18 Ottobre, 2016

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1. Inquadramento storico

Una delle più significative (e stimolanti per lo studioso) novità normative dell’anno che stiamo per lasciarci alle spalle è stata senz’altro quella, attesissima dagli operatori del settore, rappresentata dall’art. 10-bis (Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale) della legge 27 luglio 2000, n. 212 (1), aggiunto nel corpo dello Statuto dei diritti del contribuente dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (2).
Riprese le linee direttrici della più avvertita giurisprudenza, che non ha esitato a lavorare sui parametri della legge-delega ben in anticipo rispetto alla pubblicazione del decreto delegato (3), l’innovazione ha cercato di rispondere, sotto il proclamato vessillo della certezza del diritto, ad alcune esigenze funzionali precise. Su tutte le due seguenti: a) decifrare con attenzione, circoscrivendole, le circostanze di interesse (categorie tipologiche dei negozi e requisiti contenutistici); e b) assegnare all’istituto una vocazione assorbente e onnicomprensiva (eleggendolo appunto a “clausola antielusiva generale”) in luogo di quella, limitata alle imposte dirette, impressa dall’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, norma di lungo e travagliato corso (era stata immessa nell’ordinamento con l’art. 7, primo comma, del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358) e ora mandata definitivamente agli archivi per il tramite dell’abrogazione espressa statuita dall’art. 1, secondo comma, del D.Lgs. n. 128/2015 («L’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, è abrogato. Le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono riferite all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, in quanto compatibili»).
Va peraltro subito detto che, su entrambi i fronti, la nuova disciplina – nel cui cuore incontriamo un passaggio da riprendere allorché si darà conto della sua entrata in vigore: la novella, vi si dice, trova applicazione «anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo» (art. 5 del D.Lgs. n. 128/2015) – non è innovativa in senso assoluto, se è vero:
a) che già l’art. 37-bis del citato D.P.R. n. 600/1973 si rivolgeva a un numero chiuso di possibilità e analoghe erano dianzi le proprietà delle operazioni di rilevanza abusiva: il difetto di “sostanza economica” nell’apparente «rispetto formale delle norme fiscali», cioè l’inclinazione fittizia del negozio stipulato, artificiosamente in linea con lo schema edittale ma in realtà concepito all’unico (“essenziale”, leggi: esclusivo, non solo preminente) scopo di procacciare un vantaggio fiscale “indebito”, con, anche allora, la conseguenza dell’inopponibilità «all’Amministrazione finanzia, che ne disconosce i vantaggi»;
b) che, soprattutto da ultimo, la giurisprudenza aveva concluso per la vocazione assorbente e onnicomprensiva del divieto dell’abuso del diritto, attingendo la convinzione – ad avviso di chi scrive in maniera quanto meno acrobatica, data la complessiva labilità del riferimento – dagli artt. 53, primo e secondo comma, e 23 Cost., non contrastandovi – a suo dire – i postulati costituzionali in fatto di capacità contributiva, di progressività nell’imposizione e di riserva di legge (4). Discorsi tutti che, ad ogni buon conto, appartengono al passato.

2. L’equipollenza abuso del diritto = elusione fiscale

Guardando avanti, balza immediatamente agli occhi, fin dalla lettura della rubrica, il disgiuntivo “o” che separa le locuzioni “abuso del diritto” ed “elusione fiscale”. Esso – in maniera tutt’altro che casuale, stando ai lavori preparatori e alla relazione accompagnatoria – traccia l’equazione abuso del diritto = elusione fiscale, figura quest’ultima della quale la disposizione dà anche la (stringata quanto efficace) definizione evidenziata appena sopra. In altri termini, con l’instaurazione della piena equipollenza fra le due nozioni, all’interprete non è più concesso di individuare ipotesi di abuso del diritto – fenomenologia peraltro da più voci avversata per la sua ambiguità e vaghezza – se non nel ricorrere delle fattispecie espressamente enunciate, da considerarsi tipiche (ergo, data la loro natura di specialità, insuscettibili di interpretazione analogica o anche soltanto estensiva).
È da tale constatazione di fondo che – con una lettura serrata e sequenziale, destinata al ruolo di robusto precedente in virtù della stringente correlazione messa in atto fra le norme esaminate – i giudici della Sezione Penale della Suprema Corte hanno ricavato l’importante inquadramento sintetizzato nelle massime desunte dalla sentenza in commento, fissando il principio che la disciplina dell’abuso del diritto trova applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare l’evasione e la frode, ovverosia la galassia di condotte antigiuridiche perpetrate attraverso «la creazione e l’utilizzo di documentazione falsa», casistica quest’ultima che – come il redattore tiene contestualmente a puntualizzare – va perseguita «con gli strumenti tradizionali» (5), cioè con i mezzi (e le garanzie) offerti dal sistema penale, senza spazio per tracimazioni nel comparto tributario.
Tertium non datur, insomma: le condotte che integrano estremi di reato, per quanto contigue o addirittura sovrapponibili, sono ab ovo estranee all’area tecnica dell’abuso del diritto, non vi si sovrappongono e non ne cumulano il regime sanzionatorio. Così, imperiosamente, l’art. 10-bis, comma 13, della legge n. 212/2000: «Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».
Il pregio più alto del citato art. 10-bis (e irreversibilmente conficcato nel sistema) sta lì. Il resto, per quanto organizzato a lodevole chiarezza, è invece retaggio del passato.
Nell’occasione (6), dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 sono infatti sottolineate, insieme, le proprietà comuni agli altri precetti dello Statuto dei diritti del contribuente, in quanto derivate dall’autorità della comune fonte (su tutte la «forza di principio preordinato alle regole previste nelle discipline dei singoli tributi») (7), e alcuni connotati tipici (in primis la già accennata «valenza generale con riguardo a tutti i tributi, sia quelli armonizzati [leggi: le imposte indirette, eccettuata la sfera doganale], per i quali l’abuso trova fondamento nei principi dell’ordinamento dell’Unione europea, sia quelli non armonizzati [leggi: le imposte dirette], per i quali il fondamento è stato individuato dalla Corte di Cassazione nel principio costituzionale della capacità contributiva») (8). Soprattutto si guarda con favore (forse, ripeto, eccessivamente trionfalistico) all’intento di oggettività perseguito dal delegante, racchiuso nel «dare maggiore certezza al quadro normativo in tema di elusione-abuso del diritto, [nell’] evitare che gli uffici esercitino i loro poteri di accertamento senza precise linee guida limitandosi a invocare il principio generale antiabuso e, soprattutto, [nello] sganciare la dimostrazione della sussistenza della sostanza economica delle operazioni dalla sfera dei motivi della condotta, oggettivandola nel senso dell’effettività».
Dirà la storia se l’encomiabile proposito sarà stato raggiunto come Europa comanda.
Assodati (e benemeriti) alcuni punti fermi: ad esempio quello secondo cui il risparmio di imposta e la libertà di iniziativa imprenditoriale – sovente messi in discussione, sotto l’usbergo dell’abuso del diritto, dalle contestazioni erariali – non sono più considerati, in sé e per sé, una bestemmia, se non altro alla stregua della nostra Carta costituzionale (rispettivamente artt. 47, primo comma, e 41, primo comma).
Peraltro – dando alito alla vena di diffidenza che un giudice di trentennale esperienza cova suo malgrado e che, pur con tutta la buona volontà, proprio non riesce a scrollarsi di dosso – si potrebbe eccepire che non è affatto dissipato il dubbio di una permanente imperscrutabilità dei meccanismi offerti agli operatori, nel senso che l’Amministrazione finanziaria potrebbe illudersi di conservare il potere di «sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo sono già decise ed effettuate» (9). Tanto più se tocca al contribuente di «dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3» (art. 10-bis, nono comma, secondo periodo) in sede di replica – non sempre agevole – al copione dell’Ufficio, che è quello di «dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2» (nono comma, primo periodo). Con la preoccupazione che il pessimismo della ragione purtroppo incoraggia, cioè che, a fronte di contestazioni ammantate di tautologia, il contribuente si ritrovi con le spalle al muro, inchiodato a una probatio diabolica (10).
Per il resto, nulla di rivoluzionario. Oggi come ieri, di abuso del diritto (o di elusione che dir si voglia) si può parlare solo a fronte di determinate species di operazioni, la cui validità civilistica permane pur perdendo efficacia, esattamente come ieri, nei (soli) confronti dell’Amministrazione finanziaria («non sono opponibili»), la quale è abilitata a disconoscerne i vantaggi ottenuti. Rischio cui sono esposte, oggi come ieri, le operazioni che, al di là della facciata («nel rispetto formale delle norme fiscali»), presentano radicale carenza di vitalità economica propria («operazioni prive di sostanza economica»), sono cioè inette oggettivamente – a prescindere cioè dalle reali intenzioni di chi le ha messe in atto – a innescare, nella circolazione delle ricchezze, effetti significativi diversi da quelli fiscali, il tutto nell’esclusiva prospettiva (finalità “essenziale”) e in vista della produzione, sul fronte fiscale, di utilità non spettanti («vantaggi indebiti»).

3. Piena retroattività delle disposizioni a contenuto penale dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, a fronte della parziale retroattività delle disposizioni a contenuto tributario.

L’art. 1, quinto comma, del D.Lgs. n. 128/2015, stabilisce che tutte le disposizioni antiabusive dell’art. 10-bis esplicano efficacia dal 1° ottobre 2015 («il primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore», avvenuta il 2 settembre). Tutte indiscriminatamente, dunque: tanto quelle a contenuto tributario quanto quelle a contenuto penale.
Qualche puntualizzazione è tuttavia necessaria; e totalmente condivisibili appaiono, in parte qua, le conclusioni tratte dal giudice di legittimità.
Se l’irretroattività della legge in generale è superabile dal legislatore ordinario in sede di deroga al principio, di rango non costituzionale, fissato dalle Preleggi, per cui «La legge non dispone che per l’avvenire» (art. 11 delle Disposizioni preliminari al codice civile), l’irretroattività della legge penale è espressamente circoscritta alle norme che istituiscono il reato ovvero aggravano la pena, in base al disposto dell’art. 2, secondo comma, c.p. («Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali»), e del successivo quarto comma dello stesso articolo («Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»). Disposto, pure quest’ultimo, non costituzionalizzato dall’art. 25, secondo comma, Cost., che si è limitato a sancire l’irretroattività delle norme incriminatrici e, in generale, delle norme penali più severe; discendente però da una pluralità di vincoli internazionali, quali:
– il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici concluso a New York il 16 dicembre 1966 (art. 15, primo comma: «Nessuno può essere condannato per azioni od omissioni che, al momento in cui venivano commesse, non costituivano reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Così pure, non può essere inflitta una pena superiore a quella applicabile al momento in cui il reato sia stato commesso. Se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne»);
– la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali [art. 7, il quale – attenendoci all’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo (11) – nello stabilire al primo comma, prima parte, che «Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale», incorpora anche, implicitamente, il corollario del diritto dell’accusato al trattamento più lieve, cioè il principio della retroattività della legge penale meno severa, altrimenti detta, in gergo, retroattività in mitius].
Apprezzabile il messaggio che giunge oggi dalla Suprema Corte la quale oculatamente afferma essere, il disposto sotto esame, duplice, nel senso che, pur con un’unica statuizione e in un apparente assemblaggio delle diverse fattispecie, il legislatore ha fissato «due distinte ed autonome statuizioni di natura transitoria».
a) Versante amministrativo-tributario. In via principale, vige l’accennato principio del tempus regit actum sancito dall’art. 11 delle Disposizioni preliminari al codice civile, ma, stante l’indole ordinaria (e non costituzionale) del canone, è stata legittimamente prevista una concessione alla retroattività, dovendosi applicare i nuovi precetti «anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo». Ciò con il palmare intento – benedetto, lo si è visto, dalla legge-delega, quindi in sintonia con l’art. 76 Cost. – di non sciupare il lavoro fatto, di preservare l’efficacia dei provvedimenti nel frattempo spiccati.
b) Versante penale. La retroattività della prescrizione penale favorevole si radica, oltre che nell’art. 2 c.p. (anch’esso d’indole ordinaria), in precetti di rango più elevato, fra i quali i vincoli di matrice pattizia che per il nostro Paese insorgono stante il dettato dell’art. 117, primo comma, Cost. («La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali») (12).

