrinseca del dichiarante, possono assurgere a prova piena soltanto se assistite da un elemento di riscontro esterno che ne confermi l’attendibilità (art. 192, comma 3, c.p.p.). Nel processo civile la nozione di prova non autosufficiente rimanda agli argomenti di prova previsti dall’art. 116, comma 2, c.p.c. A prescindere dalla loro valenza di «meri elementi di valutazione di altre prove concettualmente distinti dalle prove presuntive, strutturalmente inidonei a fornire efficacia dimostrativa» (4), ovvero di fonti di prova assimilabili alle presunzioni semplici, è certo che gli argomenti di prova costituiscono uno strumento probatorio normativamente confinato alla valutazione delle dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’interrogatorio libero, del loro contegno processuale e del rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni ordinate, senza possibilità di estensione analogica di un parametro valutativo valido settorialmente a casi non previsti dalla legge (quale la valutazione delle dichiarazioni extraprocessuali di soggetti terzi).
Gli artt. 31 e segg. del D.P.R. n. 600/1973, in materia di imposte sul reddito, applicabili anche all’imposta di registro in forza del richiamo contenuto nell’art. 53-bis del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ed i corrispondenti poteri di indagine e controllo previsti in materia di IVA dagli artt. 51 e segg. del D.P.R. n. 633/1972, prevedono espressamente che l’Amministrazione finanziaria possa acquisire materiale probatorio di tipo dichiarativo, anche proveniente da terzi, legittimamente utilizzabile per la emissione di atti impositivi. In particolare l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 prevede che l’Ufficio possa redigere verbali di contraddittorio contenenti le dichiarazioni rese dal contribuente invitato a comparire di persona (n. 2); richiedere al contribuente la compilazione di questionari al fine di fornire notizie rilevanti non solo per l’accertamento fiscale nei suoi confronti ma anche nei confronti di altri contribuenti con i quali abbia intrattenuto rapporti (n. 4); richiedere alle Amministrazioni dello Stato e agli enti pubblici non economici, nonché alle società di assicurazione e di riscossione e pagamento per conto terzi di fornire «dati e notizie relativi a soggetti indicati singolarmente» (n. 5); richiedere al contribuente sottoposto ad accertamento il rilascio di una dichiarazione relativa ai rapporti intrattenuti con banche, intermediari finanziari, società di gestione del risparmio, fiduciarie nazionale ed estere (n. 6-bis); richiedere direttamente ai medesimi enti dati, notizie e documenti relativi a qualsiasi rapporto intrattenuto con i loro clienti (n. 7); richiedere «notizie, dati, documenti e informazioni» agli enti preposti al controllo ed alla vigilanza sulle attività creditizie finanziarie ed assicurative (7-bis); richiedere ai soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili «dati, notizie e documenti» rilevanti ai fini dell’accertamento nei confronti dei loro clienti, fornitori e prestatori di lavoro autonomo (n. 8). La richiesta al contribuente di fornire «dati e notizie», oltre che avanzata mediante inviti a comparire e richiesta di compilazione dei questionari, può essere formulata dall’Ufficio al contribuente per le vie brevi, nel corso dello svolgimento delle attività di accesso, ispezione e verifica previste dall’art. 33 del D.P.R. n. 600/1973.
