4 Ottobre, 2016

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1. La sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015 è stata/è una pietra miliare, momento ineludibile della riflessione intorno alla validità degli atti impositivi. Rovello che prende avvio dall’art. 42, primo e terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, alla stregua del cui combinato disposto gli atti in parola devono, pena la nullità, essere sottoscritti dal capo dell’Ufficio finanziario o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (1). Pericoloso però, sul piano ermeneutico, e ancor di più in sede di divulgazione, immischiarla ad ogni passo, in tal modo estendendone significato e portata ben al di là del suo dictum, pur rilevante in virtù dei riflessi abrogativi su tutti i rapporti ancora pendenti (vuoi perché già formalmente contestati, vuoi perché ancora suscettibili di esserlo).
In altre parole: se la corretta lettura di tale sentenza è passaggio imprescindibile in ogni disamina che investa la legittimazione dei sottoscrittori dei provvedimenti tributari (tutti indistintamente, abbiano o no valenza strettamente impositiva), essa talvolta resta sullo sfondo a mo’ di convitato di pietra e non va tirata in causa per i capelli. Tanto meno quando, come ci accingiamo a scoprire, ne deve essere escluso l’utilizzo perché, nell’economia della controversia, emergono premesse e prospettive differenti, tali da relegarla in disparte.
Nel nostro campo, l’ammasso e la confusione sono pessimi consiglieri, soprattutto se alimentano il sospetto che il diritto vivente si sia proposto di abbattere in autunno quanto costruito in primavera. Ben diversamente, le tre sentenze espresse dal “Dirigent Day” (il Lettore scelga a suo piacere la data di riferimento: o il 21 ottobre 2015, per tutte e tre giorno della discussione in pubblica udienza e della decisione in camera di consiglio, o il 9 novembre successivo, comune giorno di deposito) sono, di quella pietra miliare (e del resto inamovibile, dati l’autorità della fonte e gli effetti caducatori in seno all’ordinamento), non la smentita o l’alleggerimento, tutt’altro; piuttosto un’elaborazione che porta al suo provvisorio accantonamento a fronte delle peculiarità concrete delle specifiche vicende (2).

2. La Corte Suprema evita, ad esempio, ogni contaminazione, ogni sovrapposizione laddove afferma che «Nell’applicazione dell’art. 42, primo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, applicabile anche agli accertamenti IVA in quanto l’art. 56 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nel rinviare alla disciplina sulle imposte dei redditi, richiama implicitamente il citato art. 42, occorre tener presente che la delega ivi prevista è altra cosa rispetto alla attribuzione di funzioni dirigenziali attraverso le procedure regolate prima dall’art. 24 del Regolamento [di amministrazione dell’Agenzia delle entrate] e poi dall’art. 8, comma 24, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito con modificazioni dalla legge 26 aprile 2012, n. 44 [Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento], disposizioni entrambe cancellate dalla Corte Costituzionale n. 37/2015 e dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 4641/2015» (3).
Si fa così un primo passo avanti sulla strada della chiarezza: la delega di funzioni è faccenda diversa rispetto ai temi dell’investitura nelle cariche e dell’incardinamento dei preposti agli Uffici cui ha messo mano la Corte Costituzionale, anche se, al pari di quelli, tiene di mira, in buona sostanza, le ricadute in termini di legittimità dei provvedimenti. Più circoscritto, e totalmente avulso da quel monumentale arresto, il nodo del contendere odierno, che – per inciso – avrebbe ricevuto identico responso anche prima della sua pubblicazione. La Sezione Tributaria non fa altro che concentrarsi sul lemma dell’art. 42 che prescrive la sottoscrizione, in alternativa al dirigente, di un «altro impiegato della carriera direttiva». Ora, sono impiegati della carriera direttiva, ai fini che premono, i funzionari della Terza Area (“comprendente le ex posizioni C1, C2 e C3”) di cui al contratto del comparto Agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005 (art. 17), posto che tale locuzione corrisponde a un quid minus rispetto alla locuzione “dirigente”, per quanto abbracci una sfera di operatori di spettro più ampio rispetto ai “funzionari”; ergo la questione dei dirigenti, «in base al principio della tassatività delle cause di nullità degli atti tributari», è estranea alla problematica risolta dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 37/2015. Dove, infatti, era in gioco tutt’altro: non la delega amministrativa per singoli atti, ma il conferimento di uno status complesso, con implicazioni di indole normativo-economica.