Avv. Valdo Azzoni

(1) Art. 10-bis: «1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni. 2. Ai fini del comma 1 si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato; b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. 3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. 4. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale. 5. Il contribuente può proporre interpello secondo la procedura e con gli effetti dell’articolo 11 della presente legge per conoscere se le operazioni che intende realizzare, o che siano state realizzate, costituiscano fattispecie di abuso del diritto. L’istanza è presentata prima della scadenza dei termini per la presentazione della dichiarazione o per l’assolvimento di altri obblighi tributari connessi alla fattispecie cui si riferisce l’istanza medesima. 6. Senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti per i singoli tributi, l’abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto. 7. La richiesta di chiarimenti è notificata dall’amministrazione finanziaria ai sensi dell’articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell’atto impositivo. Tra la data di ricevimento dei chiarimenti ovvero di inutile decorso del termine assegnato al contribuente per rispondere alla richiesta e quella di decadenza dell’amministrazione dal potere di notificazione dell’atto impositivo intercorrono non meno di sessanta giorni. In difetto, il termine di decadenza per la notificazione dell’atto impositivo è automaticamente prorogato, in deroga a quello ordinario, fino a concorrenza dei sessanta giorni. 8. Fermo quanto disposto per i singoli tributi, l’atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente nel termine di cui al comma 6. 9. L’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi di cui ai commi 1 e 2. Il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali di cui al comma 3. 10. In caso di ricorso, i tributi o i maggiori tributi accertati, unitamente ai relativi interessi, sono posti in riscossione, ai sensi dell’articolo 68 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e, successive modificazioni, e dell’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. 11. I soggetti diversi da quelli cui sono applicate le disposizioni del presente articolo possono chiedere il rimborso delle imposte pagate a seguito delle operazioni abusive i cui vantaggi fiscali sono stati disconosciuti dall’amministrazione finanziaria, inoltrando a tal fine, entro un anno dal giorno in cui l’accertamento è divenuto definitivo ovvero è stato definito mediante adesione o conciliazione giudiziale, istanza all’Agenzia delle entrate, che provvede nei limiti dell’imposta e degli interessi effettivamente riscossi a seguito di tali procedure. 12. In sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie. 13. Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie».
(2) Il D.Lgs. n. 128/2015 è stato adottato – come recita la sua intitolazione – «in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23» [Delega al Governo per la revisione del sistema fiscale e procedura] ed è entrato in vigore il 2 settembre 2015. L’intero testo è consultabile in Boll. Trib., 2015, 1161. Più nel dettaglio, l’attuazione ha riguardato i seguenti paradigmi della legge delega: – il «rispetto dei principi costituzionali, in particolare quelli di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione, nonché del diritto dell’Unione europea e di quelli dello Statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge 27 luglio 2000, n. 212, con particolare riferimento al rispetto del vincolo di irretroattività delle norme tributarie di sfavore» (art. 1, primo comma), con la cautela che «nei decreti legislativi di cui al comma 1, il Governo [deve provvedere] all’introduzione delle nuove norme mediante la modifica o l’integrazione dei testi unici e delle disposizioni organiche che regolano le relative materie, provvedendo ad abrogare espressamente le norme incompatibili» (art. 1, nono comma); – la «revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione dei seguenti principi e criteri direttivi, coordinandoli con quelli contenuti nella raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012: a) definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di spesa, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione; b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine: 1) considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva; 2) escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente; c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta; d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti; e) prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso; f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario» (art. 5); – la «revisione del sistema sanzionatorio penale tributario secondo criteri di predeterminazione e di proporzionalità rispetto alla gravità dei comportamenti, prevedendo: la punibilità con la pena detentiva compresa fra un minimo di sei mesi e un massimo di sei anni, dando rilievo, tenuto conto di adeguate soglie di punibilità, alla configurazione del reato per i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa …; l’individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie» (art. 8).
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 5 dicembre 2014, n. 25758, in Boll. Trib. On-line, accolta con vivo favore dalla dottrina specializzata: ved. P. SCARIONI – P. ANGELUCCI, I pregiudizi dell’Agenzia delle entrate in tema di abuso del diritto, in Boll. Trib., 2015, 896. Il disorientamento dell’ambiente, soprattutto a fronte dell’atteggiamento ondivago della giurisprudenza, era forte; per tutti ved. M. BEGHIN, Elusione fiscale, abuso del diritto e profili sanzionatori, ibidem, 805. Altrettanto forte appare oggi la soddisfazione. Tuttavia qualche cautela in più, soprattutto in tema di gestione operativa dei singoli frangenti da parte della mano pubblica, come si dirà, non guasterebbe.
(4) Cfr. Cass., sez. trib., 6 marzo 2015, n. 4561, in Boll. Trib., 2015, 857, con nota redazionale perplessa. Il solco più profondo era stato scavato dalle Sezioni Unite con le sentenze 23 dicembre 2008, nn. 30055, 30056 e 30057, in Boll. Trib., 2009, 481, che avevano individuato, in seno al nostro ordinamento, un generale principio antielusivo, ermeneuticamente non contrastato dalla presenza di specifiche norme antielusive le quali anzi ne sarebbero state il sintomo conclamato e ne avrebbero celebrato il trionfo. Un altro dato suffraga l’idea che lo ius novum sia figlio dell’elaborazione giurisprudenziale. Il precetto del comma 3 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente («Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente») discende in linea retta da una scriminante rintracciata dal giudice di settore, cioè «la compresenza, non marginale, di ragioni extrafiscali, che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione, ma possono rispondere ad esigenze di natura organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda [concetto di poi allargato dall’archetipo imprenditoriale alla sfera degli studi professionali]» (così Cass., sez. trib., 21 gennaio 2011, n. 1372, in Boll. Trib., 2011, 301, con nota redazionale favorevole).
(5) Nel composito panorama spicca l’art. 4 (Dichiarazione infedele) del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nel testo modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, in vigore dal 22 ottobre 2015, secondo cui «Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. 1-bis. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali. 1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b).
(6) Si omette qui qualsiasi riferimento alle peculiarità concrete della vicenda sottostante la decisione (contratto di stock landing, ovvero prestito di titoli contro pagamento di una commissione e contestuale costituzione da parte del mutuatario di una garanzia di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito), vuoi perché irrilevante nel discorso, vuoi perché l’esposizione del giudice, che vi dedica una decina di pagine, è più che esauriente. Ad essa pertanto si rimanda il Lettore.
(7) La pronuncia opera un azzeccato richiamo al parallelo con la tutela del legittimo affidamento del cittadino (art. 10 della legge n. 212/2000) di cui a Cass., sez. trib., 17 aprile 2013, n. 9308, in Boll. Trib. On-line. Un brano della quale si rivela di spiccato interesse. Scrivevano i giudici del Supremo Collegio: «Orbene, anche se è vero che spetta al contribuente la prova di avere definito la controversia per condono, di fronte alla descritta situazione, tenuto conto della reiterazione da parte dell’amministrazione di una sostanziale “mancata risposta” in ordine alla questione del condono (amministrazione che dichiara, peraltro, di “non essere in grado” di rispondere adeguatamente “non avendo il fascicolo cartaceo” [!]) e del carattere assai risalente della controversia in esame, non può non riconoscersi un valore determinante al rilevante “inizio di prova” fornito dai contribuenti, in attuazione del principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino, reso esplicito in materia tributaria dalla legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 1, il quale, trovando origine nei principi affermati dagli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., espressamente richiamati dall’art. 1 del medesimo statuto, è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico e costituisce uno dei fondamenti dello Stato di diritto nelle sue diverse articolazioni, limitandone l’attività legislativa e amministrativa».
(8) Il rimando, espresso, è a Cass., sez. un., nn. 30055, 30056 e 30057 del 2008, citt.
(9) Atteggiamento velleitario in passato a più riprese rimproveratole (come anche, passim, nella decisione massimata) e pungolo non ultimo alla base dello ius novum.
(10) Il discorso si fa più chiaro quanto smaccato se si prosegue nella lettura della sentenza. Là, ad esempio, dove la Corte ricorda a mero «titolo esemplificativo, … due indici di mancanza di sostanza economica: 1) la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme; 2) la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato». Lì si sente il polso della perdurante evanescenza del sistema. Non meglio vanno le cose poco dopo, dove, a proposito dei “vantaggi fiscali indebiti”, si allude ai «benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario … [ovverosia tramite] la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi». Non è la stessa Sezione a riconoscere che l’impostazione «lascia margini di incertezza … che le une [le ragioni extrafiscali] devono assumere rispetto alle altre [le ragioni fiscali] affinché possa essere superato il connotato di abusività dell’operazione»? Va comunque riconosciuto che se la novella sarà rettamente intesa le prospettive che si aprono sono sideralmente diverse da quella che ha fatto da sfondo alla vicenda degli stilisti Dolce e Gabbana, pronunciata sotto la precedente egida penale, per cui sempre e in ogni caso «se il bene tutelato dal nuovo regime fiscale [quello vigente all’epoca dei fatti, il 2008] è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici può ben coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare [tout court, senza spazi di manovra] una riduzione o una esclusione della base imponibile» (così Cass, sez. II pen., 28 febbraio 2012, n. 7739, in Boll. Trib. On-line).
(11) Cfr. la sentenza della Grande Camera della Corte EDU 17 settembre 2009, sez. II (in Boll. Trib. On-line), resa nella causa Scoppola c. Italia, ricorso n. 50550/06. Successivamente cfr. la sentenza della Corte EDU 27 aprile 2010, resa nella causa Morabito c. Italia, ricorso n. 58572/00, nella quale la Corte ha ribadito che «le disposizioni che definiscono i reati e le pene sottostanno a delle regole particolari in materia di retroattività che includono il principio di retroattività della legge penale pià favorevole all’imputato». Va peraltro ricordata la lettura tendenzialmente restrittiva data a detto magistero dal nostro diritto vivente. Cfr. Corte Cost. 27 luglio 2011, n. 236, in Boll. Trib. On-line, per cui «ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel caso Scoppola resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata», concludendo che «una volta individuati i limiti oggettivi del principio di retroattività in mitius, riconosciuto dalla Corte europea sulla base dell’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, è agevole la conclusione che esso non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perché si produca l’effetto estintivo del reato».
(12) Vincoli che comprendono la raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012, pubblicata in G.U. 12 dicembre 2012, n. 388.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Rilevanza penale delle contestazioni fondate sull’elusione fiscale o sull’abuso del diritto – Esclusione.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Rilevanza penale delle contestazioni fondate sull’elusione fiscale o sull’abuso del diritto – Esclusione.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale da parte dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Valenza generale di tale istituto con conseguente riferibilità a tutti i tributi, armonizzati e non armonizzati, diretti ed indiretti, ad esclusione di quelli doganali – Inserimento di tale disciplina nello Statuto dei diritti del contribuente – Acquisizione della forza di principio preordinato alle regole previste nelle discipline dei singoli tributi – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale da parte dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Definizione di abuso del diritto – Operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti – Nullità dei contratti abusivi – Non sussiste – Inefficacia ai soli effetti tributari – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Definizione di abuso del diritto da parte dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti – Individuazione delle “operazioni prive di sostanza economica” – Sono costituite dai fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali – Nozione di “vantaggi fiscali indebiti” – Sono costituiti dai benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario – Ricerca della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e dimostrazione della loro violazione – Costituisce il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione fiscale.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Definizione di abuso del diritto – Nozione di “operazioni giustificate da non marginali ragioni extrafiscali” che escludono l’esistenza dell’abuso – Sono quelle, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa o dell’attività professionale del contribuente.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Configurabilità dell’abuso del diritto solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del D.Lgs. n. 74/2000 – Applicazione residuale della disciplina dell’abuso del diritto rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari – Consegue.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Configurabilità dell’abuso del diritto solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del D.Lgs. n. 74/2000 – Applicazione residuale della disciplina dell’abuso del diritto rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari – Consegue.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Esclusione della rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto a norma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie – Permane – Perseguibilità penale delle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche aventi finalità antielusive o che integrino ipotesi di vera e propria evasione – Sussiste.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Elusione fiscale e abuso del diritto – Esclusione della rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto a norma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Applicabilità delle sanzioni amministrative tributarie – Permane – Perseguibilità penale delle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche aventi finalità antielusive o che integrino ipotesi di vera e propria evasione – Sussiste.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Stipulazione di un contratto di prestito di azioni, stock lending agreement, per il conseguimento di un vantaggio fiscale – Rilevanza penale della condotta abusiva contestata – Esclusione, a norma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Stipulazione di un contratto di prestito di azioni, stock lending agreement, per il conseguimento di un vantaggio fiscale – Rilevanza penale della condotta abusiva contestata – Esclusione, a norma dell’art. 10-bis della legge n. 212/2000.

