30 Settembre, 2016

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Le recenti sentenze nn. 22800, 22803 e 22810 del 2015 (1) con cui la Corte di Cassazione ha ribadito il proprio orientamento in tema di validità degli atti di accertamento emessi da dirigenti della Agenzia delle entrate la cui nomina risultasse illegittima, hanno suscitato notevole interesse (ed anche un diffuso dissenso) nel mondo degli operatori giuridici e tributari.
In sostanza, la Corte ha escluso che nella applicazione dell’art. 42 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, assumano rilievo le procedure (pur dichiarate illegittime dalla Corte Costituzionale e dalla giustizia amministrativa) (2) attraverso cui è avvenuta la individuazione dei dirigenti della Agenzia delle entrate; e ciò per la radicale circostanza che il citato art. 42 richiederebbe soltanto che il capo dell’Ufficio e gli eventuali suoi delegati si collochino nel così detto “terzo livello” dei funzionari della Agenzia, senza che occorra siano “dirigenti” (3).
A questo risultato la Suprema Corte è pervenuta attraverso un’esegesi strettamente letterale della norma.
La soluzione trova – come già accennato – sostegno in precedenti specifici della Corte, ed ancor più in un orientamento di fondo che esclude che gli atti tributari emessi in violazione di legge siano per ciò solo invalidi (sub specie di nullità o annullabilità poco importa).
Non trova quindi applicazione nel diritto tributario il disposto del primo comma dell’art. 21-octies (relativo alla annullabilità del provvedimento), introdotto nella legge 7 agosto 1990, n. 241, dall’art. 14, primo comma, della legge 11 febbraio 2005, n. 15 (unitamente all’intero capo 4-bis dal titolo «Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo. Revoca e recesso»).
L’articolo 21-octies della predetta legge n. 241/1990, al primo comma, enuncia il principio secondo cui il provvedimento amministrativo è annullabile se «adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza». E solo nel secondo comma è posta una limitata eccezione alla regola scolpita nel primo comma, stabilendo che «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Invece, nel diritto tributario, la Corte di Cassazione ritiene invalidi solo gli atti emanati in violazione di una disposizione di legge o di un principio che comportino (esplicitamente o in via interpretativa) la invalidità degli atti stessi (4) (principio della tassatività delle cause di nullità); e dunque non applica la disposizione secondo cui è comunque invalido ogni atto «adottato in violazione di legge».
Non mi dilungo in una esemplificazione che sfocerebbe in una ampia rassegna di massime essendo abbondante la giurisprudenza che esclude che la nullità possa derivare da un considerevole numero di violazioni di legge (5).
Mi limito a ricordare che non costituisce causa di invalidità la violazione di norme che rispondono ad esigenze interne proprie della Amministrazione (si pensi alle autorizzazioni del superiore gerarchico necessarie per accedere ai dati bancari). Ed ancor più significativa mi pare la circostanza che la giurisprudenza della Corte di Cassazione abbia affermato che in tema di verifiche tributarie, il termine (trenta giorni prorogabili di altri trenta) di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità di tali atti può ricavarsi dalla ratio delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione (6) (7). Ricordo ancora che la giurisprudenza della Corte esclude che la mancata attivazione del contraddittorio amministrativo prima della emissione di atti meramente liquidatori determini la nullità della cartella emessa (8).
La affermata tassatività delle cause di nullità degli atti tributari consente di risolvere molti problemi pratici; invero se si applicasse anche qui il principio della generale invalidità degli atti illegittimi si porrebbe il problema della validità degli atti emessi da un “capo ufficio” illegittimamente preposto a quel compito, in quanto privo della qualifica richiesta dall’ordinamento interno dell’Agenzia delle entrate per assumere la funzione; secondo cui alla gran parte degli Uffici dirigenziali deve essere preposto un vero e proprio “dirigente”. E conseguentemente sarebbe necessario domandarsi se siano validi gli atti emessi da quei dirigenti che siano stati nominati (sia pur solo in via teoricamente temporanea) in forza di una norma regolamentare cancellata dalla giustizia amministrativa o di una norma di legge dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla Corte Costituzionale.