La Guardia di finanza, oltre a cooperare con l’Amministrazione finanziaria per l’accertamento delle imposte sui redditi e dell’IVA avvalendosi dei medesimi poteri di cui dispongono gli Uffici impositori (art. 33 del D.P.R. n. 600/1973, e art. 63 del D.P.R. n. 633/1972), in forza della propria qualifica di polizia tributaria svolge in modo sostanzialmente monopolistico l’accertamento delle violazioni delle leggi finanziarie che costituiscono reato (artt. 30 e 32 della legge 7 gennaio 1929, n. 4), compiendo atti tipici di polizia giudiziaria, quali l’assunzione di sommarie informazioni dalle persone informate dei fatti (art. 352 c.p.p.), ricezione di spontanee dichiarazioni e effettuazione dell’interrogatorio di iniziativa (art. 350 c.p.p.) ovvero dell’interrogatorio delegato del contribuente indagato (art. 370 c.p.p.); tali atti a contenuto dichiarativo, al pari di ogni altro atto di indagine relativa ad un illecito tributario di rilevanza penale, previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica sono trasmessi dalla Guardia di finanza all’Ufficio impositore ai sensi degli artt. 33 del D.P.R. n. 600/1973 e 63 del D.P.R. n. 633/1972. A norma dell’art. 36, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973, gli organi pubblici ispettivi e di vigilanza, che nell’esercizio delle loro funzioni vengono a conoscenza di fatti che possono configurare violazioni tributarie hanno l’obbligo giuridico di effettuare la comunicazione alla Guardia di finanza, per il successivo inoltro agli Uffici finanziari, con contestuale trasmissione della relativa documentazione. Ad analogo adempimento sono tenuti gli stessi organi giurisdizionali, penali, civili o amministrativi, allorché, nell’esercizio delle loro funzioni, vengano a conoscenza di violazioni tributarie.
Il complesso delle norme esaminate individua l’Agenzia delle entrate come il terminale di molteplici atti probatori a contenuto dichiarativo. Una volta entrati legittimamente in possesso dell’Ufficio finanziario, essi sono pienamente utilizzabili ai fini della emissione degli atti impositivi, non sussistendo alcun elemento di diritto positivo che giustifichi l’attribuzione di una minusvalenza probatoria agli atti di contenuto dichiarativo, costituiti essi stessi in forma documentale, rispetto agli atti cartolari di contenuto non dichiarativo.
La giurisprudenza di legittimità è allineata alle tesi interpretative della Corte Costituzionale. L’adesione è piena con riguardo alla delimitazione del divieto previsto dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, alla sola escussione processuale dei testimoni ad opera del giudice tributario; mostra posizioni più variegate con riguardo alla valenza probatoria attribuibile alle dichiarazioni rese da terzi non rientranti nel divieto di prova testimoniale. Talune pronunce ripetono la formula usata dal giudice costituzionale, affermando che le dichiarazioni rese da terzi all’Amministrazione finanziaria rilevano quali “elementi indiziari” che possono soddisfare l’onere probatorio soltanto “unitamente ad altri elementi” (5); altre pronunce sottolineano che il divieto previsto dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, ha valenza esclusivamente processuale e non determina alcuna limitazione dei poteri di istruzione dell’Ufficio impositore, concludendo che le dichiarazioni dei terzi raccolte dai verificatori hanno natura di “mere informazioni”, sono “pienamente utilizzabili” quali elementi di prova, e non devono essere raccolte in contraddittorio con il contribuente (6).
La rilevata assenza di qualunque discriminazione tra materiale probatorio dichiarativo e non dichiarativo, acquisito in forma cartolare dall’Ufficio nell’esercizio dei propri poteri di accertamento e verifica, unitamente alla differenza strutturale tra prova presuntiva e prova dichiarativa, autorizzano un diverso inquadramento delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’Amministrazione finanziaria, collocabili nell’ambito della prova precostituita documentale. Esse appartengono alla generale categoria delle dichiarazioni provenienti da soggetti in posizione di terzietà (siccome estranei al fatto illecito tributario), documentate in atti formati da soggetti dell’Amministrazione finanziaria o di altri enti pubblici aventi veste di pubblico ufficiale, perciò legittimati a redigere atti dotati della efficacia prevista dall’art. 2700 c.c., fermo restando che l’attendibilità intrinseca e la rilevanza probatoria della dichiarazione sottostanno alla regola generale della libera valutazione della prova da parte del giudice stabilita dall’art. 116, comma 1, c.p.c.
