9 Luglio, 2019

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. I fatti di causa – 3. Normativa interna – 4. Spese deducibili – 5. Modalità per recuperare le maggiori imposte subite in Italia – 6. Conclusioni.

1. Premessa

Non è inconsueto che vicende dal volere economico modesto o per lo meno non particolarmente significativo rappresentino invece l’occasione per prese di posizione giurisprudenziali destinate ad avere poi un’eco che trascende la materia oggetto dello specifico contendere.
Ad agevolare tale fenomeno a livello comunitario è la presenza, nei Trattati Fondamentali, di un meccanismo di rinvio pregiudiziale che, come noto, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) (1) consente a ogni giudice di uno Stato membro e a prescindere dal valore della controversia sottoposta alla sua cognizione di investire la Corte del Lussemburgo di questioni concernenti l’interpretazione dei Trattati ovvero l’interpretazione o la validità di atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione europea.
Tale strumento giuridico è stato impiegato anche nella vicenda in esame.

2. I fatti di causa

Nel settembre del 2004 la società di diritto portoghese Brisal – Auto Estradas do Litoral SA concludeva con un consorzio di banche nazionali ed estere un contratto di finanziamento, necessario a garantire l’esecuzione di tutte le attività comprese in una concessione stipulata con lo Stato lusitano.
L’anno successivo mediante la cessione di posizioni contrattuali il consorzio veniva esteso ad altri soggetti, tra i quali l’istituto di credito irlandese KBC Finance Ireland.
In ossequio agli artt. 4, par. 2, e 80, par. 2, del Codigo do Imposto sobre o rendimentodas da Pessoas Colectivas, Brisal effettuava la ritenuta alla fonte sugli interessi maturati da KBC nel periodo settembre 2005 – settembre 2007 e, conseguentemente, versava all’erario portoghese l’importo di euro 59.386.
Le due società presentavano allora un ricorso amministrativo avanti il competente Ufficio fiscale al fine di ottenere la restituzione di tale somma, lamentando l’incompatibilità di una forma di prelievo così strutturata con l’art. 56 (ex art. 49) del TFUE che consacra e garantisce il principio di libera prestazione dei servizi nell’ambito dell’Unione europea (2).
Nella prospettiva della parte appariva quanto mai discriminatorio e lesivo del principio di libera concorrenza trattare in modo differente gli operatori finanziari residenti rispetto a quelli non residenti.
Al di là, infatti, della modalità di prelievo operata (ritenuta alla fonte solo a carico dei secondi) che viene comunque portata all’attenzione del giudice e del valore nominale delle aliquote praticate (rispettivamente del 20% e del 25%, salva l’applicazione della Convenzione contro la doppia imposizione tra Portogallo e Irlanda), il punto centrale della censura concerneva l’impossibilità, limitata agli istituti non residenti, di portare in deduzione le spese inerenti l’attività di finanziamento svolta a beneficio di clienti terzi portoghesi.
Dopo il rigetto della doglianza, le società ricorrevano al Tribunal Administrativo e Fiscal il quale, però, respingeva nuovamente la domanda.
Della questione veniva infine investito il Supremo Tribunal Administrativo del Portogallo; detto giudice formulava rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sottoponendole i seguenti quesiti di diritto:
a) se l’art. 49 (ora 56) del TFUE osti a una normativa tributaria interna secondo la quale gli istituti di credito non residenti nel territorio portoghese sono soggetti a imposta sul reddito da interessi percepiti in detto territorio mediante ritenuta alla fonte definitiva al tasso del 20% (o con aliquota minore ove esista un accordo volto ad evitare la doppia tassazione), imposta che si applica al reddito lordo, senza possibilità di deduzione delle spese professionali direttamente connesse all’attività finanziaria svolta, mentre gli interessi percepiti dagli istituti di credito residenti sono incorporati nel reddito imponibile globale, con possibilità di deduzione delle spese connesse all’attività svolta quando si calcola il profitto ai fini della tassazione, applicandosi in tal modo l’aliquota generale del 25% sul reddito netto percepito;
b) se detta disposizione osti alla suddetta normativa nazionale anche nell’ipotesi in cui alla base imponibile degli istituti di credito residenti venga applicata o possa venire applicata, dedotti i costi di finanziamento connessi ai redditi da interessi o le spese direttamente sostenute in funzione di tali redditi, un’imposta più elevata rispetto a quella ritenuta alla fonte per gli istituti non residenti e applicata al loro reddito lordo;
c) se, a tal fine, dei costi di finanziamento connessi ai prestiti concessi o delle spese direttamente sostenute in funzione dei redditi da interessi maturati possa essere data prova mediante dati forniti dall’Euribor (Euro Interbank Offered Rate) e dal Libor (London Interbank Offered Rate), che rappresentano i tassi di interesse medi praticati nei finanziamenti interbancari cui le banche ricorrono per svolgere la loro attività.
Prima di esaminare il decisum della Corte di Giustizia europea, va chiarito che la stessa era già stata, in passato, investita della medesima questione (ed è questo il motivo per cui il Tribunal Fiscal di prima istanza aveva rigettato la domanda di Brisal e KBC).
Nella causa C-105/08 del 2010 (3), infatti, la Corte aveva avuto modo di pronunciarsi su un ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione europea contro la Repubblica del Portogallo.
