31 Dicembre, 2015

Circolare 29 dicembre 2015, n. 38/E, dell’Agenzia delle entrate

INDICE:

PREMESSA

1. MODIFICHE AL D.LGS. N. 546 DEL 1992

1.1 Articolo 2 – Oggetto della giurisdizione tributaria

1.2 Articoli 4, 10, 11 e 23 – Competenza delle commissioni tributarie e parti del processo

1.3 Articolo 12 – Assistenza tecnica

1.4 Articolo 15 – Spese del giudizio

1.5 Articolo 16 – Comunicazioni e notificazioni

1.6 Articolo 16-bis – Comunicazione e notificazioni per via telematica

1.7 Articolo 17-bis – Il reclamo e la mediazione

1.7.1 Estensione dell’ambito di applicazione

1.7.2 Semplificazione delle modalità di instaurazione del procedimento

1.7.3 Effetti della presentazione del reclamo

1.7.4 Istruttoria del reclamo e il perfezionamento dell’accordo di mediazione

1.7.5 Quantificazione del beneficio della riduzione delle sanzioni in senso più favorevole al contribuente

1.7.6 Nuove regole per il pagamento delle somme dovute a seguito dell’accordo di mediazione

1.7.7 Applicabilità della conciliazione giudiziale alle controversie reclamabili

1.8 Articolo 18 – Il ricorso

1.9 Articolo 39 – Sospensione del processo

1.9.1 Sospensione dovuta all’inizio di una procedura amichevole

1.10 Articolo 47 – Sospensione dell’atto impugnato

1.11 Articoli 48, 48-bis e 48-ter – La conciliazione giudiziale

1.11.1 Estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto

1.11.2 Conciliazione perfezionata “fuori udienza”

1.11.3 Conciliazione perfezionata “in udienza”

1.11.4 Riduzione delle sanzioni

1.11.5 Pagamento delle somme dovute a seguito della conciliazione

1.12 Articoli 49, 52 e 62-bis – La sospensione delle sentenze

1.13 Articoli 62 e 63 – Modifiche alla disciplina del ricorso per cassazione

1.14 Articoli 64 e 65 – Il giudizio di revocazione

1.15 Articoli 67-bis, 68, 69 e 70 – L’esecuzione delle sentenze

1.15.1 Le modifiche all’articolo 68

1.15.2 Il nuovo articolo 69

1.15.3 L’abrogazione dell’articolo 69-bis

1.15.4 Le modifiche all’articolo 70

2. NORME DI COORDINAMENTO

  1. MODIFICHE AL D.LGS. N. 545 DEL 1992

“PREMESSA

L’articolo 10 della legge 11 marzo 2014, n. 23(1), al comma 1, lettere a) e b), ha delegato il Governo all’introduzione di “norme per il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente, assicurando la terzietà dell’organo giudicante“. A tale scopo, le predette disposizioni legislative hanno fissato alcuni principi e criteri direttivi, tra i quali:

“a) rafforzamento e razionalizzazione dell’istituto della conciliazione nel processo tributario, anche a fini di deflazione del contenzioso e di coordinamento con la disciplina del contraddittorio fra il contribuente e l’amministrazione nelle fasi amministrative di accertamento del tributo, con particolare riguardo ai contribuenti nei confronti dei quali sono configurate violazioni di minore entità;

b) incremento della funzionalità della giurisdizione tributaria”, da realizzare attraverso interventi riguardanti, tra l’altro:

  • “l’eventuale composizione monocratica dell’organo giudicante in relazione a controversie di modica entità e comunque non attinenti a fattispecie connotate da particolare complessità o rilevanza economico-sociale”;
  • “la revisione delle soglie in relazione alle quali il contribuente può stare in giudizio anche personalmente e l’eventuale ampliamento dei soggetti abilitati a rappresentare i contribuenti dinanzi alle commissioni tributarie”;
  • “il massimo ampliamento dell’utilizzazione della posta elettronica certificata per le comunicazioni e le notificazioni”;
  • “l’uniformazione e generalizzazione degli strumenti di tutela cautelare nel processo tributario”;
  • “la previsione dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie”;
  • “l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai fini del carico delle spese del giudizio, con conseguente limitazione del potere discrezionale del giudice di disporre la compensazione delle spese in casi diversi dalla soccombenza reciproca”.

In attuazione della suddetta delega, il Titolo II del decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 156 (2) (di seguito: decreto di riforma), pubblicato sul supplemento ordinario n. 55/L alla Gazzetta Ufficiale del 7 ottobre 2015, ha apportato rilevanti modifiche ad alcune disposizioni contenute nel decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (di seguito: decreto n. 546), concernente la disciplina del processo tributario.

In sintesi, le più importanti modifiche relative al decreto n. 546 riguardano:

  • l’estensione dell’ambito di applicazione della conciliazione al giudizio di appello e alle controversie soggette a reclamo/mediazione;
  • l’estensione dell’ambito di operatività del reclamo/mediazione alle controversie dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, a quelle degli enti locali, degli agenti della riscossione e dei soggetti iscritti all’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (3) , nonché alle controversie catastali (4) ;
  • la rivisitazione della disciplina della tutela cautelare, che è stata estesa a tutte le fasi del processo, codificando in tal modo i principi stabiliti in materia dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità;
  • l’esecutività immediata delle sentenze non definitive concernenti i giudizi promossi avverso gli atti relativi alle operazioni catastali e di quelle, sempre non definitive, recanti condanna al pagamento di somme a favore dei contribuenti, eventualmente subordinato alla prestazione di idonea garanzia in caso di somme di importo superiore a 10.000 euro;
  • il mantenimento del criterio della riscossione frazionata del tributo in pendenza di giudizio (5) ;
  • la previsione del giudizio di ottemperanza come unico meccanismo processuale di esecuzione delle sentenze, siano esse definitive o meno, escludendo la possibilità di ricorso all’ordinaria procedura esecutiva, contemplata dal vigente testo del decreto n. 546;
  • l’affidamento alla commissione tributaria, in composizione monocratica, della cognizione dei giudizi di ottemperanza instaurati per il pagamento di somme di importo non superiore a 20.000 euro e, in ogni caso, per il pagamento delle spese di giudizio;
  • l’innalzamento del valore dei giudizi in cui i contribuenti possono stare personalmente, senza l’assistenza di un difensore abilitato, che viene portato, dagli attuali 2.582,28 euro, a 3.000,00 euro;
  • l’ampliamento della categoria dei soggetti abilitati all’assistenza tecnica, nella quale sono stati inseriti i dipendenti dei CAF, in relazione alle controversie che derivano da adempimenti posti in essere dagli stessi CAF nei confronti dei propri assistiti.

Onde assicurare il necessario coordinamento tra le modifiche al decreto n. 546 e alcune disposizioni recate da altri testi legislativi, l’articolo 10 del decreto di riforma ha modificato l’articolo 63 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, concernente la rappresentanza e l’assistenza dei contribuenti, il comma 3-bis dell’articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia) e gli articoli 19 e 22 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, recante disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie.

Il successivo articolo 11 del decreto di riforma è intervenuto con alcune modifiche al decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545, riguardante l’ordinamento degli organi di giurisdizione tributaria (vedi infra par. 3).

Ai sensi dell’articolo 12 del decreto di riforma, le nuove disposizioni entreranno in vigore il 1° gennaio 2016, ad eccezione dei nuovi articoli 67-bis (esecuzione provvisoria delle sentenze delle commissioni tributarie) e 69 (esecuzione delle sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente) del decreto n. 546, nonché della disposizione abrogativa dell’articolo 69-bis (esecuzione delle sentenze sugli atti relativi alle operazioni catastali) del medesimo decreto n. 546 (6), per le quali l’entrata in vigore è stata fissata al 1° giugno 2016.

Le nuove norme processuali opereranno in relazione a tutti i giudizi pendenti alla data della loro entrata in vigore, “non essendo stata ritenuta opportuna una previsione di applicabilità limitata ai soli nuovi giudizi. Un tale sistema infatti verrebbe a creare un nuovo rito, che coesisterebbe con il vecchio per le cause anteriori generando confusione ed incertezze” (relazione illustrativa al decreto di riforma).

Come precisato nella relazione illustrativa, il decreto di riforma si inserisce “in un quadro macroeconomico completamente difforme rispetto a quello” riconducibile alla data di entrata in vigore del decreto n. 546 (1° aprile 1996) “e in un sistema normativo caratterizzato da una continua evoluzione di alcuni istituti dell’ordinamento tributario generata anche dalle diverse riforme che hanno interessato la maggior parte dei tributi“.

Più nel dettaglio, nella relazione illustrativa si osserva che il numero dei ricorsi pendenti innanzi alle commissioni tributarie si è progressivamente ridotto, passando dai circa 2,4 milioni dell’anno 1996 ai circa 570.000 dell’anno 2014 e che relativamente a tale ultimo anno è stato riscontrato che il 70 per cento dei ricorsi di primo grado attiene a controversie di valore non superiore a 20.000 euro. Inoltre, grazie anche all’introduzione dell’istituto del reclamo/mediazione (7), il numero dei ricorsi proposti in commissione tributaria provinciale nel 2014, rispetto a quelli del 2011, si è quasi dimezzato, passando da circa 171.000 a circa 90.000.

Si aggiunga che circa il 56 per cento dei ricorsi proposti in primo grado è corredato da un’istanza di sospensione della riscossione dell’atto impugnato, mentre l’utilizzo della conciliazione giudiziale – che nel vigente testo del decreto n. 546 è limitata al primo grado di giudizio ed esclusa per le controversie soggette a reclamo/mediazione – si attesta intorno all’1 per cento delle definizioni complessive.

L’attuale situazione del contenzioso tributario, caratterizzata da un elevato numero di controversie di modesto valore, dalla forte domanda di sospensione della riscossione da parte dei contribuenti, dall’esiguo ricorso alla conciliazione giudiziale, nonché dal marcato utilizzo della compensazione delle spese di giudizio nelle fasi di merito, consente, invero, di meglio comprendere la ratio degli interventi di riforma, precedentemente sintetizzati, che appaiono innanzitutto rivolti al superamento delle predette criticità.

Tanto premesso, con la presente circolare si forniscono chiarimenti sulle modifiche inerenti al decreto n. 546 e alle disposizioni di coordinamento, nonché brevi cenni alle modifiche al D.Lgs. n. 545 del 1992, riportando in allegato il testo delle norme risultanti dal decreto di riforma, affiancato al testo delle norme antecedenti.

1. MODIFICHE AL D.LGS. N. 546 DEL 1992

1.1 Articolo 2 – Oggetto della giurisdizione tributaria

L’articolo 9, comma 1, lettera a), del decreto di riforma ha apportato alcune modifiche all’articolo 2 del decreto n. 546, che individua le materie attribuite alla cognizione delle commissioni tributarie, adeguando – come si legge nella relazione illustrativa – le relative disposizioni alle statuizioni della giurisprudenza costituzionale in materia di giurisdizione tributaria.

Più esattamente, all’articolo 2 sono state espunte:

  • dal comma 1 le controversie inerenti alle “sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari(8) ;
  • dal comma 2, secondo periodo, le controversie “relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni (c.d. COSAP, n.d.r.), e del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue e per lo smaltimento dei rifiuti urbani(9) .

1.2 Articoli 4, 10, 11 e 23 – Competenza delle commissioni tributarie e parti del processo

L’articolo 9, comma 1, lettere b), c) e d) del decreto di riforma ha modificato gli articoli 4, 10 e 11, comma 2, del decreto n. 546 al fine di aggiornare le denominazioni degli enti impositori e dei soggetti svolgenti attività di riscossione, che risultavano ormai superate rispetto alla riforma dell’Amministrazione finanziaria (10) che ha portato all’istituzione delle Agenzie fiscali e all’attuale assetto della riscossione dei tributi, caratterizzato dalla presenza dei c.d. agenti della riscossione (le società del Gruppo Equitalia e la società Riscossione Sicilia) e dei c.d. concessionari privati della riscossione (ossia i soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del D.Lgs. n. 446 del 1997, abilitati ad effettuare attività di liquidazione, accertamento dei tributi, nonché di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni).

Coerentemente, la lettera n) del predetto articolo 9, comma 1, ha modificato il comma 1 dell’articolo 23, rubricato “Costituzione in giudizio della parte resistente“, che ora dispone: “L’ente impositore, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti all’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale.

Nei medesimi articoli 4 e 10 del decreto n. 546 sono state riprodotte, semplificandole, le disposizioni precedentemente inserite dall’articolo 28 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, secondo le quali, per le controversie instaurate nei confronti di articolazioni dell’Agenzia delle entrate con competenza su tutto o parte del territorio nazionale, individuate con il regolamento di amministrazione previsto dall’articolo 71 del D.Lgs. n. 300 del 1999 (11), è competente la commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’Ufficio al quale spettano le attribuzioni sul tributo controverso, individuato in ragione del domicilio fiscale del contribuente, al quale è riconosciuta anche la legitimatio ad causam.

All’articolo 11, comma 2, secondo periodo, con riguardo al contenzioso in materia di contributo unificato, la legittimazione processuale e la difesa in giudizio delle cancellerie e delle segreterie degli uffici giudiziari è stata prevista non solo per il giudizio di primo grado, ma anche per quello innanzi alle commissioni tributarie regionali. Si tratta, infatti, di uffici che provvedono alla liquidazione e all’accertamento del contributo unificato di cui all’articolo 9 del DPR n. 115 del 2002, previsto, per ciascun grado di giudizio, nel processo civile, comprese la procedura concorsuale e di volontaria giurisdizione, nel processo amministrativo e nel processo tributario. Il predetto contributo unificato si configura come un vero e proprio tributo e rientra, pertanto, nell’ambito della giurisdizione tributaria.

È stato, coerentemente, soppresso il comma 3-bis dell’articolo 11 in commento, che limitava al giudizio di primo grado la legittimazione processuale e la difesa diretta di cancellerie e segreterie degli uffici giudiziari.

1.3 Articolo 12 – Assistenza tecnica

L’articolo 9, comma 1, lettera e) del decreto di riforma ha integralmente sostituito l’articolo 12 del decreto n. 546, mantenendo, tuttavia, la regola generale dell’obbligatorietà, per la parte privata, dell’assistenza tecnica nelle controversie tributarie, fatti salvi i casi di controversie di modico valore, elevato da 2.582,28 euro a 3.000,00 euro con decorrenza dal 1° gennaio 2016.

Le modalità di determinazione del valore della controversia, rimaste invariate, sono ora contenute nel comma 2, secondo periodo, dell’articolo 12 (12).

Nelle ipotesi in cui il valore della controversia sia superiore al predetto limite di 3.000,00 euro, la parte privata è tenuta a dotarsi di assistenza tecnica e il ricorso dovrà essere sottoscritto dal difensore abilitato.

Per le ipotesi in cui, al contrario, la parte privata, pur essendovi tenuta, abbia omesso di nominare un difensore abilitato, il nuovo comma 10 dell’articolo 12 rinvia alle disposizioni dell’articolo 182 c.p.c. (13) in tema di difetto di rappresentanza o di autorizzazione.

In forza di tale rinvio, il presidente della commissione o della sezione o il collegio verificano d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti; ove occorra, invitano le parti a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconoscono difettosi e, in caso di difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero di vizio che determina la nullità della procura al difensore, assegnano un termine perentorio, entro il quale è possibile sanare i relativi vizi, con efficacia retroattiva.

Al riguardo, la relazione illustrativa chiarisce l’intento del legislatore di ridurre i tempi del giudizio, anticipando la regolarizzazione dell’eventuale vizio dell’atto processuale (ad es., difetto di procura alla lite), “in conformità a quanto ripetutamente statuito dalla Corte di Cassazione, la quale ha precisato che soltanto se l’invito del giudice risulta infruttuoso, quest’ultimo deve dichiarare invalida la costituzione della parte in giudizio (da ultimo: Cass. civ. Sez. III, 11-09-2014, n. 19169 e 22-05-2014, n. 11359)“. (14)

Non sono, invece, tenuti a dotarsi di difensore abilitato gli uffici dell’Agenzia delle entrate, dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli di cui al D.Lgs. n. 300 del 1999, gli altri enti impositori, nonché gli agenti e i concessionari privati della riscossione.

Il novellato articolo 12, commi 3, 5 e 6, individua, inoltre, i soggetti abilitati all’assistenza tecnica innanzi alle commissioni tributarie che, come evidenziato nella relazione illustrativa, possono essere raggruppati nelle seguenti tre categorie:

  • coloro che possono assistere i contribuenti nella generalità delle controversie [lettere da a) a d) del comma 3];
  • coloro che sono abilitati alla difesa con riguardo a controversie aventi ad oggetto materie specifiche [lettera e) del comma 3, lettere da a) a g) del comma 5 e comma 6];
  • coloro che possono assistere esclusivamente alcune categorie di contribuenti [lettere f), g) e h) del comma 3].

Tra i soggetti che possono assistere esclusivamente alcune categorie di contribuenti, il nuovo articolo 12, alla lettera h) del comma 3, ha ricompreso anche i dipendenti dei centri di assistenza fiscale (CAF) e delle relative società di servizi, che siano in possesso, congiuntamente, del diploma di laurea magistrale in giurisprudenza, o in economia ed equipollenti o del diploma di ragioneria e della relativa abilitazione professionale. I predetti dipendenti possono difendere i propri assistiti esclusivamente nei contenziosi tributari che scaturiscono dall’attività di assistenza loro prestata, come, ad esempio, quelli relativi al disconoscimento degli oneri e delle spese indicati nella dichiarazione compilata e trasmessa dal medesimo centro di assistenza fiscale.

Ai sensi del comma 9, i soggetti abilitati all’assistenza tecnica possono stare in giudizio personalmente nelle controversie che li riguardano, fermi restando i limiti stabiliti dallo stesso articolo 12 e, dunque, nei casi in cui in giudizio si dibattano questioni afferenti alla loro attività.

Con riferimento alle procedure di gestione dell’elenco dei soggetti abilitati alla rappresentanza ed assistenza in giudizio di cui al comma 3, lettere d), e), f), g) ed h) (nell’elenco, in pratica, devono essere iscritti tutti i soggetti abilitati ex lege all’assistenza e alla rappresentanza in giudizio, fatta eccezione per gli avvocati, per coloro che sono iscritti nella “Sezione A commercialisti dell’Albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili” e per i consulenti del lavoro), il novellato articolo 12 ne ha operato l’accentramento in capo al Ministero dell’economia e delle finanze.