Accertamento imposte sui redditi – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Decorrenza della norma ex art. 1 del D.Lgs. n. 128/2015 – Applicabilità della nuova disciplina tributaria dell’abuso del diritto anche alle operazioni abusive poste in essere prima del 1° ottobre 2015 qualora non sia stato notificato il relativo atto impositivo prima della predetta data – Efficacia retroattiva della disposizione di cui al comma 13 dell’art. 10-bis, che reca la statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive, anche per le operazioni poste in essere prima del 1° ottobre 2015 in forza del principio di retroattività della legge penale più favorevole ex art. 2 c.p.

Imposte e tasse – Sanzioni penali – Elusione fiscale e abuso del diritto – Art. 10-bis della legge n. 212/2000 – Decorrenza della norma ex art. 1 del D.Lgs. n. 128/2015 – Efficacia retroattiva della disposizione di cui al comma 13 dell’art. 10-bis, che reca la statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive, anche per le operazioni poste in essere prima del 1° ottobre 2015 in forza del principio di retroattività della legge penale più favorevole ex art. 2 c.p.

A norma del comma 13 dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), le contestazioni fondate sull’elusione fiscale e sull’abuso del diritto non danno mai luogo a violazioni penali tributarie, sebbene possano essere irrogate le sanzioni amministrative e, quindi, pure la sanzione per dichiarazione infedele, che prevede una sanzione dal cento al duecento per cento della maggiore imposta ex art. 1, secondo comma, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, di talché la valutazione della fittizietà o meno di una operazione negoziale e, dunque, della sua abusività, finalizzata in via esclusiva al conseguimento di un risparmio di imposta, non può più essere effettuata in sede penale, atteso che con l’entrata in vigore del citato art. 10-bis, a far data dal 1° ottobre 2015, tali contestazioni fondate sull’elusione fiscale sono prive di rilevanza penale.

La disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale è stata inserita in un apposito e nuovo articolo, l’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), per soddisfare l’esigenza di introdurre un istituto che, conformemente alle indicazioni della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, unifichi i concetti di elusione e di abuso e conferisca a questo regime valenza generale con riguardo a tutti i tributi, sia quelli armonizzati, per i quali l’abuso trova fondamento nei principi dell’ordinamento dell’Unione europea, sia quelli non armonizzati, per i quali il fondamento è stato individuato dalla Corte di Cassazione nel principio costituzionale della capacità contributiva, consentendo in tal modo di riferire l’applicazione di questa disciplina tanto alle imposte sui redditi, come in precedenza previsto dall’art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, quanto a quelle indirette, fatta salva la speciale disciplina in materia doganale, e l’inserimento della disciplina medesima nell’ambito dello Statuto dei diritti del contribuente conferisce ad essa la forza di principio preordinato alle regole previste nelle discipline dei singoli tributi.

L’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, mette in evidenza l’unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale, derivandone dunque che nell’articolato normativo i due termini sono equipollenti e utilizzati indifferentemente e, in attuazione di quanto disposto dall’art. 5 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, contiene una completa, seppure sintetica, definizione di abuso del diritto, stabilendo, in particolare, che configurano “abuso del diritto” le operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti, e la previsione normativa individua, quindi, i tre presupposti per l’esistenza dell’abuso: 1) l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione; in tale contesto la locuzione “indipendentemente dalle intenzioni del contribuente” mira a “oggettivizzare” l’abuso, rendendo la condotta abusiva “inopponibile” all’Amministrazione finanziaria che, di conseguenza, ne disconosce i vantaggi conseguiti dal contribuente applicando i tributi secondo le disposizioni eluse, ovvero l’individuazione della condotta abusiva non rende nulli i negozi conclusi dal contribuente, ma li rende solo inefficaci ai fini tributari.

A norma dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), costituiscono “operazioni prive di sostanza economica” i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali, ed a solo titolo esemplificativo sono indicati come indici di mancanza di sostanza economica tanto la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme, quanto la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato, mentre per “vantaggi fiscali indebiti” si considerano i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario, di talché deve sussistere la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi, il che permette di calibrare in modo adeguato l’ipotesi di abuso in ragione dei differenti principi che sono alla base dei tributi non applicati, fermo restando che la ricerca della ratio e la dimostrazione della sua violazione deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione, con la conseguenza che i vantaggi fiscali indebiti che si realizzano per effetto dell’operazione priva di sostanza economica devono essere fondamentali rispetto a tutti gli altri fini perseguiti dal contribuente, nel senso che il perseguimento di tale vantaggio deve essere stato lo scopo essenziale della condotta stessa, ciò in attuazione del criterio direttivo dell’art. 5, primo comma, lett. b), n. 1), della legge delega 11 marzo 2014, n. 23.

A norma dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), non si considerano abusive, in ogni caso, le “operazioni giustificate da non marginali ragioni extrafiscali”, anche di ordine organizzativo o gestionale che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente, di talché per cogliere la non marginalità delle ragioni extrafiscali occorre guardare all’intrinseca valenza di tali ragioni rispetto al compimento dell’operazione di cui si sindaca l’abusività, dovendosi quindi dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni.

L’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), prevede anzitutto che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ovvero la violazione di altre disposizioni, con ciò confermando che la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, e in particolare, l’evasione e la frode che devono continuare ad essere perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre, cosicché se una situazione configura una fattispecie regolata dal citato D.Lgs. n. 74/2000, in quanto frode o in quanto simulazione, l’abuso non può essere invocato.

La scelta adottata dal legislatore con il D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, è stata quella di escludere la rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto, quali descritte dalla norma generale dell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), facendo salva, per converso, l’applicabilità ad esse delle sanzioni amministrative, ove ne ricorrano in concreto i presupposti, rimanendo peraltro impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive e di ritenere, nei congrui casi, che operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione.

La stipulazione di un contratto di prestito delle azioni, stock lending agreement, essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, quand’anche comportasse la nullità di tale contratto e la sua inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, non potrebbe giammai integrare una condotta penalmente rilevante in quanto il nuovo art. 10-bis, aggiunto alla legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, esclude espressamente che le operazioni che siano prive di sostanza economica e realizzino vantaggi fiscali indebiti possano dare luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, intendendosi per operazioni abusive del predetto genere quelle operazioni che, “pur nel rispetto formale delle norme fiscali”, siano “prive di sostanza economica” in quanto inidonee “a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”, e che realizzino “essenzialmente vantaggi fiscali” qualificabili come “indebiti” in quanto “in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”.

Delle disposizioni presenti nell’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), quelle a contenuto tri¬butario si applicano alle sole operazioni abusive poste in essere dopo il 1° ottobre 2015, data di entrata in vigore del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, oltre a quel¬le anteriori per le quali, a tale data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo, mentre quelle a contenuto penale di cui al comma 13 del citato art. 10-bis hanno pieno effetto retroattivo, alla stregua dell’art. 2 c.p., poiché di portata più favorevole al contribuente.