La Commissione, in particolare, censurava come gli interessi ipotecari percepiti da istituti finanziari non residenti fossero assoggettati a un’imposta più gravosa di quelli incassati da un istituto residente; il fenomeno originava dal fatto che ai primi – differentemente rispetto ai secondi – non era consentito dedurre le spese direttamente connesse all’attività professionale svolta.
In quella sede, tuttavia, i giudici avevano respinto la tesi, senza però esaminarla nel merito; la Corte si era piuttosto limitata, in rito, a sottolineare il deficit probatorio che affliggeva l’impostazione processuale tenuta dalla Commissione, la quale non aveva saputo produrre «dati statistici riguardanti il livello degli interessi applicati ai crediti bancari e le condizioni di rifinanziamento per sostenere la veridicità dei propri calcoli» (4).
Nella pronuncia oggetto del presente contributo, invece, il tema viene analizzato in modo approfondito, muovendo dalla pregressa giurisprudenza comunitaria e da un’attenta analisi delle conclusioni formulate dall’Avvocato Generale.
Il precedente Garritse, correttamente individuato anche dal giudice di rinvio, aveva visto l’allora Corte di Giustizia delle Comunità europee statuire che «gli artt. 59 e 60 del Trattato CE [vecchia formulazione] ostano a una normativa nazionale … la quale, di regola, in sede di imposizione fiscale dei non residenti, prende in considerazione i redditi lordi, senza detrazione di spese professionali, mentre i residenti sono tassati sui loro redditi netti, previa detrazione di tali spese» (5).
Il principio ora menzionato, tuttavia, era stato pronunciato con specifico riguardo alla tassazione dei redditi percepiti da un cittadino olandese che aveva svolto in Germania la propria attività di musicista e si dubitava, nonostante successivi arresti di tenore sostanzialmente convergente (6), circa la portata generale dell’assunto.
Nella pronuncia Brisal la Corte comunitaria affronta le tre questioni rimesse dal giudice portoghese nel loro ordine logico. Dopo aver concluso che l’art. 49 del Trattato CE (vigente ratione temporis) di per sé «non osta ad una normativa nazionale … in forza della quale una procedura di ritenuta alla fonte è applicata alla remunerazione degli istituti di credito non residente nello stato membro nel quale sono forniti i servizi, mentre la remunerazione versata agli istituti di credito residenti di tale stato membro non è soggetto a tale ritenuta alla fonte» purché «sia giustificata da motivi imperativi di interesse generale e non ecceda quanto necessario per conseguire l’obiettivo perseguito» si sofferma sul punto centrale della deducibilità delle spese.
I Giudici comunitari censurano in toto la normativa portoghese che impone, in capo ai soli istituti non residenti, di sopportare una tassazione al lordo delle spese, ravvisando in essa un’inammissibile limitazione alla libera prestazione dei servizi.
Parimenti respinte sono state le difese avanzate dagli agenti dello stato lusitano, vertenti
a) sulla difficoltà/impossibilità di stabilire, nel settore finanziario, un qualsivoglia nesso caratteristico tra i costi sopportati e i redditi percepiti (7),
b) sul fatto che l’aliquota applicata ai soggetti non residenti risulti comunque più bassa in termini nominali,
c) sulla necessità di prevenire una doppia deduzione dei costi e
d) sulla necessità di garantire l’efficace riscossione delle imposte.
Volendo sintetizzare, la Corte di Giustizia ha replicato che:
a) la necessità di oneri amministrativi ulteriori non può portare, di per sé sola, alla negazione del diritto alla deduzione, specie se si considera che analoghi adempimenti sono già richiesti per permettere la deduzione ai soggetti residenti,
b) per costante giurisprudenza (8), un trattamento fiscale «in contrasto con una libertà fondamentale non può essere considerato compatibile con il diritto dell’Unione per l’esistenza di altri vantaggi, anche supponendo che tali vantaggi esistano» (par. 32),
c) la doppia imposizione può essere evitata mediante il ricorso agli strumenti convenzionali allo scopo previsti nell’ambito del diritto internazionale e una doppia deduzione è comunque ammessa a fronte di una doppia imposizione,
d) l’efficace riscossione delle imposte, che in astratto è un motivo imperativo di interesse generale che potrebbe anche giustificare una restrizione alla libera circolazione dei servizi, nel caso di specie non è invocabile, dal momento che la normativa censurata non presenta il carattere di assoluta indispensabilità per il raggiungimento dello scopo.
Una volta ammessa quindi, anche per gli enti non residenti, la facoltà di portare in deduzione i costi sostenuti per svolgere l’attività di finanziamento, si pone il problema di determinare e perimetrare detti costi, alla luce delle già accennate particolarità che caratterizzano gli operatori finanziari.
Va detto fin d’ora che la Corte di Giustizia, lapalissiana nel dettare il principio di diritto, si è in qualche modo disinteressata delle ricadute pratiche, demandando – invero non inspiegabilmente – la questione al giudice di rinvio (cfr. par. 52).
Rispondendo al terzo quesito pregiudiziale, i Giudici del Lussemburgo si sono limitati a chiarire come i costi deducibili non possano essere de plano fatti coincidere – diremmo in modo forfettario – con i tassi Libor o Euribor, a meno che la normativa nazionale non autorizzi gli istituti residenti a fare riferimento a detti valori ai fini del computo delle spese di finanziamento sostenute. In mancanza, si tratta solo di tassi medi praticati nell’ambito dei finanziamenti interbancari e non è detto che corrispondano a spese effettivamente sostenute.