In particolare, l’articolo 12, comma 4, affida ora la gestione del predetto elenco al Dipartimento delle finanze, rinviando ad un regolamento adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, dal Ministro dell’economia e delle finanze, sentito il Ministro della giustizia, al fine di disciplinare le modalità di tenuta dell’elenco e di individuare i casi di incompatibilità, diniego, sospensione e revoca della relativa iscrizione. In merito, la relazione illustrativa ha sottolineato che, per la definizione delle predette fattispecie, dovrà tenersi conto del codice deontologico forense, posto che “nell’ambito dell’assistenza tecnica l’attività defensionale propria dell’avvocatura risulta essere prevalente(15).

L’ultimo periodo del nuovo comma 4 dell’articolo 12 dispone che l’elenco dei soggetti abilitati all’assistenza tecnica, con i relativi aggiornamenti, è pubblicato nel sito internet del Ministero dell’economia e delle finanze.

In ordine all’entrata in vigore delle disposizioni in commento, l’articolo 12, comma 2, del decreto di riforma specifica che fino all’approvazione del DM previsto dal novellato articolo 12, comma 4, del decreto n. 546 “restano applicabili le disposizioni previgenti”. Considerato che il decreto ministeriale concerne in particolare le modalità di tenuta del predetto elenco dei soggetti abilitati alla assistenza tecnica, si ritiene che le altre disposizioni del nuovo articolo 12 non interessate dall’emanazione del medesimo decreto – in particolare quella recante il nuovo limite di valore di 3.000,00 euro delle liti per le quali i contribuenti possono stare in giudizio personalmente – entrino in vigore dal 1° gennaio 2016.

In sede di modifiche di coordinamento conseguenti alla nuova disciplina del contenzioso, l’articolo 10, comma 1, del decreto di riforma ha modificato l’articolo 63, commi terzo, quarto e quinto, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, prevedendo che:

  • possono ottenere l’autorizzazione ministeriale all’assistenza e rappresentanza in giudizio non solo i dipendenti dell’amministrazione finanziaria e gli ufficiali ed ispettori della guardia di finanza, ma anche i dipendenti degli altri enti impositori, quali, ad esempio, regioni, province e comuni;
  • oltre ai requisiti della cessazione, a qualsiasi titolo, dall’impiego e dell’effettivo servizio prestato per almeno venti anni, è richiesto che gli ultimi dieci anni di servizio siano stati spesi nell’esercizio di “attività connesse ai tributi“;
  • resta fermo il divieto, esteso a tutti i predetti soggetti, di esercitare l’attività di assistenza e rappresentanza durante i due anni successivi alla data di cessazione dall’impiego;
  • è introdotta una sanzione amministrativa da euro mille ad euro cinquemila per il caso di violazione della disciplina che regola le funzioni di rappresentanza e assistenza in giudizio.

1.4 Articolo 15 – Spese del giudizio

L’articolo 10, comma 1, lettera b), n. 10 della legge n. 23 del 2014 ha demandato al legislatore delegato l’individuazione di criteri di maggior rigore nell’applicazione del principio della soccombenza ai fini della condanna al rimborso delle spese del giudizio.

In attuazione del predetto mandato, l’articolo 9, comma 1, lettera f) del decreto di riforma ha modificato l’articolo 15 del decreto n. 546 in materia di spese di giudizio.

In particolare, è stato ribadito il principio secondo cui le spese del giudizio tributario seguono la soccombenza, mentre la possibilità per la commissione tributaria di compensare in tutto o in parte le medesime spese – traslata al comma 2 della norma in esame – è consentita solo “in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate“.

In altri termini, in ossequio alla tutela del diritto di difesa di cui all’articolo 24 della Costituzione, la regola generale deve essere che “la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese processuali” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 930).

Al fine di porre le spese a carico della parte soccombente, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che “Il soccombente deve individuarsi facendo ricorso al principio di causalità per cui, obbligata a rimborsare le spese processuali è la parte che, con il comportamento tenuto fuori dal processo, ovvero dandovi inizio o resistendo con modi e forme non previste dal diritto, abbia dato causa al processo ovvero abbia contribuito al suo protrarsi” (Cass. 13 gennaio 2015, n. 373).

In deroga alla predetta regola generale, il giudice può disporre la compensazione delle spese del giudizio qualora alternativamente:

– vi sia stata la soccombenza reciproca;

– sussistano, nel caso concreto, gravi ed eccezionali ragioni, che devono essere espressamente motivate dal giudice nel dispositivo sulle spese (16).

La nozione di soccombenza reciproca, come precisato dalla Suprema Corte, “sottende – anche in relazione al principio di causalità – una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che si siano trovate in cumulo nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero anche l’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorché essa sia stata articolata in più capi e ne siano stati accolti uno od alcuni e rigettati gli altri, ovvero quando la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (così Cass. ord. n. 22381/09 e n. 21684/13)” (Cass. 30 settembre 2015, n. 19520) (17).

In ordine alla sussistenza delle gravi ed eccezionali ragioni, la Corte di cassazione ha chiarito che gli elementi apprezzati dal giudice di merito a sostegno del decisum devono riguardare specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa (Cass. 13 luglio 2015, n. 14546; Cass. 11 luglio 2014, n. 16037) e devono essere soppesati “alla luce degli imposti criteri della gravità (in relazione alle ripercussioni sull’esito del processo o sul suo svolgimento) ed eccezionalità (che, diversamente, rimanda ad una situazione tutt’altro che ordinaria in quanto caratterizzata da circostanze assolutamente peculiari)” (Cass. 17 settembre 2015, n. 18276).

Non può, pertanto, ritenersi soddisfatto l’obbligo motivazionale quando il giudice abbia compensato le spese “per motivi di equità“, non altrimenti specificati (Cass. 13 luglio 2015, n. 14546; Cass. 20 ottobre 2010, n. 21521), né quando le argomentazioni del decidente si riferiscono genericamente alla “peculiarità” della vicenda o alla “qualità delle parti” o anche alla “natura della controversia” (cfr. anche Cass. 17 settembre 2015, n. 18276).

Con l’introduzione nel corpo dell’articolo 15 del nuovo comma 2-bis, il legislatore, al fine di scoraggiare le c.d. liti temerarie, richiama espressamente l’applicabilità dell’articolo 96, primo e terzo comma, c.p.c., in tema di condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata, che si aggiunge alla condanna alla rifusione delle spese di lite.

I commi primo e terzo dell’articolo 96 c.p.c. dispongono, rispettivamente, che “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza” e che “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata(18).

In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha elaborato alcuni criteri per il riconoscimento della temerarietà della lite, affermando che “oltre alla soccombenza totale e non parziale, la condanna per responsabilità aggravata postula che l’istante deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno in conseguenza del comportamento processuale della controparte, nonché la ricorrenza, in detto comportamento, del dolo o della colpa grave” (Cass. 5 marzo 2015, n. 4443).

Per consentire al giudice l’accertamento complessivo della soccombenza, l’istanza di condanna ai sensi dell’articolo 96 c.p.c. deve contenere una prospettazione della temerarietà della lite riferita a tutti i motivi del ricorso (cfr. Cass. 13 luglio 2015, n. 14611).

In merito al danno risarcibile, inoltre, la Suprema Corte ha più volte ritenuto inammissibile la domanda di risarcimento dei danni cagionati nei pregressi gradi di giudizio, dovendo essa farsi “valere nel giudizio in cui i danni dedotti sono stati causati e non in sede di ricorso per cassazione, rientrando il relativo potere nella competenza funzionale ed inderogabile di quel giudice (ossia, del giudice di merito, n.d.r.)” (Cass. 4 febbraio 2015, n. 1952).

Infine, relativamente all’elemento soggettivo, il ricorso può considerarsi temerario “solo allorquando, oltre ad essere erroneo in diritto, sia tale da palesare la consapevolezza della non spettanza del diritto fatto valere, o evidenzi un grado di imprudenza, imperizia o negligenza accentuatamente anormali” (Cass. 13 luglio 2015, n. 14611).

La giurisprudenza della Cassazione ha espresso analoghe considerazioni anche in ordine ai requisiti che integrano la responsabilità aggravata di cui al terzo comma dell’articolo 96 c.p.c. Più precisamente, il danno risarcibile è, anche in questo caso, limitato al grado di giudizio considerato (Cass. 4 febbraio 2015, n. 1952; Cass., SS.UU., 3 giugno 2013, n. 13899). La mala fede o la colpa grave sono altresì richieste nelle ipotesi di cui all’articolo 96, terzo comma, c.p.c. “non solo perché sono inserite in un articolo destinato a disciplinare la responsabilità aggravata, ma anche perché agire in giudizio per far valere una pretesa che alla fine si rileva infondata non costituisce condotta di per sé rimproverabile (Cass. 30/11/2012 n. 21570 Ord.) e, a maggior ragione, quella di cui al comma 3 attesa la sua natura sanzionatoria” (Cass. 12 maggio 2015, n. 9581; Cass. 11 febbraio 2014, n. 3003).

Al fine di rispettare sostanzialmente il principio di soccombenza e di tenere indenne la parte vittoriosa da tutte le spese sostenute nel giudizio, compresi i c.d. oneri accessori, il nuovo comma 2-ter dell’articolo 15 specifica che le spese di giudizio comprendono – oltre al contributo unificato, agli onorari e ai diritti del difensore, alle spese generali e agli esborsi sostenuti – anche i contributi previdenziali e l’imposta sul valore aggiunto eventualmente dovuti.

Il nuovo comma 2-quater risponde all’esigenza di evitare un uso strumentale del contenzioso e, in particolare, un abuso delle richieste di tutela cautelare. La predetta disposizione prevede, infatti, che la statuizione sulle spese di lite debba essere contenuta anche nell’ordinanza (non impugnabile) con cui il giudice decide sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato o di sospensione dell’esecutività provvisoria della sentenza impugnata con appello o con ricorso per cassazione ai sensi, rispettivamente, degli articoli 47, 52 e 62-bis.

Si ritiene che la non impugnabilità dell’ordinanza in esame non costituisca, comunque, un limite alla tutela della parte eventualmente dichiarata soccombente in ordine alle spese della fase cautelare.

Il giudice conserva, invero, la possibilità di disporre diversamente in ordine alle spese della fase cautelare nel provvedimento adottato all’esito del giudizio. In questo caso, la sentenza che definisce il giudizio assorbe l’ordinanza sia sotto il profilo cautelare che nella disposizione sulle spese di lite. La parte che intenda dolersi della condanna alle spese della fase cautelare potrà, quindi, impugnare la sentenza nel relativo capo.

Ove il giudice non provveda in sentenza sulle spese di lite della fase cautelare, l’ordinanza adottata in detta fase sarà assorbita dalla sentenza solo nella parte che ha deciso sull’istanza di sospensione, mentre conserverà la propria efficacia nel capo che dispone sulle spese del giudizio cautelare. La parte che intenda dolersi della condanna alla rifusione delle spese del giudizio cautelare – contenuta nella relativa ordinanza – potrà dunque, in tal caso, impugnare la sentenza in quanto ha omesso di disporre diversamente in merito alle spese della fase cautelare.

Il nuovo comma 2-quinquies dell’articolo 15 conferma il principio recato dalla precedente formulazione del comma 2, secondo cui i compensi spettanti agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati in base ai parametri previsti per le relative prestazioni professionali. Per i soggetti autorizzati all’assistenza tecnica dal Ministero dell’economia e delle finanze si applica, invece, la disciplina degli onorari, delle indennità e dei criteri di rimborso delle spese per le prestazioni professionali dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, attualmente recata dal decreto del Ministero della giustizia 2 settembre 2010, n. 169.

Il comma 2-sexies dell’articolo 15 – nel quale è stato trasfuso, con alcune modifiche, il precedente comma 2-bis del medesimo articolo – disciplina la liquidazione delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate, dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, degli altri enti impositori, degli agenti e dei concessionari privati della riscossione, per il caso in cui essi siano assistiti da propri dipendenti. In particolare, si prevede l’applicazione della disciplina relativa ai compensi per la professione forense – attualmente contemplata dal decreto del Ministro della giustizia 10 marzo 2014, n. 55 – con la riduzione del 20 per cento.

Tramite una disposizione di favore per il contribuente, già presente nella precedente formulazione del comma 2-bis, il secondo periodo del comma 2-sexies prevede che la riscossione delle somme liquidate a favore di tutti gli enti impositori, nonché degli agenti e concessionari della riscossione avviene, mediante iscrizione a ruolo, soltanto dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

Nell’ipotesi di una sentenza che condanni, invece, l’Amministrazione finanziaria al pagamento delle spese di lite, si applica la disciplina di cui all’articolo 69, comma 1, primo periodo, del decreto n. 546, in vigore a far data dal 1° giugno 2016, in base alla quale “Le sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente e quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2, sono immediatamente esecutive“.

In caso di mancata esecuzione, il contribuente ha la possibilità di promuovere giudizio di ottemperanza ai sensi dell’articolo 70 del decreto n. 546, che – in ordine alle spese di giudizio e indipendentemente dal relativo importo – compete alla commissione tributaria in composizione monocratica.

Con le disposizioni dei commi 2-septies e 2-octies, il legislatore ha disciplinato le spese riferite alle controversie oggetto di reclamo/mediazione e di conciliazione giudiziale, con l’intento di incentivare l’utilizzo dei due istituti, potenziandone l’effetto deflattivo.

Nel comma 2-septies, anche per una maggiore sistematicità del testo di legge, è stata riportata la disposizione già contenuta nel precedente testo dell’articolo 17-bis, comma 10, del decreto n. 546, secondo cui, nel caso di controversie proposte avverso atti reclamabili, le spese di giudizio liquidate in sentenza sono maggiorate del 50 per cento.

La disposizione ha riguardo alle spese di giudizio di cui al comma 1 dell’articolo 15 in commento, ossia alle spese di lite che sono poste a carico della parte interamente soccombente, “con la duplice finalità di incentivare la mediazione, oggi estesa a tutti gli enti impositori, e di riconoscere alla parte vittoriosa i maggiori oneri sostenuti nella fase procedimentale obbligatoria ante causam” (cfr. relazione illustrativa al decreto di riforma).

Non è stato, invece, riprodotto il secondo periodo del comma 10 del precedente articolo 17-bis, che, ai fini della compensazione delle spese, faceva riferimento ai “giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, che hanno indotto la parte soccombente a disattendere la proposta di mediazione“.

Ciò nondimeno, resta salva l’applicabilità delle disposizioni recate dal comma 2 dell’articolo 15 in esame; pertanto, fuori dai casi di soccombenza reciproca, la compensazione delle spese, comprese quelle della fase di reclamo/mediazione, può essere disposta solo qualora sussistano e siano espressamente dedotte in motivazione specifiche circostanze o aspetti della controversia, assistite dai requisiti della gravità e della eccezionalità, tra le quali potranno rilevare anche considerazioni in ordine ai motivi che abbiano indotto la parte soccombente a disattendere una eventuale proposta di mediazione.

Il comma 2-octies prevede, infine, che le spese del processo sono interamente addebitate alla parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione, ove il riconoscimento delle pretese risulti inferiore al contenuto dell’accordo proposto (19).

In caso di conclusione della conciliazione le spese del processo saranno, invece, dichiarate compensate, salva diversa determinazione delle parti nell’accordo o nel processo verbale di conciliazione.

In definitiva, se si conclude la conciliazione, le spese vengono compensate, salvo diverso accordo tra le parti. Se, invece, non si addiviene a conciliazione, possono verificarsi le seguenti ipotesi: 1) una parte risulta totalmente soccombente e alla stessa sono addebitate, secondo il principio generale, le spese di lite, salvo il caso in cui sussistano gravi ed eccezionali ragioni; 2) c’è soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare inferiore al contenuto della proposta conciliativa, rifiutata da una delle parti per un giustificato motivo, nel qual caso le spese del processo sono compensate; 3) c’è soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare inferiore al contenuto della proposta, rifiutata da una delle parti senza un giustificato motivo, nel qual caso il giudice pone le spese dell’intero processo a suo carico; 4) c’è soccombenza reciproca e la sentenza ha rideterminato la pretesa per un ammontare uguale o superiore al contenuto della proposta, nel qual caso il giudice dispone la compensazione delle spese.

Coerentemente con il nuovo assetto delle spese di lite e con il rafforzamento del principio di soccombenza, l’articolo 9, comma 1, lettera q), del decreto di riforma, ha modificato l’articolo 46 del decreto n. 546, che reca la disciplina dell’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

Con particolare riguardo al comma 3 dell’articolo 46, la previsione della compensazione delle spese di lite è stata limitata alle ipotesi di cessazione della materia del contendere per definizione delle pendenze tributarie “previste dalla legge” (ad esempio, a seguito di condono). In tal modo, il legislatore, come emerge dalla relazione illustrativa, ha recepito i principi affermati nella sentenza 12 luglio 2005, n. 274, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 46, comma 3, laddove prevedeva che le spese del giudizio estinto restassero a carico della parte che le aveva anticipate in ogni caso di cessazione della materia del contendere (20).

1.5 Articolo 16 – Comunicazioni e notificazioni

L’articolo 16 del decreto n. 546 è stato modificato in coerenza con l’aggiornamento effettuato nel corpo del medesimo decreto in relazione alla denominazione delle parti processuali, che, in quanto tali, sono interessate dall’attività di notificazione o comunicazione (21).

Pertanto, nei commi 1 e 4 dell’articolo 16 la locuzione di “enti impositori” sostituisce quella di “ufficio del Ministero delle finanze” e di “ente locale” e si inseriscono quelle di “agenti della riscossione” e di “soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446“;

La novità più rilevante è tuttavia rappresentata dall’estensione all’agente e ai concessionari privati della riscossione, sopra indicati, delle regole già stabilite per gli enti impositori.

Più in particolare, il comma 1 dell’articolo 16 prevede la possibilità, da parte della segreteria della commissione tributaria, di effettuare le comunicazioni (riguardanti, ad esempio, la fissazione dell’udienza o il deposito della sentenza) mediante trasmissione di elenco in duplice esemplare, uno dei quali va immediatamente datato, sottoscritto per ricevuta e restituito alla medesima segreteria.

Inoltre, a norma del comma 4, l’agente e i concessionari privati della riscossione hanno la facoltà di avvalersi, per effettuare le notificazioni, del messo comunale o del messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria.

Infine, viene abrogato il comma 1-bis dell’articolo 16, in quanto le relative disposizioni sulle comunicazioni mediante PEC sono trasfuse all’interno del nuovo articolo 16-bis.

1.6 Articolo 16-bis – Comunicazione e notificazioni per via telematica

L’articolo 9, comma 1, lettera h) del decreto di riforma ha inserito nel decreto n. 546 l’articolo 16-bis, con l’obiettivo di perseguire il massimo ampliamento dell’uso della posta elettronica certificata (PEC) per le comunicazioni e le notificazioni nel processo tributario, attuando il corrispondente criterio di delega dettato dall’articolo 10, comma 1, lettera b), n. 4 della legge n. 23 del 2014.