[Corte di Cassazione, sez. III pen. (Pres. Squassoni, rel. Scarcella), 7 ottobre 2015, sent. n. 40272]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. Con sentenza emessa in data 18/10/2013, depositata in data 14/11/2013, la Corte d’appello di Milano confermava la sentenza del tribunale di Milano del 5/12/2012, che lo aveva riconosciuto colpevole del reato di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, (delitto di dichiarazione infedele, in particolare per aver, nella qualità di l.r. della Emmelunga Immobiliare S.r.l. nell’anno 2006, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicato nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di imposta 2005, mod. unico 2006, elementi passivi fittizi pari ad € 8.315.319,31 correlato alla stipula con la società DFD Czech s.r.o. di P., di un contratto denominato “Stock lending agreement”, sottoscritto al solo scopo di evadere le imposte sui redditi, elementi passivi fittizi che determinavano un risparmio di imposta pari a € 2.802.646, con conseguente superamento delle soglie previste dal predetto reato), condannandolo alla pena di 1 anno di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge, pene condizionalmente sospese.
2. Ha proposto ricorso M.A., a mezzo dei difensori fiduciari cassazionisti, impugnando la sentenza predetta con cui deduce tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Deduce, con i predetti motivi: a) il vizio di cui all’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., sotto il profilo della contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; b) il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, per aver il giudice di merito ritenuto come penalmente rilevante la condotta di elusione; c) il vizio di cui all’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., per inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 5 cod. pen., e dell’art. 7 Convenzione e.d.u.
2.2. In data 14/9/2015 i difensori fiduciari del ricorrente hanno depositato motivi aggiunti ex art. 585, comma quarto, cod. proc. pen., in particolare deducendo: a) la nullità dell’impugnata sentenza, per aver i giudici di merito erroneamente ritenuto che sulla base della normativa pro tempore vigente la stipula del contratto di prestito delle azioni essenzialmente per uno scopo di risparmio fiscale potesse comportare la nullità di tale contratto agli effetti civilistici; b) la nullità dell’impugnata sentenza poiché la conclusione del contratto di prestito di azioni essenzialmente per uno scopo di risparmio fiscale, quand’anche comportasse la nullità di tale contratto, non potrebbe integrare alcun delitto tributario in forza dello ius superveniens e, cioè, del nuovo art. 10-bis, da ultimo aggiunto allo Statuto dei diritti del contribuente dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.
In subordine, i difensori fiduciari del ricorrente, hanno chiesto che questa Corte, nella denegata ipotesi in cui si ritenga che la disposizione di cui al comma 5 dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015, sia volta ad escludere l’applicazione della statuizione d’irrilevanza penale delle operazioni abusive sancita dal comma 13 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente, alle operazioni poste in essere prima della data del 1° ottobre 2015 per le quali a tale data sia stato già notificato il relativo atto impositivo, voglia sollevare davanti alla Corte Costituzionale ai sensi dell’art. 23 della legge 1 marzo 1953, n. 87, la questione di legittimità costituzionale della predetta disposizione per violazione del comma 1 dell’art. 117 Cost. e dell’art. 3 Cost., in quanto si porrebbe radicalmente in contrasto con il principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito tanto dall’art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, quanto dell’art. 7 della CEDU, essendo del tutto irragionevole far dipendere l’applicazione di un deteriore trattamento penale dall’avvenuta notifica di un atto impositivo, nonché per violazione dell’art. 76 Cost., in quanto si porrebbe in contrasto con la disposizione di delega dell’art. 8 della legge n. 23 del 2014, che non legittimava il Governo ad introdurre alcuna limitazione all’efficacia temporale delle nuove fattispecie di reato tributarie.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 3. Il ricorso è fondato per le ragioni di seguito esposte.
4. Occorre, sul punto, premettere quanto segue.
È contestato al ricorrente il delitto di dichiarazione infedele per aver, nella qualità di l.r. della Emmelunga Immobiliare S.r.l. nell’anno 2006, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicato nella dichiarazione dei redditi relativa all’anno di imposta 2005, mod. unico 2006, elementi passivi fittizi pari ad € 8.315.319,31 correlato alla stipula con la società DFD Czech s.r.o. di P., di un contratto denominato “Stock lending agreement”, sottoscritto al solo scopo di evadere le imposte sui redditi, elementi passivi fittizi che determinavano un risparmio di imposta pari a € 2.802.646, con conseguente superamento delle soglie previste dal predetto reato.
Secondo quanto argomentato dalla Corte d’appello, cioè, sfruttando il regime di tassazione dei dividendi prodotti all’estero all’epoca vigente (solo il 5% in Italia, ex art. 89 TUIR) e quello (ex art. 109, comma quinto, TUIR come modificato nel 2003) di deduzione dei costi connessi alla loro produzione in forza del quale “le spese e gli altri componenti negativi … sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”, la società amministrata dal ricorrente attraverso la stipulazione di un contratto di “prestito titoli” avente quale controparte la società ceca DFD Czech S.r.o. ed un contratto ad esso correlato di “scommessa sui dividendi” con la medesima società solo apparentemente aleatorio (nella prospettazione accusatoria, accolta dai giudici milanesi), esponeva nella dichiarazione dei redditi relativa al 2005, elementi passivi fittizi per oltre 8 milioni di euro con conseguente risparmio fiscale di circa 3 milioni di euro.
5. Com’è noto, il contratto di stock lending è costituito da un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia (rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito), chiamata collaterale, a favore del mutuante (tender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti. Alla scadenza il mutuatario restituisce al mutuante altrettanti titoli della stessa specie e quantità dei titoli ricevuti e il mutuante ritrasferisce al mutuatario i beni oggetto della garanzia. Se il collaterale è costituito da cash, il tender ha il dovere di remunerarlo al borrower ad un tasso di mercato (nella prassi viene utilizzato EONIA sul collaterale espresso in euro, Fed Funds per i dollari, ecc.). Se invece il collaterale fornito è Non-cash non viene richiesta alcuna remunerazione. Ulteriore caratteristica di tale contratto è costituita dalla necessità che il rapporto esistente tra il valore dei titoli mutuati e il valore dei beni costituiti a garanzia rimanga inalterato nel corso della durata dell’operazione. Ne consegue che entrambe le parti saranno obbligate ad integrare la garanzia originariamente prestata (in caso di apprezzamento dei titoli oggetto del prestito) o a restituire l’eccedenza (in caso di deprezzamento).
Per quanto riguarda la durata, si possono avere due tipologie: a) Prestiti aperti (on open basis); in questo caso, non hanno una durata stabilita e quindi il borrower può chiudere l’operazione in qualunque momento (return) e il tender può chiedere la restituzione dei titoli in qualunque momento (recall), in questo ultimo caso però per la valuta standard di settlement (T+3 per l’Italia); si tratta della forma più utilizzata in quanto consente una maggiore flessibilità operativa, ed il tasso sottostante l’operazione può essere oggetto di rinegoziazione (re-rate) durante la vita del prestito per adeguare lo stesso a mutate condizioni di mercato; b) Prestiti chiusi; in questo caso, la durata del prestito è stabilita a priori e i due contraenti non possono chiudere l’operazione in anticipo e neppure rinegoziare il tasso; le fee maturate sui prestiti, così come gli interessi sulla garanzia cash (rebate), vengono pagati/incassati mensilmente e non alla scadenza di ogni singola operazione.
6. Per quanto riguarda i vantaggi, l’attività di stock lending permette al soggetto che presta i titoli di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento senza ostacolare in alcun modo le scelte operative.
Orbene, la difesa dei ricorrenti ha contestato sin dal giudizio di primo grado, reiterando il relativo motivo davanti ai giudici di appello e davanti a questa Corte, l’affermazione dei giudici di merito secondo cui deve escludersi che l’operazione possa rientrare anche solo nell’orbita dell’elusione fiscale, in quanto connotata da elementi di evidente artificiosità tali che gli elementi passivi da essa scaturiti devono dirsi solo apparenti e, dunque, fittizi, nel senso indicato dalla disposizione dell’art. 4, d.lgs. n. 74 del 2000, norma alla quale la dottrina e la giurisprudenza facevano riferimento – prima dell’introduzione dell’art. 10-bis nello Statuto del contribuente ad opera del D.Lgs. n. 128 del 2015, la cui incidenza sulla questione sottoposta all’esame di questa Corte è, come si vedrà, risolutiva – per sanzionare l’elusione fiscale, ma che non esaurisce, secondo i giudici di merito, la sua operatività in tale ambito.
Secondo la difesa, diversamente, in estrema sintesi, il contratto sarebbe lecito ed effettivo, donde rispetto ad esso potrebbe tutt’al più configurarsi una forma di elusione in ragione della possibile finalità di risparmio fiscale, priva tuttavia di rilevanza penale, posto che l’operazione non rientra tra quelle che la normativa tributaria (in particolare l’art. 37-bis, TUIR) individua come elusive, condizione alla quale la più recente giurisprudenza di legittimità ritiene di dover limitare la rilevanza penale dell’elusione.
7. Al fine di meglio comprendere la ragione dell’operazione, è utile procedere alla verifica dell’operazione negoziale come illustrata dalla lettura dell’impugnata sentenza.
EI prendeva in prestito da DFD, con accordo siglato dal M. in data 18/21.11.2005, la partecipazione azionaria – pari al 38% – che DFD aveva in Tallers SA (società portoghese con sede a Madeira, integralmente partecipata da DFD) il cui patrimonio era costituito quasi unicamente dalla partecipazione – 1 sola azione, acquistata in data 7.10.2005, del valore di 1 $ – in una società avente sede nelle Isole Vergini (Selected Capital Opportunity Limited), valorizzata nel bilancio 2005 di Tallers per 170.000.000 euro.L’accordo prevedeva che EI, quale “prestataria” del 38% della azioni Tallers, avesse diritto all’incasso dei dividendi ad esse correlati, conservando invece DFD, quale titolare e “prestatore” delle azioni, gli altri diritti tra i quali il diritto di voto. Al prestito non oneroso dei titoli era legata una pattuizione in forza della quale, laddove Tallers avesse deliberato nel 2005 la distribuzione di dividendi in misura inferiore a 6.400.000 euro (nella quota del 38% spettante ad EI), EI li avrebbe incassati senza nulla dovere a DFD; a fronte di dividendi distribuiti in misura superiore, EI avrebbe invece dovuto versare a DFD una “commissione” pari al valore dei dividendi incassati aumentato di una percentuale – 9,328% – su tale importo. Nel primo caso EI avrebbe guadagnato i dividendi e nulla avrebbe dovuto a DFD, che avrebbe registrato una perdita netta; nel secondo caso EI non solo non avrebbe guadagnato dividendi (dovendo “girare” pari importo a DFD) ma per non avere guadagnato nulla era anche tenuta a corrispondere la “commissione” a DFD.
È tale seconda evenienza che, non accidentalmente a giudizio dei giudici di merito, si verificava alla data del 30.11.2005, quando Tallers, chiuso il bilancio con utile, aveva deliberato la distribuzione di tutti i dividendi conseguiti per più di 20.000.000 di euro. Ad EI, titolare del diritto alla percezione nella misura proporzionale del 38%, andavano 7.605.845 euro, come da comunicazione che in data 15.12.2005 DFD inoltrava alla controparte. In conseguenza di ciò EI incassava i dividendi relativi alle azioni ricevute in prestito (tassati in Italia solo nella misura del 5%) pari all’importo di 7.605.845 euro sopra indicato, ma retrocedeva a DFD la stessa somma aumentata della commissione concordata, complessivi 8.315.318,31 euro, importo che contabilizzava ed esponeva nella dichiarazione fiscale presentata il 25.10.2006 (a firma dell’imputato), quale voce di costo. Le operazioni in questione erano finanziariamente regolate tutte, in data 21.12.2005, presso una stessa banca di Lugano, la Banca di Gestione Patrimoniale (BGP), sia per l’accredito dei dividendi da parte di EI, sia per il pagamento della commissione da EI a DFD. I documenti bancari acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale, aspetto sottolineato dal Tribunale, davano conto dell’effettiva movimentazione degli importi, ma non della riferibilità a Tallers della somma accreditata ad EI. Quest’ultima poteva dunque esporre nella dichiarazione relativa al 2005 costi per le “commissioni” versate a DFD (costi ritenuti fittizi dal giudicante) per 8.315.318,31 euro, abbattendo in modo significativo gli utili conseguiti nell’anno e, soprattutto, azzerando un’importante plusvalenza, realizzata proprio in tale annualità fiscale, pari a 7.050.727 euro.