I principi della continuità dell’azione amministrativa e della conservazione degli atti avrebbero probabilmente comunque determinato il rigetto delle impugnative dei contribuenti, in adesione alla giurisprudenza maggioritaria (ma non unanime) (9) della giustizia amministrativa, nonché ad illustri precedenti storici codificati (addirittura) nel Digesto (10).
Il fatto che il problema non sia stato affrontato dalla Corte di Cassazione ribadisce il concetto secondo cui il diritto amministrativo tributario vive ed opera secondo regole proprie e dunque non soggiace né all’art. 21-octies or ora citato né al precedente art. 21-septies della stessa legge n. 241/1990 (relativo alla rilevabilità d’ufficio della nullità degli atti) (11).
Si apre così lo spazio ad una riflessione più ampia. Ed in quest’ottica formulo degli interrogativi, reali e non retorici.
È accettabile che in un settore così delicato dell’attività pubblica il principio della legalità dell’azione amministrativa non sia sorretto da una adeguata sanzione che ricada sulla validità dell’atto?
Non rischiamo così di declassare molte norme di legge a “telum imbelle sine ictu” destinate a determinare esclusivamente una (molto ipotetica) responsabilità disciplinare, che difficilmente scatterà ove la violazione di legge abbia “prodotto” un accertamento fiscale utile?
Mi pare, cioè, qui come in ogni settore del diritto giurisprudenziale (specie tributario), utile una rivisitazione delle impostazioni tradizionali, poste a confronto con il dubbio che costituisce (nelle aree non coperte dalla Fede) il presupposto di qualsiasi riflessione critica.
E mi pare anche – come altra volta ho già sottolineato – che forse non è in gioco solo la posizione patrimoniale di alcuni probabili evasori fiscali; è in gioco la concezione del rapporto fra lo Stato e coloro che allo Stato sono soggetti.
Il rapporto Stato-cittadino (si utilizza il termine cittadino in senso improprio perché coinvolge anche gli stranieri soggetti per qualche aspetto all’autorità dello Stato) è per sua natura un rapporto paritario? O è un rapporto di subordinazione istituzionale?
Nel primo caso, lo Stato ha potere nei confronti del cittadino solo quando questo potere discende da una legge, e quindi la violazione della legge, quando incide sul rapporto Stato-cittadino, determina la mancata attribuzione del potere, il venir meno dello “scudo” legislativo per la pubblica Amministrazione. Per semplificare possiamo parlare di impostazione “garantista”.
Nella seconda prospettiva, le leggi disciplinano un potere dello Stato che non discende dalla singola legge, un potere che è immanente, e quindi il venir meno del potere è un’eccezione, che deve essere prevista esplicitamente dalla legge. In tutti gli altri casi la legge è un mero “disciplinare” interno dell’Amministrazione il cui rispetto il cittadino non ha titolo per esigere. E dunque il dato acquisito “contra legem” è almeno di regola utilizzabile (impostazione “giustizialista”: conta la verità e non il modo con cui essa è stata raggiunta).
Ma questa è filosofia; contraddetta dalla massima, che all’estensore delle presenti notazioni par saggia, “cave a consequentiariis”.
Dico “saggia” perché ritengo – con riflessione ovvia quanto banale – che ciascuna delle due impostazioni rechi vantaggi e svantaggi.
Spesso il garantismo ha un prezzo di verità, cioè comporta il non raggiungimento di un obbiettivo di verità (“verità” si intende fra virgolette, cioè di “quel che al giudice pare la verità”). Mentre il perseguimento della verità ha un “costo” in termini di garanzia (12).

