16 Marzo, 2016

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. Il disorientamento in tema di elusione fiscale e abuso del diritto, anche per quanto riguarda i profili sanzionatori – 2. L’elusione tributaria e il rapporto con la dichiarazione, tra disposizioni sostanziali e disposizioni sul procedimento 3. La declinazione procedimentale dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (e anche dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, nel testo risultante dallo schema di decreto delegato approvato con atto del Governo n. 163 del 21 aprile 2015) 4. Il carattere procedimentale dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e le sanzioni penali – 5. L’abuso del diritto come prodotto giurisprudenziale e profili sanzionatori.

 

 

1. Premessa. Il disorientamento in tema di elusione fiscale e abuso del diritto, anche per quanto riguarda i profili sanzionatori

Chi si è occupato, negli ultimi tempi, di avvisi di accertamento incentrati sull’elusione fiscale o sull’abuso del diritto avrà senz’altro notato che i provvedimenti impositivi irrogano inesorabilmente la sanzione amministrativa per infedele dichiarazione (1). Inoltre, nei casi in cui siano state superate le soglie di cui all’art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, l’Amministrazione finanziaria procede alla segnalazione alla Procura della Repubblica per il reato di infedele dichiarazione, con conseguente avvio dell’azione penale.

L’irrogazione delle sanzioni tributarie e la denuncia ai fini penali, dunque, sono oramai entrate nei comuni schemi di operatività del fisco, quasi si trattasse di un automatico effetto dell’avviso di accertamento e senza che sia stata avvertita la necessità di una più attenta riflessione sulle differenze esistenti tra gli avvisi di accertamento volti a contestare l’evasione fiscale e gli avvisi funzionali, invece, alla contestazione della fattispecie di elusione (2).

Insomma, sul piano sanzionatorio l’evasione e l’elusione sono state spesso accomunate e sottoposte al medesimo trattamento. E questo stato confusionale si è esteso anche al comparto giurisprudenziale, il quale pure ha risentito della mancata sistematizzazione delle fattispecie da parte della dottrina (3).

In mancanza di chiari punti di riferimento, si sono quindi radicate nel nostro sistema singolari teorie sul “diretto accesso giurisprudenziale ai principi” (4), sulle quali si basa la tassazione di fatti economici mai voluti dal contribuente e da questi mai realizzati. Nell’ambito di queste teorizzazioni, il legislatore viene dipinto come un’istituzione incapace di produrre disposizioni esprimenti i principi generali, cosicché spetterebbe al giudice, in veste di supplente e sotto la guida delle fonti super-legislative (la Costituzione, i Trattati UE, la CEDU e chi ne ha più ne metta), il compito di intercettare tali principi e di adattarli al caso concreto. Da qui – testualmente (5) – l’esaltazione del ruolo del magistrato e la produzione di sentenze “innovative”.

Si tratta di schemi argomentativi discutibili se prospettati in un sistema che, fino a quando rimarrà in vigore questa Carta costituzionale e quanto meno con riferimento ai tributi non armonizzati, è ancora incentrato sul principio della riserva di legge. Infatti, il giudice il quale acceda, da solo, ai principi che egli stesso di volta in volta individui al fine di generare la regola da calare sul caso concreto, non si assume affatto la responsabilità politica della regola stessa, con conseguente incrinatura del sistema democratico di ripartizione dei poteri.

Da dove nasce, allora, questo disorientamento che si riverbera, poi, anche sul versante sanzionatorio?

Una delle sue cause va a mio avviso ricercata nelle modalità con le quali la questione del rapporto tra sanzioni ed elusione e tra sanzioni e abuso è stata talvolta prospettata ai magistrati.

Infatti, qualora ci si limiti ad affermare, in termini un po’ brutali e rapidi, che nell’evasione si assiste alla violazione di una disposizione di legge mentre nell’elusione c’è l’aggiramento di una disposizione o di un principio, si corre il rischio di essere fraintesi e di generare quel clima di incertezza che può spingere il giudice, a questo punto disorientato, ad aderire alla linea accusatoria dell’agenzia. In altre parole, a fronte di una spiegazione carente e, per ciò stesso, poco convincente, il giudice può essere indotto a confermare l’avviso di accertamento (che è pur sempre il prodotto dell’attività svolta da un’istituzione tributaria) e a sancire, de plano, anche la legittimità dell’irrogazione delle sanzioni.

[-protetto-]

Personalmente sono dell’idea che, fino a quando non ci saranno interventi normativi specificamente riguardanti tale aspetto, le sanzioni tributarie e penali non dovrebbero applicarsi alle fattispecie di elusione e tanto meno le fattispecie riconducibili all’abuso.

Cerco qui di seguito di spiegare la mia posizione, prendendo le mosse dall’elusione tributaria.