Dalla stipulazione del contratto di stock lending, EI aveva conseguito un risparmio fiscale di 2.802.646,11 euro a fronte di un esborso che in sostanza era stato pari alla percentuale del 9,38% corrisposta a DFD (euro 709.473,31), il prezzo dell’illecita collaborazione secondo i giudici di merito: il valore dei dividendi accreditati ad EI era infatti retrocesso integralmente a DFD come da accordo, sicché nella contenuta misura di poco più di 700.000 euro – notevolmente inferiore al valore del vantaggio fiscale di quasi 3 milioni di euro – si era determinato l’esito dell’operazione per EI, nel contempo significativamente avvantaggiata sul piano fiscale.
Osservavano i giudici di merito che la fittizietà dei costi era legata alla mera apparenza dell’operazione contrattuale, predisposta dalle parti in vista del vantaggio fiscale e già nota nel suo esito, come poteva desumersi da una serie di indicatori quali: a) assenza di trasferimento effettivo delle azioni di Tallers, rimaste sempre nel possesso di DFD (formalmente in ragione di un pegno sulle stesse concesso da EI a garanzia della operazione); b) solo apparente terzietà di Tallers rispetto a DFD, essendo la prima di integrale proprietà della seconda; c) solo apparente aleatorietà del contratto, in funzione della misura di ripartizione dei dividendi di una società non operativa, il cui patrimonio era costituito solo da partecipazione in una società avente sede nelle Isole Vergini, acquisita pochi giorni prima dell’operazione, il cui valore (170.000.000 di euro) era insuscettibile di verifica, sostanzialmente rimesso all’indicazione della controparte negoziale DFD; d) assenza sostanziale di alea nella gravosa scommessa assunta da EI, anche in ragione del fatto che la delibera relativa alla distribuzione dei dividendi rientrava nell’esclusiva disponibilità di DFD, che di Tallers era proprietaria, e che tale distribuzione aveva deciso in data 30.11.2005, solo pochi giorni dopo l’accordo con EI, datato 21.11.2005; e) sostanziale compensazione finanziaria dell’operazione nel suo complesso su un conto svizzero appositamente costituito in funzione dell’operazione, senza possibilità di verificare la riferibilità dell’accredito in favore di EI come disposto da Tallers.
La conclusione dei giudici di merito era nel senso che l’operazione risultava predeterminata, non solo quanto all’an ma anche in relazione al quantum, come risultava evidente dalla circostanza che la misura della “commissione” versata da EI a DFD era pressoché corrispondente alla plusvalenza che EI aveva conseguito per il 2005, il cui rilievo fiscale era eliso grazie ai costi “fittizi” generati dall’accordo contrattuale. Osservavano peraltro i giudici di merito che la finalità di evasione in capo ad EI era confermata dalla circostanza che la società si occupava di locazione di immobili e che l’operazione apparentemente speculativa posta in essere con DFD non si inseriva certamente nella sua ordinaria operatività, appariva sostanzialmente improvvisata dal M. senza quell’elaborazione che un contratto apparentemente così rischioso ed oneroso, con controparti ignote nelle loro caratteristiche, avrebbe invece richiesto.
Ritenevano, dunque, i giudici di merito che l’operazione, avente l’unica sua ragione nel vantaggio fiscale conseguito, non poteva neppure dirsi elusiva, essendosi la parte avvalsa di uno strumento negoziale solo apparente, dietro al quale non vi era nulla. I costi correlati alla pattuizione tra EI e DFD dovevano dunque dirsi fittizi, pressoché negli stessi termini in cui fittizi sono ritenuti i costi relativi a fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
8. Come detto, la difesa del ricorrente, sia nei gradi di merito che davanti a questa Corte, basa le proprie contestazioni sull’effettività e liceità del contratto, rilevando che rispetto ad esso potrebbe al più configurarsi una forma di elusione in ragione della possibile finalità di risparmio fiscale, priva tuttavia di rilevanza penale, posto che l’operazione non rientra tra quelle che la normativa tributaria (in particolare l’art. 37-bis TUIR) individua come elusive, condizione alla quale la più recente giurisprudenza di legittimità ritiene di limitare la rilevanza penale dell’elusione.
La questione deve essere oggi rivalutata alla luce della nuova disciplina del c.d. abuso del diritto, per come riformulata dall’art. 10-bis, del c.d. Statuto del contribuente (L. 27.7.2000 n. 212, in G.U. 31.7.2000 n. 177), in vigore dal 1° ottobre 2015, ossia proprio il giorno della discussione in pubblica udienza del presente ricorso, in base a quanto disposto dall’art. 1, comma 5, del citato d.lgs. 5.8.2015 n. 128 (in G.U. 18.8.2015 n. 190), recante “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23”, a norma del quale «Le disposizioni dell’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, hanno efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo». Tra le disposizioni in vigore dal 1 ottobre 2015, v’è, in particolare, quella del comma 13 del richiamato art. 10-bis, a termini del quale, inequivocamente, si stabilisce che “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.
9. La previsione del comma 13 rende – come si vedrà infra – del tutto ultroneo l’esame della questione afferente la natura “elusiva” o “evasiva” dell’operazione negoziale posta in essere dalla società amministrata dal ricorrente – questione risolta negativamente dai giudici di merito e contrastata, come detto, dalla difesa del ricorrente –, laddove si consideri che, nel caso in esame, è pacifico che in tanto l’operazione negoziale è stata ritenuta penalmente rilevante, in quanto i giudici di merito, pur ammettendo in astratto la liceità della medesima in quanto non fraudolenta, ma al più elusiva (sul punto non deve confondere il riferimento, in più punti della decisione impugnata, alla natura “artificiosa” dell’operazione negoziale che potrebbe essere intesa per “fraudolenza” della medesima, atteso che la stessa Raccomandazione della Commissione del 6.12.2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva, al punto 4, nel prevedere che “per contrastare le pratiche di pianificazione fiscale aggressiva che non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme nazionali specifiche intese a combattere l’elusione fiscale, gli Stati membri dovrebbero adottare una norma generale antiabuso adattata alle situazioni nazionali, alle situazioni transfrontaliere limitate all’Unione e alle situazioni che coinvolgono paesi terzi”, esortava gli Stati membri ad includere la segue clausola nella legislazione nazionale: «Una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale deve essere ignorata. Le autorità nazionali devono trattare tali costruzioni a fini fiscali facendo riferimento alla loro “sostanza economica”», donde è evidente che “l’artificiosità” – come del resto chiarito dal successivo p. 4.4. della medesima Raccomandazione – è intesa come “mancanza di sostanza commerciale”, ossia proprio nel senso oggi voluto dal legislatore nazionale con la previsione dell’art. 10-bis, che, al comma 2, lett. a), definisce come “operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”), hanno ritenuto che non poteva seriamente contestarsi la natura fittizia dell’operazione e del suo esito, nel momento in cui questa veniva realizzata muovendo dalla misura del risparmio fiscale da perseguire, a partire dall’acquisizione della partecipazione Tallers (sino all’ottobre 2005 una scatola vuota, in quanto non operativa e priva persino della partecipazione di 1 sola azione in SCO), con la stipulazione di un contratto di prestito titoli che non ha implicato neppure il loro materiale trasferimento, con una clausola di natura aleatoria che, nel caso, non aveva alcun profilo di alea, ma offriva ai contraenti la certezza del programmato risultato; né, del resto, osservano i giudici di merito, rilevava in senso contrario che, proprio per la necessità di documentare un’operazione contrattuale di mera apparenza, tutti i passaggi della stessa siano stati documentati, finanziariamente regolati, contabilmente registrati e che, pertanto, EI abbia effettivamente corrisposto a DFD le commissioni per 8.315.319,31 euro, portate in detrazione perché la normativa fiscale lo consentiva. Si trattava, come evidenziato dai giudici di merito, di elementi passivi qualificabili come fittizi seppure non inesistenti in natura, in quanto artificialmente creati al solo scopo di essere esposti nella dichiarazione fiscale, senza che essi facessero riferimento ad un’effettiva operatività.
Neppure convincente appariva ai giudici di merito la censura secondo cui l’operazione suddetta, consistendo in negozi giuridici regolarmente stipulati, avrebbe comunque realizzato gli effetti cui mirava, e non potrebbero essere considerati fittizi o inesistenti in ragione della mera finalità di evasione. Seppure non ci si trovi dinanzi a contratti simulati in senso civilistico, posto che il prestito di quote e la “scommessa” tra EI e DFD erano voluti, ma semmai di un contratto nullo per difetto di causa (l’alea), deve osservarsi – precisano i giudici di merito – che il sistema intende(va) punire (dovendosi tale affermazione rivisitare alla luce del nuovo disposto dell’art. 10-bis dello Statuto del contribuente) ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e l’espressione documentale di essa, e non soltanto la mancanza assoluta dell’operazione e la inesistenza “in natura” della voce passiva esposta. Anche ciò che giuridicamente è effettivo, osservano i giudici di merito, può essere senz’altro fraudolento e determinare effetti fittizi se sul piano economico non vi è stata affatto l’operazione che le parti di un contratto abbiano convenuto. Ciò che nel caso sarebbe avvenuto, posto che l’esistenza di un accordo tra DFD e EI (che nel suo contenuto effettivo, in nulla aleatorio, non corrispondeva allo schema del contratto stipulato) ammantato da un negozio giuridico formalmente ineccepibile, non lo rende meno fittizio.
La voce di costo esposta da EI nella dichiarazione 2005, conclusivamente, in quanto appositamente creata con un complesso meccanismo negoziale artificiosamente piegato a tale unico scopo – non solo frutto della fisiologica operatività del contratto di “stock lending” e del meccanismo di favorevole trattamento fiscale dei suoi possibili esiti – confluita nella determinazione del reddito di impresa sulla scorta di una valutazione in termini di trattamento fiscale che deliberatamente non considerava la realtà delle operazioni, poteva ben dirsi “fittizia” ai sensi dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000.
10. Il ragionamento dei giudici di merito, in astratto condivisibile alla luce della normativa vigente all’epoca della decisione, deve, tuttavia, essere rivisitato oggi, a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale, prevista dall’art. 10-bis, dello “Statuto”, introdotto come detto dal D.Lgs. n. 128 del 2015, in vigore dal 1º ottobre 2015.
Com’è noto, nel sistema previgente, non esisteva una nozione legislativa di “abuso del diritto”, essendo questo un istituto di derivazione giurisprudenziale. Era presente, però, una specifica norma che, per le imposte sui redditi, consentiva di disconoscere i vantaggi fiscali di determinate operazioni (ad esempio, fusioni societarie, classificazioni di bilancio) qualora ne fosse dimostrato il loro utilizzo indebito, strumentale all’ottenimento di vantaggi tributari altrimenti non spettanti. Si tratta(va) dell’art. 37-bis del DPR n. 600/73, ove era pure contenuta una procedura da osservare, consistente, tra l’altro, nella previa richiesta di chiarimenti al contribuente. Detta disposizione è stata infatti espressamente abrogata dall’art. 1, comma secondo, del D.Lgs. n. 128 del 2015, che così prevede: «L’articolo 37-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, è abrogato. Le disposizioni che richiamano tale articolo si intendono riferite all’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, in quanto compatibili».
Il nuovo testo legislativo (D.Lgs. n. 128 del 2015), dunque, si prefigge lo scopo, da un lato, di delineare quali condotte possono integrare il c.d. “abuso del diritto”, dall’altro, di abrogare l’art. 37-bis del DPR 600/73, e di disciplinare l’intero tema in una norma nuova, l’art. 10-bis della L. 212/2000. Così facendo, il divieto di “abuso del diritto” è pacificamente operante per tutti i tipi di imposte, essendo contenuto non più nel DPR n. 600/73, bensì nella L. n. 212/2000, fatta eccezione, per espressa disposizione legislativa, per i diritti doganali di cui all’art. 34 del DPR n. 43/73, che restano disciplinati dai comparti normativi di riferimento.
Tanto premesso, secondo le nuove disposizioni, “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi indebiti”. Queste operazioni non sono opponibili all’Amministrazione finanziaria, che ne può disconoscere i vantaggi tributari determinando le imposte secondo le regole ordinarie, fermo restando il riconoscimento di quanto già versato dal contribuente. Nel testo viene precisato che: a) per “operazioni prive di sostanza economica” si intendono i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, “inidonei a produrre effetti significativi diversi da quelli fiscali” (ad esempio, indici di mancanza di sostanza economica possono essere “la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”); b) per “vantaggi fiscali indebiti”, i benefici, anche non immediati, contrastanti con le finalità delle norme tributarie o con i principi dell’ordinamento tributario. In ogni caso, il legislatore sancisce che non si considerano abusive le operazioni giustificate da valide ragioni economiche, non marginali, anche di ragione organizzativo o gestionale, “che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente”. È comunque ferma la facoltà di scelta tra regimi opzionali diversi e tra operazioni comportanti un differente carico fiscale.