Per ragioni di sistematicità, nel comma 1 dell’articolo 16-bis è stato trasfuso il contenuto dell’abrogato comma 1-bis del precedente testo dell’articolo 16, secondo cui le comunicazioni nel processo tributario sono effettuate anche mediante l’utilizzo della PEC, ai sensi del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (c.d. CAD), mentre tra le pubbliche amministrazioni dette comunicazioni possono essere eseguite mediante scambio di documenti informatici nell’ambito del Sistema Pubblico di Connettività (c.d. SPC, di cui agli articoli 73 e seguenti del CAD).

Analogamente, il comma 2 ripropone quanto già previsto dall’abrogato comma 3-bis del precedente testo dell’articolo 17(22) del decreto n. 546, in ordine all’effettuazione delle comunicazioni esclusivamente mediante deposito nella segreteria della commissione tributaria, qualora non sia stato indicato l’indirizzo PEC ovvero in caso di mancata consegna del messaggio PEC per cause imputabili al destinatario.

I commi 3 e 4 recano le novità sostanziali attinenti all’utilizzo della PEC anche nelle notificazioni.

In particolare:

  • al comma 3, è prevista la possibilità di effettuare in via telematica le notificazioni tra le parti e il deposito degli atti presso la competente commissione tributaria;
  • al comma 4, è stabilito che l’indicazione dell’indirizzo PEC, valevole per le comunicazioni e le notificazioni, equivale alla comunicazione del domicilio eletto.

Come detto, la possibilità di comunicazioni a mezzo PEC è stata introdotta nel testo del decreto n. 546 con il decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.

Il medesimo comma 1 dell’articolo 16-bis in commento, così come già l’abrogato comma 1-bis del precedente testo dell’articolo 16, afferma che l’indirizzo PEC del difensore o delle parti è indicato nel ricorso o nel primo atto difensivo e precisa che, nei procedimenti nei quali la parte sta in giudizio personalmente e il relativo indirizzo PEC non risulta dai pubblici elenchi, il ricorrente può indicare l’indirizzo di posta al quale intende ricevere le comunicazioni.

Si evidenzia che, com’è noto, alcune categorie di soggetti sono obbligate normativamente ad indicare specifici indirizzi PEC (23), che per i soggetti iscritti ad albi o elenchi e per le pubbliche amministrazioni, sono quelli che già sono presenti in pubblici elenchi, a seguito di comunicazione effettuata in precedenza in ossequio a disposizioni normative già esistenti, che esulano dal processo tributario. (24)

Infine, a norma dell’articolo 13, comma 3-bis, del DPR n. 115 del 2002, laddove “il difensore non indichi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata ai sensi dell’articolo 16, comma 1-bis [ora 16-bis, comma 1, n.d.r.], del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, il contributo unificato è aumentato della metà“.

In deroga alla previsione generale di entrata in vigore della riforma del contenzioso a decorrere dal 1° gennaio 2016, recata dal comma 1 dell’articolo 12 del decreto, il comma 3 del medesimo articolo 12 prevede che “Le disposizioni contenute nel comma 3 dell’articolo 16-bis del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 … si applicano con decorrenza e modalità previste dai decreti di cui all’articolo 3, comma 3, del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 23 dicembre 2013, n. 163(25) (26).

In definitiva, le novità relative alla notificazione per via telematica, seguendo la disciplina del c.d. processo telematico, sono entrate in vigore dal 1° dicembre 2015 con riferimento agli atti da depositare in via opzionale e relativi alle controversie di competenza delle Commissioni tributarie provinciali e regionali dell’Umbria e della Toscana.

1.7 Articolo 17-bis – Il reclamo e la mediazione

Il testo dell’articolo 17-bis del decreto n. 546 (27), rubricato “Il reclamo e la mediazione“, è stato integralmente sostituito dall’articolo 9, comma 1, lettera l), del decreto di riforma.

Il nuovo testo, pur ricalcando in massima parte quello previgente, presenta rilevanti novità, introdotte allo scopo di potenziare l’istituto e così incentivare ulteriormente la deflazione del contenzioso tributario.

L’istituto del reclamo/mediazione, anche dopo la riforma, continua a configurarsi come uno strumento obbligatorio, che consente un esame preventivo della fondatezza dei motivi del ricorso e della legittimità della pretesa tributaria, nonché una verifica circa la possibilità di evitare, anche mediante il raggiungimento di un accordo di mediazione, che la controversia prosegua davanti al giudice.

Le modifiche introdotte riguardano in particolare (28):

  • l’estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto a tutti gli enti impositori, agli agenti della riscossione e ai soggetti iscritti nell’albo di cui all’articolo 53 del D.Lgs. n. 446 del 1997, nonché alle controversie in materia catastale;
  • la semplificazione delle modalità di instaurazione del procedimento;
  • la quantificazione del beneficio della riduzione delle sanzioni in senso più favorevole al contribuente;
  • le regole per il pagamento delle somme dovute a seguito di mediazione;
  • l’estensione anche alle cause reclamabili della possibilità di esperire la conciliazione giudiziale.

Di seguito si illustrano in dettaglio le predette novità, ferme restando, per le parti dell’istituto rimaste invariate, le indicazioni già fornite con le circolari n. 9/E del 19 marzo 20121, n. 25/E del 19 giugno 2012 (punto 10.2)2, n. 33/E del 3 agosto 20123, n. 49/E del 28 dicembre 20124, n. 1/E del 12 febbraio 20145 e n. 10/E del 14 maggio 20146.

In merito all’entrata in vigore del nuovo articolo 17-bis, si evidenzia che l’articolo 12, comma 1, del decreto di riforma prevede che le nuove disposizioni sul processo tributario si applicano, in via generale, a decorrere dal 1° gennaio 2016, ossia – come chiarito dalla relazione illustrativa al medesimo decreto, richiamata in Premessa – si applicano ai giudizi pendenti a tale data.

Per quanto concerne gli atti prima esclusi dalla disciplina del reclamo/mediazione (ad esempio, gli atti di accertamento catastale o gli atti di altri enti impositori), si deve ritenere che la nuova disciplina trovi applicazione con riferimento ai ricorsi notificati dal contribuente a decorrere dal 1° gennaio 2016.

Con riguardo, invece, alle liti concernenti atti dell’Agenzia delle entrate di valore non superiore a ventimila euro, già ricadenti nell’ambito di applicazione del reclamo/mediazione in base alla previgente disciplina, trova applicazione la richiamata regola generale enunciata nella relazione illustrativa secondo cui le nuove disposizioni (con particolare riguardo alla riduzione delle sanzioni, alle modalità di pagamento e alla possibilità di esperire la conciliazione giudiziale in caso di esito negativo del reclamo/mediazione) si applicano ai procedimenti di mediazione pendenti alla data del 1° gennaio 2016.

In particolare si precisa che, in ordine ai predetti procedimenti pendenti, se alla data del 1° gennaio 2016 il reclamo/mediazione risulta già perfezionato attraverso il pagamento in unica soluzione o della prima rata, la misura della riduzione delle sanzioni e le modalità di pagamento restano disciplinati dalle norme in vigore prima della riforma in esame, ossia al momento del perfezionamento.

1.7.1 Estensione dell’ambito di applicazione

Nell’originaria previsione, il reclamo/mediazione ha trovato applicazione soltanto per le controversie tributarie di valore non superiore a ventimila euro “relative ad atti emessi dell’Agenzia delle entrate“.

Tale inciso non figura più nel testo novellato dell’articolo 17-bis; pertanto l’istituto, pur restando circoscritto alle sole liti fino a ventimila euro di valore, è ora esteso a tutte le controversie tributarie, anche qualora parte in giudizio sia un ente impositore diverso dall’Agenzia delle entrate (ad esempio, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli o un ente locale) ovvero l’agente o il concessionario privato della riscossione.

La scelta del legislatore di ampliare la platea degli enti coinvolti nel procedimento di reclamo si giustifica in base al principio di economicità dell’azione amministrativa, preso atto dell’efficacia deflattiva riscontrata in relazione al contenzioso sugli atti emessi dall’Agenzia delle entrate e dell’elevato numero di controversie di modesto valore che caratterizza in generale il contenzioso tributario.

Tenuto conto della natura degli atti degli agenti e dei concessionari privati della riscossione (29), si ritiene che il reclamo possa trovare applicazione per le impugnazioni concernenti, in particolare:

Nel vigore della nuova disciplina, l’individuazione delle controversie soggette al reclamo avviene dunque sulla base di un unico criterio, cioè il valore della lite non superiore a ventimila euro. Per la determinazione di detto valore si fa riferimento alle disposizioni del novellato articolo 12, comma 2, del decreto n. 546, che sullo specifico punto sono rimaste invariate (30).

L’articolo 17-bis, al comma 6, contempla espressamente l’ipotesi che oggetto di mediazione sia il rifiuto tacito alla restituzione di tributi, sanzioni, interessi o altri accessori, ipotesi, peraltro, già profilata dall’Agenzia delle entrate in via interpretativa (cfr. circolare n. 9/E del 2012, par. 1.1).

Si evidenzia che il nuovo articolo 17-bis conferma l’esclusione dall’ambito di applicabilità del reclamo/mediazione delle controversie di valore indeterminabile (31), ad eccezione delle liti in materia catastale, individuate dall’articolo 2, comma 2, del decreto n. 546 (32).

Infine, il comma 10 dell’articolo 17-bis – nel riprodurre integralmente il contenuto del previgente comma 4 – conferma la non applicabilità del reclamo/mediazione alle liti in materia di aiuti di Stato individuate dal successivo articolo 47-bis (33).

1.7.2 Semplificazione delle modalità di instaurazione del procedimento

Il nuovo comma 1 dell’articolo 17-bis stabilisce che “il ricorso produce anche gli effetti di un reclamo e può contenere una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa“.

Ciò significa che, nelle controversie in questione, la proposizione dell’impugnazione produce, oltre agli effetti sostanziali e processuali tipici del ricorso, anche quelli del reclamo/mediazione.

In sostanza, il procedimento di reclamo/mediazione è introdotto automaticamente con la presentazione del ricorso.

La pregressa disciplina prevedeva, invece, un’apposita istanza di reclamo, motivata sulle stesse ragioni che sarebbero state portate all’attenzione del giudice nella eventuale fase giurisdizionale con il successivo deposito del ricorso, decorsi i termini previsti per la conclusone del procedimento (34).

Il venir meno della necessità di presentazione di un’apposita istanza giustifica anche la mancata riproposizione della previgente disposizione che dichiarava espressamente applicabili al procedimento di reclamo, in quanto compatibili, le norme sulla proposizione del ricorso. Nella nuova configurazione il procedimento di reclamo/mediazione è, infatti, connaturato al processo.

Per le controversie in questione il contribuente ha, comunque, la facoltà di inserire nel ricorso una proposta di mediazione con rideterminazione dell’ammontare della pretesa, già esercitabile, sulla base del testo normativo antecedente, attraverso la presentazione del reclamo.

Nell’ambito delle controversie relative alle operazioni catastali, tale proposta potrà avere ad oggetto, ad esempio, la modifica del classamento o della rendita catastale determinati dall’Ufficio.

1.7.3 Effetti della presentazione del reclamo

Il novellato comma 2 dell’articolo 17-bis stabilisce che “Il ricorso non è procedibile fino alla scadenza del termine di novanta giorni dalla data di notifica, entro il quale deve essere conclusa la procedura di cui al presente articolo“.

Ciò significa che con la proposizione del ricorso si apre una fase amministrativa di durata pari a 90 giorni entro la quale deve svolgersi il procedimento di reclamo/mediazione. Tale fase, che si colloca temporalmente tra l’avvio dell’azione giudiziaria (coincidente con la notifica del ricorso) e l’eventuale instaurazione del giudizio (i termini per la costituzione del ricorrente, come si vedrà, restano sospesi durante il procedimento), è finalizzata all’esame del reclamo e dell’eventuale proposta di mediazione, con l’obiettivo di evitare, in caso di esito positivo, che la causa sia portata a conoscenza del giudice.

Il termine di 90 giorni va computato dalla data di notifica del ricorso all’ente impositore. Se la notifica del ricorso è effettuata a mezzo del servizio postale, il predetto termine decorre dalla data di ricezione del ricorso da parte dell’ente destinatario, in analogia con quanto accade per la decorrenza del termine per la costituzione in giudizio del ricorrente, alla luce del prevalente indirizzo della giurisprudenza della Corte di cassazione (35).

Il termine di 90 giorni è soggetto alla sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (36), come esplicitato dal comma 2, ultimo periodo, dell’articolo 17-bis.

Durante la pendenza del procedimento di reclamo/mediazione, e cioè a decorrere dalla notifica del ricorso e nei successivi 90 giorni, calcolati applicando le regole dei termini processuali, si verificano i seguenti effetti:

  • il ricorso non è procedibile, secondo quanto previsto dal comma 2 dell’articolo 17-bis. Ciò significa che l’azione giudiziaria può essere proseguita, attraverso la costituzione in giudizio del ricorrente, solo una volta scaduto il termine per lo svolgimento dell’istruttoria. Come chiarito dal successivo comma 3, il termine di trenta giorni per la costituzione in giudizio del ricorrente, previsto dall’articolo 22 del decreto n. 546, decorre solo dopo lo scadere del termine dilatorio di 90 giorni; inoltre, la commissione tributaria provinciale, se rileva che la costituzione in giudizio è avvenuta prima dello scadere dei novanta giorni, rinvia la trattazione della causa per consentire l’esame del reclamo;
  • sono sospesi ex lege la riscossione e il pagamento delle somme dovute in base all’atto oggetto di contestazione, come previsto dal comma 8 dell’articolo 17-bis. Tale disposizione stabilisce altresì che, decorso il termine di 90 giorni senza che vi sia stato accoglimento del reclamo o perfezionamento della mediazione, il contribuente è tenuto a corrispondere gli interessi previsti dalle singole leggi d’imposta per il periodo di sospensione. La disciplina sul punto ricalca quella previgente, fatta eccezione per la previsione – contenuta nel comma 9-bis, ultimo periodo, del vecchio articolo 17-bis e non riproposta nel nuovo testo – che dichiarava inoperante la sospensione legale per i casi di improcedibilità del ricorso a seguito di prematura costituzione in giudizio del ricorrente. Pertanto, si deve ritenere che ora la sospensione legale della riscossione, che consegue automaticamente alla presentazione del ricorso, operi anche nel caso in cui il contribuente si costituisca prima dello scadere del termine di 90 giorni.

Gli effetti sopra descritti si producono esclusivamente nel caso di rituale instaurazione delle controversie alle quali è applicabile l’articolo 17-bis. Ciò significa che qualora il ricorso sia inammissibile (perché ad esempio presentato tardivamente) oppure sia proposto avverso un atto non rientrante nell’ambito di applicazione del reclamo/mediazione, i termini per la costituzione in giudizio del ricorrente decorrono dalla notifica del ricorso stesso e, inoltre, non opera la sospensione legale della riscossione.

1.7.4 Istruttoria del reclamo e il perfezionamento dell’accordo di mediazione

La fase dell’istruttoria del reclamo/mediazione segue le regole dettate dalla previgente disciplina.

E’ stata infatti ribadita – dal comma 4 dell’articolo 17-bis – l’autonomia, all’interno dell’ente, del soggetto che deve decidere sul reclamo, per consentire un corretto esercizio del relativo potere. Più precisamente, con riferimento alle Agenzie fiscali, il novellato comma 4, riproducendo la previgente disposizione, affida l’esame del reclamo e della proposta di mediazione ad apposite strutture diverse ed autonome da quelle che curano l’istruttoria degli atti reclamabili (37).

L’opzione di istituire un soggetto “terzo” deputato all’istruttoria, come previsto per la mediazione civile, è stata esclusa dal legislatore atteso che – come si legge nella relazione illustrativa – in campo tributario l’istituto del reclamo/mediazione si configura maggiormente come espressione dell’esercizio di un potere di autotutela nonché più adeguata determinazione dell’ente impositore, che va stimolato ed incoraggiato, allo scopo di indurre ogni Amministrazione a rivedere i propri errori prima dell’intervento del giudice.

Il successivo comma 5 riproduce sostanzialmente la previsione secondo cui l’organo che procede all’istruttoria, se non intende accogliere il reclamo o l’eventuale proposta di mediazione del contribuente, formula d’ufficio una propria proposta di mediazione.

Le valutazioni dell’Ufficio devono fondarsi sui tre criteri specifici – gli stessi previsti dalla precedente normativa – della “eventuale incertezza delle questioni controverse“, del “grado di sostenibilità della pretesa” e del “principio di economicità dell’azione amministrativa“.

Restano in sostanza invariate anche le modalità di perfezionamento dell’accordo di mediazione, che avviene, in sintesi:

– con il pagamento, entro venti giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo, dell’importo dovuto per la mediazione o, in caso di pagamento rateale, della prima rata, se la controversia ha ad oggetto un atto impositivo o di riscossione (38);

– con la sottoscrizione dell’accordo stesso, se la controversia ha ad oggetto il rifiuto espresso o tacito alla richiesta di restituzione di somme (39). In tal caso l’accordo ha valore – espressamente riconosciuto dal comma 6 – di “titolo per il pagamento delle somme dovute al contribuente” che consente, qualora non venga data esecuzione al pagamento concordato, l’azione esecutiva davanti al giudice ordinario;

– con la sottoscrizione dell’accordo, per le controversie aventi ad oggetto operazioni catastali. In quest’ultima ipotesi, gli atti catastali verranno aggiornati a seguito del perfezionamento della mediazione e nei termini risultanti dall’accordo (si fa riferimento, in particolare, ai ricorsi aventi ad oggetto il classamento o la rendita catastale degli immobili).

L’accordo deve contenere, tra l’altro, l’indicazione specifica degli importi risultanti dalla mediazione (tributo, interessi e sanzioni) e le modalità di versamento degli stessi, comprese le eventuali modalità di rateizzazione.

E’ stata altresì confermata dal comma 5, ultimo periodo, la previsione secondo cui l’esito del procedimento rileva anche per i contributi previdenziali ed assistenziali la cui base imponibile è riconducibile a quella delle imposte sui redditi. Di conseguenza, ai fini del perfezionamento della mediazione, assume rilevanza anche il pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

1.7.5 Quantificazione del beneficio della riduzione delle sanzioni in senso più favorevole al contribuente

Il comma 7 dell’articolo 17-bis ridetermina, in senso più favorevole per il contribuente, il beneficio della riduzione delle sanzioni dovute a seguito dell’intervenuto accordo di mediazione, nella misura del “trentacinque per cento del minimo previsto dalla legge“.