2. L’elusione tributaria e il rapporto con la dichiarazione, tra disposizioni sostanziali e disposizioni sul procedimento

Le disposizioni che si occupano delle sanzioni tributarie (6) e delle sanzioni penali (7) delineano un concetto assai ampio di dichiarazione infedele e di imposta evasa. Si tratta di disposizioni dotate di uno spettro applicativo talmente vasto da incorporare, sul piano descrittivo, non solo le tradizionali fattispecie di evasione ma anche, come subito dirò, quelle di elusione (8).

Infatti, se la dichiarazione deve reputarsi “infedele” ogniqualvolta l’imposta accertata sia superiore all’imposta dichiarata, si può senz’altro concludere nel senso che nell’area dell’infedeltà dichiarativa può pacificamente ricadere anche l’elusione fiscale. Di fronte a una contestazione di elusione, infatti, l’avviso di accertamento determina pur sempre un’imposta superiore rispetto a quella risultante dalla dichiarazione. E le stesse conclusioni possono adattarsi al diritto penale, perché anche qui la definizione di imposta evasa si sviluppa sulla differenza tra l’imposta determinata nel provvedimento impositivo e quella risultante dalla scheda dichiarativa. Anche in quest’ultimo comparto, dunque, nel concetto di imposta evasa, rilevante per il reato di infedele dichiarazione, ben può collocarsi l’imposta non versata in ragione della connotazione elusiva dell’operazione perfezionata dal contribuente.

Su di un punto è tuttavia necessario soffermarsi un poco.

Sul piano tributario e anche sul piano penale, le fattispecie sanzionatorie sono pur sempre costruite sulla violazione di obblighi i quali incidono sul contenuto della dichiarazione. La sanzione è la conseguenza di un’anomalia direttamente riferibile alla scheda dichiarativa, che potremmo individuare, in termini assai netti, nel “dichiarare di meno”, sotto forma di minori imponibili o di minori imposte, rispetto a quanto si sarebbe dovuto.

È pertanto necessario chiedersi quale rapporto si instauri tra l’elusione e la dichiarazione e, segnatamente, se le regole in tema di elusione assumano connotati sostanziali oppure se esse attengano al mero procedimento, vale a dire alle modalità di azione dell’Agenzia delle entrate (9).

È chiaro che, qualora si affermi che la disposizione sull’elusione è di tipo sostanziale, dovremmo aspettarci che la fattispecie elusa sia formalizzata nella dichiarazione. In altre parole, il carattere sostanziale si tradurrebbe in un obbligo per il contribuente di immettere nella propria scheda dichiarativa i risultati economico-giuridici scaturenti dall’operazione che è stata aggirata, applicando non già le disposizioni che si riferiscano all’operazione elusiva bensì quelle riferibili, per l’appunto, all’operazione elusa (10).

Per esempio, nel caso – oggi alla moda quanto al sindacato di elusività – della scissione societaria parziale cui faccia seguito la cessione a titolo oneroso delle partecipazioni rappresentative del capitale sociale della scissa o della beneficiaria, si dovrebbero riportare nella dichiarazione non già gli effetti scaturenti dalla vendita delle partecipazioni (operazione elusiva riconducibile ai soci), bensì quelli generati dalla vendita dei beni di primo grado presenti nel patrimonio della stessa scissa o della stessa beneficiaria (operazione elusa, riconducibile alla società). E ciò – si noti – ancorché tali beni facciano ancora parte del patrimonio delle citate società, non essendosi mai distaccati da esso. Si noti che, nel procedere in questo modo, i soci della scissa o della beneficiaria, pur avendo in concreto effettuato una vendita di azioni o di quote e pur avendo dismesso la qualifica di socio, non sarebbero tenuti a dichiarare alcun capital gains, dato che la cessione avrebbe ad oggetto (stando allo schema elusivo) soltanto i beni appartenenti – come detto – alle più volte citate società scissa e beneficiaria. Il capital gain sarebbe dunque sostituito, sul versante dichiarativo, da una plusvalenza sull’azienda (qualora i beni appartenenti alle società costituiscano un complesso produttivo organizzato per l’esercizio dell’attività economica) o da una plusvalenza realizzata su singoli cespiti, quali immobili, brevetti, marchi, ecc. (qualora siano questi i beni presenti nel patrimonio della società le cui azioni o quote sono state alienate dopo la scissione).

Si potrebbe già a questo punto rilevare come la predisposizione di una dichiarazione secondo lo schema qui sopra delineato assuma la consistenza – se così possiamo dire – di un documento per nulla rappresentativo della realtà economica. Una sorta di “mostro giuridico” o, se si vuole, un “atto contro-natura” perché non conforme all’operazione che il contribuente abbia effettivamente realizzato (11). Infatti la società (scissa o beneficiaria, a seconda dei casi) sarebbe costretta a dichiarare componenti di reddito (di regola plusvalenze) in totale assenza di atti di realizzo, con riferimento a beni che non sono mai stati alienati dalla citata società e che pertanto sono ancora presenti nel suo patrimonio.