PRIMA POSTILLA: IL SECONDO COMMA DELL’ART. 21-OCTIES DELLA LEGGE N. 241/1990

Ritengo opportuno dedicare qualche specifica considerazione al già ricordato secondo comma dell’art. 21-octies introdotto nella legge n. 241/1990, dall’art. 14, primo comma, della legge n. 15/2005, talvolta invocato dai giudici di merito e dall’Amministrazione finanziaria per affermare la validità di atti emessi con violazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973; e mi par logico ritenere che non essendo applicabile al diritto tributario il principio di cui al primo comma del suddetto art. 21-octies deve escludersi anche l’applicazione del secondo comma che del primo costituisce una deroga, giustificata proprio dalla circostanza che nel diritto amministrativo “comune” ogni illegittimità dell’atto ne determina invalidità.
Nel diritto tributario, invece, ogni nullità discende o da una specifica indicazione della legge, che ha valutato la gravità della violazione, o dalla violazione di un qualche principio fondamentale dell’ordinamento. Dunque è normativamente escluso che la illegittimità sia irrilevante e quindi risulti «palese che il contenuto dispositivo dell’atto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Del resto, per restare nell’ambito della nostra attuale riflessione, mi pare si debba escludere che sia indifferente che un atto complesso come l’accertamento tributario sia emesso da un funzionario privo della necessaria qualifica, e quindi – deve presumersi – della necessaria capacità tecnica (altrimenti non si comprenderebbe perché le commissioni di esame universitarie non possano essere composte da bidelli).
Soggiungo che l’applicabilità del citato art. 21-octies appare anche esclusa dalla circostanza che la illegittimità degli atti tributari è colpita (quando lo è) con una sanzione qualificata di nullità e non di annullabilità (come invece previsto dal primo comma dell’art. 21-octies). Ancorché, seguendo la linea in qualche modo tracciata dalla già menzionata sentenza n. 18448/2015, si possa affermare che la dizione “nullità” sia impropria e che nel diritto tributario sussistano solo atti annullabili.
Soggiungo ancora che nella, invero non numerosa, giurisprudenza della Corte di Cassazione che richiama il secondo comma dell’art. 21-octies, tale citazione appare un non necessario obiter, in quando per sorreggere l’affermazione secondo cui la violazione di legge in cui è incorsa l’Amministrazione non determina la nullità dell’atto non appare necessario invocare la norma in questione; mentre la norma non viene richiamata in decisioni ove avrebbe potuto invece svolgere un ruolo decisivo in favor dell’Erario.
L’esempio più significativo è costituito dalla ipotesi di illegittimità delle cartelle di pagamento (ed in genere degli atti tributari) per l’omessa indicazione del responsabile del procedimento prescritto dall’art. 7, secondo comma, lett. a), della legge 27 luglio 2000, n. 212.
È accaduto che un consistente filone della giurisprudenza di merito abbia accolto la tesi secondo cui tale omissione avrebbe determinato la nullità dell’atto.
Si trattava di una prospettazione – a mio avviso – infondata, in quanto l’adempimento non tutela un interesse del contribuente di natura tributaria, diretto e sostanziale, ma si inserisce in un complesso di prescrizioni che mirano a facilitare il rapporto informativo diretto con l’Amministrazione, e la presentazione di eventuali ricorsi (13).
Il legislatore non ha però atteso una pronuncia della Corte di Cassazione ed ha preferito intervenire con l’art. 36, comma 4-ter, del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248 (convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31), che, invece, contempla espressamente la sanzione della nullità nel caso di omessa indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo, ma soltanto in relazione alle cartelle di pagamento riferite ai ruoli consegnati agli agenti della riscossione a decorrere dal 1° giugno 2008.
La norma aveva l’evidente funzione di ribadire che l’inadempimento relativo agli atti consegnati per la riscossione in epoca anteriore al 1° giugno 2008 era – sul piano della validità dell’atto – irrilevante, come ivi espressamente specificato.
Mi pare perciò poco significativo che la giurisprudenza che si è occupata di atti cui non era applicabile il citato D.L. n. 248/2007, affermandone la validità, abbia richiamato l’art. 21-octies della legge n. 241/1990 o per farne diretta applicazione o per affermare che da esso è ricavabile un principio generale dell’ordinamento (14) Assai più significativo sarebbe stato se si fosse esclusa, in applicazione del secondo comma dello stesso art. 21-octies, la nullità di atti cui fosse applicabile la modifica legislativa del 2007.