Qualora le dichiarazioni di terzi acquisite dall’Amministrazione finanziaria siano contenute in una scrittura privata, esse sono inquadrate nelle “prove atipiche”, in contrapposizione alla prova tipica costituita dalla scrittura privata proveniente dalla parte prevista dall’art. 2702 c.c. In tal caso il contribuente è legittimato a contestare non solo il contenuto della dichiarazione del terzo ma anche la provenienza di essa dall’apparente dichiarante, non essendo applicabile alle scritture private provenienti da terzi la regola processuale stabilita dall’art. 214 c.p.c. relativa al riconoscimento tacito della scrittura privata (della parte) non espressamente disconosciuta (7). Quanto alla rilevanza probatoria delle dichiarazioni di terzi contenute in scritture private, non sussistono ragioni per sottrarre tali prove alla regola generale di giudizio (applicabile in mancanza di una norma derogatoria) che ne rimette l’apprezzamento della efficacia probatoria al libero e prudente convincimento del giudice ai sensi dell’art. 116 c.p.c.
3. Le dichiarazioni di terzi prodotte dal contribuente: in particolare le dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà
La citata sentenza della Corte Costituzionale n. 18/2000 dedica un passaggio argomentativo particolarmente sibillino al tema della sussistenza di una corrispondente facoltà del contribuente di produrre dichiarazioni rese da terzi, affermando che al contribuente è consentito «contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale», nel qual caso il giudice tributario «potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando – secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità – l’attività istruttoria svolta dall’ufficio».
La motivazione del giudice costituzionale è stata decriptata dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha ritenuto che, in applicazione del principio della parità delle parti nel processo stabilito dall’art. 111 Cost., occorre riconoscere anche al contribuente la facoltà di introdurre nel processo tributario dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (8). L’affermazione di principio deve essere specificata con riguardo alla tipologia di prove dichiarative che il contribuente è legittimato a veicolare nel processo tributario sotto forma di prova documentale. La sopra citata sentenza della Corte di Cassazione n. 11785/2010 riguardava il caso di un contribuente che aveva richiesto l’acquisizione in un verbale di dichiarazioni testimoniali rese nell’ambito di un processo penale. Non pare dubbio che i verbali di prove dichiarative formatesi nell’ambito di altri procedimenti (civili, penali o amministrativi) possano trovare ingresso nel processo tributario su richiesta del contribuente (o dell’ente impositore), trattandosi di documenti precostituiti al di fuori del processo tributario, nel quale possono legittimamente fare ingresso sotto forma di prova cartolare senza che sia configurabile alcuna violazione del divieto previsto dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992.
A diversa conclusione deve pervenirsi nel caso in cui il contribuente richieda l’acquisizione di una dichiarazione scritta a lui rilasciata da un soggetto terzo (a titolo esemplificativo, dichiarazioni di terzi che affermano di aver elargito somme di denaro al contribuente chiamato a giustificare la capacità di spesa desumibile dagli elementi-indice del c.d. “redditometro”). Trattandosi di dichiarazioni scritte che non si sono autonomamente costituite in altri ambiti processuali, ma che il contribuente si è appositamente procacciato per contrastare in giudizio la pretesa impositiva, esse non si sottraggono al divieto della prova testimoniale stabilito dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, comprensivo del divieto della testimonianza scritta disciplinata dall’art. 257-bis c.p.c. (che peraltro la consente solo sull’accordo delle parti). L’accoglimento di tale soluzione può ingenerare problemi di compatibilità con il principio della parità delle parti, valevole per ogni tipo di processo, sancito dall’art. 111, comma 2, Cost. Tuttavia, occorre osservare che nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (9) il principio della parità delle parti è riferito all’intero iter processuale, compresa la fase delle impugnazioni, ma non si estende all’attività amministrativa preprocessuale di accertamento dei tributi, nel corso della quale l’Amministrazione finanziaria, in quanto organo pubblico che agisce a tutela dell’interesse collettivo erariale, dispone di poteri autoritativi di accertamento, tra i quali rientra l’acquisizione di materiale dichiarativo, che non trovano corrispondenza in analoghi poteri in capo al soggetto privato contribuente che agisca a tutela dei propri diritti patrimoniali. Inoltre il principio della formazione della prova nel contraddittorio, che preclude alla parte di costituire unilateralmente elementi di prova direttamente utilizzabili nel processo, è stabilito dall’art. 111, comma 4, Cost., con specifico ed esclusivo riferimento al processo penale.
