SOMMARIO: 1.il divieto dello ius novum in appello;1.1Inquadramento del problema; 1.2. Definizione del problema in forza del parallelo con il regime del giudizio civile e del nuovo processo amministrativo; 1.3.Elementi costitutivi e caratterizzanti dei motivi – 2.l’eccezione di decadenza dell’azione finanziaria.
1.il divieto dello ius novum in appello
1.1. Inquadramento del problema
L’art. 57 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – l’unica prescrizione del codice di rito tributario che, inclusa nella Sezione II (Il giudizio di appello davanti alla commissione tributaria regionale) del Capo III (Le impugnazioni), tocca, esaurendolo, l’argomento – non allude, per sancirne l’inammissibilità in caso di novità, ai motivi del ricorso in appello (in gergo tecnico: la causa petendi); pone invece mente, in via esclusiva, alle domande ivi svolte (il petitum), investe cioè il contenuto dei provvedimenti di riforma invocati nell’occasione [1]. Detto altrimenti, il legislatore ha proibito l’alterazione (o meglio: l’allargamento; non certo, se e quando possibile, la riduzione vuoi quantitativa vuoi qualitativa) delle domande formulate nell’atto introduttivo della lite, mentre non si è espresso circa i motivi, ovverosia le ragioni che sorreggono la richiesta o le richieste [2]. Categoria di profili, questa seconda, nettamente stagliata e tecnicamente autonoma, ergo aperta a un regime giuridico potenzialmente diverso, soprattutto se si pensa che l’inammissibilità è, sul terreno processuale, la sanzione più esiziale in quanto a) irrimediabile attraverso la condotta processuale successiva (si pensi al disposto dell’art. 156 c.p.c.) nonché b) attinente a difetti rilevabili anche d’ufficio; conclusivamente, essa è applicabile solo ai casi espressamente enunciati [3].
Con un recente arresto [4], invero laconico,la Suprema Corte ha affermato che l’erronea assimilazione delle due figure (i motivi e le richieste), che pure concettualmente si uniscono nel qualificare le attese del promotore del confronto, comporta l’illegittimità della decisione adottata perché inficiata di violazione di legge, vizio deducibile in sede di legittimità.
In realtà, il discorso è assai più complesso, in quanto, sulla scorta della premessa che «nel procedimento [tributario] d’appello si osservano in quanto applicabili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione» (art. 61), occorre riprendere in mano le regole generali del processo tributario e da lì ripartire. A cominciare da quella per cui il gravame deve contenere i motivi [art. 18, secondo comma, lett. e)], con conseguente cristallizzazione in parte qua della lite, tant’è vero che, già in primo grado, l’integrazione dei motivi è sì ammessa, ma eccezionalmente e solo ove sia «resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione» (art. 24, secondo comma) [5].
A soccorrere interpreti e operatori giunge un importante elemento, il fatto cioè che, nelle tre branche processuali contigue (civile, amministrativa, tributaria), il trattamento giuridico della materia è, fin dal dettato letterale, sostanzialmente identico e pertanto le conclusioni raggiunte in seno all’una trovano, per proprietà transitiva, tendenziale cittadinanza anche nelle altre. Senza dire della prescrizione per cui «i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile» (art. 1, secondo comma, del D.Lgs. n. 546/1992); ciò che vale pure per l’asse giudizio civile-giudizio amministrativo, come discende dal primo comma dell’art. 39 (Rinvio esterno) del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 («Per quanto non disciplinato dal presente codice [processuale amministrativo] si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali»).
Non dandosi – come subito constateremo – alcuna contraddizione fra i tre ordinamenti, anzi registrandosi una pressoché perfetta specularità, fra gli stessi si stabilisce, in parte qua, una piena conformità di intenti, arricchita dal consentito travaso di esperienze.
1.2. Definizione del problema in forza del parallelo con il regime del giudizio civile e del nuovo processo amministrativo
Per convincersi dell’assunto, si osservi il seguente prospetto delle regole dettate nei tre diversi ambiti riportato sottostante.
Per definire le caratteristiche, nell’ambito del rito tributario, delle due nozioni, quella di domanda nuova e quella di motivo nuovo, è dunque possibile attingere ai precorsi maturati negli altri due riti.