La disciplina risulta più favorevole per il contribuente sotto un duplice aspetto: le sanzioni sono ridotte al 35 per cento (mentre in precedenza la percentuale era fissata al 40 per cento) ed irrogabili sulla base del minimo edittale previsto dalla legge (e non più in rapporto dell’ammontare del tributo risultante dalla mediazione).

Si osserva come la nuova percentuale si colloca quale entità intermedia tra le due misure- a un terzo e al 40 per cento – di riduzione delle sanzioni previste, rispettivamente, per l’accertamento con adesione e per la conciliazione conclusa nel corso del primo grado di giudizio.

Il comma 7, ultimo periodo, ripropone la previgente disposizione secondo cui sulle somme dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali non si applicano sanzioni e interessi.

Si evidenzia, inoltre, che a seguito della riforma del sistema sanzionatorio tributario recata dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158, è stato modificato l’articolo 12 del D.Lgs. n. 472 del 1997 concernente il concorso di violazioni e la continuazione.

In particolare, è stata estesa anche al reclamo/mediazione la disciplina recata dal comma 8 del citato articolo 12 – secondo cui le disposizioni sulla determinazione di una sanzione unica in caso di progressione si applicano separatamente per ciascun tributo e per ciascun periodo d’imposta – che nella formulazione originaria era prevista solo per le ipotesi di accertamento con adesione.

Occorre inoltre precisare che, in caso di accoglimento parziale del reclamo, si rendono applicabili le disposizioni recate dall’articolo 2-quater, comma 1-sexies, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, introdotte dall’articolo 11, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 159 del 2015, ai sensi della quale “Nei casi di annullamento o revoca parziali dell’atto il contribuente può avvalersi degli istituti di definizione agevolata delle sanzioni previsti per l’atto oggetto di annullamento o revoca alle medesime condizioni esistenti alla data di notifica dell’atto purché rinunci al ricorso. In tale ultimo caso le spese del giudizio restano a carico delle parti che le hanno sostenute“.

In applicazione della citata disposizione, si ritiene che il contribuente che abbia ottenuto l’accoglimento parziale del reclamo, previa rinuncia al deposito del ricorso con riguardo agli altri motivi di doglianza non accolti, è rimesso in termini per ottenere eventualmente la riduzione delle sanzioni ad un terzo prevista dall’articolo 15 del D.Lgs. n. 218 del 1997 (40).

1.7.6 Nuove regole per il pagamento delle somme dovute a seguito dell’accordo di mediazione

Come noto, nelle controversie aventi ad oggetto un atto impositivo o di riscossione, la condizione indispensabile per il perfezionamento dell’accordo di mediazione è il versamento, entro il termine di venti giorni dalla data di sottoscrizione del predetto accordo, delle intere somme dovute o, in caso di versamento rateale, della prima rata, in relazione all’accordo stesso.

Ai sensi del comma 6 dell’articolo 17-bis, per il versamento delle somme dovute “si applicano le disposizioni, anche sanzionatorie, previste per l’accertamento con adesione dall’articolo 8 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218“.

Il legislatore ha infatti inteso uniformare le regole che presiedono alle modalità di pagamento delle somme dovute a seguito di accertamento con adesione, reclamo/mediazione e conciliazione.

Pertanto, è ammessa la possibilità di pagamento rateale delle somme ” in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo o in un massimo di sedici rate trimestrali se le somme dovute superano i cinquantamila euro“, secondo quanto previsto dall’articolo 8, comma 2, del D.Lgs. n. 218 del 1997 (41).

Inoltre, ai sensi della medesima disposizione, “Le rate successive alla prima devono essere versate entro l’ultimo giorno di ciascun trimestre”; “Sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi calcolati dal giorno successivo al termine di versamento della prima rata“.

In precedenza, la rateizzazione era ammessa in un massimo di otto rate, elevate a dodici nel caso di somme superiori ai cinquantamila euro, secondo quanto stabilito dal previgente articolo 48 del decreto n. 546, richiamato dal comma 8 del previgente articolo 17-bis del medesimo decreto.

In caso di inadempimento nei pagamenti rateali, la disciplina va mutuata da quella prevista dall’articolo 15-ter, comma 2, del DPR n. 602 del 1973 (42), ai sensi del quale si decade dal beneficio della rateazione qualora si ometta di versare una delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva.

Sempre in forza di quest’ultima disposizione, in conseguenza della decadenza dalla rateazione, sono iscritti a ruolo i residui importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni, ed è irrogata la sanzione prevista dall’articolo 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997, “aumentata della metà e applicata sul residuo importo dovuto a titolo di imposta“.

Si evidenzia come il regime punitivo risulti mitigato dalla riforma, posto che nella pregressa disciplina la sanzione di cui all’articolo 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997 si applicava sul residuo importo in misura doppia.

Con riferimento ai procedimenti aventi ad oggetto avvisi di accertamento esecutivi, emessi ai sensi dell’articolo 29 del DL n. 78 del 2010, si precisa che il recupero delle somme non versate a seguito della mediazione va effettuato mediante l’intimazione ad adempiere al pagamento, prevista dalla medesima norma (43).

Trova applicazione altresì il comma 3 dell’articolo 15-ter del DPR n. 602 del 1973, secondo cui è esclusa la decadenza in caso di c.d. “lieve inadempimento”, dovuto a:

“a) insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3 per cento e, in ogni caso, a diecimila euro;

b) tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni”.

Nei casi in cui l’insufficiente o il tardivo pagamento integri un “lieve inadempimento”, si procede – ai sensi del comma 5 del citato articolo 15-ter – all’iscrizione a ruolo “dell’eventuale frazione non pagata, della sanzione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, commisurata all’importo non pagato o pagato in ritardo, e dei relativi interessi“.

La predetta iscrizione a ruolo non è eseguita – a norma del successivo comma 6 dell’articolo 15-ter – se il contribuente si avvale del ravvedimento operoso di cui all’articolo 13 del D.Lgs. n. 472 del 1997, entro il termine di pagamento della rata successiva ovvero, in caso di versamento in unica soluzione o di ultima rata, entro 90 giorni dalla scadenza del termine previsto per il versamento.

Occorre infine precisare che le disposizioni di cui all’articolo 8, comma 2, del D.Lgs. n. 218 del 1997, come modificato dal D.Lgs. n. 159 del 2015, sono sicuramente applicabili ai procedimenti di mediazione pendenti alla data del 1° gennaio 2016, per i quali la mediazione si sia perfezionata a decorrere dalla medesima data.

1.7.7 Applicabilità della conciliazione giudiziale alle controversie reclamabili

Le controversie instaurate a seguito di rigetto dell’istanza di reclamo ovvero di mancata conclusione dell’accordo di mediazione rientrano nell’ambito di applicabilità della conciliazione, disciplinata dai nuovi articoli 48, 48-bis e 48-ter del decreto n. 546.

Non è stata infatti riproposta la disposizione che imponeva l’alternatività tra reclamo/mediazione e conciliazione.

La ratio risponde all’esigenza di potenziare gli istituti deflativi sia nella fase anteriore al giudizio che in pendenza di causa.

Si precisa che possono essere oggetto di conciliazione anche le cause, pendenti al 1° gennaio 2016, di valore non superiore a ventimila euro e concernenti atti dell’Agenzia delle entrate, per le quali sia stata esperita infruttuosamente la mediazione in applicazione della previgente disciplina.

1.8 Articolo 18 – Il ricorso

La lettera m) del comma 1 dell’articolo 9 del decreto di riforma ha modificato l’articolo 18 del decreto n. 546, che individua il contenuto del ricorso.

In particolare, al comma 3, è stato introdotto l’obbligo di indicare la categoria di appartenenza del difensore ai sensi dell’articolo 12 del medesimo decreto n. 546, che consente al giudice la liquidazione delle spese di lite secondo la relativa tariffa professionale.

Come detto a commento dell’articolo 16-bis, l’omessa indicazione dell’indirizzo PEC del difensore comporta l’aumento della metà del contributo unificato, ai sensi dell’articolo 13, comma 3-bis, del DPR n. 115 del 2002.

1.9 Articolo 39 – Sospensione del processo

L’articolo 9, comma 1, lettera o), del decreto di riforma, ha aggiunto i commi 1-bis e 1-ter all’articolo 39 del decreto n. 546, che reca le ipotesi di sospensione del processo tributario.

Nella formulazione precedente, la sospensione necessaria del processo era prevista nei casi di proposizione di querela di falso e di sussistenza di questioni pregiudiziali concernenti lo stato o la capacità delle persone, fatta eccezione per la capacità di stare in giudizio.

Altre disposizioni di legge applicabili anche al processo tributario individuano ulteriori ipotesi di sospensione necessaria, quali la rimessione alla Corte costituzionale di una questione di legittimità costituzionale (44) e la proposizione del ricorso per ricusazione (45).

Si ricorda che, come precisato nella circolare n. 98/E del 19967, non risulta applicabile al processo tributario la sospensione su istanza di parte di cui all’articolo 296 c.p.c. (46), non ravvisandosi “una ratio, che giustifichi la possibilità delle parti di concordare tra loro la sospensione del processo“.

Il comma 1-bis, inserito nell’articolo 39, prevede in via generale la sospensione necessaria per pregiudizialità nei rapporti tra liti instaurate innanzi alle commissioni tributarie. In particolare, riproducendo essenzialmente l’articolo 295 c.p.c. (47), il legislatore ha prescritto la sospensione del processo in ogni altro caso in cui la stessa o altra commissione tributaria “deve risolvere una controversia dalla cui definizione dipende la decisione della causa“.

Si evidenzia che sullo specifico punto la Corte di cassazione ha da tempo riconosciuto, con riferimento ai rapporti tra i processi tributari (c.d. rapporti interni), l’applicabilità della sospensione per pregiudizialità di cui all’articolo 295 c.p.c. (48), osservando che l’articolo 39 del decreto n. 546, “pur nell’interpretazione restrittiva datane dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (49)…, non esclude l’applicazione della norma generale del codice di rito … (Cass. n. 14788/2001; n. 7506/2001)” (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21291) (50).

La nozione di pregiudizialità rilevante ai fini della sospensione del processo è stata più volte esplicitata dalla Corte di cassazione, la quale ha evidenziato che “la sospensione necessaria del giudizio ex art. 295 c.p.c.“, “applicabile anche al processo tributario, in forza del generale richiamo operato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1″, si configura “qualora risultino pendenti, davanti a giudici diversi, procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità tale che la definizione dell’uno costituisce indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro, nel senso che l’accertamento dell’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto tra giudicati (cfr., ex plurimis, Cass. 2214/11; 1865/12; 21396/12)” (Cass. 14 gennaio 2015, n. 417).

Sussiste ad esempio un rapporto di pregiudizialità tra il giudizio avente ad oggetto il provvedimento di diniego o di cancellazione dell’iscrizione all’Anagrafe delle ONLUS e i giudizi vertenti sugli atti impositivi emessi per recuperare le imposte o le maggiori imposte non versate (51).

Parimenti si ravvisa un rapporto di pregiudizialità tra il giudizio avente ad oggetto il disconoscimento di perdite di periodo e la controversia relativa al conseguenziale accertamento dell’indebito utilizzo delle predette perdite in compensazione in periodi d’imposta successivi (52).

Il giudizio sulla spettanza di un’agevolazione pluriennale ha carattere evidentemente pregiudiziale rispetto alle controversie aventi ad oggetto l’accertamento delle imposte riferite alle singole annualità o il rimborso delle imposte nelle more versate dal contribuente (53).

La Corte di cassazione ha, altresì, ravvisato la pregiudizialità della controversia avente ad oggetto il diniego opposto dall’ufficio alla domanda di adesione ad un istituto definitorio rispetto al giudizio relativo agli atti impositivi recanti la pretesa interessata dalla definizione (54).

Atteso che, come evidenziato, la ratio dell’istituto della sospensione risiede principalmente nell’esigenza di evitare il contrasto di giudicati, l’applicabilità della sospensione per pregiudizialità presuppone che i giudizi si svolgano tra le medesime parti (55).

In alcune ipotesi, pur in presenza di parti processuali differenti, la Corte di cassazione ha ravvisato la sussistenza di un nesso di pregiudizialità che impone la sospensione della causa dipendente (56).

La parte che invochi la sospensione dovrà fornire prova della dipendenza tra le controversie, allegando i necessari elementi fattuali da cui inferire tale relazione di dipendenza (57).

Ai fini della sospensione, dovrà, altresì, essere dimostrata la pendenza attuale della controversia pregiudiziale innanzi all’Autorità giurisdizionale (58).

La sospensione per pregiudizialità è disposta anche d’ufficio, indipendentemente, cioè, da un’istanza di parte. Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che essa non è connessa ad alcuna valutazione di opportunità, ma presuppone la sola verifica della sussistenza del rapporto di pregiudizialità tra le due cause pendenti (59).

Ai sensi dell’articolo 43 del decreto n. 546, “Dopo che è cessata la causa che ne ha determinato la sospensione, il processo continua se entro sei mesi da tale data viene presentata da una delle parti istanza di trattazione al presidente di sezione della commissione, che provvede a norma dell’art. 30“.

L’inerzia delle parti determina l’estinzione del giudizio (60).

1.9.1 Sospensione dovuta all’inizio di una procedura amichevole

L’articolo 9, primo comma, lettera o), del decreto di riforma introduce una ipotesi di sospensione del processo su istanza delle parti, allorché sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle Convenzioni contro le doppie imposizioni.

Le procedure amichevoli (MAP – Mutual Agreement Procedure), che consistono in una consultazione diretta tra le amministrazioni fiscali dei Paesi contraenti, sono finalizzate a risolvere casi di doppia imposizione e rappresentano, quindi, uno strumento per la composizione delle controversie fiscali internazionali.

Esse trovano fondamento nelle Convenzioni internazionali bilaterali per evitare le doppie imposizioni e, in ambito europeo, nella Convenzione 90/436/CEE del 23 luglio 1990 per l’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate, in applicazione della normativa in materia di prezzi di trasferimento.

Conseguentemente, il comma 1-ter dell’articolo 39 prevede espressamente la facoltà delle parti di ottenere, su concorde richiesta, la sospensione del processo quando sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni ovvero una procedura amichevole ai sensi della Convenzione sull’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/436/CEE del 23 luglio 1990 (61).

1.10 Articolo 47 – Sospensione dell’atto impugnato

In attuazione del principio di delega enunciato nell’articolo 10, comma 1, lettera b), n. 9 della legge n. 23 del 2014, ossia “l’uniformazione e la generalizzazione della tutela cautelare“, sono state apportate modifiche al decreto n. 546, e in primis all’articolo 47, che mirano a disciplinare in maniera più dettagliata e organica rispetto al passato l’istituto della sospensione, tanto degli atti quanto delle sentenze, estendendolo nel contempo a tutte le fasi del processo, in conformità con gli indirizzi progressivamente elaborati dalla giurisprudenza.

Le novità sono informate ad alcuni principi di base, in buona parte trasfusi nell’articolo in esame, che le singole disposizioni modificative estendono ai diversi gradi di giudizio e ai mezzi di impugnazione:

a) il contribuente può in ogni caso chiedere la sospensione dell’atto impugnato in presenza di un danno grave ed irreparabile;

b) le parti possono chiedere la sospensione degli effetti della sentenza sia di primo grado sia di appello, analogamente a quanto previsto nel c.p.c.;

c) il giudice può subordinare i provvedimenti cautelari ad idonea garanzia, la cui disciplina di dettaglio è rimessa ad un emanando decreto di attuazione, così da prestabilire il contenuto, la durata della garanzia e il termine entro il quale essa può essere escussa evitando, di conseguenza, le eventuali divergenze tra le parti in merito all’idoneità della garanzia stessa.

Inoltre, meritano un richiamo le disposizioni dell’articolo 15, comma 2-quater, che disciplinano il regime delle spese di lite della fase cautelare (cfr. par. 1.4), prevedendo che la commissione provveda a queste ultime con l’ordinanza che decide sull’istanza e che la pronuncia sulle spese conservi efficacia anche dopo il provvedimento che definisce il giudizio (salva diversa statuizione espressa nella stessa sentenza emessa sul giudizio). La relazione illustrativa al decreto di riforma attribuisce a tale disposizione la funzione di evitare un abuso delle richieste di sospensione, analogamente a quanto previsto per il processo amministrativo dall’articolo 57 del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo).

Venendo alla nuova formulazione dell’articolo 47, va innanzitutto rilevato come l’impianto generale della disposizione sia rimasto pressoché immutato, almeno nei tratti fondamentali e nei presupposti, ravvisabili nella possibilità per il ricorrente di chiedere la sospensione dell’atto dal quale possa derivare danno grave ed irreparabile.

Quindi, nell’immutato comma 1 viene confermato che la proposizione del ricorso non ha di per sé effetto sospensivo dell’atto impugnato, ma va a tal fine integrata da un’apposita istanza, contenuta nel medesimo atto introduttivo del giudizio o presentata con atto separato, debitamente notificato a controparte e depositato – solo a seguito della costituzione in giudizio del ricorrente ex articolo 22 – presso la segreteria della commissione tributaria competente.

Funzione essenziale della sospensione dell’atto impugnato è paralizzare temporaneamente gli effetti pregiudizievoli dello stesso, in attesa della sentenza di primo grado. Per tale ragione, in linea di principio non può chiedersi la sospensione di atti a contenuto non impositivo, quali il diniego – espresso o tacito – di rimborsi, agevolazioni o definizioni agevolate di rapporti tributari, in quanto in tal caso l’ordinanza di sospensione imporrebbe all’Amministrazione finanziaria un obbligo di facere (cfr. circolare n. 98/E del 1996).

I presupposti della sospensione, dei quali il giudice deve riscontrare la sussistenza all’esito di pur sommaria delibazione, come noto, sono:

a) il fumus boni iuris, ossia la fondatezza prima facie dei motivi di ricorso;

b) il periculum in mora, ossia il pericolo di danno grave ed irreparabile (anche in presenza di futura sentenza definitiva favorevole), che l’esecuzione dell’atto cagionerebbe.

Nella valutazione dei presupposti della sospensione, l’interesse del ricorrente va bilanciato con quello dell’ente impositore alla tutela del credito erariale: anche con riferimento all’esito di tale ponderazione va letta la previsione, invariata nell’attuale formulazione del comma 5, secondo cui “la sospensione può anche essere parziale“.

Il comma 2, anch’esso immutato, dispone che il presidente – della sezione alla quale la causa è stata assegnata o della commissione tributaria, qualora l’assegnazione non abbia ancora avuto luogo – fissa con proprio decreto la trattazione dell’istanza di sospensione per la prima camera di consiglio utile, disponendo che ne sia data comunicazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima.