SECONDA POSTILLA: ALCUNE CONSIDERAZIONI PRATICHE

Mi pare opportuno affiancare alle considerazioni quasi filosofiche di teoria generale, qualche osservazione di carattere pratico circa la portata delle tre citate sentenze pubblicate il 9 novembre 2015 (15).
Viene innanzi tutto ribadito ancora una volta che la nullità per violazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 deve essere dedotta già nel ricorso introduttivo, e non può essere rilevata d’ufficio dal giudice. E che ove il contribuente contesti – anche in forma generica – la legittimazione del funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento ad emanare l’atto (ex art. 42 del D.P.R. n. 600/1972), è onere dell’Amministrazione, che ha immediato e facile accesso ai propri dati, fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, sia del delegante che del delegato, nonché della esistenza della delega in capo al delegato (16).
E fin qui nulla di nuovo.
Salvo che viene (definitivamente?) superata l’episodica concezione espressa da Cass., sez. II, 10 maggio 2010, n. 11283 (17), che aveva posto l’onere della prova a carico di chi contesti la qualifica del funzionario che emana l’atto sfavorevole (18).
Assai significativa è la puntualizzazione secondo cui la qualifica di funzionario della terza area del delegante e del delegato deve essere posseduta ed essere verificabile attraverso l’indicazione nominativa del funzionario cui venga eventualmente conferita delega, non essendo sufficiente «sia in caso di delega di firma sia in caso di delega di funzione l’indicazione della sola qualifica professionale del destinatario della delega, senza alcun riferimento nominativo alle generalità di chi effettivamente rivesta la qualifica richiesta. Sono perciò illegittime le deleghe impersonali, anche “ratione officii” prive di indicazione nominativa del soggetto delegato. E tale illegittimità si riflette sulla nullità dell’atto impositivo» (19).
Sembrerebbe di poter da ciò dedurre che quando la sottoscrizione manchi del tutto, o sia illeggibile o non accompagnata dall’indicazione delle generalità del sottoscrittore, all’Amministrazione finanziaria non sia consentito fornire la prova che l’atto promani da un soggetto legittimato. Non essendo sufficiente l’indicazione dell’ufficio che il firmatario illeggibile ricopre.
Anche qui viene superata l’indicazione in senso contrario contenuta in un precedente (20), secondo cui l’accertamento tributario, in quanto atto amministrativo scritto, è esistente ogni qual volta il documento, per l’insieme delle circostanze di fatto che ne accompagnano la formulazione, sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio è stato adottato; e tale valutazione costituisce accertamento di fatto devoluto al giudice di merito, che ben può ritenere l’esistenza dell’atto anche ove facciano difetto il sigillo, o timbro dell’Ufficio, o non sia leggibile la firma del titolare dell’Ufficio; l’apposizione del sigillo e l’uso della carta intestata sono infatti profili esteriori del documento e non requisiti essenziali per la sua esistenza; del pari la leggibilità della firma non è indispensabile per l’imputabilità della volontà dichiarativa al titolare dell’Ufficio, e quindi per l’esistenza dell’atto amministrativo.
Invece, ove l’atto rechi l’indicazione nominativa del firmatario, all’Ufficio tributario è consentito fornire nel corso del giudizio la prova della qualifica, e forse anche produrre la delega. In questo senso si può richiamare un altro precedente giurisprudenziale (21), secondo cui, in caso di contestazione, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare la sussistenza della delega, sebbene non necessariamente dal primo grado, visto che si tratta di un atto che non attiene alla legittimazione processuale, avendo l’avviso di accertamento natura sostanziale e non processuale.

Prof. Mario Cicala
Presidente della Sezione Tributaria
della Corte di Cassazione

(1) Ossia Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, nn. 22800, 22803 e 22810, tutte in Boll. Trib., 2016, 1734.