Effetti della sentenza nel tempo
Invero, la portata della pronuncia in esame può essere apprezzata anche con riguardo alla valenza nel tempo.
Alle sentenze della Corte di Giustizia, infatti, è ormai univocamente riconosciuta un’efficacia ultra partes (9) che le rende accostabili a vere e proprie fonti normative (recte: interpretative) del diritto comunitario.
Corollari di tale impostazione sono la portata retroattiva (10) degli enunciati espressi dalla Corte stessa e l’obbligo, per qualsiasi giudice nazionale, di disapplicare la normativa interna in contrasto con gli stessi (11).
Ne discende che il precedente Brisal ben potrebbe essere invocato per chiedere all’Amministrazione finanziaria il rimborso di imposte assolte in Italia da soggetti esteri, così come per richiedere alle Amministrazioni finanziarie di altri Stati membri il rimborso delle maggiori imposte ivi subite.
Tale richiesta potrebbe peraltro estendersi ad altre fattispecie per le quali i soggetti non residenti subiscono una tassazione su un reddito al lordo delle spese mentre quelli residenti possono assoggettare a tassazione il reddito netto quali le cosiddette royalties ovvero i compensi derivanti dallo sfruttamento per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite nel campo industriale, commerciale o scientifico. Dopo aver ripercorso l’iter logico e giuridico fatto proprio dalla Corte di Giustizia è ora possibile valutare la portata degli enunciati dianzi riferiti sulla normativa italiana, muovendo sulle due linee guida delle spese deducibili e delle modalità di deduzione.