Pronunciandosi sull’onere di specificazione dei motivi d’appello, vincolo statuito dall’art. 342, primo comma, c.p.c. («L’appello si propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione») [6], l’AGO è ferma nel ritenere che esso «non può essere soddisfatto attraverso un mero e generico richiamo agli atti di primo grado, che prescinda dal contenuto argomentativo della sentenza impugnata, essendo necessaria una contrapposizione argomentativa rivolta al contenuto della decisione impugnata» [7], pur emancipando l’estensore – cioè l’appellante che, con il suo atto, «fissa i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame» [8] – da «qualsiasi particolare rigore di forme» [9] e senza imporgli la redazione di «una parte espositiva formalmente autonoma e unitaria, [perché], in quanto funzionale all’individuazione delle censure mosse dall’appellante, e attesi il carattere devolutivo dell’appello e la mancanza in esso del principio di autosufficienza, tale requisito è soddisfatto mediante il rinvio circostanziato a singoli atti del processo» [10]. Più eloquente ancora il regime processual-amministrativo, ove è previsto che il ricorso in appello contenga, tra l’altro, «le specifiche censure contro i capi della sentenza gravata» (art. 101, primo comma, del D.Lgs. n. 104/2010, come modificato dall’art. 1, primo comma, del D.Lgs. 15 novembre 2011, n. 195) [11].
A loro volta, i trascorsi invalsi nel settore processual-amministrativo – da sempre costanti nel dare ingresso all’art. 345 c.p.c. [12] in quanto norma non espressamente preclusa e non sistematicamente incompatibile – sottolineano l’essenzialità, per la validità del gravame, dell’onere di specificazione dei motivi d’appello in stretto riferimento alla decisione impugnata, «non essendo possibile ritenere tali le deduzioni e difese formulate prima di essa» [13]. Onere che, in vista del suo puntuale assolvimento, esige che «la parte appellata indichi specificamente le censure che intende devolvere alla cognizione del giudice di secondo grado, all’evidente fine di consentire a quest’ultimo una compiuta conoscenza delle relative questioni e alle controparti di contraddire consapevolmente sulle stesse» [14]. Non sfugge dunque alla sanzione di inammissibilità l’impugnazione sorretta dalla mera riproduzione delle censure già formulate in primo grado, posto che quelle «contenute nell’appello, che ha carattere impugnatorio, devono investire puntualmente il decisum di primo grado e, in particolare, precisare i motivi per i quali la decisione impugnata sarebbe erronea e da riformare» [15].
L’onere però «è soddisfatto anche mediante un’esposizione sommaria delle doglianze, purché tale da consentire al giudice del gravame di identificare i punti impugnati e le relative ragioni di fatto e di diritto, atteso che l’art. 342 c.p.c. [implicitamente ritenuto trasmigrabile al rito amministrativo] non comporta una specificazione rigorosa o l’adozione di formule particolari e sacramentali e la valutazione circa il rispetto dell’onere di specificazione dei motivi d’appello va compiuta tenendo presenti le argomentazioni addotte dal giudice di primo grado» [16].
1.3. Elementi costitutivi e caratterizzanti dei motivi
Ciò detto, e guardando alla natura intrinseca del motivo, si apprende che l’inammissibilità del ricorso in appello scatta «quando i nuovi elementi dedotti innanzi al giudice di secondo grado comportino il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato introducendo una pretesa diversa da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è svolto in quella sede il contraddittorio» [17], il che avviene «quando, mediante una sorta di mutatio libelli, venga proposta una censura sostanzialmente diversa da quelle dedotte nel giudizio di primo grado, mentre è ammissibile quando la modifica della domanda iniziale incide sul petitum solo nel senso di adeguarlo in una direzione più idonea a legittimare la concreta attribuzione del bene materiale oggetto dell’originaria domanda» [18].