(2) Cfr. Corte Cost. 17 marzo 2015, n. 37, in Boll. Trib., 2015, 790, con nota di AZZONI, Atti firmati da dirigenti illegittimi: le Commissioni tributarie tirano le fila della sentenza della Consulta; nonché Cons. Stato, sez. IV, 18 novembre 2013, n. 5451, e Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2015, n. 4641, entrambe in Boll. Trib. On-line.
(3) Cfr. Cass. 21 gennaio 2015, n. 959 (in Boll. Trib. On-line), secondo cui è errata la tesi che per la valida sottoscrizione dell’avviso di accertamento non sarebbe sufficiente la qualifica di direttore dell’Ufficio occorrendo altresì la qualifica dirigenziale, in quanto l’art. 42, comma 1, del D.P.R. n. 600/1973, si limita a prevedere che gli avvisi, con cui sono portati a conoscenza dei contribuenti gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio, sono sottoscritti dal capo dell’Ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato, senza richiedere assolutamente che il capo dell’Ufficio debba rivestire la qualifica dirigenziale.
(4) Si veda ad esempio la sentenza n. 18370 del 18 settembre 2015 (in Boll. Trib. On-line): in materia tributaria, vale la regola generale della tassatività delle nullità; e l’art. 12, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, nello stabilire obblighi informativi «quando viene iniziata la verifica», non li contempla espressamente a pena di nullità. «Né ricorrono motivi per ritenere sussistente un’ipotesi di nullità virtuale: la comunicazione dell’autorizzazione (effettivamente rilasciata) alle indagini bancarie per ulteriori periodi d’imposta rispetto a quelli originari non risponde, infatti, ad esigenze essenziali alla funzione assegnata alla verifica e non vale a tutelare apprezzabili ragioni di difesa del contribuente. È opportuno richiamare in proposito il criterio della cosiddetta “strumentalità delle forma”, particolarmente utilizzato dalla giurisprudenza eurounitaria, in forza del quale l’inadempimento di una prescrizione formale può comportare invalidità solo nel caso in cui l’esito del procedimento sarebbe stato diverso ove tale prescrizione fosse stata rispettata (CGUE 3 luglio 2014, in cause riunite C-129/13 e C-130/213, rispettivamente, Kamino International Logistics BV e Datema Hellmann Worldwide Logistics BV)».
(5) Cfr. da ultimo la sentenza resa da Cass., sez. trib., 25 settembre 2015, n. 19052, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cfr. Cass. 5 ottobre 2012, n. 17002, in Boll. Trib. On-line.
(7) Si veda da ultimo l’ordinanza n. 24690 del 20 novembre 2014 (in Boll. Trib. On-line), secondo cui «in tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità ditali atti può ricavarsi dalla “ratio” delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell’Amministrazione»; la legge n. 212/2000 detta, del resto, una compiuta disciplina «con riferimento ad eventuali irregolarità commesse dai verificatori durante la ispezione. In tali ipotesi – tra cui deve ricomprendersi anche la ingiustificata protrazione delle operazioni di verifica – il contribuente, oltre a formulare a verbale osservazioni e rilievi (art. 12 co.4), può, infatti, rivolgersi al Garante (art. 12 co.6) che in seguito alla segnalazione esercita i poteri istruttori richiesti dal caso (art. 13 co.6), richiamando “gli uffici al rispetto di quanto previsto dagli articoli 5 e 12 della presente legge” (art. 13 co.9), ed ove rilevi comportamenti che “determinano un pregiudizio per i contribuenti o conseguenze negative nei loro rapporti con l’amministrazione”, trasmette le relative segnalazioni ai titolari degli organi dirigenziali “al fine di un eventuale avvio del procedimento disciplinare” (art. 13 co.11)». La giurisprudenza più recente ha però talvolta preferito non affrontare esplicitamente il problema sottolineando come nel caso di specie il termine fosse stato rispettato dal momento che esso, come esplicitamente stabilito da un emendamento introdotto dal D.L. 13 maggio 2011, n. 70, si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa svolta presso tale sede, escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi (cfr. Cass., sez. trib., 21 maggio 2014, n. 11183, in Boll. Trib. On-line.).