La repentina apparizione e sparizione della norma che introduceva nel processo civile la facoltà per i difensori delle parti di assumere direttamente le dichiarazioni dei terzi (art. 15 del D.L. 12 settembre 2014, n. 132, vigente dal 13 settembre 2014, e soppresso dall’allegato alla legge di conversione 10 novembre 2014, n. 162, con decorrenza dall’11 novembre 2014) conferma l’inesistenza nel diritto positivo di una norma o di un principio generale che, nel processo civile e nel processo tributario, legittimino le parti (contribuente o ente impositore) a procedere esse stesse alla assunzione di prove testimoniali al fine della loro produzione ed utilizzazione in giudizio.
Una norma di tal genere si rinviene nel diverso ambito del procedimento penale, ove gli artt. 391-bis e segg. c.p.p. attribuiscono al difensore la facoltà di acquisire dichiarazioni di terzi utilizzabili processualmente, ma si tratta di disposizioni ritagliate sul modello accusatorio del processo penale e ad esso espressamente confinate, senza possibilità di esportazione in altri ambiti processuali. Tuttavia, una volta che gli atti di investigazione difensiva di contenuto dichiarativo siano stati acquisiti al processo penale secondo le regole processuali ad esso proprie (deposito del fascicolo del difensore ed inserimento di esso nel fascicolo del pubblico ministero a norma dell’art. 391-octies c.p.p.) essi possono rifluire nel processo tributario sotto forma di produzione documentale di atti del procedimento penale allegati dal contribuente al ricorso tributario. Depone in tal senso la qualifica di pubblico ufficiale riconosciuta al difensore che procede alla documentazione delle dichiarazioni assunte nello svolgimento dell’attività di investigazione (10), con conseguente equiparazione della valenza probatoria dei verbali di dichiarazione redatti dal difensore a quella dei verbali redatti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria.
La giurisprudenza di legittimità si è occupata in particolare della facoltà del contribuente di introdurre nel processo tributario dichiarazioni di terzi sotto forma di dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, già prevista dall’art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, ed ora disciplinata dall’art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445. Secondo le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (11), la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ha attitudine probatoria soltanto nei confronti della pubblica Amministrazione ed in determinate procedure amministrative, mentre è priva di valore probatorio nel giudizio civile, governato dal principio dell’onere della prova stabilito dall’art. 2697 c.c., ed atteso che la parte non può derivare elementi di prova a proprio favore da proprie dichiarazioni (12).
La giurisprudenza della Sezione Tributaria non è univoca. L’orientamento prevalente, conformandosi alla sopra citata pronuncia delle Sezioni Unite, esclude che la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà e l’autocertificazione in genere abbiano attitudine probatoria in sede giurisdizionale, osservando che l’ammissione delle dichiarazioni sostitutive introdurrebbe nel processo tributario un mezzo di prova non solo vietato dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992, ma anche costituito al di fuori del processo (13). Altre pronunce appaiono più possibiliste, riconoscendo alla dichiarazione sostitutiva il valore di semplice indizio, valutabile in relazione agli altri elementi acquisiti (14).
L’esame delle disposizioni in materia di dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà evidenzia in via pregiudiziale che esse sono strutturalmente inidonee a fungere da contenitore delle dichiarazioni rese da soggetti terzi, estranei alle parti in causa. A norma dell’art. 47, comma 2, del D.P.R. n. 445/2000, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà «può riguardare anche fatti relativi ad altri soggetti» di cui il dichiarante abbia diretta conoscenza, ma deve sempre trattarsi di una dichiarazione «resa nell’interesse proprio del dichiarante», ossia di una dichiarazione proveniente dalla parte in causa e non da un soggetto terzo estraneo al contenzioso. Ciò a prescindere dalla regola propria del giudizio civile (e del giudizio tributario ex art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992) secondo cui la dichiarazione resa dalla parte (ipoteticamente assunta in forma di dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà) ha valore probatorio solo ove contenga affermazioni di fatti sfavorevoli (confessione ex art. 2730 c.c.).