Per contro, qualora si affermi che la regola sull’elusione è riconducibile al comparto delle disposizioni procedimentali e riferibile, dunque, all’attività dell’Amministrazione finanziaria o, se vogliamo, all’esercizio del potere da parte di quest’ultima, potremmo immaginare un contesto nel quale la dichiarazione rimane fedele, anche se, parallelamente, il fisco interviene per contestare l’inopponibilità dei vantaggi fiscali. Non ci sarebbe, dunque, una vera e propria rettifica della dichiarazione ma una semplice contestazione, nel contesto di un intervento correttivo del fisco, di vantaggi asistematici che non possono essere riconosciuti al contribuente.

3. La declinazione procedimentale dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 (e anche dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, nel testo risultante dallo schema di decreto delegato approvato con atto del Governo n. 163 del 21 aprile 2015)

Ci sono molteplici argomenti che depongono a favore della connotazione procedimentale della disposizione riguardante l’elusione tributaria (art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). Li richiamo, rapidamente, qui di seguito.

Primo. L’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 stabilisce, al secondo comma, che l’Amministrazione finanziaria disconosce i vantaggi, mentre non è affatto previsto che il contribuente proceda all’auto-disconoscimento dei vantaggi tributari elusivi. Il dato testuale è molto chiaro. Aggiungiamo che l’articolo di cui stiamo parlando non è collocato nel testo unico delle imposte sul reddito (vale a dire nel naturale recinto delle disposizioni sostanziali), ma nel quadro delle disposizioni che si occupano dell’accertamento e, segnatamente, nel comparto di quelle che conferiscono al fisco particolari poteri di controllo. Analoga previsione si trova nel primo comma dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, nel testo risultante dallo schema di decreto delegato approvato dal Governo il 21 aprile 2015.

Secondo. L’art. 37-bis contiene indicazioni specifiche riguardanti gli accertamenti in materia di elusione fiscale. Per i soli provvedimenti che si collocano nello spettro applicativo di questa disposizione sono previste peculiari regole quanto al contraddittorio anticipato e alla motivazione dell’atto. È infatti stabilito, a pena di nullità dell’avviso di accertamento, che quest’ultimo sia preceduto da una richiesta di chiarimenti e che delle risposte offerte dal contribuente l’Amministrazione finanziaria tenga conto, di nuovo a pena di nullità, nella motivazione del successivo provvedimento. Nello stesso senso anche l’art. 10-bis citato, ai commi 6 e seguenti, dove è chiaramente stabilito che l’elusione sia accertata con “apposito atto”; che il provvedimento impositivo sia preceduto dalla richiesta di chiarimenti; che lo stesso provvedimento sia motivato anche in ragione dei chiarimenti offerti dal contribuente.

Ribadisco che si tratta di regole procedimentali del tutto peculiari, inadatte a una disposizione di tipo sostanziale, il cui funzionamento non può essere fisiologicamente subordinato al preventivo confronto tra fisco e contribuente e tanto meno alla formazione di un provvedimento impositivo. Si tratta inoltre di regole circoscritte agli accertamenti funzionali al contrasto dell’elusione e del tutto assenti quanto agli atti notificati per contrastare l’evasione fiscale. Non ci troviamo perciò alla presenza di una sottospecie degli ordinari accertamenti tributari (12). Al contrario, dal punto di vista della struttura della disposizione, pare che il legislatore abbia delineato, limitatamente all’elusione, un procedimento speciale rispetto ai procedimenti generali (o tradizionali) deputati alla contestazione di fattispecie di evasione fiscale (13).

Terzo. Chi afferma che la disposizione sull’elusione dovrebbe essere apprezzata sul piano sostanziale dovrebbe darsi carico di illustrare le ragioni per le quali la stessa disposizione preveda, nel suo ultimo comma, la possibilità di disapplicazione soltanto con riferimento alle disposizioni sostanziali dotate di funzione antielusiva (testualmente, si tratta delle disposizioni che «limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario»). Nel procedere in questa direzione (quella – come detto – della natura sostanziale dell’art. 37-bis), non si comprenderebbe per quale motivo il contribuente potrebbe, in sede d’interpello, dimostrare che un’operazione riconducibile al comma 8 sarebbe sguarnita di effetti elusivi, ottenendone perciò la disapplicazione, mentre non potrebbe fare altrettanto per le fattispecie riconducibili ai primi sette commi, per le quali si potrebbe soltanto proporre un interpello non disapplicativo ai sensi dell’art. 21 della legge 30 dicembre 1991, n. 413. La disapplicazione delle disposizioni sostanziali antielusive è confermata anche dall’art. 1, comma 3, dello schema di decreto delegato del 21 aprile 2015.