(8) Cass., sez. trib., 4 luglio 2014, n. 15311, in Boll. Trib., 2014, 1488, con nota di LOVECCHIO, La nullità del controllo formale non preceduto dal contatto con il contribuente e la centralità del principio del contraddittorio preventivo.
(9) Per non appesantire il discorso, riferisco solo delle sentenze che ho reperito e che accolgono la tesi della “nullità derivata” secondo cui il vizio della nomina del funzionario travolge gli atti da lui posti in essere. (Cons. Stato, sez. IV, 20 maggio 1999, n. 853, in Giur. it., 1999, 2173, e in Boll. Trib. On-line): è legittimamente annullato in sede giurisdizionale il decreto di occupazione temporanea di un terreno emanato dal sindaco di un Comune la cui nomina sia stata (dopo l’emanazione del decreto di occupazione) annullata dal giudice amministrativo, senza che possa invocarsi in contrario il principio del c.d. funzionario di fatto, il quale non trova applicazione quando il soggetto destinatario dell’atto abbia contestato in sede giurisdizionale il potere di chi tale atto aveva emesso e l’atto andrebbe a danno dell’interessato. La teoria del funzionario di fatto incontra due ordini di limiti, «l’uno derivante proprio dal fatto che l’interessato insorga negando il potere di chi li ha emessi e l’altro proprio della tutela della buona fede, nel senso che, detta teoria può essere invocata a vantaggio del terzo, ma non a danno del terzo». Ed ancora Cons. Stato, sez. IV, 30 aprile 1999, n. 749 (in Foro amm., 1999, 664): la teoria del funzionario di fatto trova due ordini di limiti, l’uno derivante dalla circostanza che l’interessato insorga negando il potere di chi ha emesso l’atto e l’altro proprio della tutela della buona fede del terzo; pertanto, la detta teoria può essere invocata a vantaggio del terzo ma non a danno del medesimo.
(10) Narrano le storie di tal Barbario Filippo, che, pur essendo schiavo, per di più fuggitivo, venne in Roma, riuscendo, sembrerebbe nella prima metà del primo secolo a.C. a divenire pretore. Secondo un notissimo passo di Ulpiano in D.1.14.3 (Ulp. lib. 38 ad Sabin.) gli atti posti in essere da questo imbroglione dovevano esser ritenuti validi “propter utilitatem”. Cfr. CAVALLO, Il funzionario di fatto, Milano 2005, 1 ss.
(11) Si veda la sentenza n. 18448 del 18 settembre 2015 (in Boll. Trib., 2015, 1582, con nota di AZZONI, Annullabilità, nullità e inesistenza dell’atto tributario), secondo cui «alla sanzione della “nullità” comminata dall’art. 42, comma 3, D.P.R. n. 600/1973 all’avviso di accertamento privo di sottoscrizione, delle indicazioni e della motivazione di cui al precedente comma 2, o al quale non risulti allegata la documentazione non anteriormente conosciuta dal contribuente, al pari delle altre norme che prevedono analoghe ipotesi di “nullità” degli atti tributari nelle diverse discipline d’imposta, non è direttamente applicabile il regime normativo di diritto sostanziale e processuale dei vizi di “nullità” dell’atto amministrativo – che hanno trovato riconoscimento positivo nell’art. 21-septies della legge n. 241/1990 e sistemazione processuale nell’art. 31, comma 4, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (CPA) nell’autonoma azione di accertamento della nullità sottoposta a termine di decadenza, e nella attribuzione del potere di rilevazione “ex officio” da parte del Giudice amministrativo – atteso che l’ordinamento tributario costituisce un sottosistema del diritto amministrativo con il quale è in rapporto di “species ad genus”, potendo pertanto trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate o non risultino incompatibili con le norme speciali di diritto tributario che disciplinano gli atti del procedimento impositivo, ostando alla generale estensione del regime normativo di diritto amministrativo, la scelta operata dal Legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria della “nullità tributaria” indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità dell’atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della invalidità-annullabilità, dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui all’art. 21 Dlgs n. 546/1992, in difetto del quale il provvedimento tributario – pure se affetto da vizio “nullità” – si consolida, divenendo definitivo e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta. Consegue che si pone in oggettivo conflitto con il sistema normativo tributario l’affermazione secondo cui, in difetto di tempestiva impugnazione dell’atto impositivo affetto da “nullità”, tale vizio possa comunque essere fatto valere per la prima volta dal contribuente con la impugnazione dell’atto conseguenziale, ovvero che, emergendo il vizio dagli stessi atti processuali, possa, comunque, essere rilevato di ufficio dal Giudice tributario, anche in difetto di norma di legge che attribuisca espressamente tale potere».