3. Normativa interna

Dal punto di vista della normativa nazionale italiana, disposizione cardine è l’art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in materia di ritenuta alla fonte sugli interessi transfrontalieri.
Detta norma, definita da attenta dottrina come presidio inscalfibile (12) per la tassazione dei redditi dei finanziatori esteri fin dalla riforma tributaria del 1973, prevede, al quinto comma, l’obbligo per i sostituti d’imposta di operare una ritenuta del 26% a titolo di acconto e con obbligo di rivalsa sui redditi da capitale da essi corrisposti, salvo il caso di applicazione di diversa ritenuta alla fonte o di altre imposte sostitutive. Se i percettori non sono residenti in Italia o stabili organizzazioni di soggetti non residenti, la ritenuta è applicata, sui proventi al lordo delle spese, a titolo di imposta ed è estesa anche ai proventi costituenti attività commerciali.
Invero, con l’art. 22, primo comma, del D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116), è stato aggiunto all’art. 26 un nuovo comma 5-bis, che nel suo testo attuale, «fermo restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione dei finanziamenti al pubblico di cui al D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385» esclude la ritenuta per gli «interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea, enti individuati all’art. 2, paragrafo 5, nn. da 4) a 23) della Direttiva 2013/36/UE, imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea o investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria … soggetti a forme di tutela nei paesi esteri nei quali sono istituiti».
L’innesto normativo, che nell’intento originario del legislatore si proponeva di agevolare le imprese nel reperire capitali eliminando il rischio di doppia imposizione giuridica usualmente fatto traslare, nella prassi economica, sul debitore, in virtù di apposite clausole inserite nei contratti di finanziamento (13), è stato oggetto di successive modifiche.
Detto contrasto permane nel caso di finanziamenti a breve termine (dato che gli stessi sono espressamente esclusi dal perimetro della legge) e in quello di finanziamenti erogati da soggetti non creditizi (salvo limitate eccezioni): per tali fattispecie resta valido l’obbligo di ritenuta effettuata al lordo delle spese.
Di contro, i soggetti residenti scontano l’ordinaria IRES, oggi con aliquota al 24%, sul reddito netto.
È evidente il contrasto tra la norma interna e il dettato comunitario così come interpretato dalla sentenza in commento.

4. Spese deducibili

Nelle pronuncia Brisal, la Corte ha ammesso la possibilità, per enti finanziatori non residenti, di determinare l’imposizione fiscale italiana gravante sugli interessi percepiti nel territorio dello Stato italiano al netto delle spese inerenti l’attività di finanziamento (14).
Detti costi ricomprendono tanto quelli facilmente e prontamente individuabili («ad esempio, le spese di viaggio, di alloggio nonché quelle per la consulenza legale o tributaria, per le quali è relativamente facile sia stabilire il nesso diretto con il prestito in questione sia provarne l’importo effettivo», cfr. sent. par. 47), sia quelli che, per ammissione degli stessi giudici, sono di più difficile quantificazione, ovverosia la quota parte delle spese generali di funzionamento dell’istituto (cfr. Conclusioni dell’Avvocato Generale parr. 37-42) e, soprattutto, gli interessi passivi (cfr. sent. par. 48) sopportarti per reperire la provvista necessaria a svolgere l’attività che ha dato origine agli interessi attivi.
In linea teorica, quindi, una tassazione degli interessi pienamente in linea con il diritto dell’Unione europea dovrebbe sottrarre gli interessi passivi e la quota parte delle spese generali e amministrative.
Come intuibile, i problemi pratici che si profilano sono molteplici, ma possono essere ricondotti a due filoni principali: da un lato, in assenza di specifiche indicazioni, non è chiaro come calcolare la percentuale delle spese generali di funzionamento da considerare inerenti alla singola erogazione creditizia esaminata (si ponga, ad esempio, il caso di un istituto di credito di grandi dimensioni che effettui finanziamenti a una pluralità di beneficiari); dall’altro, anche il “costo” della provvista non è agevolmente ricostruibile essendo le passività usualmente riferibili al complesso delle attività facenti parte del patrimonio dell’impresa erogante.
Una volta determinato il reddito netto riferibile agli interessi attivi soggetti a ritenuta risulterà necessario effettuare le variazioni in aumento e in diminuzione derivanti dall’applicazione delle disposizioni italiane in tema di reddito d’impresa.
Va osservato che l’analiticità richiesta per il calcolo dell’imposizione italiana sembrerebbe portare a ritenere preferibile, per lo meno per i soggetti aventi un’attività omogenea e non differenziata (ad esempio gestione della tesoreria del gruppo), il calcolo delle variazioni a livello dell’entità complessiva procedendo poi ad un’allocazione del reddito netto in modo proporzionale. Tale soluzione rende più agevole e affidabile il calcolo, potendo partire da documentazione contabile ufficiale (il bilancio di esercizio) e consentendo di risalire più agevolmente ad ogni supporto contabile.