Quarto. Chi afferma che la disposizione sull’elusione è espressione di una regola sostanziale dovrebbe altresì spiegare come tale linea argomentativa possa giustificarsi con riferimento ai tributi che non prevedono la presentazione della dichiarazione (per esempio, l’imposta di registro, dove non abbiamo la dichiarazione, ma solamente l’atto da sottoporre a registrazione) e per i quali, dunque, non si può certamente prefigurare un obbligo conformativo in capo al contribuente (14).

Possiamo allora immaginare l’esistenza, nel nostro sistema, di accertamenti che non siano funzionali, come è stato tradizionalmente considerato, alla rettifica della dichiarazione? A mio avviso la risposta può essere positiva.

Sul versante funzionale, oggi disponiamo di provvedimenti molto diversi da quelli che abbiamo conosciuto all’indomani della riforma del 1973, quando non esisteva una disposizione analoga all’attuale art. 37-bis. Oggi possiamo imbatterci sia in accertamenti deputati alla rettifica della dichiarazione, in quanto correlati a fattispecie di evasione, sia in avvisi di accertamento che, pur non rettificando nulla, dichiarano l’inopponibilità al fisco di un determinato vantaggio tributario. Questi ultimi provvedimenti sono pertanto compatibili con una dichiarazione fedele e sono produttivi – come detto – di effetti in punto di mera inopponibilità del risparmio d’imposta asistematico conseguito dall’elusore (15).

4. Il carattere procedimentale dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 e le sanzioni penali

I ragionamenti qui sopra esposti si adattano alla questione delle sanzioni penali. Nell’esaminare l’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 rileviamo come la disposizione sia incentrata sul dolo specifico di evasione, non già sul dolo specifico di elusione. Il lettore rammenti che l’art. 4 citato è stato scritto dopo l’entrata in vigore dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, quando nell’ordinamento era già diffusa l’idea della differenza tra evasione ed elusione. Ciò non ha impedito alla giurisprudenza di affermare, in alcuni casi, che nel contenitore dell’evasione può collocarsi anche l’elusione, in forza degli artt. 1 e 16 del D.Lgs. n. 74/2000.

Ribadisco che le definizioni di cui all’art. 1 del D.Lgs. n. 74/2000 si riferiscono, quanto alla configurazione dell’imposta evasa, alla differenza tra imposta accertata e imposta dichiarata. Sottolineo, però, che anche le definizioni sono contenute in “disposizioni” e che anche queste ultime, quindi, devono essere interpretate (16). Nel muovere in questa direzione, non si può accettare un risultato ermeneutico che collochi sullo stesso piano (e riservi), alla fine, i medesimi effetti a fattispecie così diverse l’una dall’altra.

È vero che l’evasore e l’elusore “pagano di meno” e, in definitiva, si garantiscono, attraverso il loro comportamento, una riduzione del carico fiscale. Tuttavia si tratta di risparmi notevolmente diversi. Infatti l’evasore riduce il proprio carico fiscale attraverso l’occultamento di ricchezza concretamente prodotta, emersa attraverso operazioni reali (si pensi, ad esempio, a un ricavo oppure a una plusvalenza non contabilizzata; oppure a costi fittizi, che riducono l’utile di esercizio). L’elusore, invece, paga di meno rispetto a un’operazione che non ha mai posto in essere, ma che avrebbe dovuto perfezionare stando alla linea accusatoria del fisco: paga di meno, in conclusione, rispetto a un’operazione che non esiste “in natura”, in quanto, per l’appunto, mai realizzata.

Ritorno all’esempio proposto in apertura della mia relazione. Quando l’Amministrazione finanziaria sostiene che la scissione parziale seguita dalla vendita delle partecipazioni della scissa o della beneficiaria va trattata come la vendita dei beni di primo grado presenti nel patrimonio della società, essa manda a tassazione un’operazione (la vendita dei citati beni di primo grado) che quella società non ha mai posto in essere. Per questo si dice che nell’elusione si applica uno schema di tassazione differenziale. “Differenziale” significa che si colpisce l’operazione elusa (quella che il contribuente non ha mai realizzato) e si detassa l’operazione elusiva (vale a dire l’operazione concretamente perfezionata), scomputando l’imposta già versata su quest’ultima dalla maggiore imposta dovuta sulla prima. Il fisco acquisisce, pertanto, soltanto la differenza tra le due imposte.

5. L’abuso del diritto come prodotto giurisprudenziale e profili sanzionatori

A maggior ragione non può esserci l’irrogazione delle sanzioni (tributarie o penali) nel caso dell’abuso del diritto, trattandosi di un prodotto giurisprudenziale, non già legislativo. Qui entra in gioco il principio di legalità.