Nella specie, era stata contestata la natura non solo elusiva ma sostanzialmente fittizia dell’operazione negoziale consistente nell’utilizzo di un’operazione negoziale formalmente lecita (il c.d. stock lending agreement) per conseguire un risparmio fiscale, quest’ultimo essendo riconosciuto come unico scopo dell’operazione al fine di riportare nella dichiarazione fiscale 2005 elementi passivi “fittizi” artificialmente creati, con le modalità sopra descritte, al solo scopo di essere inseriti in dichiarazione e conseguire il risparmio d’imposta.
11. Che, peraltro, l’operazione negoziale utilizzata fosse lecita è questione discussa sia nella giurisprudenza tributaria che penale.
In merito al meccanismo di “stock lending”, complesso di operazioni dal quale emerge sempre una perdita fiscale utile a compensare il reddito effettivamente prodotto dalla società in Italia, la giurisprudenza tributaria e quella civile hanno espresso posizioni non uniformi. La C.T. Prov. di Treviso, nel 2010, ha affermato che le operazioni di stock lending in oggetto configurano un abuso di diritto (C.T. Prov. Treviso 16.12.2010 n. 114/06/10, C.T. Prov. Treviso 27.8.2010 n. 77/2/10). Il Tribunale di Trento, poi, ha ritenuto che tali operazioni, prive di valide ragioni economiche, poste in essere per far confluire nel bilancio della società ingenti oneri deducibili a fronte di proventi sotto forma di dividendi detassati al 95%, devono ritenersi non fraudolente, ma fiscalmente elusive e riconducibili alle operazioni di cui all’art. 37-bis del DPR 600/73, rimanendone, quindi, preclusa una qualsivoglia rilevanza penale per il principio di tassatività delle fattispecie criminose e per la necessità del dolo specifico nei delitti di cui agli artt. 2, 3 e 4 del DLgs. 74/2000, (Trib. Trento 29.9.2011 n. 571).
Diversamente, i giudici tributari milanesi, ravvisando un’adeguata ragione economica idonea ad escludere la sussistenza di sole motivazioni di vantaggio fiscale nelle predette operazioni, hanno accolto in altro caso il ricorso della contribuente (C.T. Prov. Milano 4.7.2011 n. 154). Analogamente, la C.T.R. Lombardia ha ribadito che dette operazioni non possono essere ritenute elusive o censurabili in applicazione del divieto di abuso del diritto laddove siano sorrette da valide ragioni economiche che l’ufficio non riesca a sconfessare, aggiungendosi peraltro che le contestazioni di tale natura dovessero essere motivate dall’Amministrazione finanziaria, non essendo sufficiente fare un generico rinvio a norme antielusive come l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973, o al divieto di abuso del diritto. La vicenda riguardava proprio l’operazione negoziale in esame, fondata anche su indagini finanziarie, di cui era protagonista una società italiana. Il controllo era infatti focalizzato sui contratti di compravendita a termine di titoli azionari stipulati da quest’ultima con una società della Repubblica ceca. I contratti avevano sempre ad oggetto azioni di società portoghesi (M).
La società italiana, in qualità di borrower, ha pagato una commissione (stock lending fee) per i vantaggi economici derivanti dal possesso temporaneo dei titoli (che danno diritto alla percezione di dividendi comunitari non tassati). Il Fisco aveva ritenuto tali commissioni non deducibili dal reddito in quanto l’operazione sarebbe stata animata dalla sola volontà di ottenere vantaggi di imposta indebiti. A fronte del ricorso della società contribuente la Ctp Milano aveva annullato l’atto di accertamento. La C.t.r. Lombardia confermava la decisione di primo grado. Secondo i giudici d’appello, «i diversi risultati conseguiti nel tempo dai soggetti interessati, a conferma dell’aleatorietà, la correttezza delle rilevazioni contabili … fanno escludere la sussistenza di dolo». Inoltre il Collegio escludeva che per la deducibilità degli oneri in questione potesse rivestire rilievo l’eventuale estraneità all’oggetto sociale dell’impresa di tali operazioni finanziarie. Quanto alle valide ragioni economiche, il contribuente aveva dimostrato l’esistenza di un’«operazione di natura speculativa suscettibile di produrre guadagni a fronte di un rischio … sempre contenuto, anche in considerazione dell’elevato livello di solidità del gruppo bancario cui le società … fanno parte». Infine la C.t.r. stigmatizzava la genericità e la scarsa significanza del riferimento al divieto di abuso del diritto. In sostanza, l’effettività delle operazioni e soprattutto la sussistenza di un vantaggio economico, connesso alla dimostrazione della matrice speculativa dell’investimento, escludono la possibilità di elevare contestazioni in tema di stock lending. Del resto, osservavano i giudici tributari milanesi, la giurisprudenza di legittimità ha costruito l’abuso del diritto sui pilastri dell’art. 37-bis del Dpr 600/1973, e quindi per poterlo invocare, oltre al vantaggio tributario indebito ed all’aggiramento di norme, il Fisco deve provare proprio l’assenza di valide ragioni economiche.
Infine, anche la C.T. Prov. di Verona 12.12.2011 n. 240 si era pronunciata a favore del contribuente, considerando anche le risultanze penali da cui era emerso che il GIP di Bergamo aveva prosciolto gli imputati, stante la prova documentale delle movimentazioni finanziarie effettuate.
12. Ciò che, tuttavia, ed ogni caso, rileva, è che oggi (art. 10-bis, comma 13, della legge n. 212 del 2000) le contestazioni fondate sull’elusione fiscale e sull’abuso del diritto non danno mai luogo a violazioni penali tributarie. Invece, possono essere irrogate le sanzioni amministrative, quindi, in linea generale, la sanzione per dichiarazione infedele, come nel caso in esame, che prevede una sanzione dal 100% al 200% della maggiore imposta ex art. 1, co. 2 del D.Lgs. n. 471/97. Non è quindi più questa la sede per valutare la fittizietà o meno dell’operazione negoziale (e, dunque, la sua abusività) finalizzata in via esclusiva al conseguimento di un risparmio di imposta, atteso che con l’entrata in vigore lo stesso giorno dell’udienza davanti a questa Corte (1° ottobre 2015) del citato art. 10-bis, il fatto per come contestato è privo di rilevanza penale.
13. Per meglio comprendere l’approdo di questa Corte, è necessario svolgere alcune riflessioni.
Nell’ordinamento giuridico italiano non era presente una clausola antielusiva generale. La prima manifestazione normativa di contrasto alle pratiche abusive è quella dell’art. 10 della legge n. 408 del 1990, che consente all’Amministrazione finanziaria di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in operazioni di concentrazione, trasformazione, scorporo, cessione di azienda, riduzione di capitale, liquidazione, valutazione di partecipazioni, cessione di crediti e cessione o valutazione di valori mobiliari poste in essere senza valide ragioni economiche allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta. Successivamente, per le stesse fattispecie, era intervenuto l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (inserito dall’art. 7 del D.Lgs. n. 358 del 1997) che costituiva prima della novella del 2015 la norma antielusiva di riferimento, nell’ambito della disciplina dell’accertamento delle imposte sui redditi, anche se applicabile ad un numero chiuso di operazioni. La norma prevedeva l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria degli atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, se: a) privi di valide ragioni economiche; b) diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario; c) volti ad ottenere un vantaggio fiscale indebito (riduzione d’imposta o rimborso).
La legge delega 11 marzo 2014, n. 23, aveva previsto, in via generale, nel suo art. 1, comma 1, il “rispetto dei principi costituzionali, in particolare di quelli di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione, nonché del diritto dell’Unione europea, e di quelli dello statuto dei diritti del contribuente”. Con specifico riguardo all’abuso aveva fissato, all’art. 5, criteri diretti a promuovere una chiara normativa di attuazione che determinasse esaustivamente e senza ambiguità i connotati dell’abuso e le modalità dell’uso distorto degli strumenti negoziali, in sostituzione del predetto art. 37-bis. L’obiettivo della delega era quello di dare maggiore certezza al quadro normativo in tema di elusione-abuso del diritto, di evitare che gli uffici esercitassero i loro poteri di accertamento senza precise linee guida limitandosi a invocare il principio generale antiabuso e, soprattutto, di sganciare la dimostrazione della sussistenza della sostanza economica delle operazioni dalla sfera dei motivi della condotta, oggettivizzandola nel senso dell’effettività.
La norma di delega era dunque volta a riequilibrare il rapporto tra lo strumento anti-elusione e la certezza del diritto, messa in discussione dalla prassi amministrativa di sindacare ex post le scelte dei contribuenti sulla base di orientamenti non noti al momento in cui le operazioni sottoposte a controllo sono già decise ed effettuate. Pertanto, da un lato, si prevedeva che venisse stabilito il generale divieto di utilizzare in modo distorto gli strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione. Dall’altro lato, si prevedeva che venisse riconosciuto al contribuente il diritto di scelta tra diverse operazioni comportanti un diverso carico fiscale, purché essa non sia volta unicamente ad ottenere indebiti vantaggi fiscali; in particolare, riconoscendo l’ammissibilità dell’operazione qualora essa sia giustificata da ragioni extrafiscali “non marginali”; precisandosi che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e consistono in un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente. Doveva prevedersi l’inopponibilità della fattispecie abusiva all’Amministrazione finanziaria, alla quale è consentito di disconoscere immediatamente l’indebito risparmio d’imposta. Già in un una prima versione del disegno di legge si prevedeva, inoltre, l’esclusione della rilevanza penale della condotta che integra l’abuso del diritto.
Come già ricordato, la disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale è stata oggi inserita in un apposito e nuovo articolo, l’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente). Questa collocazione muove dall’esigenza di introdurre un istituto che, conformemente alle indicazioni della legge delega, unifichi i concetti di elusione e di abuso e conferisca a questo regime valenza generale con riguardo a tutti i tributi, sia quelli armonizzati, per i quali l’abuso trova fondamento nei principi dell’ordinamento dell’Unione europea, sia quelli non armonizzati, per i quali il fondamento è stato individuato dalla Corte di Cassazione nel principio costituzionale della capacità contributiva (v., sul punto, quanto affermato dalle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con le tre sentenze n. 30055, n. 30056 e n. 30057 del 23 dicembre 2008 (1)).
Ciò consente, in altri termini, di riferire l’applicazione di questa disciplina tanto alle imposte sui redditi, come finora previsto dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, quanto a quelle indirette, fatta salva la speciale disciplina in materia doganale. Inoltre, l’inserimento di questa disciplina nell’ambito dello Statuto dei diritti del contribuente conferisce ad essa la forza di principio preordinato alle regole previste nelle discipline dei singoli tributi, come è stato più volte riconosciuto da questa Corte relativamente alle altre disposizioni contenute nello Statuto (v., ad esempio, con riguardo al principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino, di cui all’art. 10, dello Statuto, quanto affermato da Cass. Civ., Sez. T, sentenza n. 9308 del 17 aprile 2013 (2), in CED Cass., n. 626312).
14. Il nuovo art. 10-bis, rubricato “Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale”, mette in evidenza l’unificazione della nozione di abuso del diritto con quella di elusione fiscale, derivandone, dunque, che nell’articolato normativo i due termini sono equipollenti e utilizzati indifferentemente. In attuazione di quanto disposto dall’art. 5 della legge delega, la nuova norma contiene una completa, seppur sintetica, definizione di abuso del diritto. La norma stabilisce, in particolare, che configurano “abuso del diritto” le operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali e indipendentemente dalle intenzioni del contribuente, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. La previsione individua, quindi, i tre presupposti per l’esistenza dell’abuso: 1) l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate; 2) la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito; 3) la circostanza che il vantaggio è l’effetto essenziale dell’operazione. La locuzione “indipendentemente dalle intenzioni del contribuente” mira a “oggettivizzare” l’abuso, in conformità, peraltro, a quanto suggerito dalla raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012 (par. 4.5).
Importante è poi la previsione, già contenuta nel richiamato art. 37-bis (di cui è stata prevista l’abrogazione espressa, contemplandosi anche una disposizione concernente la disapplicazione, mediante interpello, di norme antielusive specifiche, riproponendo quanto già previsto dall’attuale art. 37-bis, comma 8) secondo cui la condotta abusiva è “inopponibile” all’Amministrazione finanziaria che, di conseguenza, ne disconosce i vantaggi conseguiti dal contribuente applicando i tributi secondo le disposizioni eluse: in altri termini, l’individuazione della condotta abusiva non rende nulli i negozi conclusi dal contribuente, ma li rende solo inefficaci ai fini tributari.