Mutatio libelli vietata in appello «è solo quella che si traduce in una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introduttiva di un tema di indagine completamente nuovo, in modo da determinare uno spostamento dei termini della contestazione, con la conseguenza di disorientare la difesa della controparte e quindi di alterare il regolare svolgimento del processo; semplice emendatio, pienamente consentita, è invece la modifica che incida sulla causa petendi unicamente nel senso di una diversa interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto e sul petitum al fine di renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere in giudizio» [19]. Meno che meno è domanda nuova in appello l’elaborazione di «argomenti critici addotti a sostegno delle censure rivolte al procedimento logico che sorregge la sentenza impugnata, la cui novità, rispetto alle ragioni poste originariamente a sostegno della domanda, è fisiologicamente connessa alle argomentazioni che sul piano logico-giuridico sorreggono la decisione gravata e all’esigenza di precisare i motivi per cui essa sarebbe erronea e da riformare» [20].
Si noti però come, sempre in contesto amministrativo, sia costante l’indirizzo che circoscrive il divieto di proporre motivi nuovi in appello «al solo ricorrente originario e non anche ai resistenti, che possono addurre qualunque motivo, salve preclusioni previste dalla legge, per dimostrare al giudice di secondo grado l’infondatezza della domanda del ricorrente» [21].
Pollice verso del legislatore tributario anche per la presentazione in appello di prove nuove. L’unica deroga tollerata riguarda le prove la cui produzione in primo grado sia stata resa impossibile da un impedimento non imputabile ei qui dicit (con onere di prova a carico di chi lamenta l’impossibilità) e quelle valutate dall’organo decidente come importanti (“necessarie”, dice la norma, non stricto sensu indispensabili) per raggiungere la verità storica, premendo al sistema di «garantire, per quanto è possibile, l’aderenza della decisione di gravame alla verità sostanziale, in esplicazione del principio del giusto processo sancito dall’art. 111, primo comma, Cost., la cui attuazione postula anche, se non in primo luogo, la tendenziale aderenza del risultato del processo alla verità sostanziale (in punto di fatto) e al diritto oggettivo sostanziale (in punto di diritto)» [22].
Ben maggiore disponibilità ha manifestato il legislatore tributario circa le nuove produzioni documentali, ammettendole in via generale e così capovolgendo la scelta fatta negli altri due riti [23].
2.l’eccezione di decadenza dell’azione finanziaria
Ineccepibile, stando alla dinamica della vicenda processuale illustrata, la decisione sulla questione che fa da sfondo al secondo principio massimato nella citata sentenza n. 1154/2012.
La commissionetributaria regionale non poteva addentrarsi nel vaglio della tardività della iscrizione a ruolo. Essa infatti risultava priva di titolarità in quanto la sentenza portata alla sua attenzione, reiettiva della relativa eccezione, non era stata impugnata. Ciò perché la deduzione in parola assume i connotati dell’eccezione in senso proprio, come tale va dedotta formalmente dalla parte interessata e non può il giudice arrogarsi d’ufficio la competenza, se non a pena di debordare nell’ultrapetizione in forza dell’art. 2938 c.c. [24].
In proposito la giurisprudenza è pacifica [25].
[1] Cfr. s. pansieri, Domande, eccezioni e prove “nuove” in appello. Le questioni ed eccezioni non riproposte, in Boll. Trib., 2011, 181.
[2] I motivi della rivendicazione vanno soppesati in stretto raccordo con l’istituto dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), nel senso che «a nulla rilevano interessi di mero fatto ad un diverso percorso motivazionale rispetto a quello svolto dalla pronuncia favorevole» (Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2011, n. 5434, in Giur. amm., 2011, I, 1613).
[3] Per la verità, il taglio talora dato dal giudice della legittimità si delinea diverso (peraltro, forse, più sul piano formale che altro). Sul punto rimando alla nota 5 e all’orientamento illustrato nella sentenza ivi ripresa.
[5] Nel processo amministrativo, prima della sua ultima riforma, la proponibilità di motivi aggiunti in epoca successiva all’instaurazione del grado di appello veniva in toto esclusa, «anche per l’impugnazione di nuovi provvedimenti emessi in corso di giudizio connessi con l’oggetto del ricorso e concernenti le medesime parti», perché altrimenti sarebbe finita ammessa l’impugnazione per saltum, con ampliamento in corsa dell’oggetto del contenzioso e senza spazio per il doppio grado di giudizio, valore che, pur non costituzionalizzato, detiene pur sempre valenza primaria nel nostro sistema processuale (cfr. Cons. Stato, sez. V, 13 maggio 2011, n. 2892 in Giur. amm., 2011, I, 752; conforme Cons. Stato, sez. IV, 14 gennaio 2011, n. 185, ibidem, 59). Come subito si vedrà dal quadro sinottico pubblicato, il riferimento legislativo è mutato (art. 104, terzo comma, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104).