3. Evita qualsiasi inframmettenza con l’insegnamento della Corte Costituzionale anche la seconda delle tre sentenze qui considerate (4). Nell’occasione, la Sezione Tributaria si è – diciamo così – limitata (in totale aderenza al perimetro del thema decidendum tracciato dall’atto introduttivo dove «non risulta[va] contestata la carenza di poteri del dirigente delegato») (5) a proclamare la illegittimità della delega impersonale (cosiddetta delega in bianco), quella che, non riportando le generalità del soggetto delegato, inficia per ciò stesso di nullità l’atto impositivo di poi licenziato, vizio non rimediabile neppure attraverso il collegamento per relationem fra costui e la preposizione all’Ufficio (6). In altre parole, non era affatto in discussione la validità della delega in sé, pienamente consentita se adottata «o con atto proprio o con ordine di servizio, purché vengano indicati, unitamente alle ragioni (ossia le cause che ne hanno resa necessaria l’adozione, quali carenza di personale, assenza, vacanza, malattia ecc.), il termine di validità e il nominativo del soggetto delegato». Motivo del contendere era invece l’insufficienza della sola indicazione della qualifica (in luogo del nome e cognome) del destinatario della delega, quand’anche operata ratione officii (7) (collegamento non agevole al profano e a tutti coloro che operano all’esterno della struttura di riferimento, «non essendo ragionevole attribuire al contribuente una tale indagine amministrativa al fine di verificare la legittimità dell’atto»).
Anche qui, pertanto, siamo fuori dal tema dibattuto dalla Consulta. E fuori luogo l’impressione sparsa ai quattro venti proclamando che sono “validi gli atti degli ex dirigenti” (8).

4. Passiamo alla terza sentenza licenziata nel fatidico giorno (9). Il cui biglietto da visita è presto trovato, là (pag. 17) dove si legge che «i due aspetti – quello della dirigenza e quello della validità degli atti anteriormente sottoscritti da impiegati della carriera direttiva, preposti agli uffici finanziari o delegati – non sono in alcun modo confondibili, non essendo previsto che gli avvisi di accertamento [necessariamente] promanino, per essere imputabili all’Amministrazione finanziaria, da soggetti aventi qualifiche dirigenziali». Momento – il primo dei due, quello riguardante l’emissione dell’atto sub iudice a cura di un funzionario delegato da un dirigente carente di potere in quanto «aveva assunto la posizione senza avere superato le procedure di accesso necessarie per legge», che senza alcun dubbio appartiene alla giurisdizione tributaria perché «implica un controllo non sull’organizzazione interna della P.A., ma sulla legittimità dell’esercizio della funzione amministrativa» – subito sparito di scena perché non dedotto per tempo, il che – e qui il magistero si rinnova, fedele a se stesso – elimina in radice lo ius dicendi (10). Con la conseguenza «che rimane irrilevante, ai fini specifici, la sopravvenuta decisione n. 37/2015 della Corte Costituzionale».
Anche qui unicamente conta il fatto che la legge si sia premurata di fissare la qualità professionale del sottoscrittore dell’atto, non necessariamente identificandola nella qualifica dirigenziale, bastando che «anche il capo dell’ufficio sia, al pari del delegato, e al fine di legittimamente sottoscrivere gli avvisi di accertamento, un semplice [sic] impiegato della carriera direttiva». In ossequio al “principio generale” che vuole salvaguardate “peculiari esigenze di stabilità e continuità”.