La norma chiarisce in modo analitico il significato dei termini utilizzati nella definizione sintetica di abuso, specificando cosa debba intendersi per operazioni prive di sostanza economica e per vantaggi fiscali indebiti.
In particolare, sono “operazioni prive di sostanza economica” i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. A solo titolo esemplificativo, sono indicati due indici di mancanza di sostanza economica: 1) la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme; 2) la non conformità degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato.
Per “vantaggi fiscali indebiti” si considerano, poi, i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario. Deve sussistere, quindi, la violazione della ratio delle norme o dei principi generali dell’ordinamento e, soprattutto, di quelli della disciplina tributaria in cui sono collocati gli obblighi e divieti elusi. Ciò permette, in particolare, di calibrare in modo adeguato l’ipotesi di abuso in ragione dei differenti principi che sono alla base dei tributi non applicati, fermo restando che, come si è detto, la ricerca della ratio e la dimostrazione della violazione di essa deve costituire il presupposto oggettivo imprescindibile per distinguere il perseguimento del legittimo risparmio d’imposta dall’elusione. Va osservato, altresì, che i vantaggi fiscali indebiti che si realizzano per effetto dell’operazione priva di sostanza economica devono essere fondamentali rispetto a tutti gli altri fini perseguiti dal contribuente, nel senso che il perseguimento di tale vantaggio deve essere stato lo scopo essenziale della condotta stessa, ciò in attuazione del criterio direttivo dell’art. 5, comma 1, lettera b), n. 1), della legge delega.
La nuova normativa stabilisce che non si considerano abusive, in ogni caso, le “operazioni giustificate da non marginali ragioni extrafiscali”, anche di ordine organizzativo o gestionale che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
In ossequio a quanto disposto dalla legge delega, il legislatore delegato definisce come ragioni economiche extrafiscali non marginali quelle che, anche di ordine organizzativo o gestionale, rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.
A questo riguardo va osservato che la delega fa riferimento solo al miglioramento organizzativo e funzionale dell’azienda del contribuente: si pone perciò il dubbio che dette esigenze rilevino solo per le attività di tipo imprenditoriale. Per ragioni logiche e sistematiche, il legislatore delegato ha chiarito il dubbio specificando che la norma si applica anche quando l’attività economica del contribuente sia professionale e non imprenditoriale.
Vero è che la riconosciuta possibile coesistenza di ragioni economiche extrafiscali con quelle fiscali lascia margini di incertezza sul peso specifico che le une devono assumere rispetto alle altre, affinché possa essere superato il connotato di abusività dell’operazione. Tuttavia, per cogliere la non marginalità delle ragioni extrafiscali occorre guardare all’intrinseca valenza di tali ragioni rispetto al compimento dell’operazione di cui si sindaca l’abusività. In questo senso, le ragioni economiche extrafiscali non marginali sussistono solo se l’operazione non sarebbe stata posta in essere in loro assenza. In altri termini, dunque, sarà necessario dimostrare che l’operazione non sarebbe stata compiuta in assenza di tali ragioni.
15. In aderenza al criterio direttivo dell’art. 5, comma 1, lett. b), della legge delega, si ribadisce il principio generale secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio di imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, i fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo. La norma sottolinea, quindi, che l’unico limite alla suddetta libertà è costituito dal divieto di perseguire un vantaggio fiscale indebito. Di qui la già sottolineata delicatezza dell’individuazione delle rationes delle norme tributarie ai fini della configurazione dell’abuso. Ad esempio, non è possibile configurare una condotta abusiva laddove il contribuente scelga, per dare luogo all’estinzione di una società, di procedere a una fusione anziché alla liquidazione. È vero che la prima operazione è a carattere neutrale e la seconda ha, invece, natura realizzativa, ma nessuna disposizione tributaria mostra “preferenza” per l’una o l’altra operazione: sono due operazioni messe sullo stesso piano, ancorché disciplinate da regole fiscali diverse. Affinché si configuri un abuso andrà, quindi, dimostrato dall’Amministrazione finanziaria il vantaggio fiscale indebito concretamente conseguito e, cioè, l’aggiramento della ratio legis o dei principi dell’ordinamento tributario. È prevista, peraltro, la possibilità per il contribuente di presentare un’istanza di interpello preventivo all’Agenzia delle entrate al fine di conoscere se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto.
16. Senza dubbio, però, per quanto qui di interesse, uno dei punti più delicati della delega riguardava proprio il tema della rilevanza penale delle condotte sostanziatisi in abuso del diritto (nella nuova formulazione, equivalente all’elusione fiscale).
Questa Corte con la sentenza emessa nel primo processo noto come “DG” (Cass. Pen., Sez. 2, n. 7739 del 28 febbraio 2012 (3), in CED Cass., n. 252019), aveva affermato la rilevanza penale dell’elusione attuata attraverso il ricorso a qualsiasi forma di abuso del diritto. In particolare, il reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 74 del 2000 (infedele dichiarazione, oltre una certa soglia di imposta non dichiarata) è stato ritenuto configurabile quando la condotta del contribuente, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all’Amministrazione finanziaria, comporti comunque una dichiarazione non veritiera.
Orbene, il nuovo art. 10-bis, dello “Statuto”, prevede, anzitutto, che l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di disposizioni del d.lgs. n. 74 del 2000, ovvero la violazione di altre disposizioni. Il che conferma che la disciplina dell’abuso del diritto ha applicazione solo residuale rispetto alle disposizioni concernenti la simulazione o i reati tributari, in particolare, l’evasione e la frode: queste fattispecie vanno perseguite con gli strumenti che l’ordinamento già offre. Se, ad esempio, una situazione configura fattispecie regolata dal D.Lgs. n. 74/2000, in quanto frode o simulazione, l’abuso non può essere invocato.
In secondo luogo, poi, il legislatore delegato si è trovato di fronte al delicato problema di dare attuazione dalla legge delega che all’art. 8, comma 1, obbliga il Governo a procedere “alla individuazione dei confini tra le fattispecie di elusione e quelle di evasione fiscale e delle relative conseguenze sanzionatorie”. Come si ricorderà, nel corso dell’esame del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, (recante “Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento”), convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44 – meglio noto come decreto semplificazioni fiscali –, erano state presentate proposte emendative volte a prevedere, in caso di elusione fiscale, l’applicazione di sanzioni non penali bensì amministrative, con lo scopo di restituire tranquillità ai contribuenti, ripristinando la certezza del diritto e delimitando con criteri certi l’area del legittimo risparmio di spesa. Dette proposte erano state però ritirate a seguito dell’impegno del Governo a definire la questione nell’ambito del disegno di legge delega fiscale, attraverso un provvedimento organico, adeguatamente approfondito e tecnicamente funzionale, che contribuisse a stabilizzare la situazione del Paese, senza necessità di ulteriori interventi correttivi.
Il legislatore delegato si è trovato di fronte ad un bivio: o eliminare tout court la rilevanza penale dell’elusione senza conseguenze nemmeno sul piano sanzionatorio amministrativo, oppure prevedere unicamente la loro sanzionabilità amministrativa nel caso in cui si violino norme tributarie. Unica certezza per il legislatore delegato era quella di fissare una volta per tutte l’esclusione della punibilità dell’abuso del diritto con sanzioni penali, quale conseguenza della definizione che l’art. 5 della legge delega da dell’abuso. Si è visto infatti che tale definizione, per un verso, postula l’assenza, nel comportamento elusivo del contribuente, di tratti riconducibili ai paradigmi, penalmente rilevanti, della simulazione, della falsità o, più in generale, della fraudolenza; per altro verso, imprime alla disciplina dell’abuso caratteri di residuante rispetto agli altri strumenti di reazione previsti dall’ordinamento tributario.
La scelta si è orientata verso la sanzionabilità amministrativa, anche perché il legislatore delegante non ha inteso adottare la soluzione radicale di escludere ogni possibile conseguenza sanzionatola delle fattispecie elusive, circostanza, questa, puntualmente confermata dai lavori parlamentari relativi alla legge di delegazione, nel corso dei quali sono stati, tra l’altro, respinti emendamenti intesi a stabilire in termini espressi l’irrilevanza del fenomeno considerato sul versante sanzionatorio. Una simile soluzione sarebbe risultata, d’altro canto, non adeguata in rapporto all’esigenza – che pure emerge – di prevedere, nei congrui casi, un deterrente rispetto ad operazioni che, come quelle elusive, realizzano risultati comunque “indesiderati” dal punto di vista dell’ordinamento fiscale.
In definitiva, dunque, la scelta adottata dal legislatore delegato è stata quella di escludere la rilevanza penale delle operazioni costituenti abuso del diritto, quali descritte dalla norma generale, facendo salva, per converso, l’applicabilità ad esse delle sanzioni amministrative, ove ne ricorrano in concreto i presupposti (v., in particolare l’inciso, contenuto nel comma 13 dell’art. 10-bis: “Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”).
Così operata la scelta, peraltro, rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione). Parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che – alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (il cui testo è stato riformulato nello schema di decreto legislativo delegato, approvato dal Consiglio del Ministri del 22 settembre u.s.) – operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione.
17. Facendo, conclusivamente, applicazione delle novità normative al caso in esame, non possono non condividersi sul punto le osservazioni della difesa: la stipula del contratto di prestito delle azioni essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale, quand’anche comportasse la nullità di tale contratto e la sua inopponibilità all’Amministrazione Finanziaria (secondo la tesi sostenuta dai giudici di merito), non potrebbe giammai integrare una condotta penalmente rilevante in quanto il nuovo art. 10-bis, aggiunto alla legge 27 luglio 2000, n. 212, recante il c.d. Statuto dei diritti del contribuente dall’art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, concernente “Disposizioni sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, in attuazione degli articoli 5, 6 e 8, comma 2, della legge 11 marzo 2014, n. 23”, esclude espressamente che le operazioni che siano prive di sostanza economica e realizzino vantaggi fiscali indebiti possano dar luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie.
Come già anticipato, con l’emanazione di tale disposizione si è data attuazione alla disposizione dell’art. 5 della legge 11 marzo 2014, n. 23, che aveva delegato il Governo ad attuare la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, fornendo una definizione omnicomprensiva delle operazioni abusive. In particolare, come si ricorderà, devono essere considerate tali le operazioni che, “pur nel rispetto formale delle norme fiscali”, sono “prive di sostanza economica” in quanto sono inidonee “a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali” e che realizzano “essenzialmente vantaggi fiscali” qualificabili come “indebiti” in quanto “in contrasto con le finalità delle norme fiscali e o con i principi dell’ordinamento tributario”.
Inoltre, il comma 13 dell’art. 10-bis della legge n. 212, in attuazione dell’art. 8 della legge n. 23, che aveva delegato il Governo a procedere anche alla revisione del sistema sanzionatorio penale tributario, configurando come reato soltanto “i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa”, ha stabilito che le operazioni abusive così definite non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie, pur restando ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative.
Ebbene, l’operazione di cui la Corte di Appello di Milano ha contestato la commissione al M., una volta assodato che non è né inesistente, né simulata, ma esistente e voluta, non v’è dubbio che presenta tutti gli elementi che il nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente considera essenziali per la configurabilità di un’operazione abusiva, laddove considera tali, come si è visto, le operazioni che, “pur nel rispetto formale delle norme fiscali”, siano prive di sostanza economica e volte essenzialmente alla realizzazione di un vantaggio fiscale indebito.