[6] La Suprema Corte ha avuto modo di affermare che «l’inammissibilità non è la sanzione per un vizio dell’atto diverso dalla nullità, ma la conseguenza di particolari nullità dell’appello e del ricorso per cassazione e non è comminata in ipotesi tassative, ma si verifica ogniqualvolta – essendo l’atto inidoneo al raggiungimento del suo scopo (nel caso dell’appello, [lo scopo di] evitare il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado) – non operi un meccanismo della sanatoria; pertanto, dal momento che solo l’atto conforme alle prescrizioni di cui all’art. 342 c.p.c. è idoneo a impedire la decadenza dall’impugnazione e quindi il passaggio in giudicato della sentenza, l’inosservanza dell’onere di specificazione dei motivi, imposto dall’articolo citato, integra una nullità che determina l’inammissibilità dell’impugnazione, senza possibilità di sanatoria a seguito di costituzione dell’appellato e senza che tale effetto possa essere rimosso dalla specificazione dei motivi in corso di causa» (Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, in Giust. civ., 2000, I, 673).
[7] Cass., sez. lav., 1 dicembre 2005, n. 26192, in Mass. Foro it., 2005, 2000. Conformi Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8487, in Boll. Trib., 2009, 887; Cass., sez. trib., 28 gennaio 2010, n. 1825, ivi, 2011, 1047, con nota adesiva di v. azzoni, La motivazione del ricorso per cassazione, la natura dell’atto tributario e la conoscenza della motivazione dell’atto impugnato; Cass., sez. trib., 20 ottobre 2010, nn. 21514 e 21515, ibidem, 531, con nota adesiva di v. azzoni, Scacco matto per l’Ufficio finanziario; Cass., sez. trib., 30 dicembre 2010, n. 26403, ibidem, 1641; e Cass., sez. trib., 11 febbraio 2011, n. 3326, ibidem, 1654. Da tenere presente che: a) «il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale e assoluta» (Cass., sez. III, 28 novembre 2003, n. 18229, in Mass., 2003); b) il divieto di ius novum in appello è di ordine pubblico perché tutela il doppio grado di giurisdizione, a prescindere dall’eventuale accettazione del contraddittorio da parte dell’avversario (Cass., sez. II, 26 maggio 2004, n. 10146, ivi, 2004; e Cass., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4185, ibidem); c) l’eventuale infrazione «è rilevabile d’ufficio in sede di legittimità, poiché costituisce una preclusione all’esercizio della giurisdizione, che può essere verificata nel giudizio di cassazione (anche d’ufficio) ove sulla questione non si sia formato, pur implicitamente, il giudicato interno» (Cass., sez. lav., 10 aprile 2000, n. 4531, ivi, 2000); d) il giudice che ciò nonostante passi al sindacato del merito incorre nel vizio di ultrapetizione (Cass., sez. III, 2 febbraio 2005, n. 2041, in Mass. Foro it., 2005, 139), posizione simmetrica a quella del giudice che ometta di esprimersi su censure e motivi di impugnazione, la quale anche integra un errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (Cons. Stato, sez. VI, 24 novembre 2010, n. 8217, in Giur. amm., 2010, I, 1308).
[8] Cass., sez. lav., 24 maggio 2001, n. 7088, in Mass., 2001. In dottrina si afferma che «è infatti il contribuente a potersi eventualmente trovare nella condizione di volere modificare la domanda proposta con il ricorso, non l’Amministrazione finanziaria o l’ente locale resistenti, ai quali è in ogni caso precluso modificare le statuizioni recepite negli atti impositivi impugnati dinanzi al giudice tributario» (c. consolo – c. glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2005, 514).