5. Modalità per recuperare le maggiori imposte subite in Italia

Quanto alle modalità operative per perseguire il risultato proposto, bisogna operare una distinzione a seconda che ci si riferisca a ritenute già versate o a ritenute ancora da versare.
Nel primo caso lo strumento impiegato dovrà per forza essere l’istanza di rimborso ex art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, a fronte della quale l’Amministrazione finanziaria (ovvero la Commissione tributaria adita a seguito del silenzio dell’Ufficio protratto per oltre novanta giorni ai sensi dell’art. 21, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) sarà chiamata a valorizzare il già analizzato principio di primazia del diritto dell’Unione europea – anche se di matrice giurisprudenziale – disapplicando per l’effetto la normativa o la prassi interna che osti al rimborso della differenza tra la ritenuta alla fonte concretamente operata e la medesima ritenuta (ri)calcolata al netto delle spese inerenti l’attività di finanziamento.
A tale riguardo può essere forse utile ricordare come la Corte di Giustizia, nel caso Kempter (15), abbia concluso che «secondo una giurisprudenza consolidata, spetta a tutte le autorità degli Stati membri garantire il rispetto delle norme di diritto comunitario nell’ambito delle loro competenze» (cfr. par. 34) e che «in circostanze particolari, un organo amministrativo nazionale può essere tenuto, in applicazione del principio di cooperazione derivante dall’art. 10 CE, a riesaminare una decisione amministrativa divenuta definitiva in seguito all’esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni, al fine di tener conto dell’interpretazione della disposizione pertinente di diritto comunitario nel frattempo accolta dalla Corte (v., in tal senso, sentenze Kühne & Heitz, citata, punto 27, e 19 settembre 2006, cause riunite C 392/04 e C 422/04, i-21 Germany e Arcor, Racc. pag. I 8559, punto 52)» (cfr. par. 38).
Nell’eventualità in cui la ritenuta debba essere tutt’ora versata, si profilano invece due soluzioni alternative.
Da un lato è possibile (e, anzi, consigliabile, come si dirà in seguito) procedere all’effettuazione e al versamento della ritenuta al lordo delle spese, salvo poi formulare in seconda battuta istanza di rimborso sulla differenza tra lordo e netto, secondo le modalità appena enunciate. È implicito che in tal caso graveranno sull’istante stringenti obblighi probatori, incombendo sullo stesso l’onere – invero spesso in concreto non facile da assolvere – di documentare il calcolo delle imposte astrattamente dovute.
In alternativa, parte della dottrina (16) ritiene possibile per il sostituto applicare direttamente la ritenuta sugli interessi transfrontalieri «al netto degli oneri attestati e documentati dal sostituito», compiendo dunque un solo passaggio a monte, in sede di calcolo dell’imposta.
Questa lettura risulta certo condivisibile – quanto meno sul piano teorico – giacché da un lato risponde al principio di economicità e dall’altro discende direttamente dal dettato della stessa pronuncia Brisal che pare ammettere entrambe le vie sopra menzionate (cfr. par. 42: «inoltre, un onere amministrativo supplementare a carico, eventualmente, del destinatario del servizio allorché quest’ultimo deve procedere a prendere in considerazione le spese professionali che il prestatore vuole dedurre esiste unicamente in un sistema che prevede che tale deduzione dev’essere effettuata prima che sia applicata la ritenuta alla fonte e può dunque essere evitato se il prestatore è autorizzato a far valere il suo diritto a deduzione direttamente presso l’amministrazione e dopo il prelievo dell’IRC. In una fattispecie simile, il diritto a deduzione si concretizza in un rimborso di parte dell’imposta ritenuta alla fonte»).
Il tema, casomai, sarà quello di trasporre in concreto detta facoltà, stante l’assenza nell’orizzonte ordinamentale di una specifica disciplina regolamentare di supporto.
Il problema che spesso si pone, infatti, nel dare immediata applicazione a un principio di ordine generale è che, una volta calato nella prassi, esso finisce per scontrarsi con la mancanza di coordinamento rispetto alla disciplina di riferimento.
Gli interrogativi che originano riguardano principalmente il valore da attribuirsi alla documentazione probatoria fornita dal sostituito al sostituto per documentare le spese.
Ci si può chiedere, ad esempio, se il sostituto sia chiamato (e, in caso di risposta affermativa, con che limiti) a esercitare un controllo sulla documentazione che è a lui sottoposta o se lo stesso possa – o debba – prestare incondizionato affidamento. Simmetricamente, è da chiarire la responsabilità del sostituto in caso di infedele, inesatta o anche solo carente documentazione.
In termini generali potrebbe ipotizzarsi che il sostituto chiamato a calcolare la ritenuta da operare, a fronte dell’attestazione di costi sostenuti dal beneficiario degli interessi, sia onerato esclusivamente di un generico controllo di ragionevolezza, volto essenzialmente a filtrare macroscopiche irregolarità, ricadendo per il resto sul sostituito ogni eventuale conseguenza sanzionatoria.
La questione, però, origina dalla tensione tra due opposte esigenze: da un lato, infatti, appare ingiusto addossare al sostituto oneri di verifica troppo stringenti, specie se sguarniti di ogni potere di supporto; dall’altro, vi è l’esigenza di garantire la posizione del sostituito che ha interesse a subire la rivalsa che deriva da una ritenuta correttamente applicata nel suo quantum ed evitare l’applicazione di (gravose) sanzioni.
In assenza di interventi di raccordo, pare certamente sconsigliabile perseguire la via appena esposta, dal momento che le incertezze e i profili di rischio appaiono – almeno per ora – di entità tale da annullare i benefici.
Si ritiene prudente, pertanto, utilizzare il principio Brisal esclusivamente in sede di istanza di rimborso ex post. In tale contesto, infatti, si potrà valorizzare al meglio la flessibilità di quello che è e resta un assunto giurisprudenziale che cala “dall’alto” nel sistema tributario e non è stato ancora raccordato allo stesso.