Il principio del divieto di abuso nasce infatti nelle aule giudiziarie (domestiche ed europee), non già nel Parlamento, con l’obbiettivo di contrastare fattispecie che, nel momento in cui sono stati formulati i provvedimenti impositivi, non avrebbero potuto essere affrontate attraverso la disposizione sull’elusione. Rammento che l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973 è entrato in vigore nel 1998 e che il terzo comma della disposizione circoscrive lo spettro applicativo della norma alle sole operazioni ivi contemplate; inoltre ci sono imposte per le quali la disposizione non si applica, come, per esempio, l’IVA.

Per questo motivo la definizione dell’abuso è stata costruita sulla definizione di elusione. Ed è per questo che l’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, nella versione risultante dall’art. 1 dello schema di decreto delegato approvato il 21 aprile 2015, va nel senso della fusione delle due nozioni (da un lato quella di elusione; dall’altro quella di abuso). In entrambe ritroviamo, quali elementi costitutivi, il vantaggio tributario e la sua asistematicità. In entrambe è presente, poi, l’esimente delle valide ragioni economiche. Nella nozione di abuso è stato inserito il riferimento all’uso distorto di strumentazione giuridica, con conseguente restringimento del campo di applicazione del principio. Non ci si è adeguatamente soffermati – io credo – sul fatto che nell’elusione e nell’abuso contano i risultati conseguiti, non i percorsi (diretti o indirettti; normali o abnormi; lineari o arzigogolati) che si sono abbracciati per raggiungerli. A meno che non si voglia dire – ma sarebbe opportuna una puntualizzazione al riguardo – che l’abnormità del percorso rileva come elemento indiziario, sempre che non si giustifichi sulla base di valide ragioni economiche.

Si comprendono in questa prospettiva le sentenze che escludono la responsabilità penale nei casi di abuso e che, invece, la confermano (sia pure in modo erroneo, stando a quanto ho cercato di evidenziare più in alto) in caso di elusione, per il solo fatto che quest’ultima sarebbe dotata di una disposizione di riferimento (l’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973).

La giurisprudenza degli ultimi anni non ha chiarito (né poteva chiarire) questi aspetti. Non c’è stata insomma quella sistematizzazione dei concetti che avrebbe permesso di costruire una solida cornice teorica e avrebbe contribuito a risolvere il problema delle sanzioni riferibili alla fattispecie elusiva. Esistono, al riguardo, casi emblematici nei quali, pur a fronte di chiare e inequivocabili fattispecie di evasione, le sentenze risolvono la questione evocando, in modo un po’ disordinato, l’abuso del diritto (17).

La motivazione di quelle sentenze non ha fatto altro che immettere negli schemi di ragionamento l’idea – già individuata nell’avvio di questa relazione – della sanzione come naturale conseguenza dell’elusione e dell’abuso. La mancata riflessione sulle differenze tra evasione, elusione e abuso ha prodotto le condizioni per la deresponsabilizzazione dell’Agenzia delle entrate e per la conseguente, automatica irrogazione delle sanzioni. Ciò, come detto, in ragione dell’esistenza di un mero scarto tra l’imposta risultante dall’accertamento e quella risultante dalla dichiarazione.

Torno però all’abuso del diritto quale prodotto giurisprudenziale. Il principio di legalità si oppone all’idea dell’applicazione delle sanzioni tributarie e penali ai casi di abuso del diritto. Non si può essere puniti sulla base di principi immanenti: serve, invece, una disposizione la quale indichi sia il fatto illecito sia la sanzione da applicare a tale fatto.

Non basta sostenere, come si potrebbe argomentare dalle sentenze a Sezioni Unite del 2008 (18), che nell’abuso del diritto sarebbe violato l’art. 53 Cost., il quale impone la tassazione in base a capacità contributiva. Non convince lo schema del diretto accesso giurisprudenziale ai principi del quale si è detto sopra. Basti ricordare, al riguardo, che qui non siamo di fronte a una disposizione sostanziale rivolta al contribuente, bensì a disposizione di garanzia rivolta al legislatore. Si tratta, in altre parole, di una regola che si occupa dell’esercizio della potestà impositiva, non di uno strumento del quale il magistrato può autonomamente servirsi per individuare obblighi non radicati nella legislazione. Spetta in altre parole al legislatore la scelta dell’imposta e l’identificazione delle caratteristiche del tributo. Ma a condizione che, nel plasmare la sua creatura, egli rammenti che la tassazione deve pur sempre riguardare fattispecie indicatrici di forza economica.

Nemmeno convince l’idea del principio del divieto di abuso quale canone interpretativo (19) sia esso rivolto alle disposizioni sostanziali oppure ai contratti conclusi dal contribuente.