Il comma 3 ha subito talune modifiche nella parte relativa alla facoltà del presidente di disporre, in caso di eccezionale urgenza e previa delibazione del merito, la provvisoria sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato, inaudita altera parte. Invero, mentre nel precedente testo della disposizione tale facoltà andava esercitata con lo stesso decreto di fissazione dell’udienza per la trattazione dell’istanza di sospensione, la novella consente di disporre la sospensione “con decreto motivato” e, quindi, anche con un provvedimento diverso da quello di fissazione dell’udienza ed eventualmente anteriore a questo. Per tale conclusione fa propendere la ratio della norma, identificabile nell’esigenza di non vanificare gli effetti della tutela cautelare a causa di una concessione tardiva della stessa, letta alla luce del criterio di delega relativo al rafforzamento dell’istituto.

Nel comma 4 è introdotto un secondo periodo ove è previsto che il dispositivo dell’ordinanza motivata non impugnabile con cui il collegio (sentite le parti in camera di consiglio e delibato il merito) provvede sull’istanza di sospensione – anche adottando la decisione definitiva sull’eventuale sospensione provvisoria di cui sopra – “deve essere immediatamente comunicato alle parti in udienza“.

Le modifiche apportate alla parte finale del successivo comma 5 prevedono che la garanzia cui può essere subordinata la sospensione, anche parziale, dell’atto sia ora prestata ai sensi dell’articolo 69, comma 2, del decreto n. 546, che rimette ad un apposito decreto ministeriale la disciplina della garanzia.

A tal proposito, è il caso di rilevare in questa sede come la riforma del contenzioso tributario estenda a tutte le ipotesi in cui sia richiesta una garanzia – sulla scorta di condivisibili esigenze di uniformità, semplificazione e coerenza sistematica – lo schema menzionato nel nuovo articolo 69, comma 2, del decreto n. 546 (cfr. par. 1.15.2).

Nessuna modifica è stata apportata, invece, ai commi da 5-bis a 7 dell’articolo 47; conseguentemente, i termini e la durata previsti per la decisione nel merito della causa e gli effetti della sospensione rimangono invariati, vale a dire che:

  1. l’istanza dev’essere decisa entro centottanta giorni dalla data di presentazione;
  2. qualora si opti per la sospensione dell’atto impugnato, la trattazione della controversia deve essere fissata non oltre novanta giorni dalla decisione, così da consentire una più celere definizione della controversia;
  3. gli effetti della sospensione cessano dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado.

Del pari, il successivo comma 8 conferma in toto la facoltà delle parti, cui è preclusa l’impugnazione dell’ordinanza, di sollecitare la revisione di quest’ultima in caso di mutamento delle circostanze rilevanti ai fini della sospensione. In tale ipotesi, la commissione, su istanza motivata di parte, può revocare o modificare il provvedimento cautelare prima della sentenza, osservando in quanto compatibile la disciplina dettata dai commi 1, 2 e 4 (e, quindi, in esito ad un procedimento sostanzialmente analogo alla fase cautelare già svoltasi).

Infine, l’articolo 47 viene completato con l’aggiunta del comma 8-bis, disposizione di natura sostanziale più che processuale, nel quale si stabilisce che durante il periodo di sospensione si applicano gli interessi al tasso previsto per la sospensione amministrativa. In tal modo viene espressamente recepito nel testo normativo l’orientamento, tanto di prassi quanto di giurisprudenza, incline ad uniformare il calcolo degli interessi nella sospensione accordata dal giudice e in quella accordata dall’Amministrazione finanziaria.

Gli interessi applicabili sono pertanto quelli previsti dall’articolo 39, comma 1, del DPR n. 602 del 1973, che nell’attuale formulazione prevede un tasso annuo del 4,5 per cento.

1.11 Articoli 48, 48-bis e 48-ter – La conciliazione giudiziale

L’articolo 10, comma 1, lettera a), della legge delega n. 23 del 2014 annovera, tra i criteri direttivi della riforma, quello di “rafforzamento e razionalizzazione dell’istituto della conciliazione nel processo tributario“, nell’intento di superare la criticità legata allo scarso utilizzo di tale istituto e “anche a fini di deflazione del contenzioso e di coordinamento con la disciplina del contraddittorio fra il contribuente e l’amministrazione nelle fasi amministrative di accertamento del tributo, con particolare riguardo ai contribuenti nei confronti dei quali sono configurate violazioni di minore entità“.

In attuazione del predetto criterio, le lettere s) e t) dell’articolo 9 del decreto di riforma hanno operato una riscrittura della conciliazione giudiziale, introducendo una serie di modifiche alla disciplina, che in tal modo risulta articolata su tre norme: l’articolo 48, che rispetto alla previgente formulazione presenta la rubrica e il testo integralmente sostituiti, nonché i nuovi articoli 48-bis e 48-ter.

Nello specifico, gli articoli 48 e 48-bis disciplinano separatamente le due tipologie di conciliazione, rispettivamente denominate “fuori udienza” e “in udienza“, mentre l’articolo 48-ter detta disposizioni, comuni alle due tipologie di conciliazione, per la definizione e il pagamento delle somme dovute.

Nell’ambito delle modifiche introdotte (62), le più rilevanti riguardano:

  • l’estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto al secondo grado di giudizio;
  • l’individuazione di un diverso momento di perfezionamento della conciliazione e di nuove regole per il pagamento delle somme dovute;
  • la determinazione del beneficio consistente nella riduzione delle sanzioni, riformulata secondo modalità più favorevoli al contribuente.

I nuovi articoli 48, 48-bis e 48-ter si applicano – in base a quanto stabilito dall’articolo 12, comma 1, del decreto di riforma – ai giudizi pendenti alla data del 1° gennaio 2016.

Si precisa che, in ordine ai predetti giudizi pendenti, se alla data del 1° gennaio 2016 la conciliazione risulta già perfezionata attraverso il pagamento delle somme dovute in unica soluzione o della prima rata, gli effetti restano disciplinati dalle norme vigenti al momento del perfezionamento.

1.11.1 Estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto

Una prima rilevante novità è rappresentata dalla possibilità di conciliare anche le liti che si trovano nella fase di appello e non solo – come accadeva sotto la previgente disciplina – le controversie tributarie pendenti nel primo grado di giudizio.

E’ stato infatti eliminato il riferimento al limite temporale entro cui la conciliazione poteva avere luogo, che il previgente articolo 48, comma 2, individuava nella prima udienza innanzi alla commissione tributaria provinciale.

Va evidenziato che, secondo quanto chiarito dalla relazione illustrativa, l’opzione di estendere la conciliazione anche al grado di cassazione è stata esclusa dal legislatore, stante la particolare natura di tale giudizio, dal quale sono esclusi gli accertamenti in fatto.

L’altra novità riguarda la possibilità di conciliare anche le controversie che ricadono nell’ambito di applicazione dell’istituto del reclamo/mediazione di cui all’articolo 17-bis del decreto n. 546, cioè le cause tributarie di valore non superiore a ventimila euro, oppure relative ad operazioni catastali, instaurate a seguito di rigetto dell’istanza di reclamo ovvero di mancata conclusione dell’accordo di mediazione. Si rinvia, sul punto, ai chiarimenti forniti nel precedente par. 1.7.

1.11.2 Conciliazione perfezionata “fuori udienza”

Con riferimento alla conciliazione “fuori udienza“, l’articolo 48 prevede che, “se in pendenza di giudizio le parti raggiungono un accordo conciliativo, presentano istanza congiunta sottoscritta personalmente o dai difensori per la definizione totale o parziale della controversia“.

Questa tipologia di conciliazione si realizza, come nella pregressa disciplina, con il deposito in giudizio – di primo o di secondo grado – di una “istanza congiunta“, cioè di una proposta di conciliazione alla quale l’altra parte abbia previamente aderito, con l’unica differenza che il soggetto deputato ad effettuare il deposito è ora individuato in ciascuna delle parti del giudizio e non più esclusivamente nell’Ufficio.

L’istanza deve contenere:

  • l’indicazione della commissione tributaria adita;
  • i dati identificativi della causa, anche con riferimento all’Ufficio dell’Agenzia e al contribuente parti in giudizio;
  • la manifestazione della volontà di conciliare, con indicazione degli elementi oggetto della proposta conciliativa ed i relativi termini economici;
  • la liquidazione delle somme dovute in base alla conciliazione (ovvero, per le conciliazioni intervenute nell’ambito di controversie aventi ad oggetto operazioni catastali, gli elementi che individuano esattamente i termini dell’accordo conciliativo, quali l’indicazione del classamento o della rendita catastale rideterminati);
  • la motivazione delle ragioni che sorreggono la conciliazione;
  • l’accettazione incondizionata del ricorrente di tutti gli elementi della proposta nonché delle somme liquidate;
  • la data, la sottoscrizione del titolare dell’Ufficio e la sottoscrizione del contribuente o, nei casi in cui vi sia obbligo di assistenza tecnica, anche del difensore. Si precisa che, in presenza di difensore, deve essere espressamente conferito nella procura il potere di conciliare e transigere la controversia.

La nuova disposizione non fissa un termine per il deposito dell’accordo di conciliazione, che invece la pregressa disciplina individuava nella data di trattazione in camera di consiglio o di discussione in pubblica udienza del giudizio di primo grado. Ciononostante, si ritiene che un limite temporale sia comunque rappresentato dal momento in cui la causa è trattenuta in decisione, superato il quale apparirebbe vanificato lo scopo deflattivo del contenzioso a cui è preordinata la conciliazione.

Pertanto, il deposito della proposta preconcordata deve avvenire non oltre l’ultima udienza di trattazione, in camera di consiglio o in pubblica udienza, del giudizio di primo o di secondo grado.

Ai sensi del comma 4 dell’articolo 48, la conciliazione “fuori udienza” si perfeziona “con la sottoscrizione dell’accordo“, nel quale sono indicate le somme dovute, con i termini e le modalità di pagamento (oppure sono indicati gli elementi caratterizzanti la conciliazione “catastale”).

La previsione che fa coincidere il perfezionamento della conciliazione con il momento in cui si formalizza, mediante un accordo sottoscritto congiuntamente, l’incontro di volontà tra Amministrazione e contribuente, rappresenta un’importante novità.

Nella previgente disciplina il perfezionamento avveniva successivamente alla redazione dell’accordo e, precisamente, nel momento del pagamento dell’intera somma dovuta o della prima rata, da effettuare entro venti giorni dalla data di comunicazione del decreto presidenziale di estinzione del giudizio.

Proprio la coincidenza un tempo esistente tra effettuazione del pagamento e perfezionamento della conciliazione poteva condurre a situazioni in cui l’insolvenza del contribuente e comunque l’omesso pagamento, determinando il mancato perfezionamento dell’istituto, si riverberava anche sulla declaratoria di estinzione della controversia, portando a configurare la necessità di una riattivazione del processo.

Nella nuova formulazione si è, invece, stabilito il principio secondo cui l’intervenuto accordo ha efficacia novativa del precedente rapporto, con la conseguenza che il mancato pagamento delle somme dovute dal contribuente conduce alla iscrizione a ruolo del nuovo credito derivante dall’accordo stesso e all’applicazione del conseguente regime sanzionatorio per l’omesso versamento.

In tal senso, il comma 4 dell’articolo 48 stabilisce, altresì, che “L’accordo costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente“. La disposizione risulta modificata rispetto a quella previgente, che attribuiva efficacia di titolo per la riscossione alla proposta conciliativa preconcordata, unita al decreto di estinzione della controversia.

In altri termini, l’accordo conciliativo, da un lato legittima l’iscrizione a ruolo del nuovo credito vantato dall’Amministrazione, dall’altro, qualora sia l’Amministrazione stessa a non dare esecuzione al pagamento di quanto concordato, legittima il contribuente ad esperire l’azione esecutiva davanti al giudice ordinario, analogamente a quanto previsto nella disciplina del reclamo/mediazione.

Ai sensi del comma 2 dell’articolo 48, se sussistono le condizioni di ammissibilità della conciliazione, il giudice dichiara la cessazione della materia del contendere, anche parziale, qualora l’accordo riguardi solo una parte della pretesa erariale, procedendo in tal caso all’ulteriore trattazione della causa.

La norma stabilisce nel dettaglio le modalità con cui è dichiarata la cessata materia del contendere, nel senso che:

  • se non è stata ancora fissata la data dell’udienza di trattazione, provvede il presidente della sezione con decreto;
  • se invece è già stata fissata l’udienza di trattazione, provvede la commissione tributaria, provinciale o regionale, con sentenza, se la conciliazione è totale, oppure con ordinanza, se la conciliazione è parziale (in quest’ultimo caso la sentenza sarà infatti adottata al termine del giudizio di merito per le questioni che non sono state oggetto di conciliazione).

La locuzione “condizioni di ammissibilità“, analoga a quella riportata nella disciplina previgente (63), allude al potere di sindacato di legittimità del giudice, che può accertare la regolarità della proposta conciliativa e l’assenza di cause di inammissibilità previste dalla legge (ad esempio, ammissibilità del ricorso introduttivo, imposte rientranti nella giurisdizione tributaria, sussistenza del potere di conciliare, ecc.).

Qualora il giudice non ravvisi le condizioni di ammissibilità, la causa verrà discussa e portata a decisione.

1.11.3 Conciliazione perfezionata “in udienza”

Con riferimento alla conciliazione “in udienza“, il nuovo articolo 48-bis prevede che ciascuna delle parti possa presentare un’istanza per la conciliazione totale o parziale della controversia, entro il termine previsto dall’articolo 32, comma 2, del decreto n. 546 per il deposito delle memorie illustrative, cioè entro dieci giorni liberi prima della data di trattazione, riferibile sia al primo sia al secondo grado di giudizio.

La precedente disciplina prevedeva che la proposta di conciliazione andasse inserita nell’istanza di discussione in pubblica udienza di cui all’articolo 33 del decreto n. 546, da notificare entro il medesimo termine di dieci giorni liberi prima della data di trattazione.

Anche nella nuova disciplina, invero, si deve ritenere che l’istanza per la conciliazione, anche ove contenuta in una memoria illustrativa, non possa prescindere dalla presentazione della richiesta di pubblica udienza, necessaria per l’esperimento del tentativo di conciliazione.

In udienza la commissione, se ravvisa le condizioni di ammissibilità della proposta, invita le parti alla conciliazione.

La previgente disciplina stabiliva che, nel caso in cui la conciliazione non si realizzasse nella prima udienza, la commissione poteva assegnare un termine non superiore a sessanta giorni affinché si addivenisse ad una conciliazione “fuori udienza“.

Ora il nuovo comma 2 dispone che la commissione possa rinviare la causa a successiva udienza “per il perfezionamento dell’accordo conciliativo“, senza prevedere più l’assegnazione di un termine.

Nell’ipotesi in cui l’accordo conciliativo sia raggiunto “in udienza”, il comma 3 dell’articolo 48-bis prevede che esso debba risultare da apposito processo verbale, nel quale sono indicate le somme dovute ed i termini e le modalità di pagamento. L’accordo in questo caso viene formalizzato all’interno del processo verbale redatto dal segretario della commissione secondo quanto previsto dall’articolo 34, comma 2, del decreto n. 546.

Ai sensi del richiamato comma 3 dell’articolo 48-bis, “La conciliazione si perfeziona con la redazione del processo verbale“. Sul punto si richiama quanto osservato al paragrafo precedente con riguardo alla conciliazione “fuori udienza“, circa la rilevanza della novità che fa coincidere il perfezionamento con la sottoscrizione dell’accordo; nell’ipotesi di conciliazione “in udienza“, come detto, l’accordo conciliativo è formalizzato nel processo verbale ed ha efficacia novativa del precedente rapporto, con la conseguenza che il mancato pagamento delle somme dovute dal contribuente determina unicamente l’iscrizione a ruolo del credito derivante dall’accordo stesso e l’applicazione delle sanzioni per l’omesso versamento delle somme dovute in base alla conciliazione.

Il comma 3 dell’articolo 48-bis stabilisce, infatti, che “il processo verbale costituisce titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore e per il pagamento delle somme dovute al contribuente“, alla stregua dell’accordo nella conciliazione “fuori udienza“.

A seguito dell’intervenuta conciliazione, la commissione, ai sensi del comma 4 dell’articolo 48-bis, dichiara con sentenza l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere.

1.11.4 Riduzione delle sanzioni

Il nuovo articolo 48-ter disciplina il pagamento delle somme dovute per effetto dell’intervenuto accordo conciliativo, nonché le modalità di pagamento e di recupero delle somme non versate. Le regole ivi previste si applicano sia alla conciliazione “fuori udienza” che a quella “in udienza“.

Per quanto concerne la riduzione delle sanzioni, la relativa disciplina è contenuta nel comma 1 dell’articolo 48-ter, che stabilisce la riduzione al quaranta per cento del minimo previsto dalla legge, qualora l’accordo intervenga nel primo grado di giudizio; la percentuale è elevata al cinquanta per cento se la conciliazione avviene in appello.

La modalità di determinazione delle sanzioni dovute a seguito dell’accordo conciliativo è stata rideterminata in senso più favorevole per il contribuente, allo scopo di incentivare il ricorso all’istituto in questione.

Invero, in base alla pregressa disciplina, in caso di avvenuta conciliazione le sanzioni erano applicabili nella misura del “40 per cento delle somme irrogabili in rapporto dell’ammontare del tributo risultante dalla conciliazione medesima” e, in ogni caso, in misura non inferiore al “40 per cento dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo“.

Il criterio di determinazione delle sanzioni, ora basato sul minimo previsto dalla legge, è lo stesso stabilito in caso di conclusione dell’accertamento con adesione e dell’accordo di mediazione (fatta salva la diversa percentuale della riduzione delle sanzioni, prescritta per il primo al 30 per cento e per la seconda al 35 per cento).

A titolo esemplificativo, si ipotizzi che l’atto impositivo impugnato rechi una maggiore imposta ai fini dell’IRAP pari a 10.000 euro, con la relativa sanzione di 24.000 euro, irrogata – nella misura edittale massima del 240 per cento dell’imposta dovuta – ai sensi dell’articolo 1 del D.Lgs. n. 471 del 1997.

Ammettendo l’ipotesi di una conciliazione in primo grado, nella quale le parti abbiano concordato la rideterminazione del tributo nella misura di 6.000 euro, il beneficio della riduzione della sanzione risulterebbe ratione temporis così individuabile:

– sotto il vigore della precedente disciplina, la sanzione ridotta a seguito della conciliazione ammonterebbe a 5.760 euro (vale a dire il 40 per cento di 14.400 euro, che rappresenta, a sua volta, il 240 per cento di 6.000 euro);

– in applicazione della nuova disciplina, la sanzione ridotta ammonterebbe, invece, a 2.880 euro (vale a dire il 40 per cento di 7.200 euro, che rappresenta il minimo edittale, cioè il 120 per cento di 6.000 euro).