4. Le dichiarazioni stragiudiziali del contribuente
Il tema della rilevanza probatoria, nel processo tributario, delle dichiarazioni extraprocessuali rese da soggetti in posizione di terzietà deve essere distinto da quello attinente alla rilevanza probatoria delle dichiarazioni rese dal contribuente avente la qualità di parte nel processo tributario. Per determinare la rilevanza probatoria delle dichiarazioni extraprocessuali del contribuente, indifferentemente contenute in atti pubblici o scritture private, occorre fare riferimento alle norme civilistiche che disciplinano la valenza probatoria delle dichiarazioni stragiudiziali della parte. L’art. 2735 c.c. attribuisce rilevanza alla sole dichiarazioni confessorie (ossia di fatti sfavorevoli al dichiarante) precisando che esse hanno valore legale di “piena prova” se rese alla controparte, mentre sono liberamente apprezzate dal giudice qualora siano rese ad un soggetto terzo. La natura indisponibile dell’obbligazione tributaria porta ad escludere che le dichiarazioni confessorie del contribuente, ancorché contenute in atti diretti all’ente impositore, possiedano l’efficacia di prova legale, espressamente confinata alla materia dei diritti disponibili (art. 2733, comma 2, c.c.), dovendosi invece concludere che esse possono costituire prova sufficiente del fatto affermato ma sono assoggettate alla regola della libera valutazione della prova da parte del giudice prevista dall’art. 116 c.p.c.
In tal senso la giurisprudenza di legittimità ha rimarcato che le dichiarazioni confessorie rese dal contribuente nel corso della verifica fiscale, ovvero nel corso di un procedimento penale, a differenza delle dichiarazioni rese da terzi, non costituiscono semplici indizi ma «prova diretta non abbisognevole di ulteriori riscontri» e da sola sufficiente a fondare il giudizio (15).
5. Le dichiarazioni rese in giudizio dal contribuente: divieto espresso del giuramento e divieto implicito dell’interrogatorio formale e libero
L’art. 7, comma 4, del D.Lgs. n. 546/1992 esclude espressamente l’assunzione nel processo tributario delle dichiarazioni rese dalle parti sotto giuramento (art. 2736 c.c.). La ragione del divieto di deferire o riferire il giuramento si individua nella natura indisponibile dell’obbligazione tributaria di diritto pubblico, di per sé ostativa all’ammissione del giuramento a norma dell’art. 2739, comma 1, c.c., anche in assenza di esplicito divieto.
La norma tace in ordine alle ulteriori prove costituende di tipo dichiarativo rappresentate dall’interrogatorio formale e dall’interrogatorio libero delle parti. In assenza di una disciplina speciale valevole per il processo tributario, occorre fare riferimento alla clausola generale dettata dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, che legittima l’applicazione in via integrativa delle norme del codice di procedura civile alla condizione che sussista il requisito di “compatibilità”. Generalmente l’interrogatorio formale della parte è ritenuto incompatibile con il processo tributario poiché costituisce il mezzo per provocare la confessione giudiziale della parte interrogata (art. 228 c.p.c.), e la confessione giudiziale, al pari del giuramento, non è ammessa in materia di diritti indisponibili a norma dell’art. 2733, comma 2, c.c. (16).
Ferma restando l’inammissibilità della confessione giudiziale provocata mediante interrogatorio formale, può invece trovare ingresso nel processo tributario la confessione giudiziale spontanea (art. 229 c.p.c.) costituita da dichiarazioni sfavorevoli contenute in atti processuali sottoscritti personalmente dalla parte (si pensi al ricorso proposto personalmente dal contribuente a norma dell’art. 12, comma 5, del D.Lgs. n. 546/1992, ovvero a memorie illustrative firmate personalmente dalla parte). In tale ipotesi la natura indisponibile dell’obbligazione tributaria preclude al giudice di attribuire efficacia probatoria di prova legale alle dichiarazioni di natura confessoria contenute in atti processuali sottoscritti dalla parte personalmente, ma trattandosi di dati dichiarativi legittimamente presenti nel processo essi non sono privi di rilevanza probatoria e sottostanno alla regola generale di giudizio costituita dalla libera valutazione delle prove da parte del giudice stabilita dall’art. 116, comma 1, c.p.c.