Quanto alle disposizioni tributarie sostanziali, l’impiego dell’argomento abusivo trasformerebbe ogni eventuale rilievo in un rilievo di evasione. Ma ciò sarebbe in contrasto con la declinazione del nostro ordinamento giuridico, nel quale la distinzione tra elusione ed evasione è prevista e ben radicata nel sistema.

Quanto ai contratti, non bisogna a nostro avviso accedere a uno schema interpretativo che ammetta, in una prospettiva anti-abuso, l’idea della piena equivalenza in punto di tassazione tra fattispecie economicamente uguali, senza considerare gli schemi giuridici adottati dalle parti per il conseguimento di tali fattispecie. Portare il discorso sulla mera equivalenza economica delle operazioni significa banalizzare l’autonomia contrattuale, scindendo gli aspetti giuridico-formali da quelli economico-sostanziali (20) e costringendo i contribuenti, che abbiano preso parte a una determinata sequenza negoziale, a versare imposte su operazioni che essi non hanno voluto e che nemmeno hanno effettuato. È importante, dunque, valorizzare le tipologie negoziali adottate dai contribuenti. Codeste forme giuridiche non sono altro che il frutto della selezione dei fatti economici eseguita dal legislatore sulla base dell’art. 23 Cost. e su di esse (forme) il contribuente ripone il proprio affidamento quanto al carico fiscale che lo riguarda (21).

Con il disconoscimento di tali forme, pur circoscritto ai profili fiscali, non ci si limita a far derivare dal testo della disposizione un particolare effetto tributario, ma ci si spinge, invece, verso quello smantellamento degli effetti giuridici che noi chiamiamo “inopponibilità”. L’“inopponibilità” è il cuore dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto. Ma una conseguenza di tale portata non può essere lasciata nelle mani dell’interprete: quest’ultimo non può assumere il ruolo di arbitro del bene e del male, vale a dire di unico soggetto deputato a stabilire se i contratti di volta in volta stipulati (e – si noti – dei quali non sia stata accertata la simulazione) siano o meno meritevoli di tutela (22). Gli effetti prodotti dalle forme giuridiche utilizzate dal contribuente non possono quindi essere rimossi in via interpretativa, ma soltanto attraverso una disposizione che tale rimozione consenta sotto forma, appunto, di “inopponibilità” al fisco (23).

L’interpretazione dei contratti attenta ai principi costituzionali non può, pertanto, essere “monolitica”, costruita unicamente sul binario degli artt. 3 e 53, dovendo, al contrario, dimostrare quell’equilibrio che è indispensabile per garantire, nel quadro generale della giustizia tributaria, la certezza nei rapporti tra fisco e contribuente. Insomma, l’uguaglianza e la capacità contributiva inglobate nel canone interpretativo non possono trasformarsi in un “livellatore cieco” e non possono distruggere (24) quell’affidamento sul carico fiscale dell’operazione effettuata che è garantito attraverso il rispetto del principio della riserva .

Prof. Mauro Beghin

Università di Padova

 

(1) Ciò è accaduto anche nel caso affrontato attraverso Cass., sez. trib., 6 marzo 2015, n. 4561, in questo stesso fascicolo a pag. 857.

(2) Per una parte della dottrina la distinzione tra abuso ed evasione potrebbe anche non esistere, perché l’abuso descriverebbe la condotta, mentre l’evasione esprimerebbe il risultato. Con la conseguenza, a questo punto, che le sanzioni tributarie e quelle penali sarebbero in ogni caso sacrosante. Sul punto Giovannini, Il diritto tributario per principi, Milano, 2014, 133.

(3) Di tale disinteresse dà atto La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, in Riv. dir. trib., 2014, I, 500 e ss.

(4) Cicala, Attività di accertamento e contraddittorio amministrativo: verso un nuovo intervento delle sezioni unite, in Boll. Trib., 2015, 86 e ss.; e ID., Il diritto dei tributi fa i conti con giudizi imprevedibili, in Il Sole 24 Ore del 31 marzo 2015, 46.

(5) Cicala, Il diritto dei tributi, cit.

(6) Mi riferisco all’art. 1 del D.Lgs. 18 settembre 1997, n. 471.

(7) Per le quali si veda, quanto alle definizioni, l’art. 1, lett. f), del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74.

(8) Il problema è segnalato da Parlato, Le definizioni legislative nel sistema penale tributario, Bari, 2012, 109 e ss.