Si evidenzia infine che, a seguito delle modifiche arrecate al sistema sanzionatorio tributario dal D.Lgs. n. 158 del 2015, è stato modificato l’articolo 12, comma 8, del D.Lgs. n. 472 del 1997, concernente il “concorso di violazioni e continuazione“, al fine di specificare che la disciplina del cumulo giuridico in caso di conciliazione è identica a quella prevista per l’accertamento con adesione.

In particolare, è stata estesa anche alla conciliazione giudiziale la disciplina recata dal citato articolo 12, comma 8 – secondo cui “le disposizioni sulla determinazione di una sanzione unica in caso di progressione si applicano separatamente per ciascun tributo e per ciascun periodo d’imposta“.

1.11.5 Pagamento delle somme dovute a seguito della conciliazione

Come detto, sia l’accordo previsto in caso di conciliazione “fuori udienza“, sia il processo verbale nel caso di conciliazione “in udienza“, costituiscono titolo per la riscossione delle somme dovute all’ente impositore.

Il comma 2 dell’articolo 48-ter stabilisce che il versamento delle intere somme dovute o, in caso di versamento rateale, della prima rata, va effettuato entro venti giorni dalla data di sottoscrizione dell’accordo, per la conciliazione “fuori udienza“, o di redazione del processo verbale, per la conciliazione “in udienza“.

Ovviamente si ricorda che dagli importi dovuti a titolo di conciliazione vanno computate in diminuzione le eventuali somme versate dal contribuente a titolo di iscrizione provvisoria.

Ai sensi del comma 4 dell’articolo 48-ter, per il versamento rateale delle somme dovute “si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste per l’accertamento con adesione dall’articolo 8 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218“.

Il legislatore ha, infatti, inteso uniformare le regole che presiedono alle modalità di pagamento delle somme dovute a seguito di accertamento con adesione, reclamo/mediazione e conciliazione.

Pertanto, in base all’articolo 8, comma 2 (64), del D.Lgs. n. 218 del 1997, è ammessa la possibilità di pagamento in forma rateale delle somme dovute, ” in un massimo di otto rate trimestrali di pari importo o in un massimo di sedici rate trimestrali se le somme dovute superano i cinquantamila euro“; “Sull’importo delle rate successive alla prima sono dovuti gli interessi calcolati dal giorno successivo al termine di versamento della prima rata“.

In precedenza, secondo quanto stabilito dal previgente articolo 48 del decreto n. 546, la rateizzazione era ammessa in un massimo di otto rate, elevate a dodici nel caso di somme superiori ai cinquantamila euro.

Occorre precisare che la dilazione delle somme secondo le più favorevoli modalità previste dall’articolo 8, comma 2, del D.Lgs. n. 218 del 1997 è sicuramente applicabile alle controversie pendenti alla data del 1° gennaio 2016, per le quali la conciliazione si sia perfezionata a decorrere dalla medesima data.

Il comma 3 dell’articolo 48-ter disciplina l’ipotesi di mancato pagamento delle somme dovute entro il termine di venti giorni dalla sottoscrizione dell’accordo o del verbale di conciliazione o, in caso di rateizzazione, di una delle rate, compresa la prima, entro il termine di pagamento della rata successiva, prevedendo l’iscrizione a ruolo delle residue somme dovute a titolo di imposta, interessi e sanzioni, nonché della sanzione per omesso versamento, prevista dall’articolo 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997, aumentata della metà ed applicata sull’importo residuo dovuto a titolo di imposta.

Con riferimento alle controversie aventi ad oggetto avvisi di accertamento esecutivi, emessi ai sensi dell’articolo 29 del DL n. 78 del 2010, si precisa che il recupero delle somme non versate a seguito della conciliazione va effettuato mediante l’intimazione ad adempiere al pagamento, prevista dalla medesima norma (65).

Si evidenzia come il regime punitivo risulti mitigato dalla riforma, posto che nella pregressa disciplina la sanzione di cui all’articolo 13 del D.Lgs. n. 471 del 1997 si applicava sul residuo importo in misura doppia.

Infine, si deve ritenere che – analogamente con la disciplina prevista per l’accertamento con adesione e il reclamo/mediazione – trovi applicazione anche per la conciliazione giudiziale l’articolo 15-ter, comma 3, del DPR n. 602 del 1973 concernente il c.d. “lieve inadempimento“, per il cui dettaglio si rinvia al precedente par. 1.7.6.

1.12 Articoli 49, 52 e 62-bis – La sospensione delle sentenze

L’articolo 9, comma 1, lettera u) del decreto di riforma ha modificato l’articolo 49 del decreto n. 546, eliminando l’inciso “escluso l’art. 337“. Fatta salva la disciplina specifica del processo tributario, la disposizione ora contiene un generale rinvio alle norme del codice di procedura civile in tema di sospensione delle sentenze, contenute nel “titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile“.

La suddetta modifica si connota per una significativa portata di carattere sistematico, posto che la decisione di includere l’articolo 337 c.p.c. nel novero delle norme richiamate è giustificata, oltre che da esigenze di coordinamento con il nuovo regime dell’esecutività delle sentenze tributarie (cfr. par. 1.15), dalla necessità di conformarsi alle pronunce giurisprudenziali che hanno affermato, sotto vari profili, l’applicabilità al processo tributario della predetta norma del rito civile (66).

La disposizione che più direttamente interessa la tutela cautelare è quella contenuta nel primo comma dell’articolo 337, secondo cui “l’esecuzione della sentenza non è sospesa per effetto dell’impugnazione di essa, salve le disposizioni degli articoli 283, 373, 401 e 407“. Tale richiamo consente, quindi, di applicare le norme che disciplinano la sospensione cautelare delle sentenze di primo grado e d’appello in caso di impugnazione ordinaria e straordinaria.

La modifica in questione è volta a dirimere i dubbi e a rimuovere gli ostacoli all’ingresso nel contenzioso tributario delle norme processualcivilistiche da ultimo menzionate; infatti, il precedente testo dell’articolo 49 ha rappresentato per lungo tempo l’elemento testuale che precludeva l’applicabilità al processo tributario delle medesime norme, dal momento che la sua lettera (con particolare riferimento all’esclusione dell’articolo 373 c.p.c.), sia pur in via indiretta, ostava alla loro applicazione.

In tal senso, il decreto di riforma recepisce in modo esplicito l’orientamento consolidatosi in capo alla giurisprudenza costituzionale e di legittimità. Conseguentemente l’articolo 9, comma 1, lettera v) riformula l’articolo 52 del decreto n. 546, aggiungendo cinque commi, specificamente dedicati alla disciplina della fase cautelare; la nuova rubrica dell’articolo fa riferimento ai “provvedimenti sull’esecuzione provvisoria in appello“, riconducibili alla disciplina della sospensione.

Invariato rimane il primo comma dell’articolo in esame, che individua il giudice d’appello nella commissione tributaria regionale, rinviando per la determinazione della competenza territoriale all’articolo 4, comma 2, ai sensi del quale “Le commissioni tributarie regionali sono competenti per le impugnazioni avverso le decisioni delle commissioni tributarie provinciali, che hanno sede nella loro circoscrizione“.

Del tutto nuova è la disciplina della fase cautelare, introdotta sul presupposto della richiamata modifica dell’articolo 49, che in buona parte ricalca la procedura prevista dall’articolo 47 per la sospensione dell’atto impugnato.

Segnatamente, il nuovo comma 2 consente all’appellante di chiedere alla commissione regionale di sospendere in tutto o in parte (quindi limitatamente ai capi ad esso sfavorevoli) l’esecutività della sentenza impugnata, “se sussistono gravi e fondati motivi“, analogamente a quanto disposto dall’articolo 283 c.p.c.. Tale locuzione fa riferimento, secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, ai consueti presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora: sotto il secondo profilo, è richiesta una considerevole rilevanza del pregiudizio che l’esecuzione della sentenza potrebbe arrecare al ricorrente.

In un’ottica di rafforzamento della tutela della parte, al contribuente è accordata la possibilità di chiedere in ogni caso la sospensione dell’esecuzione dell’atto “se da questa può derivargli un danno grave e irreparabile“, sulla base, cioè, “degli stessi presupposti previsti dall’art. 47 per la sospensione in primo grado” (relazione illustrativa al decreto di riforma).

Al contribuente è quindi consentito ottenere la sospensione degli effetti dell’atto impugnato anche quando questo sia confermato da una sentenza di merito (67).

Quanto alle forme di proposizione dell’istanza, si ritiene che, sulla falsariga dell’articolo 47, l’appellante possa presentare l’istanza di sospensione (della sentenza o dell’atto), tanto unitamente allo stesso ricorso ex articolo 53 o al ricorso incidentale ex articolo 54, quanto con atto separato.

I successivi commi dal 3 al 6 ricalcano le disposizioni dell’articolo 47, prevedendo che:

  1. il presidente fissa con decreto la trattazione dell’istanza di sospensione per la prima camera di consiglio utile, disponendo che ne sia data comunicazione alle parti almeno dieci giorni liberi prima;
  2. in caso di eccezionale urgenza il presidente, previa delibazione del merito, può disporre con decreto motivato la sospensione dell’esecutività della sentenza fino alla pronuncia del collegio;
  3. il collegio, sentite le parti in camera di consiglio e delibato il merito, provvede con ordinanza motivata non impugnabile (68) ;
  4. analogamente a quanto previsto dall’articolo 47, la sospensione può essere subordinata alla prestazione della garanzia di cui al nuovo articolo 69, comma 2;
  5. per effetto del richiamo al comma 8-bis dell’articolo 47, contenuto nel secondo periodo del comma 6, durante il periodo di sospensione si applicano gli interessi al tasso previsto per la sospensione amministrativa.

L’accoglimento dell’istanza di sospensione di una sentenza sfavorevole al contribuente preclude l’applicazione degli articoli 68 del decreto n. 546e 19 del D.Lgs. n. 472 del 1997 (concernenti la riscossione in pendenza di giudizio rispettivamente dell’imposta e delle sanzioni), fino alla conclusione del giudizio di impugnazione, rendendo necessaria la conseguente sospensione anche delle attività esecutive relative all’atto impugnato (69).

Per converso, nel caso in cui sia concessa, a richiesta dell’ufficio, la sospensione di una sentenza favorevole al contribuente, viene inibita l’operatività delle nuove norme che ne disciplinano l’immediata esecutività (cfr. par. 1.15) e l’Ufficio è legittimato a non effettuare lo sgravio o il rimborso delle somme riconosciute non dovute in forza della stessa sentenza.

L’articolo 62-bis, infine, è stato inserito ex novo dall’articolo 9, comma 1, lettera aa) del decreto di riforma, al fine di disciplinare l’esecuzione provvisoria e i provvedimenti cautelari relativi alle sentenze impugnate per cassazione.

In definitiva, è consentito alla parte ricorrente di richiedere direttamente “alla commissione che ha pronunciato la sentenza impugnata di sospenderne in tutto o in parte l’esecutività allo scopo di evitare un danno grave e irreparabile“. Allo stesso fine è garantita al contribuente la possibilità di chiedere la sospensione dell’atto. In proposito, va evidenziato come la Corte costituzionale, con la sentenza 9 giugno 2010, n. 217, abbia ribadito il “consolidato orientamento giurisprudenziale (tale da costituire “diritto vivente”), secondo il quale, l'”irreparabilità del danno” di cui all’art. 373 cod. proc. civ. va intesa, quantomeno, nel senso di un intollerabile scarto tra il pregiudizio derivante dall’esecuzione della sentenza nelle more del giudizio di cassazione e le concrete possibilità di risarcimento in caso di accoglimento del ricorso per cassazione“.

Come esplicitato nella relazione illustrativa al decreto di riforma, la formulazione dell’articolo 62-bis in esame è analoga a quella contenuta nell’articolo 373 c.p.c. e attribuisce rilievo al solo periculum in mora, senza possibilità di valutare il fumus boni iuris. Tale ultimo elemento è stato, infatti, già valutato, dallo stesso giudice che ha emesso la sentenza di cui si chiede la sospensione, impugnata innanzi alla Suprema Corte (70).

Per il resto l’articolo 62-bis ricalca la medesima procedura disciplinata dal nuovo articolo 52 e ripropone il richiamo dell’articolo 47, comma 8-bis, sulla debenza degli interessi da sospensione amministrativa.

In questo caso l’istanza va proposta con uno specifico atto (da notificare anche alla controparte), in quanto indirizzata ad un giudice diverso dalla Corte di cassazione, chiamata a decidere sull’impugnazione. Un’istanza di sospensione della sentenza presentata direttamente alla Suprema Corte sarebbe, quindi, inammissibile (71).

Per contro, il comma 6, al fine di subordinare l’eventuale concessione della sospensione all’effettiva instaurazione del giudizio di legittimità, preclude alla commissione la possibilità di pronunciarsi qualora la parte istante non fornisca prova di aver depositato il ricorso per cassazione contro la sentenza.

A sua volta, il comma 4 chiarisce che il collegio, come per gli altri gradi di giudizio, provvede con ordinanza motivata non impugnabile, sentite le parti in camera di consiglio.

La sospensione della sentenza favorevole di secondo grado esclude temporaneamente la possibilità di procedere sulla base delle norme che ne disciplinano l’esecutività, analogamente a quanto già detto a commento della sospensione delle sentenze di primo grado ai sensi dell’articolo 52.

1.13 Articoli 62 e 63 – Modifiche alla disciplina del ricorso per cassazione

All’articolo 62 del decreto n. 546, recante le norme applicabili al ricorso per cassazione, è stato aggiunto il comma 2-bis il quale prevede che, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello, la sentenza della commissione tributaria provinciale può essere impugnata con ricorso per cassazione unicamente a norma dell’articolo 360, primo comma, n. 3, c.p.c., ovvero per violazione o falsa applicazione di norme di diritto.

Il c.d. ricorso per saltum, disciplinato analogamente a quanto previsto nel codice di procedura civile dal secondo comma dell’articolo 360 (72), consente di ottenere una pronuncia su questioni giuridiche da parte della Corte di cassazione appena dopo l’esito del giudizio di primo grado, anche in funzione deflativa del contenzioso, come evidenziato dalla relazione illustrativa al decreto di riforma.

L’istituto può trovare applicazione quando le parti siano concordi nel ritenere che la causa dipende dalla decisione di una questione di diritto sulla quale è prevedibile che la Corte Suprema sarebbe chiamata in ogni caso ad esprimersi.

In particolare, la Cassazione ha evidenziato che «il ricorso “per saltum” risponde all’opportunità, da apprezzarsi dalle parti concordemente, di evitare l’appello quando la contesa sia limitata alla risoluzione di questioni di diritto, così che esso costituirebbe un “doppione” del ricorso per Cassazione» (Cass. 7 marzo 1997, n. 2021).

Si favorisce in tal modo una pronuncia della Corte su questioni non ancora affrontate ovvero non definitivamente risolte.

La riforma non ha dettato una disciplina specifica sulle modalità di proposizione del ricorso per saltum; si ritiene, pertanto, che in tal caso – in applicazione dei criteri di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto n. 546 – occorra fare riferimento alle norme del codice di procedura civile.

In particolare, per la conclusione dell’accordo, soccorre l’articolo 366, terzo comma, c.p.c., il quale prevede che “l’accordo delle parti deve risultare mediante visto apposto sul ricorso dalle altre parti o dai loro difensori muniti di procura speciale, oppure mediante atto separato, anche anteriore alla sentenza impugnata, da unirsi al ricorso stesso“.

Come chiarito dalle sezioni unite della Corte di cassazione con sentenza 26 luglio 2006, n. 16993, l’accordo diretto all’immediata impugnazione in sede di legittimità della sentenza di primo grado costituisce un “negozio giuridico processuale, quanto meno sotto il profilo della rilevanza della manifestazione di volontà dei dichiaranti, il cui effetto immediato è quello di rendere non appellabile la sentenza oggetto dell’accordo“.

Pertanto, “qualora … l’accordo non sia stato concluso dalle parti personalmente o dai loro difensori muniti di procura speciale, il ricorso per cassazione, proposto per saltum, deve essere dichiarato inammissibile, non risultando sufficiente allo scopo l’intervento dei difensori muniti di mera procura ad litem“.

In ordine alla duplice modalità di conclusione dell’accordo, prevista dalla norma, si ritiene sia da preferire la stipula di un atto separato da unirsi al ricorso.

Non appare opportuno in linea generale aderire ad un accordo “anteriore alla sentenza impugnata“, in quanto lo stesso opererebbe come una rinuncia incondizionata all’appello, senza che si conosca la motivazione della sentenza e sia stato possibile valutare la presenza di vizi ulteriori rispetto a quello indicato dall’articolo 62, comma 2-bis, consistente – come si è detto – nella violazione o falsa applicazione di norme di diritto.

In caso di rinvio della causa alla commissione tributaria provinciale o regionale da parte della Corte di cassazione, il termine per la riassunzione del giudizio, previsto al comma 1 dell’articolo 63, è stato ridotto da un anno a sei mesi, decorrenti dalla pubblicazione della sentenza.

Le altre disposizioni dell’articolo 63 sono rimaste invariate.

Il predetto termine di sei mesi coincide con quello già previsto dall’articolo 43 del decreto n. 546 per la riassunzione del giudizio interrotto o sospeso.

Il termine ridotto si applica per le sentenze depositate dal 1° gennaio 2016 e risponde all’obiettivo di accelerare la definitiva conclusione del processo.

1.14 Articoli 64 e 65 – Il giudizio di revocazione

L’articolo 64, inserito nella Sezione IV del Capo III, dedicato alle impugnazioni, reca la disciplina delle sentenze revocabili e dei motivi di revocazione.

Il decreto di riforma ha modificato il comma 1, con una formulazione analoga a quella dell’articolo 395 c.p.c., ciò al fine di eliminare, come chiarito dalla relazione illustrativa di accompagnamento, le incertezze interpretative a cui aveva dato luogo la precedente formulazione dell’articolo 64.

La precedente versione prevedeva infatti che “Contro le sentenze delle commissioni tributarie che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate è ammessa la revocazione ai sensi dell’art. 395 del c.p.c.“.

La giurisprudenza di legittimità aveva chiarito che si trattava di norma speciale del procedimento tributario rispetto alla disciplina processualcivilistica ordinaria. Da ciò discendeva, ad esempio, che la richiesta di revocazione risultava inammissibile allorché una sentenza, involgente accertamenti di fatto, fosse già stata impugnata in cassazione, pur risultando i due rimedi concorrenti (cfr. Cass. 24 luglio 2012, n. 13026; Cass. 11 marzo 2011, n. 5827; Cass. 21 aprile 2008, n. 10274; Cass. 18 maggio 2007, n. 11596).