(12) Perciò non condivido la ricorrente affermazione (sembra risalga al CARRARA, Il diritto penale e la procedura penale, in Opuscoli di diritto criminale, V, Prato, 1881) secondo cui il codice di procedura penale è il “codice dei galantuomini”; esso in quanto codice delle regole è il codice di tutti gli imputati, galantuomini o delinquenti che siano. Anzi a ben vedere il complesso insieme di garanzie che costituisce gran parte del diritto processuale penale giova più al colpevole che all’innocente. I rigorosi criteri di formazione e valutazione della prova conducono fatalmente alla assoluzione di molti pericolosi delinquenti. È un “prezzo” che la società intera paga sull’altare della libertà, del rispetto dell’individuo; talvolta anche del rispetto di “regole del gioco” alquanto opinabili. E dunque forte la tentazione di accedere, anche in campo tributario, al cinico realismo secondo cui “se sei innocente a che ti servono le garanzie, posto che godi delle tutela che ti assicura l’adamantino amore della verità che anima i funzionari dello Stato? E se sei colpevole perché dovrei facilitarti con delle garanzie?”.
(13) Non determina quindi l’invalidità dell’atto l’omessa indicazione dell’organo o dell’Autorità amministrativa presso i quali sia possibile promuovere il riesame anche nel merito dell’atto in sede di autotutela (potendo al massimo tale omissione giustificare la tardiva proposizione del ricorso giurisdizionale): si veda Cass., sez. trib., 9 luglio 2014, n. 15661, in Boll. Trib. On-line.
(14) La giurisprudenza in proposito comprende parecchie decine di sentenze, di cui solo due mi risultano massimate. Cfr. Cass., sez. trib., 15 febbraio 2013, n. 3754, secondo cui l’omessa indicazione nella cartella di pagamento del nome del responsabile del procedimento (nel regime anteriore all’entrata in vigore dell’art. 36, comma 4-ter, del D.L. n. 248/2007), non determina il vizio di illegittimità della cartella, trattandosi di provvedimento a contenuto vincolato e secondo il principio generale in tema di annullamento degli atti amministrativi applicabile in materia, di cui all’art. 21-octies, secondo comma, della già citata legge n. 241/1990, in quanto l’art. 7 della legge n. 212/2000, recante lo Statuto dei diritti del contribuente, è norma minus quam perfecta e priva di sanzione; nonché Cass., sez. trib., 21 marzo 2012, n. 4516 (in Boll. Trib., 2012, 1190, con nota di CARNIMEO, Cartelle di pagamento: obbligatoria l’indicazione del criterio di calcolo degli interessi, non obbligatoria l’indicazione del responsabile del procedimento), per la quale l’art. 7 della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), pur qualificando «tassativo» l’obbligo dell’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’Amministrazione finanziaria e dei concessionari della riscossione, non precisa in alcun modo la sanzione connessa alla sua violazione, di talché, ove non sia applicabile il citato art. 36, comma 4-ter, del D.L. n. 248/2007, ratione temporis, occorre far riferimento ai principi generali in tema di annullabilità degli atti amministrativi di cui all’art. 21-octies della legge n. 241/1990, in base ai quali si deve escludere che il predetto vizio possa comportare la caducazione della cartella di pagamento, poiché il provvedimento amministrativo è annullabile se «adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza», mentre «non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»; in base a tali principi, la cui ratio va ravvisata nell’intento di sanare, con efficacia retroattiva, tutti gli eventuali