6. Conclusioni

La pronuncia nella più volte citata causa C-18/15, in definitiva, presenta una portata potenzialmente molto significativa per gli ordinamenti degli Stati membri, dal momento che è in grado di rappresentare l’occasione per riscrivere le normative concernenti la tassazione degli operatori finanziari non residenti.
Ciò è testimoniato anche dall’interesse che la dottrina estera ha manifestato per la sentenza in commento (17).
Il che è comprensibile alla luce del pregnante rilievo che assumono i dicta della Corte di Giustizia in grado, in virtù della primazia del diritto dell’Unione, di transitare direttamente negli ordinamenti interni, senza neppure passare per i legislatori nazionali.
Questa peculiare forza fa sì che gli Stati spesso adeguino spontaneamente le proprie normative, onde evitare che i principi provenienti dal Lussemburgo siano applicati su iniziativa dei singoli giudici e “in ordine sparso”.
Per ciò che più rileva sotto il profilo pratico è dunque auspicabile non solo un allineamento dell’Italia a livello normativo, quanto e soprattutto la predisposizione di un apparato regolamentare che permetta, in concreto, di rispondere alle esigenze pratiche che si sono analizzate nel presente scritto.
Nelle more di un adeguamento normativo è opportuno che tutti i soggetti residenti e non residenti che siano stati gravati da ritenute in misura eccedente all’imposizione che avrebbe colpito un soggetto fiscalmente residente nell’altro Stato membro valutino la convenienza ad effettuare un’istanza di rimborso per il recupero delle maggiori imposte subite.
Rimane aperto il tema della correlazione tra siffatta istanza e l’eventuale credito per imposte pagate all’estero del quale abbia beneficiato il percettore dei redditi. Se da un lato appare logico ritenere che i due rimedi alla doppia imposizione non si possano cumulare, non è chiaro se la teorica possibilità di ottenere il rimborso possa pregiudicare il requisito della definitività dell’imposta alla quale è correlata la spettanza del credito.
De iure condendo, considerata l’attuale assenza di una presa di posizione da parte dell’Agenzia delle entrate e del legislatore, è auspicabile che il riconoscimento del diritto al rimborso comporti l’obbligo di riversamento – senza sanzioni – dell’eventuale credito goduto. A tale proposito vale la pena di ricordare che i giudici comunitari, anche in considerazione del rilevante onere richiesto, vedono la possibilità di dedurre i costi inerenti la produzione del reddito assoggettato a ritenuta una facoltà piuttosto che un obbligo.