Una parte della dottrina (17) ritiene ammissibile che nel processo tributario il giudice possa disporre d’ufficio l’interrogatorio libero delle parti in contraddittorio tra di loro previsto dall’art. 117 c.p.c. La conclusione poggia sul rilievo che le uniche prove esplicitamente vietate dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 sono il giuramento e la prova testimoniale, che l’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992, consente l’applicazione integrativa nel processo tributario di tutte le norme del codice di procedura civile non incompatibili e che l’elencazione dei poteri istruttori attivabili d’ufficio dal giudice tributario, contenuta nell’art. 7, commi 1 e 2, del D.Lgs. n. 546/1992, non ha carattere esaustivo. In senso contrario si può osservare che l’istituto dell’interrogatorio non formale delle parti previsto dall’art. 117 c.p.c. presenta profili di incompatibilità con la natura del processo tributario, nel senso che l’Amministrazione finanziaria, parte resistente necessaria nel processo tributario, è rappresentata dal soggetto avente la qualifica apicale di Direttore dell’Agenzia delle entrate che ha emesso l’atto impositivo, il quale non è personalmente e direttamente a conoscenza dei fatti di causa, con conseguente frustrazione delle finalità conoscitive insite nel ricorso all’interrogatorio non formale.
In ogni caso la questione appare di scarsa importanza pratica, posto che non risulta che le Commissioni tributarie abbiano mai disposto l’interrogatorio libero o ammesso l’interrogatorio formale delle parti.
Dott. Giuseppe Locatelli
Consigliere della Corte di Cassazione,
Sezione Tributaria
(1) A titolo esemplificativo cfr. GOBBI, Il processo tributario, Milano, 2011, 300 ss.; e CANTILLO, Il processo tributario, Napoli, 2014, 253.
(2) Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18, in Boll. Trib., 2000, n. 311, con nota di AIUDI, Giusto processo?
(3) Così Corte Cost. n. 18/2000, cit.
(4) MANDRIOLI – CARRATTA, Diritto processuale civile, Torino, II, 2015, 194.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 23 giugno 2010, n. 15169; e Cass., sez. trib., 5 aprile 2013, n. 8369; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(6) Cfr. Cass., sez. trib., 30 settembre 2011, n. 20032; e Cass., sez. trib., 5 dicembre 2012, n. 21812; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Cass. n. 15169/2010, cit.
(8) Cfr. Cass., sez. trib., 14 maggio 2010, n. 11785, in Boll. Trib., 2010, 1553.
(9) Cfr. Corte Cost. 6 febbraio 2007, n. 26, in Giur. cost., 2007, 221.
(10) Cfr. Cass., sez. un. pen., 28 settembre 2006, n. 32009, in Boll. Trib. On-line.
(11) Cfr. Cass., sez. un., 14 ottobre 1998, n. 10153, in Giust. civ., 1998, I, 2725.
(12) Cfr. Cass. n. 10153/1998, cit.
(13) Cfr. Cass., sez. trib., 19 marzo 2010, n. 6755, in Boll. Trib., 2010, 1253; Cass., sez. trib., 24 gennaio 2013, n. 1663, in Boll. Trib. On-line.
(14) Cfr. Cass., sez. trib., 16 dicembre 2011, n. 27173, in Boll. Trib. On-line.
(15) Cfr. Cass., sez. trib., 21 dicembre 2005, n. 28316, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 11 giugno 2003, n. 9320, in Boll. Trib., 2003, 1755.
(16) In senso difforme LOIERO – BATTELLA – MARINO, Il processo tributario, Torino, 2008, 104-105, i quali ritengono ammissibile l’interrogatorio formale sul rilievo che l’art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992, consentendo alle parti di transigere sull’oggetto della lite, avrebbe modificato la natura indisponibile dell’obbligazione tributaria. Ma vedasi TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Milano, 2011, 366, secondo cui la conciliazione tributaria non ha natura transattiva ed il principio della indisponibilità dell’obbligazione tributaria non subisce deroghe.
(17) Cfr. CANTILLO, op. cit., 240; e GOBBI, op. cit., 306.