Ed infatti, il giudice di secondo grado, se da un lato ha sostenuto che il contratto di prestito delle azioni sarebbe privo di sostanza economica ed essenzialmente volto alla realizzazione di un vantaggio fiscale indebito, laddove ha rilevato che tale contratto sarebbe stato “costruito appositamente in funzione di un preciso risparmio fiscale predeterminato persino nella sua entità …” realizzato mediante la deduzione di “elementi passivi che possono qualificarsi fittizi, seppure non in natura inesistenti, in quanto artificialmente creati al solo scopo di essere esposti nella dichiarazione fiscale”, “… senza che traccia di alea potesse incidere sull’esito della scommessa solo apparentemente concordata fra DFD e MI”, dall’altro lato, ha riconosciuto che non è stata direttamente violata alcuna norma fiscale, avendo dato atto non solo che “esiste l’accordo contrattuale fra DFD e MI …” “ammantato da un negozio giuridico forma/mente ineccepibile” (cfr. p.3) e che “… le prestazioni sono state effettivamente regolate con pagamenti bancari …”, ma anche che «non ci si trovi d’innanzi a contratti simulati in senso civilistico posto che il prestito di quote e la “scommessa” fra El e DFD erano voluti». Pertanto, condividendo quanto sostenuto dalla difesa, deve convenirsi con la considerazione per la quale la predetta condotta non può che essere considerata come penalmente irrilevante in forza della statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive sancita dal comma 13 del nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.
18. L’applicabilità di tale statuizione anche alle operazioni asseritamente abusive poste in essere prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 128 del 2015, non è nemmeno preclusa dal comma 5, del medesimo d.lgs., laddove stabilisce che le disposizioni del nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente “hanno efficacia a decorrere dal primo giorno del mese successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto” e, quindi, dalla data del 1° ottobre 2015, essendo tale decreto entrato in vigore il 2 settembre, “e si applicano anche alle operazioni poste in essere in data anteriore alla loro efficacia per le quali, alla stessa data, non sia stato notificato il relativo atto impositivo”.
Ed infatti tale comma, a ben vedere, reca non una ma due distinte ed autonome statuizioni di natura transitoria.
In particolare, con la prima, il legislatore ha inteso rendere efficaci fin dal 1° ottobre 2015 tutte le disposizioni contenute nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente. Pertanto, le disposizioni che recano la nuova disciplina tributaria dell’abuso del diritto sono destinate ad esplicare effetto per le operazioni poste in essere dalla data del 1° ottobre 2015 in virtù del principio del tempus regit actum, ovverosia del principio di irretroattività della legge sopravvenuta sancito dall’art. 11 delle disposizioni preliminari del codice civile. Per contro, la disposizione del comma 13, che reca la statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive è destinata ad esplicare effetto, oltre che naturalmente per le nuove operazioni abusive poste in essere dalla data del 1° ottobre 2015, anche per quelle poste in essere prima di tale data per il principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito dall’art. 2 del cod. pen.
Con la seconda statuizione, il legislatore ha inteso chiaramente estendere l’applicabilità della nuova disciplina tributaria dell’abuso del diritto anche alle operazioni poste in essere prima del 1° ottobre 2015 in quanto tale disciplina non sarebbe stata altrimenti applicabile in virtù del principio del tempus regit actum ovverosia del richiamato principio di irretroattività della legge sopravvenuta, facendo tuttavia salva l’applicazione della vecchia disciplina tributaria dell’abuso del diritto fiscale alle predette operazioni, qualora sia stato notificato il relativo atto impositivo prima della predetta data per evitare che siano posti nel nulla gli atti impositivi già notificati. Pertanto, come correttamente sostenuto dalla difesa del ricorrente, è da ritenere che il comma 5 dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015 abbia inteso introdurre una limitazione temporale esclusivamente alla efficacia retroattiva della disciplina tributaria dell’abuso del diritto e non anche a quella penale.
In questo senso si era chiaramente espresso il Servizio Studi della Camera dei Deputati, laddove ha rilevato non solo che “nell’ipotesi di procedimento penale in corso occorrerà applicare le norme più favorevoli che escludono la rilevanza penale di simili comportamenti”, ma anche che “occorre considerare il principio del favor rei secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato … (art. 2 comma 2 c.p.)”, nonché lo stesso Governo, laddove, rilevando nella Relazione illustrativa del comma 5 dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015, che tale disposizione «declina il principio “tempus regit actum” secondo cui la normativa sopravvenuta si applica a ciascun procedimento amministrativo non ancora concluso mediante l’adozione dell’atto finale», ha chiaramente dato per acquisito che tale disposizione è volta a regolamentare esclusivamente l’efficacia della nuova disciplina tributaria dell’abuso del diritto e non anche di quella penale.
19. Quanto già si desume dalla formulazione letterale del comma 5 dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015, nonché dai relativi lavori preparatori, trova conferma anche nel tenore della disposizione di delega di cui all’art. 8 della legge n. 23 del 2014, della quale il comma 13 dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente costituisce attuazione. Ed infatti tale disposizione, delegando il Governo a configurare come fattispecie di reato, senza la previsione di alcuna limitazione, “i comportamenti fraudolenti, simulatori o finalizzati alla creazione e all’utilizzo di documentazione falsa”, non ha evidentemente inteso legittimare l’introduzione di limitazioni temporali all’efficacia di tali nuove fattispecie di reato.
In ogni caso, osserva il Collegio, l’interpretazione del comma 5 dell’art. 1 del d.lgs. n. 128 del 2015, prospettata dalla difesa nei motivi aggiunti, è anche la sola che può rendere conforme alle disposizioni costituzionali tale disposizione.
Ed infatti, la previsione di inapplicabilità della statuizione d’irrilevanza penale delle operazioni abusive anche alle operazioni abusive poste in essere prima della data del 1° ottobre 2015 per le quali sia stato già notificato il relativo atto impositivo comporterebbe una duplice violazione del comma 1 dell’art. 117 della Costituzione, laddove disponendo che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, impone al legislatore di conformarsi agli obblighi derivanti anche dai trattati internazionali ratificati dall’Italia.
Una siffatta previsione si porrebbe innanzitutto in contrasto con il comma 1 dell’art. 15 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato dall’Italia con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, e divenuto esecutivo il 15 dicembre 1978, laddove statuisce che “se, posteriormente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve beneficiarne”, stabilendo il principio di retroattività delle leggi che prevedano pene più favorevoli. Ed infatti, tale disposizione ha un valore assolutamente cogente per il fatto che l’art. 4 di tale Patto, non solo consente agli Stati contraenti di derogare agli obblighi imposti dal Patto esclusivamente in casi di pericolo pubblico eccezionale che minacci l’esistenza della nazione e nei limiti in cui la situazione strettamente lo esiga, ma esclude espressamente l’ammissibilità di qualunque deroga alla trascritta disposizione.
Analogamente, la previsione d’inapplicabilità della statuizione d’irrilevanza penale delle operazioni abusive anche alle operazioni abusive poste in essere prima della data del 1° ottobre 2015 per le quali sia stato già emanato il relativo atto impositivo risulterebbe in contrasto anche con l’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU nella sentenza della Grande Camera del 17 settembre 2009 (ric. n. 10249/03, Scoppola contro Italia). Ed infatti, la Corte di Strasburgo ha espresso l’avviso che tale disposizione sancisce non solo “il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa” e che “se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”. Tale avviso è stato successivamente confermato dalla Corte EDU con la decisione del 27 aprile 2010 (rie. n. 21743/07, Morabito contro Italia), con la quale ha stabilito che “la Convention soumet les dispositions definissant les infractions et les peines qui les repriment a des regles particulieres en matiere de retroactivitè, qui incluent le principe de retroactivitè de la loi penale plus douce”.
Com’è ben noto, la Corte Costituzionale ha espressamente riconosciuto che anche il principio di irretroattività della legge penale meno severa sancito dall’art. 7 della CEDU, così come interpretato dalla Corte EDU, è riconducibile in virtù dell’art. 117 della Cost., fra i principi costituzionali a cui deve conformarsi il legislatore italiano, pur con la facoltà di introdurre deroghe o limitazioni a tale principio che devono però essere soggette ad un necessario vaglio di ragionevolezza (così, Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011).
Né, d’altro canto, la previsione d’inapplicabilità della statuizione d’irrilevanza penale delle operazioni abusive anche alle operazioni abusive poste in essere prima della data del 1° ottobre 2015 per le quali sia stato già emanato il relativo atto impositivo può ritenersi compatibile con l’art. 15 del Patto e con l’art. 7 della CEDU per essere configurabile come una deroga giustificata a tali disposizioni.
Ciò non solo perché la prima di tali due disposizioni non ammette deroghe, come già si è visto, ma anche e soprattutto perché una deroga così configurata non risponderebbe al principio di ragionevolezza. Ed infatti, è evidente che sarebbe del tutto irragionevole far dipendere l’applicazione di un deteriore trattamento penale di un’operazione asseritamente abusiva da un fatto – e cioè quello della notifica di un atto impositivo – che non solo è rimesso alla discrezionalità dall’Agenzia delle Entrate che è libera di decidere quando procedere alla sua notifica entro il termine perentorio di legge, ma non è comunque tale da poter giustificare tale deteriore trattamento penale, essendo la notifica di un tale atto del tutto irrilevante a questi effetti.
Tale essendo l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata della disposizione del comma 13 dell’art. 10-bis, citato, non ricorrono ovviamente le condizioni per sollevare la dedotta questione di costituzionalità (a tacer d’altro, si noti, la questione sarebbe comunque inammissibile per difetto di rilevanza, non essendo nemmeno stato dedotto se per i fatti per cui si procede risulti notificato in data antecedente al 1° ottobre 2015 l’atto impositivo).
20. L’impugnata sentenza dev’essere, conclusivamente, annullata senza rinvio per non essere il fatto – come contestato – più previsto dalla legge come reato. Alla statuizione di annullamento, si noti, segue la comunicazione del dispositivo della sentenza all’Amministrazione finanziaria territorialmente competente.
Ed invero, il Collegio è consapevole dell’insussistenza dell’obbligo di disporre la trasmissione degli atti all’Autorità amministrativa competente a sanzionare l’illecito amministrativo, obbligo che è stato escluso – come autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte –, in caso di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, ma solo come illecito amministrativo, in tutti i casi in cui la legge di depenalizzazione non preveda norme transitorie analoghe a quelle di cui agli artt. 40 e 41 della legge 24 novembre 1981, n. 689, la cui operatività è limitata agli illeciti da essa depenalizzati e non riguarda gli altri casi di depenalizzazione (Sez. U, n. 25457 del 29/3/2012 – dep. 28/6/2012 (4), Campagne Rudie, Rv. 252694).
È ben vero che il d.lgs. n. 128 del 2015, non contempla norme transitorie del predetto tenore – donde non vi sarebbe alcun obbligo per questa Corte di disporre la trasmissione all’Autorità amministrativa competente –, purtuttavia, osserva il Collegio, la scelta legislativa della depenalizzazione delle operazioni integranti ipotesi di abuso del diritto, per come chiarito in precedenza, non è stata accompagnata dalla previsione della asanzionabilità assoluta delle predette operazioni, ma – giusta l’inciso contenuto nel comma 13 dell’art. 10-bis citato (“Resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”) da leggersi in combinato disposto con il comma 5, ultima parte, dell’art. 1, D.Lgs. n. 128 del 2015 – ha fatto salva l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie: in definitiva, come già evidenziato in precedenza, la sanzione per dichiarazione infedele – che, come nel caso in esame, si “riespande” nella sua portata applicativa a seguito della depenalizzazione –, violazione in relazione alla quale è prevista una sanzione dal 100% al 200% della maggiore imposta ex art. 1, comma secondo, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. Da, quindi, dunque, la comunicazione all’Autorità amministrativa per le determinazioni di competenza.

P.Q.M. – La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

(1) In Boll. Trib., 2009, 484.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) In Boll. Trib. On-line.

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