L’attuale formulazione fa espresso riferimento alle sentenze pronunciate in grado di appello ovvero in unico grado dalle commissione tributarie, laddove per sentenze “in unico grado” devono intendersi quelle interessate dal c.d. ricorso per saltum di cui all’articolo 62, comma 2-bis del decreto n. 546, precedentemente commentato.

Tali sentenze possono essere oggetto di ricorso per revocazione ordinaria (nn. 4 e 5 dell’articolo 395 c.p.c., la cui proposizione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza) ovvero straordinaria (nn. 1, 2, 3 e 6 del medesimo articolo, che può proporsi anche dopo il passaggio in giudicato della stessa).

Di contro, le sentenze pronunciate dalla commissione tributaria provinciale, disciplinate dal comma 2 dell’articolo 64, sono soggette solo a revocazione straordinaria, in quanto i motivi di revocazione ordinaria devono essere fatti valere con l’appello.

La proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il ricorso per cassazione. Inoltre, la notificazione di un ricorso per revocazione è idonea a determinare, sia per il notificante che per il destinatario della notificazione, la decorrenza del termine breve per l’impugnativa della pronuncia, come chiarito più volte dalla Corte di cassazione (cfr. Cass. 22 marzo 2013, n. 7261; Cass. 19 giugno 2007, n. 14267).

La modifica all’articolo 65 del decreto n. 546, che disciplina la proposizione della revocazione delle sentenze, ha riguardato l’introduzione del nuovo comma 3-bis, che vale ad estendere la sospensione dell’esecutività anche alle sentenze impugnate col suddetto mezzo, consentendo alle parti di “proporre istanze cautelari ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 52, in quanto compatibili“.

La diversità rispetto alla disciplina processualcivilistica appare evidente, dal momento che l’articolo 401 c.p.c. richiama la disciplina applicabile alla sospensione delle sentenze di secondo grado, disponendo che “Il giudice della revocazione può pronunciare, su istanza di parte inserita nell’atto di citazione, l’ordinanza prevista nell’art. 373, con lo stesso procedimento in camera di consiglio ivi stabilito“. In proposito, la relazione illustrativa al decreto di riforma chiarisce che il rinvio alla disciplina della tutela cautelare prevista per le sentenze di primo grado, anziché di appello, è giustificato dalla circostanza che la causa sulla revocazione viene decisa dalla medesima commissione che ha pronunciato la sentenza oggetto di revocazione.

Sotto il profilo applicativo non si rilevano motivi di sostanziali difformità dalla disciplina di cui all’articolo 52, a cui si rinvia anche per gli effetti della sospensione della sentenza.

Quanto alle forme di proposizione dell’istanza, anche in questo caso si ritiene che, sulla falsariga dell’articolo 47 del decreto n. 546, l’appellante possa presentare l’istanza di sospensione (della sentenza o dell’atto) tanto unitamente allo stesso ricorso ex articolo 65 quanto con atto separato.

1.15 Articoli 67-bis, 68, 69 e 70 – L’esecuzione delle sentenze

Il decreto di riforma ha apportato significative modifiche al Capo IV del decreto n. 546, relativo all’esecuzione delle sentenze tributarie, sulla base del principio di delega della “immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie” (articolo 10, comma 1 lettera b), n. 10 della legge n. 23 del 2014).

La precedente disciplina sull’esecuzione delle sentenze tributarie riconosceva alle pronunce un trattamento differenziato in ragione del tipo di controversia oggetto di decisione.

Infatti, ai sensi dell’articolo 68, comma 2, per i giudizi aventi ad oggetto un atto impositivo (e in particolare, come già chiarito dalla circolare n. 49/E del 1° ottobre 20108, avvisi di accertamento, avvisi di liquidazione, provvedimenti che irrogano le sanzioni e iscrizioni a ruolo), l’Ufficio, in caso di sentenza favorevole al contribuente, entro novanta giorni, doveva effettuare il rimborso di quanto pagato in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza emessa dalle commissioni tributarie.

Viceversa, il successivo articolo 69, per i giudizi aventi ad oggetto un diniego espresso o tacito alla restituzione di quanto spontaneamente versato, prevedeva che il contribuente dovesse attendere il passaggio in giudicato della sentenza per ottenerne l’esecuzione.

Infine, in base al dettato dell’articolo 69-bis, il passaggio in giudicato della sentenza favorevole al contribuente era richiesto anche in caso di ricorsi proposti avverso gli atti relativi ad operazioni catastali, ai fini del successivo aggiornamento degli atti del catasto.

Il legislatore delegato, con l’introduzione dell’articolo 67-bis, l’abrogazione dell’articolo 69-bis e la modifica degli articoli 68, 69 e 70, ha riformato in modo sistematico l’esecuzione delle sentenze tributarie.

Preliminarmente, è stato inserito l’articolo 67-bis che, come indicato nella relazione illustrativa al decreto di riforma, risponde alla “necessità di introdurre un principio generale che riconosca l’esecutività immediata delle sentenze tributarie emesse dalle commissioni tributarie provinciali e regionali, equiparandole a quelle adottate nel giudizio civile e amministrativo“.

Inoltre, con la completa riscrittura dell’articolo 69 e l’abrogazione dell’articolo 69-bis, le sentenze emesse dalle commissioni tributarie nell’ambito di giudizi aventi ad oggetto dinieghi di rimborso, ovvero atti relativi alle operazione catastali, sono provvisoriamente esecutive così come quelle emesse nei giudizi aventi ad oggetto atti impositivi, disciplinate dal comma 2 dell’articolo 68.

Infine, con la riforma degli articoli 68, 69 e 70, è stato previsto un rimedio processuale unico all’eventuale inadempienza dell’Ufficio nell’esecuzione delle sentenze, siano esse definitive o provvisorie. Il contribuente, infatti, in caso di inerzia dell’Ufficio, ai sensi dell’articolo 68, comma 2 e dell’articolo 69, comma 5, può ricorrere unicamente al rimedio dell’ottemperanza a norma del successivo articolo 70.

E’ opportuno precisare che, in base al disposto dell’articolo 12 del decreto di riforma, l’entrata in vigore dell’articolo 67-bis è posticipata al 1° giugno 2016, unitamente alla prevista abrogazione dell’articolo 69-bis in tema di controversie catastali e alla modifica dell’articolo 69 in tema di esecuzione delle sentenze di condanna alla restituzione di somme in favore del contribuente.

1.15.1 Le modifiche all’articolo 68

L’articolo 68, comma 1, del decreto n. 546 disciplina l’esecutorietà delle sentenze totalmente o parzialmente favorevoli all’Ufficio. La norma conferma il previgente meccanismo di riscossione frazionata del tributo e dei relativi interessi in ragione degli esiti dei vari gradi di giudizio, ossia per i due terzi dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso o per l’ammontare risultante dalla sentenza che lo accoglie parzialmente e, comunque, non oltre i due terzi, e per il residuo ammontare determinato dalla sentenza della commissione tributaria regionale.

Il decreto di riforma ha aggiunto, al comma 1, la lettera c-bis), allo scopo di precisare le modalità di riscossione del tributo nelle due diverse ipotesi della pendenza del giudizio di rinvio e della mancata riassunzione della causa, a seguito di una sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio.

Pertanto, nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni tributarie, dopo la sentenza della Corte di cassazione di annullamento con rinvio, l’imposta, con i relativi interessi, deve essere pagata per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado e, in caso di mancata riassunzione, per l’intero importo indicato nell’atto.

In tale ultima ipotesi, in base a quanto previsto dall’articolo 63, comma 2, del decreto n. 546, se la riassunzione non avviene entro il termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di cassazione con rinvio o si configura una causa di estinzione del giudizio di rinvio, l’intero processo si estingue.

La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che l’estinzione dell’intero processo comporta la caducazione di tutte le sentenze medio tempore pronunciate e la definitività dell’atto oggetto di impugnazione, con conseguente esigibilità delle somme richieste con il medesimo atto (ex multis, Cassazione 5 febbraio 2014, n. 2519; 3 luglio 2013, n. 16689; 28 marzo 2012, n. 5044; 8 febbraio 2008, n. 3040).

La Corte di cassazione ha altresì chiarito che l’estinzione del processo, relativamente al giudizio di rinvio, rende inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione proposta dall’Amministrazione finanziaria (cfr. citate Cass. n. 3040 del 2008 e n. 5044 del 2012).

In tal modo, il dettato della nuova lettera c-bis) si è allineato alla giurisprudenza della Corte, e la stessa relazione illustrativa al decreto di riforma ha evidenziato che “l’espressa previsione degli effetti della mancata riassunzione ha lo scopo di rendere chiare, soprattutto ai contribuenti, le conseguenze pregiudizievoli che derivano dalla mancata riassunzione del giudizio, indipendentemente da quale parte sia risultata vittoriosa in cassazione“.

Nel diverso caso in cui il giudizio di rinvio sia stato tempestivamente riassunto, la lettera c-bis) ha previsto che l’Amministrazione riscuota il tributo per l’ammontare dovuto nella pendenza del giudizio di primo grado, in analogia a quanto previsto per la riscossione provvisoria nei casi di impugnazione dell’atto impositivo.

Si osserva sul punto che con la circolare n. 48/E del 24 ottobre 20119, l’Agenzia ha precisato che, quando una sentenza di appello sia stata cassata con rinvio, “è principio fermo nella giurisprudenza di legittimità e nella riflessione della pressoché unanime dottrina processualistica che il giudizio di rinvio (…) costituisce una fase nuova ed autonoma, ulteriore e successivo momento del giudizio (…) diretto e funzionale ad una sentenza che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia, riformandola, ma statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti (Cass. 17 novembre 2000, n. 14892; Cass. 6 dicembre 2000, n. 15489; 23 settembre 2002, n. 13833; Cass. 28 gennaio 2005, n. 1824; Cass. 28 marzo 2009, n. 7536; Cass. 5 aprile 2011, n. 7781; Cass. 17 settembre 2010, n. 19701)“.

Inoltre, in caso di riassunzione della causa, la circostanza che la sentenza cassata sia favorevole o sfavorevole all’Amministrazione, se non rilevante dal punto di vista giuridico (perché, come chiarito, tale sentenza viene caducata), è invece rilevante dal punto di vista operativo. Se, infatti, la sentenza di appello era favorevole all’Amministrazione, quest’ultima – a seguito di cassazione con rinvio – dovrà di regola operare uno sgravio parziale; diversamente, se la sentenza di appello era favorevole al contribuente, l’Amministrazione dovrà nuovamente procedere, ove già oggetto di sgravio, all’iscrizione a ruolo di un terzo del tributo oggetto di giudizio e dei relativi interessi.

Il decreto di riforma ha, altresì, modificato il comma 2 dell’articolo 68, che tratta delle decisioni favorevoli al contribuente e stabilisce che, in ipotesi di accoglimento del ricorso, il tributo corrisposto in eccedenza con i relativi interessi deve essere rimborsato d’ufficio, nel termine di novanta giorni dalla notificazione della sentenza.

Si ricorda che con la circolare n. 49/E dell’Agenzia, nel fornire indicazione agli Uffici in ordine alla tempestiva esecuzione di detti rimborsi, ha precisato che, “per dare esecuzione ai provvedimenti giudiziari e, in particolare, per procedere ai rimborsi ai sensi dell’art. 68, comma 2, non occorre attendere la notifica della sentenza favorevole al contribuente né alcuna specifica richiesta o sollecito“.

La riforma ha aggiunto al comma 2 il seguente periodo: “In caso di mancata esecuzione del rimborso il contribuente può richiedere l’ottemperanza a norma dell’articolo 70 alla commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla commissione tributaria regionale“.

Come chiarito dalla relazione illustrativa, “si viene a colmare una lacuna, che vedeva il contribuente del tutto privo di rimedi giuridici di fronte all’inerzia dell’ente impositore, che all’esito di una sentenza – anche non definitiva – favorevole al contribuente, ometteva di eseguire in suo favore il rimborso delle somme medio tempore riscosse“.

Il rimedio prescelto dal legislatore delegato è il giudizio di ottemperanza disciplinato dal successivo articolo 70 del decreto n. 546, attivabile decorso il termine indicato nel comma 2 dell’articolo 68, ovvero “novanta giorni dalla notificazione della sentenza“, senza che l’Ufficio abbia provveduto al rimborso. La notificazione della sentenza e il decorso dei novanta giorni costituiscono quindi condizioni per la presentazione del ricorso in ottemperanza; alla luce del chiaro dettato normativo, si ritiene che la notifica della sentenza sia a tal fine necessaria, anche ove penda appello proposto dall’Ufficio.

La disposizione contiene, inoltre, una specifica previsione in ordine al giudice competente per il giudizio di ottemperanza, individuato nella commissione tributaria provinciale oppure, in caso di pendenza del giudizio in secondo grado o in cassazione, nella commissione tributaria regionale.

Il combinato disposto degli articoli 68 e 70, da cui deriva la possibilità per il contribuente di ricorrere al giudizio di ottemperanza per ottenere la restituzione di quanto corrisposto in eccedenza rispetto alla sentenza della commissione tributaria, entra in vigore il 1° gennaio 2016 e, come tutte le altre norme processuali, si applica ai giudizi pendenti alla medesima data.

Le disposizioni sulla riscossione in pendenza di giudizio di cui all’articolo 68, commi 1 e 2, restano applicabili, come nella disciplina previgente, anche alla riscossione delle sanzioni. A tal fine l’articolo 10 del decreto di riforma, recante norme di coordinamento, apporta le conseguenti modifiche all’articolo 19 del D.Lgs. n. 472 del 1997 (73).

Ne consegue che anche per la restituzione delle sanzioni corrisposte in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza, il contribuente potrà ricorrere al rimedio dell’ottemperanza in caso di inerzia dell’ufficio decorsi novanta giorni dalla notifica della sentenza stessa.

1.15.2 Il nuovo articolo 69

Come anticipato nel commento all’articolo 67-bis, l’attuazione del principio di delega “dell’immediata esecutorietà, estesa a tutte le parti in causa, delle sentenze delle commissioni tributarie” ha comportato, tra l’altro, la completa riscrittura dell’articolo 69 del decreto n. 546, ora rubricato “Esecuzione delle sentenze di condanna in favore del contribuente“.

Il nuovo testo dell’articolo 69, al comma 1, ha previsto l’immediata esecutività delle “sentenze di condanna al pagamento di somme in favore del contribuente” e di “quelle emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali(74).

In ordine ai giudizi aventi ad oggetto un diniego espresso o tacito alla restituzione di quanto spontaneamente versato è stabilita l’immediata esecutività della sentenza favorevole al contribuente che, di conseguenza, non dovrà più attendere il passaggio in giudicato della sentenza per ottenere il rimborso.

Come già evidenziato a commento dell’articolo 15, l’immediata esecutività opera anche in caso di condanna dell’Ufficio al pagamento delle spese di lite (cfr. par. 1.4).

Il comma 1 dell’articolo 69 prevede, altresì, che il pagamento di somme di importo superiore a diecimila euro, diverse dalle spese di lite, possa essere subordinato dal giudice, anche tenuto conto delle condizioni di solvibilità dell’istante, alla prestazione di idonea garanzia.

Sul punto la relazione illustrativa al decreto di riforma ha chiarito che “Il pagamento di somme può essere subordinato dal giudice alla prestazione di idonea garanzia qualora superi l’importo di 10.000 euro ed abbia accertato ed argomentato in sentenza la solvibilità del contribuente, valutata sulla base della consistenza del suo patrimonio e dell’ammontare delle somme oggetto di rimborso. Il riferimento al pagamento di somme dell’importo superiore al predetto importo esclude che tale limite possa operare come una franchigia per le evidenti complicazioni che un tale sistema provocherebbe“.

La previsione di una eventuale garanzia per rimborsi di importi superiori a diecimila euro discende, come indicato nella medesima relazione, dalla considerazione che “Per la parte privata occorre tener conto di tale possibilità, e cioè del rischio che una volta ottenuto – in virtù di una sentenza esecutiva ma impugnata dall’Amministrazione – il pagamento di una somma a titolo di rimborso, non sia più possibile il recupero delle somme erogate in caso di successiva riforma della sentenza“.

È opportuno pertanto che, nei giudizi aventi ad oggetto il rifiuto espresso o tacito ad una istanza di rimborso di somme superiori a diecimila euro, gli Uffici provvedano a fornire al giudice eventuali elementi in loro possesso idonei ad incidere negativamente sul giudizio di solvibilità del contribuente, al fine di ottenere, in caso di soccombenza, la previsione di una idonea garanzia.

Il comma 2 dell’articolo 69 ha demandato la disciplina della garanzia ad un apposito decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, che dovrà prevedere il contenuto e la durata della stessa nonché il termine entro il quale potrà essere escussa, a seguito dell’inerzia del contribuente in ordine alla restituzione delle somme garantite, protrattasi per un periodo di tre mesi.

Il successivo comma 3 ha precisato che i costi della garanzia, anticipati dal contribuente, sono a carico della parte soccombente all’esito definitivo del giudizio.

Come chiarito nella relazione illustrativa, “la previsione di una garanzia … (il cui onere è solo anticipato dal contribuente a cui verrà rimborsato in caso di esito favorevole del giudizio definitivo), da un lato evita rischi per l’erario, dall’altro impedisce un incremento esponenziale delle richieste di sospensiva, con gli inevitabili aggravi che ciò comporterebbe in termini di oneri per le parti e sovraccarico dell’apparato giudiziario. Ovviamente il contribuente resterà libero di non chiedere l’immediata esecuzione della sentenza (qualora non intenda anticipare gli oneri della garanzia o anche solo per non dover rischiare di restituire le somme ottenute con gli interessi) e di preferire l’attesa di un giudicato che gli consentirà di ottenere quanto gli spetta, con gli interessi di legge medio tempore maturati, senza fornire alcuna garanzia“.

I commi 4 e 5 dell’articolo 69 disciplinano il termine per l’adempimento dell’obbligo contenuto in sentenza e il rimedio in caso di inerzia da parte dell’Ufficio.

Il legislatore delegato ha previsto che il predetto termine decorra da momenti diversi, a seconda che la condanna al rimborso sia stata subordinata o meno, dal giudice, alla prestazione di una garanzia.

Il pagamento delle somme dovute a seguito della sentenza deve essere eseguito:

  • entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza, se non è dovuta la garanzia;
  • entro novanta giorni dalla presentazione della garanzia, se dovuta.

L’Ufficio potrà comunque procedere all’erogazione tempestiva del rimborso, anche prima della prestazione della garanzia, ove abbia già deciso di prestare acquiescenza alla sentenza, al fine di evitare di sostenerne i costi.

Ai sensi del comma 5 dell’articolo 69, in caso di mancata esecuzione della sentenza, entro i predetti termini, il contribuente ha la facoltà di esperire il giudizio di ottemperanza disciplinato dal successivo articolo 70.