(9) Per Giovannini, Il diritto tributario, cit., 132, la questione della qualificazione delle norme sull’abuso come sostanziali o procedimentali sarebbe da ricondurre alle problematiche di “lana caprina”, salvo poi riconoscere che non è punibile il comportamento abusivo in sé, «ma l’infedeltà della dichiarazione come fattispecie conseguente». Ritorniamo in questo modo al punto di partenza. La dichiarazione è infedele quando il contribuente, obbligato a riportare nella propria scheda fatti economici e qualificazioni giuridiche riferibili ai suddetti fatti, non procede affatto in tale direzione, finendo così per indicare una base imponibile o un’imposta inferiore rispetto a quella che egli avrebbe dovuto esporre. Da qui la nostra idea secondo la quale, nell’affrontare il problema delle sanzioni, è indispensabile esaminare in primo luogo il rapporto tra fattispecie elusiva e obblighi dichiarativi.

(10) L’identificazione dell’operazione elusa e dell’operazione elusiva non è affatto semplice, se non altro in ragione della mancanza di criteri di comparazione tra la prima e la seconda. A nostro modo di vedere, le due operazioni devono condurre a risultati simili dal punto di vista economico-giuridico. Anche su questo fronte, però, non sono mancate preoccupanti oscillazioni giurisprudenziali. Vedi ad esempio, al riguardo, la recente sentenza che equipara, ai fini dell’IVA e dell’imposta di registro, la vendita di quote societarie rappresentative del capitale di una società proprietaria di terreni alla vendita di questi ultimi beni: Cass., sez. trib., 15 gennaio 2014, n. 653, in Boll. Trib. On-line.

(11) Di ciò si duole anche Guidara, Sulla sanzionabilità delle condotte elusive nel quadro della nuova legge delega, in Riv. dir. trib., 2014, I, 415 e spec. 425, dove l’Autore afferma che non si potrebbe «concepire un obbligo di dichiarazione che riguardi componenti reddituali ipotetiche, derivanti cioè da fatti non avvenuti o diversi da quelli avvenuti, che il contribuente sarebbe chiamato a ricostruire nel rispetto dello “spirito” della norma, anche se in contrasto con il suo significato palese»; su questa linea, peraltro, ci eravamo espressi in Beghin, L’elusione tributaria tra sviste interpretative sul concetto di “aggiramento” e conseguenti fenomeni di “illusione ottica” quanto all’asistematicità dei vantaggi fiscali conseguiti, ivi, 2007, II, 237 e ss., pubblicato anche in Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013, 173 (e vedi spec. 176).

(12) Come sottolinea, in modo condivisibile, La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo, cit., 500 e ss.

(13) Rinvio a Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 18.

(14) Anche coloro che vedono nell’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, una “norma sulle norme” sono costretti a riconoscere che, «Dal punto di vista soggettivo, queste clausole hanno poi i loro effettivi destinatari nelle autorità istituzionalmente investite del compito di applicare le norme, solo di riflesso riverberandosi sulla posizione di quanti della disapplicazione antielusiva debbono subire le conseguenze». In questo senso La Rosa, Elusione e antielusione fiscale, in Riv. dir. trib., 2010, I, par. 3.

(15) Si tratta di considerazioni già presenti nel nostro Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 18, dove avevamo osservato, segnatamente, che «In taluni casi (ed ecco la specialità dell’accertamento dell’elusione tributaria), l’accertamento officioso può svolgere la mera funzione di dichiarare l’inopponibilità dei vantaggi ai quali si è più volte fatto riferimento in questo scritto. In questa prospettiva, la convivenza tra dichiarazione fedele e accertamento elusivo giustifica la non irrogazione delle sanzioni amministrative e consente di tenere ben separate le fattispecie di evasione fiscale da quelle di elusione tributaria». Questa linea argomentativa è accolta anche da La Rosa, L’accertamento tributario antielusivo, cit., 504, dove l’Autore così si esprime al riguardo: «Il referente fondamentale delle clausole antielusive deve quindi ritenersi costituito da condotte che sono di per sé rispettose delle discipline tributarie, e conseguentemente estranee all’area di operatività delle disposizioni regolatrici degli ordinari accertamenti tributari, oltre che delle misure sanzionatorie (amministrative e penali) previste per gli illeciti fiscali».

(16) Il problema è rapidamente evocato anche da Parlato, Le definizioni legislative, cit., 12.

(17) Si veda, al riguardo, Falsitta, Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, II, 349 e ss.; La Rosa, Elusione e antielusione fiscale, cit., 931 e ss. Vedi anche Beghin, La cassazione prosegue nell’opera di «cesellatura» della nozione di abuso del diritto, in Corr. trib., 2010, 1347 ss., in nota a Cass., sez. trib., 26 febbraio 2010, n. 4737; e ID., Fatti economici «apparenti» e obbligazione tributaria: l’abuso del diritto entra nel «recinto» della simulazione, in Riv. giur. trib., 2010, 217 e ss., in nota a Cass., sez. trib., 30 novembre 2009, n. 25127.

(18) Il riferimento va a Cass., sez. un., 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057, rispettivamente in Boll. Trib., 2009, 484, in Boll. Trib. On-line, e in Boll. Trib., 2009, 481, e anche in Corr. trib., 2009, 403 e ss., con commento di Lupi-Stevanato, Tecniche interpretative e pretesa immanenza di una norma generale antielusiva.