vizi procedimentali non influenti sul diritto di difesa, va dunque esclusa l’annullabilità di un provvedimento di natura vincolata, per la violazione delle norme del procedimento, in ragione dell’inidoneità dell’intervento dei soggetti, ai quali è riconosciuto un interesse, ad interferire sul suo contenuto. Si veda altresì la sentenza resa da Cass., sez. trib., 31 gennaio 2013, n. 2365 (in Boll. Trib. On-line), la quale ha precisato che «occorre inoltre considerare l’argomento dirimente secondo cui i vizi di legittimità del ruolo, denunciati dal ricorrente, non potrebbero, in ogni caso, privare di validità l’atto tributario: come è stato esattamente rilevato da questa Corte, infatti, la “natura vincolata” degli atti meramente esecutivi, quali il ruolo e la cartella di pagamento – nella formazione e redazione dei quali non sono ravvisabili margini di discrezionalità amministrativa -, legittima l’applicazione del generale principio di irrilevanza dei vizi di invalidità del provvedimento (riconducibili anche alla omessa indicazione degli elementi previsti dall’art. 7, co. 2, lett. a-b della legge n. 212/2000), atteso che l’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, il quale, allo scopo di sanare con efficacia retroattiva tutti gli eventuali vizi procedimentali non influenti sul diritto di difesa, prevede la non annullabilità del provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora per la natura vincolata del provvedimento il suo contenuto dispositivo non avrebbe comunque potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr. Corte Cass. 5 sez. 21.3.2012 n. 4516 con riferimento alla cartella di pagamento)». La sentenza resa da Cass., sez. trib., 12 febbraio 2014, n. 3142 (in Boll. Trib. On-line) ritiene la nullità di un avviso di accertamento emesso senza rispettare il termine dilatorio di 60 giorni dalla consegna del verbale, nonostante l’Amministrazione finanziaria avesse invocato il citato art. 21-octies della legge n. 241/1990.
(15) Pubblicate infra, cfr. sub nota 1.
(16) Invece per quanto attiene alle cartelle di pagamento l’omessa sottoscrizione da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma dell’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (cfr. Cass., sez. trib., 5 dicembre 2014 n. 25773, in Boll. Trib. On-line).
(17) In Boll. Trib. On-line.
(18) La citata pronuncia aveva infatti ritenuto che l’opponente ad ordinanza-ingiunzione di pagamento di somme a titolo di sanzione amministrativa, il quale ne deduca l’illegittimità per insussistenza della delega di firma in capo al funzionario che, in sostituzione del prefetto o del vice-prefetto vicario, ha emesso il provvedimento, ha l’onere di provare detto fatto negativo, con la conseguenza che, nel caso in cui non riesca a procurarsi la pertinente relativa attestazione da parte dell’Amministrazione, è tenuto comunque a sollecitare il giudice ad acquisire informazioni ex art. 213 c.p.c. ovvero ad avvalersi dei poteri istruttori di cui all’art. 23, sesto comma, della legge 24 novembre 1981, n. 689, presso l’Amministrazione medesima, la quale non può esimersi dalla relativa risposta; ne consegue ulteriormente che, se l’opponente rimanga del tutto inerte processualmente, la presunzione di legittimità che assiste il provvedimento sanzionatorio non può reputarsi superata.
(19) Così Cass. n. 22803/2015, cit.
(20) Ossia Cass., sez. trib., 18 giugno 2003, n. 9779, in Boll. Trib. On-line.
(21) Ovvero Cass., sez. trib., 10 luglio 2013, n. 17044, in Boll. Trib. On-line.

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