[10] Cass., sez. lav., 20 agosto 2004, n. 16422, in Mass., 2004. Conforme Cass., sez. trib., 3 agosto 2007, n. 17121, in Boll. Trib., 2009, 1129. L’affermazione collima con l’emergenza per cui «nel giudizio di appello, che ha natura di revisio prioris istantiae [e non di novum iudicium], la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi con necessità di esposizione delle argomentazioni svolte in contrapposizione con quelle contenute nella sentenza impugnata» (Cass., sez. II, 27 luglio 2000, n. 9867, in Mass., 2000). Coerente con una tale impostazione è che viene «consentito solo al giudice di primo grado il potere incondizionato di qualificazione della domanda, mentre al giudice di appello, in ragione dell’effetto devolutivo di tale impugnazione e della presunzione di acquiescenza di cui all’art. 329 c.p.c., non è più permesso di mutare ex officio la qualificazione ritenuta dal primo giudice, a meno che questa non abbia formato oggetto di impugnazione esplicita o, quanto meno, implicita» (Cass., sez. II, 30 luglio 2008, n. 20730, in Mass. Foro it., 2008, 1145).
[11] Di spiccato interesse nel nostro settore operativo è il disposto del secondo comma dell’art. 101 del D.Lgs. n. 104/2010: «Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio». Questo, sommariamente, il quadro operativo che ne discende: a) «nel caso in cui appellante sia il ricorrente soccombente in primo grado, le censure contenute nel ricorso introduttivo, assorbite con la sentenza gravata, non possono costituire oggetto di esame nel secondo grado di giudizio se non siano state espressamente riproposte» (Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 14 aprile 2010, n. 498, in Giur. amm., 2010, I, 562); b) «in sede di appello, l’onere di riproposizione dei motivi rimasti assorbiti nella sentenza impugnata esige che la parte appellata indichi specificamente le censure che intende devolvere alla cognizione del giudice di secondo grado, all’evidente fine di consentire a quest’ultimo una compiuta conoscenza delle relative questioni e alle controparti di contraddire consapevolmente; pertanto, un indeterminato rinvio agli atti di primo grado, senza alcuna ulteriore precisazione del loro contenuto, si rivela inidoneo ad introdurre nel giudizio di appello i motivi in tal modo dedotti, trattandosi di formula di stile» (Cons. Stato, sez. III, 13 maggio 2011, n. 2908, ivi, 2011, I, 754; e Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 10 marzo 2010, n. 286, ivi, 2010, I, 395) e ciò faccia «con memoria da depositare, a pena di decadenza, entro il termine utile per la costituzione in giudizio» (Cons. Stato, sez. VI, 5 agosto 2011, n. 4693, ivi, 2011, I, 1302; ved. anche Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2011, n. 2482, ibidem, 607).
[12] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 20 ottobre 2010, n. 7591, in Giur. amm., 2010, I, 1180, che ha deliberato l’inammissibilità del motivo di doglianza proposto per la prima volta in grado di appello.
[13] Corte dei Conti, sez. III centrale, 25 marzo 2011, n. 302, in Giur. amm., 2011, III, 327; e Corte dei Conti, sez. III centrale, 22 febbraio 2011, n. 169, ibidem, 217. Conforme Cass., sez. I, 23 maggio 2006, n. 12140, in Mass. Foro it., 2006, 1033. L’attenzione del patrocinante deve essere massima, se è vero che «è inammissibile il ricorso in appello che non censuri tutti i capi della sentenza impugnata, in quanto il suo ipotetico accoglimento non farebbe venire meno tutti i capi di sentenza non appellati, lasciando così fermo l’esito di annullamento dei provvedimenti impugnati in primo grado» (Cons. Stato, sez. VI, 2 aprile 2010, n. 1895, in Giur. amm., 2010, I, 442).
[15] Cons. Stato, sez. III, 17 ottobre 2011, n. 5550, in Giur. amm., 2011, I, 1664; conforme, Cons. Stato, sez. IV, 23 dicembre 2010, n. 9352, ivi, 2010, I, 1468, che ha dichiarato l’inammissibilità delle censure enunciate mediante la sbrigativa indicazione delle rubriche originariamente prospettate.