5. Da notare, in chiusura, come la sentenza n. 22800/2015 (e di rincalzo la n. 22810/2015) contenga un brano illuminante che fa giustizia (si spera definitiva) su un versante, l’onere della prova, a lungo imbarazzante per gli operatori.
Questa la domanda: a chi spetta dimostrare la legittimazione del pubblico dipendente sottoscrittore del provvedimento impugnato? Al contribuente che la confuta oppure all’Amministrazione finanziaria, la quale, evocata in giudizio, ben potrebbe, per riparto delle posizioni nella dinamica dialettica, limitarsi a replicare?
Da qualche tempo sappiamo (11), e ancora una volta qui è stato felicemente riaffermato – forse per scoraggiare i puntuali arroccamenti di un erario che pare non darsene per inteso – che al privato è sufficiente una contestazione “anche in forma generica”, incombendo poi alla pubblica Amministrazione, «che ha immediato e facile accesso ai propri dati, di fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, sia del delegante che del delegato, nonché della esistenza della delega in capo al delegato». Ciò «sia in base al principio di leale collaborazione … sia in base al principio della “vicinanza della prova” in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente l’Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente».
Non è da meno la sentenza n. 22810/2015, la quale accolla all’Ufficio finanziario l’onere di provare «il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’Ufficio», purché però emerga dagli atti di causa che il privato abbia quanto meno «invitato l’Amministrazione a dichiarare quale fosse la qualifica del soggetto delegante e/o del soggetto firmatario dell’atto fiscale».
La prossima frontiera della giurisprudenza è quella che, in onore al precetto di parità delle armi fin dall’inizio delle ostilità, puntellerà il dovere per gli Uffici tributari di chiarire la posizione funzionale del sottoscrittore di ogni atto da loro notificato già nel testo diramato. Se il sistema è in cerca di un altro, congruo strumento deflattivo del contenzioso, eccolo trovato.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Corte Cost. 17 marzo 2015, n. 37, in Boll. Trib., 2015, 790, con nota di V. AZZONI, Atti firmati da dirigenti illegittimi: le Commissioni tributarie tirano le fila della sentenza della Consulta; con essa è stata dichiarata la illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 51 e 97 Cost.: α) dell’art. 8, comma 24, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, primo comma, della legge 26 aprile 2012, n. 44; β) dell’art. 1, comma 14, del D.L. 30 dicembre 2013, n. 150, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, primo comma, della legge 27 febbraio 2014, n. 15; e γ) dell’art. 1, ottavo comma, del D.L. 31 dicembre 2014, n. 192, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2015, n. 11, in quanto, con riguardo al personale dell’Agenzie delle dogane, delle entrate e del territorio, non fissavano un termine certo, preciso e sicuro alla durata di incarichi dirigenziali da coprirsi tramite pubblico concorso e nel frattempo conferiti a funzionari in virtù di una assegnazione solo nominalmente temporanea di mansioni superiori. Immediate quanto ponderate le risposte, sia in dottrina sia in giurisprudenza. Quanto alla prima, ved. C. FERRARI – P. GIUSTO, Risvolti di natura processuale alla luce della sentenza della Consulta sulle norme «salva-dirigenti», in Boll. Trib., 2015, 885; quanto alla seconda, cfr. Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXV, 10 aprile 2015, n. 3222, ibidem, 796, che ha disposto l’annullamento degli atti di accertamento sottoscritti da personale inquadrato nella nona qualifica funzionale e incaricato di funzioni dirigenziali, atteso che i sottoscrittori non erano, all’epoca dei fatti, muniti del potere di sottoscrivere gli atti in reggenza, così come prescritto dall’art. 20, primo comma, lett. a) e b), del D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266. Consolidata e pacifica, sul punto, la giurisprudenza precedente. Per tutte, cfr. Cass., sez. trib., 14 giugno 2013, n. 14942, in Boll. Trib. On-line, che – come avrebbe fatto di lì a breve il giudice delle leggi – radicava la scelta legislativa nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa, poiché una diversa impostazione «permettendo l’attribuzione di incarichi ai funzionari privi della relativa qualifica, [avrebbe consentito] la preposizione ad uffici amministrativi di soggetti privi dei requisiti necessari, determinando una diminuzione delle garanzie dei cittadini fiduciosi in una amministrazione competente, imparziale ed efficiente».