(19) Vedi al riguardo, per esempio, Cass., sez. trib., 29 settembre 2006, n. 21221, in Boll. Trib. On-line. Si veda altresì Beghin, L’abuso del diritto tra capacità contributiva e certezza dei rapporti fisco-contribuente, in Corr. trib., 2009, 823, in nota a Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, quest’ultima anche in Boll. Trib., 2009, 486. Nella sentenza da ultimo citata si afferma che «vi è stretta correlazione tra condotta ipoteticamente elusiva e “portata” dell’inerenza che sottende l’applicabilità di meccanismi di detrazione e compensazione nella formazione del reddito di impresa, tanto implicando che i due fenomeni non possano essere vagliati l’uno indipendentemente dall’altro» (punto 4); il corsivo è nostro e ha la funzione di sottolineare come, nello schema mentale della Suprema Corte, l’inerenza possa rappresentare nulla più che un tassello del quale la società potrebbe essersi servita per ottenere vantaggi fiscali illegittimi. Se ben abbiamo compreso, i magistrati ritengono che si possa eludere anche attraverso l’abusiva applicazione delle disposizioni sostanziali: da qui, appunto, l’antidoto dell’interpretazione in chiave anti-abuso.

(20) Esattamente, in questo senso, La Rosa, Elusione e antielusione fiscale, cit., 933.

(21) Nello stesso senso De Mita, Abuso di diritto, il pragmatismo della Cassazione, in Il Sole 24 Ore del 26 gennaio 2009, 26.

(22) In questo senso Melis, Sull’“interpretazione antielusiva” in Benvenuto Griziotti e sul rapporto con la Scuola tedesca del primo dopoguerra: alcune riflessioni, in Riv. dir. trib., 2008, I, 413 e ss. espec. 453. Non condividiamo l’idea stando alla quale lo strumento di selezione dei contratti suscettibili di tutela da parte dell’ordinamento potrebbe essere rappresentato dal principio della buona fede oggettiva, come ritiene Giovannini, Il diritto tributario, cit., 124 e ss. Infatti, nel porre al centro del giudizio sulla elusività di una fattispecie la regola generale che consiste nel “comportarsi bene”, v’è il concreto pericolo di non distinguere la pianificazione lecita dalla pianificazione elusiva o abusiva, con la conseguenza che qualsiasi risparmio d’imposta potrebbe essere, a questo punto, contestato.

(23) Melis, L’interpretazione nel diritto tributario,

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Padova, 2003, 274.

(24) Questo aspetto è evidenziato da Moschetti, La capacità contributiva. Profili generali, Padova, 1993, 15 e 16. Il chiaro Autore, nel cimentarsi sulla questione dei risparmi fiscali conseguiti nel quadro della libera esplicazione dell’autonomia privata, giunge alla seguente, inequivocabile conclusione: «è ben vero che come conseguenza della elusione alcune manifestazioni di capacità contributiva (che dovrebbero essere colpite) non vengono assoggettate a tassazione, ma il vizio è l’assenza di norma di legge (richiesta nella specie non solo ex art. 23, ma anche ex art. 3 e 53 Cost.) non sussiste dunque la scorciatoia della nullità contrattuale ma l’eccezione di illegittimità costituzionale per carenza della norma impositiva laddove non prevede la tassazione di fattispecie analoghe a quelle tassate». Anche nella prospettiva del Moschetti, pertanto, nel contrasto all’elusione fiscale risulta fondamentale il passaggio ex art. 23 Cost. (anche se, evidentemente, il chiaro Autore così si esprimeva prima dell’entrata in vigore dell’art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973, del quale, implicitamente, lamentava la mancanza. L’Autore è tornato sulla questione con lo scritto Abuso del diritto: la parola al legislatore, in Il Sole 24 Ore del 16 marzo 2009, dove puntualizza che «i principi costituzionali devono essere invocati nella loro globalità e la lettura sistematica indica che il “fondamento” … delle “norme impositive” e delle norme (in senso lato) “di favore” è la legge (ex art. 23 della Costituzione), mentre il principio di capacità contributiva è condizione di legittimità delle stesse. Non è cosa da poco, perché se si salta il passaggio attraverso la legge il giudice (ancorché per fini di giustizia sostanziale) sostituisce la voluntas propria alla legge, che è frutto di pesi e contrappesi, di bilanciamento di criteri di giustizia con esigenze di certezza del diritto». La linea seguita dal chiaro Autore è condivisibile. Il rispetto del principio di capacità contributiva non deve scardinare il principio della certezza nei rapporti fisco – contribuente. Sul punto, in senso conforme, Fedele, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino, 2005, 61.

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