[16] Corte dei Conti, sez. III centrale, 7 aprile 2011, n. 351, in Giur. amm., 2011, III, 469. La considerazione assume un particolare rilievo quando l’appellante opera un rinvio generico e indeterminato agli atti del primo grado, modalità costantemente valutata come inidonea a introdurre la domanda relativa nel giudizio di appello, se è vero che «ai sensi dell’art. 101 del d.lgs. n. 104/2010, l’appello non può limitarsi a una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado quando gli stessi sono stati puntualmente disattesi dal giudice, ma deve contenere “specifiche censure contro i capi della sentenza gravata”» (Cons. Stato, ad. plen., 3 giugno 2011, n. 10, in Giur. amm., 2011, I, 665).
[17] Corte dei Conti, sez. I centrale, 3 settembre 2010, n. 503, in Giur. amm., 2010, III, 766; e Corte dei Conti, sez. II centrale, 7 giugno 2010, n. 218, ibidem, 611. Conforme Cass., sez. trib., 26 maggio 2008, n. 13509, in Boll. Trib., 2009, 1297.
[18] Cons. Stato, sez. VI, 24 gennaio 2011, n. 479, in Giur. amm., 2011, I, 114. La decisione ne richiama, pertinentemente, altre tre in termini: Cons. Stato, sez. VI, 28 settembre 2006, n. 5690, in Foro amm. Cons. Stato, 2006, 2637; e Cons. Stato, sez. VI, 1 dicembre 2006, n. 7094, in Giur. amm., 2006, I, 1682; e Cons. Stato, sez. IV, 24 marzo 2009, n. 1772, in Foro amm. Cons. Stato, 2009, 701, secondo il quale ultimo «il divieto dello ius novorum in appello riguarda l’atto amministrativo impugnato e non la sentenza di primo grado, con la conseguenza che esso non concerne le difese e le eccezioni non proposte in prime cure dal resistente in quella sede per respingere la pretesa avversaria».
[19] Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 19 gennaio 2011, n. 55, in Giur. amm., 2011, I, 167, sulla scia di Cons. Stato, ad. plen., 10 novembre 2008, n. 11, ivi, 2008, I, 1489. Conformi Cass., sez. II, 24 novembre 2008, n. 27890, in Mass. Foro it., 2008, 1606; e Cass., sez. I, 10 novembre 2008, n. 26905, ibidem, 1541.
[20] Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 5 febbraio 2010, n. 137, in Giur. amm., 2010, I, 205.
[21] Cons. Stato, sez. VI, 24 febbraio 2011, n. 1154, in Giur. amm., 2011, I, 284; conforme Cons. Stato, sez. IV, 15 settembre 2010, n. 6862, ivi, 2010, I, 1046.
[23] Per i documenti nel giudizio amministrativo vige un divieto di massima che coinvolge anche le prove precostituite, la cui produzione «è subordinata, al pari delle prove costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile che abbia impedito alla parte di esibirle in primo grado ovvero alla valutazione della loro indispensabilità» (Cons. Stato, sez. V, 26 gennaio 2011, n. 541, in Giur. amm., 2011, I, 130; e Cass., sez. I, 13 dicembre 2000, n. 15716, in Mass., 2000). Va da sé che «il potere di apprezzamento di tale necessario presupposto di ammissibilità della prova non è del tutto discrezionale, ma deve essere esercitato secondo criteri logici che il giudice ha il dovere di indicare e che possono essere oggetto di censura in sede di legittimità nei limiti della rilevabilità del vizio di omessa, irrazionale o contraddittoria motivazione» (Cass., sez. III, 31 luglio 2006, n. 17439, in Mass. Foro it., 2006, 1713).
[24] Nel vasto panorama di eccezioni non rilevabili d’ufficio (ergo soggette a divieto di ius novorum) con significativa frequenza si incontra quella relativa alla nullità dell’avviso di rettifica per difetto di motivazione (per tutte Cass., sez. trib., 9 dicembre 2009, n. 25713, in Boll. Trib., 2010, 470, con nota di f. del torchio, Impossibilità incolpevole di fornire la prova documentale: la Corte di Cassazione ammette la testimonianza avanti le Commissioni tributarie.