Dott. Stefano Brunello – Avv. Matteo Piva

(1) Art. 267 del TFUE (ex art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità europea, TCE): «La Corte di Giustizia dell’Unione europea è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale: a) sull’interpretazione dei trattati; b) sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione. Quando una questione del genere è sollevata dinanzi ad una giurisdizione di uno degli Stati membri, tale giurisdizione può, qualora reputi necessaria per emanare la sua sentenza una decisione su questo punto, domandare alla Corte di pronunciarsi sulla questione. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte. Quando una questione del genere è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale e riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte statuisce il più rapidamente possibile».
(2) Art. 56 (ex art. 49 del TCE): «Nel quadro delle disposizioni seguenti, le restrizioni alla libera prestazione dei servizi all’interno dell’Unione sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello del destinatario della prestazione. Il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando secondo la procedura legislativa ordinaria, possono estendere il beneficio delle disposizioni del presente capo ai prestatori di servizi, cittadini di un paese terzo e stabiliti all’interno dell’Unione».
(3) Cfr. Corte Giust. UE, sez. I, 17 giugno 2010, causa C-105/08, in Boll. Trib. On-line.
(4) Così Corte Giust. causa C-105/08 del 2010, cit., par. 29.
(5) Cfr. Corte Giust. UE, sez. V, 12 giugno 2003, causa C-234/01, in Boll. Trib. On-line, par. 37.
(6) Cfr. Corte Giust. CE 3 ottobre 2006, FKP Scorpio Konzertproduktionen, causa C 290/04, in Raccolta, 2006, I, 9461, par. 43; Corte Giust. CE 6 luglio 2006, Conijn, causa C 346/04, ibidem, 6137, punto 20; Corte Giust. CE, sez. III, 15 febbraio 2007, Centro Equestre da Lezíria Grande, causa C 345/04, par. 23; Corte Giust. UE, sez. II, 31 marzo 2011, Schröder, causa C 450/09, par. 40; Corte Giust. UE, sez. IV, 8 novembre 2012, Commissione/Finlandia, causa C 342/10, par. 37; e Corte Giust. UE, sez. grande, 24 febbraio 2015, Grünewald, causa C 559/13, par. 29; tutte in Boll. Trib. On-line. Si veda in ogni caso la nota 13 delle conclusioni dell’Avvocato Generale in Corte Giust. UE, sez. V, 13 luglio 2016, causa C-18/15, in Boll. Trib. On-line.
(7) L’Avvocato Generale nelle sue conclusioni poi riprese dalla Corte si mostra consapevole di come KBC non abbia finanziato Brisal accendendo a sua volta un prestito di uguale importo per tale fine e che, piuttosto, i costi di finanziamento per KBC derivano dal fatto che tutta la sua attività è gravata da siffatti oneri (par. 30); coerentemente, afferma che «solo se si prende in considerazione anche la quota delle spese generali che deve essere imputata ad una attività gravata da imposta può essere realizzata, in ordine alle spese generali, una parità di trattamento tra soggetti passivi non residenti e residenti e dunque possono essere instaurate condizioni di concorrenza praticamente omogenee» (par. 40). Viene quindi mutuato un principio applicato in ambito IVA, ove le spese sostenute da un soggetto passivo d’imposta ai sensi dell’art. 168 della Direttiva 2006/112/CE devono essere imputate a un’attività gravata da imposta al fine di consentire l’esercizio di un diritto alla deduzione.