(2) Quanto meno azzardati per eccesso di sopravvalutazione (più probabilmente errori tout court) il titolo e l’occhiello dell’articolo a commento delle recenti novità giurisprudenziali apparso sulla prima pagina de Il Sole 24 Ore di martedì 10 novembre: Fisco, validi i controlli dei dirigenti decaduti – La Cassazione con tre sentenze depositate ieri blinda gli accertamenti dell’Agenzia delle entrate.
(3) Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22800, pubbl. in questo stesso fascicolo della Rivista a pag. 1734, della quale va subito messo in luce un dettaglio procedurale, essere stata sviluppata la motivazione “nell’interesse della legge” ex art. 363, terzo comma, c.p.c.: facoltà oggi rimessa alla Corte anche d’ufficio, ove ritenga che la questione decisa è di particolare importanza (in precedenza, prima della modifica apportata con l’art. 4 del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, la promozione del pronunciamento costituiva potere esclusivo del Procuratore generale presso la Corte stessa). La sentenza del Consiglio di Stato evocata nel testo (sez. IV giur., 6 ottobre 2015, n. 4641, in Boll. Trib. On-line) ripercorre minuziosamente il complesso e frammentato iter che ha condotto alla scelta abrogativa del giudice delle leggi, da quello stesso Consesso invocata e promossa (ordinanza del 26 novembre 2013, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2014). Ad essa dunque si rimanda, non senza sottolineare la pertinenza dei richiami, ivi fatti, a due significativi precedenti della Consulta: sentenze 6 luglio 2004, n. 205, in Giur. cost., 2004, 2230, e 16 maggio 2002, n. 194, ivi, 2002, 1520.
(4) Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22803, pubbl. in questo stesso fascicolo della Rivista a pag. 1737; un fresco e meritorio precedente si rinviene in Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. III, 13 marzo 2015, n. 87, ibidem, 1195, con ampia nota redazionale di taglio favorevole.
(5) Attenzione quindi alla completa prospettazione iniziale delle censure, tenendo conto che ogni eventuale ius novum (sotto forma di novella legislativa o di revirement giurisprudenziale) non permette di rimuovere l’ostacolo decadenziale fissato in tema di motivi aggiunti dall’art. 24, secondo comma e segg., del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. Per una visione globale del problema, ved. D. CHINDEMI, Il principio di non contestazione nel giudizio tributario, in Boll. Trib., 2015, 1373.
(6) Da apprezzare vivamente un profilo che purtroppo in questo scritto deve passare in secondo piano. La sentenza n. 22803/2015 ha fatto totalmente suoi i risultati raggiunti qualche settimana fa dalla stessa Sezione (in diversa composizione: pres. Piccininni, rel. Olivieri; sentenza 18 settembre 2015, n. 18488, in Boll. Trib., 2015, 1584, con nota di V. AZZONI, Annullabilità, nullità e inesistenza dell’atto tributario), ribadendo che, essendo il diritto amministrativo e il diritto tributario due comparti dell’ordinamento pubblico interno senz’altro contigui e da inquadrarsi in un rapporto da genus (la branca amministrativa) a species (la branca tributaria), ma pur sempre diversi, va esclusa l’automatica, pedissequa trasposizione delle regole generali nel settore speciale, ammessa viceversa solo ove non sia riscontrata una deroga espressa o una incompatibilità sistematica. Il che – si dà conferma nella circostanza – ha da valere in particolare per il regime sanzionatorio dei vizi degli atti, in quanto, se il diritto amministrativo conosce la triarchia inesistenza-nullità-annullabilità, sacramentata negli artt. 21-septies e 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, come introdotti dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, non altrettanto si può predicare per il diritto tributario, che al riguardo conosce un solo istituto, l’annullabilità; con la conseguenza ulteriore che, alla stregua dell’art. 42, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973, gli avvisi di accertamento privi dei requisiti la cui omissione è sanzionata con la nullità (fra cui, in primo luogo per quanto qui rileva, la sottoscrizione) non sono esposti al rischio perpetuo della dichiarazione di nullità, ma vanno contestati per tempo (entro il termine abituale di sessanta giorni dalla notifica di cui all’art. 21, primo comma, del già citato D.Lgs. n. 546/1992), pena il consolidarsi a definitività senza alcuna possibilità di recupero in corsa tramite impugnazione dell’eventuale atto consequenziale. Non solo, la doglianza deve essere riprospettata in appello convertendosi in mezzo di impugnazione, pena anche qui il formarsi del giudicato interno, e non può essere sollevata ex officio dal giudice. Il tutto come corollario dell’impianto impugnatorio del rito tributario.
(7) Pur ammettendone expressis verbis la non pertinenza e quindi l’inapplicabilità al caso trattato, la sentenza n. 22803/2015 richiama il tenore dell’art. 4-bis del D.L. 19 giugno 2015, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2015, n. 125 (Disposizioni per la funzionalità operativa delle Agenzie fiscali), che al comma 2 recita: «In relazione all’esigenza di garantire il buon andamento e la continuità dell’azione amministrativa, i dirigenti delle Agenzie fiscali, per esigenze di funzionalità operativa, possono delegare, previa procedura selettiva con criteri oggettivi e trasparenti, a funzionari della terza area, con un’esperienza professionale di almeno cinque anni nell’area stessa, in numero non superiore a quello dei posti oggetto delle procedure concorsuali indette ai sensi del comma 1 e di quelle già bandite e non annullate alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le funzioni relative agli uffici di cui hanno assunto la direzione interinale e i connessi poteri di adozione di atti, escluse le attribuzioni riservate ad essi per legge, tenendo conto della specificità della preparazione, dell’esperienza professionale e delle capacità richieste a seconda delle diverse tipologie di compiti, nonché della complessità gestionale e della rilevanza funzionale e organizzativa degli uffici interessati, per una durata non eccedente l’espletamento dei concorsi di cui al comma 1 e, comunque, non oltre il 31 dicembre 2016. A fronte delle responsabilità gestionali connesse all’esercizio delle deleghe affidate ai sensi del presente comma, ai funzionari delegati sono attribuite, temporaneamente e al solo scopo di fronteggiare l’eccezionalità della situazione in essere, nuove posizioni organizzative ai sensi dell’articolo 23-quinquies, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135». È ivi disciplinato l’istituto della delega nominativa, eletto a requisito irrinunciabile in vista dello scopo costituzionale del buon andamento dell’azione amministrativa, pretendendo esso una selezione del delegato in ragione «dell’esperienza professionale e delle capacità richieste a seconda delle diverse tipologie di compiti, nonché della complessità gestionale e della rilevanza funzionale e organizzativa degli uffici interessati». Un aspetto, quello della interferenza e congruità fra bontà del servizio prestato e qualità della persona addetta, che ridonda sulla affidabilità e sulla credibilità del prodotto, ovverosia, in ultimo, sulla sua intrinseca validità. Aspetto, occorre sottolineare, che è sempre stato e tuttora è ai vertici delle preoccupazioni dei giudici.
(8) Così, a otto colonne, titola Il Sole 24 Ore in testa a pag. 3, dove si legge la prosecuzione interna dell’articolo richiamato sopra alla nota 2.
(9) Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22810, pubbl. in questo stesso fascicolo della Rivista a pag. 1740.
(10) È citata, ex pluribus, Cass., sez. trib., 5 dicembre 2014, n. 25756, in Boll. Trib. On-line.
(11) Cfr. Cass. n. 14942/2013, cit.; nonché Cass., sez. trib., 10 luglio 2013, n. 17044, e Cass., sez. trib., 5 settembre 2014, n. 18758, entrambe in Boll. Trib. On-line.

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