(8) Cfr. Corte Giust. UE, sez. I, 1º luglio 2010, Dijkman e Dijkman-Lavaleije, causa C 233/09, punto 41; nonché Corte Giust. UE, sez. I, 18 ottobre 2012, X NV, causa C 498/10, punto 31; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(9) Cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. IV, 4 marzo 2014, n. 1020, in Boll. Trib. On-line, par. 3.5.: «È ben noto al Collegio, che lo condivide, il consolidato principio secondo il quale “l’interpretazione del diritto comunitario adottata dalla Corte di Giustizia ha efficacia ‘ultra partes’, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ‘ex novo’ norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia ‘erga omnes’ nell’ambito della Comunità (ex aliis Cass. civ. Sez. V, 11-12-2012, n. 22577)”».
(10) Cfr. Corte Giust. CEE 27 marzo 1980, causa C-61/79, Denkavit italiana, in Boll. Trib. On-line, par. 16: «L’interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte nell’esercizio della competenza ad essa attribuita dall’art. 177 chiarisce e precisa, quando ve ne sia il bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore. Ne risulta che la norma così interpretata può, e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa, se, per il resto, sono soddisfatte le condizioni che consentono di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa all’applicazione di detta norma».
(11) Cfr. ex multis Cass., sez. lav., 21 dicembre 2009, n. 26897, in Mass. Foro it., 2009, 1559: «il giudice nazionale deve disapplicare la norma dell’ordinamento interno, per incompatibilità con il diritto comunitario, sia nel caso in cui il conflitto insorga con una disciplina prodotta dagli organi della CEE mediante regolamento, sia nel caso in cui il contrasto sia determinato da regole generali dell’ordinamento comunitario, ricavate in sede di interpretazione dell’ordinamento stesso da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, nell’esercizio dei compiti ad essa attribuiti dagli artt. 169 e 177 del Trattato del 25 marzo 1957, reso esecutivo con legge 14 ottobre 1957, n. 1203».
(12) Così C. GALLI, Sentenza Brisal nella Ue equilibrio tra fiscalità, in Il Quotidiano del Fisco del 28 luglio 2016.
(13) Cfr. E. CACCIAPUOTI – D. MASSIGLIA, Regime fiscale degli interessi sui finanziamenti a medio-lungo termine: novità in merito ai requisiti per l’esenzione dalla ritenuta, in Dirittobancario.it, Approfondimenti, Giugno 2016.
(14) Sul tema si vedano anche M. PELLECCHIA, La Corte UE boccia la tassazione lorda sugli interessi, in Plus 24 Fisco de Il Sole 24 Ore; P. ARGINELLI – A. ZAIMAJ, La Corte di Giustizia dell’Unione europea sancisce il principio della cd. tassazione netta anche per gli interessi intra UE corrisposti a soggetti non residenti, in Riv. dir. trib., supplemento on-line 9 agosto 2016; nonché M. EMMA, Ritenute sugli interessi intra UE applicabili al netto dei costi. Fiscalità internazionale. Bocciate dalla Corte UE le ritenute al lordo dei costi: possibili effetti della sentenza Brisal, in Riv. giur. trib., 2016, 927 ss.
(15) Cfr. Corte Giust. UE, sez. grande, 12 febbraio 2008, causa C-2/06, in Boll. Trib. On-line.
(16) Si veda esaustivamente G. CUZZOLARO, Prime osservazioni sugli aspetti applicativi dei principi espressi dai giudici europei nella sentenza Brisal, in Riv. dir. trib., supplemento on-line del 13 settembre 2016.
(17) Cfr. per tutti Opinion Statement ECJ-TF 2/2016 on the Decision of the Court of Justice of the European Union of 13 July 2016 in Brisal and KBC Finance Ireland (Case C-18/15), on the Admissibility of Gross Withholding Tax of Interest, in European Taxation, gennaio 2017; e B.M. VAN DER WERF, The Effective Tax Burden Analysis after Société Générale, PMT and Brisal, 18 Derivs. & Fin. Instrums. 4 (2016), Derivatives & Financial Instruments IBFD (accessed 24 October 2016).

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