In merito all’individuazione del giudice competente per l’ottemperanza, il citato comma 5 ha riprodotto la formulazione già utilizzata al comma 2 dell’articolo 68, per il quale va proposto ricorso “innanzi alla commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla commissione tributaria regionale“.

Da ultimo si evidenzia che la nuova formulazione dell’articolo 69 non ha richiamato, come la precedente, l’articolo 475 c.p.c. in ordine alla spedizione in forma esecutiva della sentenza rilasciata dalla segreteria della commissione tributaria, in linea con la scelta operata dal legislatore del giudizio di ottemperanza come unico strumento di esecuzione delle sentenze.

In base al dettato dell’articolo 12, comma 1, del decreto di riforma, il nuovo disposto degli articoli 67-bis e 69, nonché l’abrogazione dell’articolo 69-bis di cui si dirà oltre, si applicano a decorrere dal 1° giugno 2016. Ancorché la norma sull’entrata in vigore non specifichi null’altro sulla operatività delle suddette disposizioni, si ritiene che – per la loro applicazione – occorra far riferimento alle sentenze depositate a decorrere dal 1° giugno 2016.

Inoltre, il medesimo articolo 12, comma 2, prevede che fino all’approvazione del richiamato decreto ministeriale, previsto dal comma 2 dell’articolo 69 relativamente alla disciplina della garanzia, “restano applicabili le previgenti disposizioni” dell’articolo 69.

In altre parole, le nuove disposizioni della norma in commento si applicano con riferimento alle sentenze depositate dal 1° giugno 2016 oppure dalla data del suddetto decreto ministeriale, se approvato successivamente.

Per le sentenze già depositate alla data del 1° giugno 2016 (e, in mancanza del decreto ministeriale, anche per quelle depositate successivamente a tale data) rimane in vigore il precedente testo dell’articolo 69, ai sensi del quale per i giudizi aventi ad oggetto un diniego espresso o tacito alla restituzione di tributi e relativi accessori versati spontaneamente, la sentenza di condanna dell’ufficio al pagamento di somme, comprese le spese di giudizio, non è immediatamente esecutiva e deve essere eseguita solo dopo il passaggio in giudicato (75).

1.15.3 L’abrogazione dell’articolo 69-bis

L’articolo 9, comma 1, lettere gg) e hh) del decreto di riforma ha riformulato l’articolo 69 del decreto 546, specificando che sono immediatamente esecutive anche le sentenze “emesse su ricorso avverso gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’articolo 2, comma 2“, ed ha contestualmente abrogato l’articolo 69-bis, ai sensi del quale l’aggiornamento degli atti catastali viene effettuato solo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza.

La nuova disciplina si applica, in virtù di quanto previsto dalla disposizione transitoria di cui al citato articolo 12, comma 1, del decreto di riforma, a decorrere dal 1° giugno 2016.

In altri termini, per le sentenze concernenti gli atti relativi alle operazioni catastali depositate a decorrere dalla predetta data, l’aggiornamento degli atti catastali dovrà essere effettuato prescindendo dal relativo passaggio in giudicato.

Per le sentenze depositate precedentemente al 1° giugno 2016, invece, rimangono in vigore le disposizioni dell’articolo 69-bis e la disciplina recata dall’articolo 12, comma 4, del decreto-legge n. 16 del 2012, per l’annotazione delle sentenze che non costituiscono titolo esecutivo, secondo le modalità previste dal provvedimento direttoriale del 17 luglio 2012 (76).

1.15.4 Le modifiche all’articolo 70

Il decreto di riforma ha apportato significative modifiche quanto all’ambito applicativo del giudizio di ottemperanza, rimedio attraverso cui il contribuente può ottenere l’adempimento degli obblighi sanciti dalla sentenza per il caso di inerzia dell’Ufficio.

Alla scelta di attribuire immediata esecutività, per tutte le parti in causa, alle sentenze delle commissioni tributarie, il legislatore delegato ha infatti accompagnato la previsione dell’esperibilità del ricorso in ottemperanza, oltre che – come finora previsto – per le sentenze passate in giudicato, anche per l’esecuzione:

  1. delle sentenze, non ancora definitive, di condanna al pagamento di somme, comprese le spese di giudizio (a decorrere dal 1° giugno 2016);
  2. delle sentenze, non ancora definitive, relative alle operazioni catastali parzialmente o totalmente favorevoli al contribuente (a decorrere dal 1° giugno 2016);
  3. delle sentenze relative ad atti impositivi che comportano, ai sensi dell’articolo 68, comma 2, la restituzione al contribuente del tributo e relativi interessi e sanzioni, corrisposti in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza a lui favorevole (a decorrere dal 1° gennaio 2016);
  4. dell’ordinanza con cui sono liquidate le spese di giudizio in caso di rinuncia al ricorso ai sensi dell’articolo 44, comma 2.

Il decreto di riforma ha dunque previsto un sistema unitario di esecuzione delle sentenze, definitive e non, con carattere di esclusività.

A ciò ha fatto seguito la soppressione, al comma 1 dell’articolo 70, dell’inciso “Salvo quanto previsto dalle norme del c.p.c. per l’esecuzione forzata della sentenza di condanna costituente titolo esecutivo“, da cui il venir meno della facoltà, prima riconosciuta al contribuente, di procedere con l’esecuzione forzata secondo le norme del codice di procedura civile.

La relazione illustrativa sul punto ha chiarito che “La scelta della esclusività del giudizio di ottemperanza come unico strumento per la esecuzione delle sentenze si ritiene giustificata:

– dalla peculiarità delle sentenze emesse nel processo tributario, dove spesso anche il calcolo delle somme dovute a titolo di rimborso di imposta non è agevole, essendo necessaria comunque un’attività dell’ufficio per la determinazione degli interessi per i vari periodi interessati; inoltre la necessità di una garanzia per le condanne in favore del contribuente al rimborso di somme superiori a 10.000 euro, avrebbe creato notevoli problemi alle segreterie per il rilascio delle formule esecutive, non potendosi pretendere da tali uffici un controllo sulla idoneità della garanzia stessa;

– dalla particolare efficacia della procedura di ottemperanza, che consente – anche con la nomina di un commissario ad acta – di ottenere in tempi relativamente brevi l’adempimento dell’Amministrazione, con il rimborso delle relative spese;

– dal fatto che l’ordinaria procedura esecutiva (oltre ad aggravare lo stato della giustizia civile), non garantisce spesso il soddisfacimento dell’interesse del contribuente, anche per le note difficoltà di agire in via esecutiva sui beni di soggetti pubblici”.

La natura esclusiva del rimedio dell’ottemperanza trova ulteriore conferma nell’integrale sostituzione dell’articolo 69, che nella versione previgente consente al contribuente che abbia ottenuto una sentenza favorevole di richiederne copia spedita in forma esecutiva a norma dell’articolo 475 c.p.c., alla segreteria della commissione che l’abbia emessa, quando la pronuncia sia passata in giudicato.

Rilevanti novità interessano anche l’ambito soggettivo di applicazione dell’articolo 70.

Il giudizio di ottemperanza diventa infatti proponibile anche nei confronti dell’agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’articolo 53 del D.Lgs. n. 446 del 1997, “stante la natura pubblica dell’Agente e l’attività oggettivamente pubblica posta in essere dai concessionari (privati)” (relazione illustrativa).

Rimangono invece ferme le modalità di presentazione del ricorso in ottemperanza. Occorre sul punto precisare che l’espresso riferimento alla sentenza passata in giudicato, ancora contenuto nell’articolo 70, comma 3, non osta all’applicazione del rimedio per le ipotesi previste dagli articoli 68, comma 2, e 69, comma 5, ma è da intendersi riferibile alle sole ipotesi in cui il ricorso venga proposto in relazione a una sentenza divenuta definitiva.

La parte che vi ha interesse può, dunque, richiedere l’ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria mediante ricorso da depositare in doppio originale:

  • a fronte di sentenza definitiva, alla segreteria della commissione tributaria provinciale, qualora la sentenza sia stata da essa pronunciata, e in ogni altro caso alla segreteria della commissione tributaria regionale;
  • a fronte di sentenza provvisoriamente esecutiva, ai sensi delle nuove previsioni degli articoli 68, comma 2, secondo periodo, e 69, comma 5, alla segreteria della commissione tributaria provinciale ovvero, se il giudizio è pendente nei gradi successivi, alla segreteria della commissione tributaria regionale.

Il ricorso è proponibile dopo la scadenza del termine entro il quale è prescritto dalla legge l’adempimento a carico dell’ente impositore, dell’agente della riscossione o del soggetto iscritto nell’albo di cui all’articolo 53 del D.Lgs. n. 446 del 1997, degli obblighi derivanti dalla sentenza, nonché, in mancanza di tale termine, dopo trenta giorni dalla loro messa in mora a mezzo di ufficiale giudiziario e fino a quando l’obbligo non sia estinto.

Gli articoli 68, comma 2, e 69, comma 4, prevedono uno specifico termine entro il quale l’Ufficio deve adempiere agli obblighi derivanti dalla sentenza.

In particolare, ai sensi dell’articolo 68, comma 2, il tributo corrisposto in eccedenza rispetto a quanto statuito dalla sentenza della commissione tributaria, con i relativi interessi, deve essere rimborsato d’ufficio entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza; a norma dell’articolo 69, comma 4, il pagamento delle somme dovute a seguito della sentenza deve essere eseguito entro novanta giorni dalla sua notificazione ovvero dalla presentazione della garanzia a cui il giudice abbia subordinato il pagamento dell’importo dovuto.

Ne consegue che, nei casi disciplinati dagli articoli 68, comma 2, e 69, comma 4, non si richiede l’atto di messa in mora e, dunque, il ricorso in ottemperanza potrà essere proposto decorsi novanta giorni dalla notificazione della sentenza da eseguire ovvero dalla presentazione della garanzia, se prevista.

Al riguardo, occorre considerare che la notifica della sentenza da parte del contribuente produce l’effetto di far decorrere sia il termine breve per l’impugnazione sia il termine di novanta giorni per l’esecuzione; conseguentemente è opportuno che l’Ufficio valuti sollecitamente la sentenza notificata, atteso che:

  • in caso di impugnazione, dovrà valutare anche l’opportunità di chiedere contestualmente la sospensione dell’esecuzione, salvo che il giudice abbia disposto la prestazione della garanzia;
  • in caso di acquiescenza, dovrà dare esecuzione alla sentenza evitando l’eventuale instaurazione di un giudizio di ottemperanza.

Con specifico riferimento alle ipotesi di impugnazione, qualora la sospensione non sia concessa, l’Ufficio dovrà comunque procedere all’esecuzione della sentenza, per evitare l’ottemperanza.

Il ricorso in ottemperanza, indirizzato al presidente della commissione, deve contenere la sommaria esposizione dei fatti che ne giustificano la proposizione con la precisa indicazione, a pena di inammissibilità, della sentenza – anche non definitiva – di cui si chiede l’ottemperanza, che deve essere prodotta in copia unitamente all’originale o copia autentica dell’atto di messa in mora, se necessario.

Uno dei due originali del ricorso è comunicato a cura della segreteria della commissione ai soggetti obbligati a provvedere (ente impositore, agente o concessionario della riscossione).

Restano ferme le previsioni di cui ai commi da 5 a 10 dell’articolo 70, che non hanno subito modifiche sostanziali (77).

È stato infine aggiunto il comma 10-bis che, per l’esecuzione delle sentenze che comportano il pagamento di somme dell’importo fino a ventimila euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, prevede che il ricorso in ottemperanza è deciso dalla commissione tributaria in composizione monocratica.

In tema di esecuzione delle spese di giudizio si rileva che è stato, altresì, modificato l’articolo 44 del decreto n. 546, concernente l’estinzione del processo per rinuncia al ricorso.

In particolare, al comma 2, nella formulazione vigente fino al 31 dicembre 2015, si prevede che l’ordinanza con cui sono liquidate le spese che il rinunciante al ricorso deve rimborsare costituisce titolo esecutivo. La novella ha eliminato l’inciso che fa riferimento all’efficacia di titolo esecutivo dell’ordinanza.

La relazione illustrativa chiarisce che l’eliminazione è dovuta alla circostanza che “nell’impianto del provvedimento in esame l’unico strumento utilizzabile è il giudizio di ottemperanza, anche per le spese legali in favore del contribuente. Diversamente, per le spese liquidate in favore dell’ente impositore e degli altri soggetti equiparati è prevista l’iscrizione a ruolo dopo il giudicato, come dispone il nuovo articolo 15, comma 4“.

Si ribadisce che anche per le spese liquidate con l’ordinanza di cui all’articolo 44, comma 2, è prevista la decisione dell’ottemperanza da parte della commissione tributaria in composizione monocratica.

2. NORME DI COORDINAMENTO

Come anticipato in premessa, l’articolo 10 del decreto di riforma ha arrecato modifiche all’articolo 63 del DPR n. 600 del 1973 e all’articolo 14 del DPR n. 115 del 2002 (commentate sub par. 1.3), nonché agli articoli 19 e 22 del D.Lgs. n. 472 del 1997.

La lettera a) del comma 3 del predetto articolo 10 ha modificato i commi 2, 3 (78) e 6 dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 472 del 1997, al fine di renderli coerenti con il mutato assetto del decreto n. 546.

In particolare:

– nel comma 2, ove è disciplinata la sospensione dell’esecuzione della sanzione amministrativa da parte della commissione tributaria regionale, si richiama l’articolo 52, in luogo dell’articolo 47 del decreto n. 546, atteso che ora la sospensione degli effetti dell’atto è possibile anche in grado di appello;

– nel comma 3 si sostituiscono le parole “idonea garanzia anche a mezzo di fideiussione bancaria o assicurativa” con le parole “la garanzia di cui all’articolo 69 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546“, il cui contenuto e la cui durata saranno disciplinati dall’apposito decreto ministeriale previsto dal comma 2 di detto articolo 69;

– nel comma 6, in tema di restituzione al contribuente di quanto versato in eccedenza rispetto alle statuizioni della sentenza di primo o di secondo grado, si sostituiscono le parole “entro novanta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza” con le parole “ai sensi dell’articolo 68, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546“, che prevede comunque il termine di novanta giorni dalla notificazione della sentenza per la restituzione del tributo corrisposto per un importo superiore a quello risultante dalla sentenza stessa.

L’articolo 10, comma 3, lettera b), del decreto di riforma ha invece modificato la disciplina dei provvedimenti cautelari, contenuta nell’articolo 22 del D.Lgs. n. 472 del 1997, allineandola al procedimento previsto in materia dall’articolo 669-sexies c.p.c. (79).

In via preliminare, si ricorda che le misure cautelari contemplate dalla norma sono l’iscrizione di ipoteca (80) e l’esecuzione, mediante ufficiale giudiziario, del sequestro conservativo (81).

L’articolo 22 in esame continua a prevedere due distinte procedure, la prima “ordinaria” (82), nella quale la previa attivazione del contraddittorio tra le parti si pone come regola, la seconda “speciale” caratterizzata dalla pronuncia con decreto inaudita altera parte.

Tuttavia, mentre la disciplina del procedimento ordinario è rimasta invariata (83) – fatta salva la previsione di un termine triplicato per la notifica all’estero del decreto presidenziale di fissazione dell’udienza di trattazione – il procedimento speciale è stato modificato allo scopo di allinearlo alla disciplina contenuta nell’articolo 669-sexies c.p.c..

Più esattamente, nel procedimento ordinario, qualora la notifica del decreto presidenziale concernente la trattazione dell’istanza debba essere effettuata all’estero, il termine ordinario di “almeno dieci giorni prima” della data di trattazione dell’istanza è stato triplicato.

Circa il procedimento speciale, l’articolo 10, comma 3, lettera b) del decreto di riforma, ha integralmente sostituito il comma 4 dell’articolo 22 del D.Lgs. n. 472 del 1997 con un nuovo testo, che individua presupposti corrispondenti a quelli recati dall’articolo 669-sexies c.p.c., prevedendo che: “Quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento, il presidente provvede con decreto motivato assunte ove occorra sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, la camera di consiglio entro un termine non superiore a trenta giorni assegnando all’istante un termine perentorio non superiore a quindici giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza la commissione, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto“.

Detti presupposti ricorrono quando:

– sussistono motivi d’urgenza tali da far sì che il lasso temporale necessario allo svolgimento della procedura ordinaria potrebbe pregiudicare irrimediabilmente il credito erariale;

– l’attuazione del provvedimento cautelare potrebbe essere pregiudicata dalla previa instaurazione del contraddittorio che può, quindi, essere (momentaneamente) omessa. (84)

Conseguentemente in tale ipotesi l’Ufficio provvederà al solo deposito dell’istanza in commissione tributaria provinciale senza preventivamente notificarla alle parti interessate.

Inoltre, il nuovo comma 4 dell’articolo 22 del D.Lgs. n. 472 del 1997 prevede la possibilità per il presidente di assumere “ove occorra sommarie informazioni” al fine di emettere il decreto inaudita altera parte con il quale accoglie o rigetta l’istanza cautelare.

Con lo stesso decreto con il quale si pronuncia sull’istanza cautelare, accogliendola o respingendola, il presidente deve fissare la camera di consiglio entro un termine non superiore a trenta giorni e assegnare all’istante (rectius, l’Ufficio) un termine perentorio non superiore a quindici giorni per la notificazione del ricorso e del decreto.

Ne deriva che, nell’ambito del procedimento speciale, il contraddittorio si svolge nella successiva camera di consiglio, nella quale la commissione, con ordinanza (85), conferma, modifica o revoca le statuizioni assunte con il decreto presidenziale.

Con l’articolo 10, comma 3, lettera b) del decreto di riforma è stato, inoltre, soppresso il comma 5 dell’articolo 22 in esame, secondo il quale “Nei casi in cui non sussiste giurisdizione delle commissioni tributarie, le istanze di cui al comma 1 devono essere presentate al tribunale territorialmente competente in ragione della sede dell’ufficio richiedente, che provvede secondo le disposizioni del libro IV, titolo I, capo III, sezione I, del codice di procedura civile, in quanto applicabili.“, divenuto superfluo già a seguito delle modifiche operate, all’articolo 2 del decreto n. 546, dall’articolo 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 che ha devoluto alla giurisdizione tributaria “tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, …, nonché le sovrimposte e le addizionali, le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio.“.

Il comma 6 della norma in esame prevede la possibilità per le parti interessate di prestare, nel corso del procedimento, la garanzia prevista dal nuovo articolo 69, comma 2, del decreto n. 546. In tal caso l’organo giurisdizionale “può non adottare ovvero adottare solo parzialmente il provvedimento richiesto” dall’Ufficio.

Rispetto alla precedente formulazione, il nuovo comma 7 dell’articolo 22 del D.Lgs. n. 472 del 1997 prevede che i provvedimenti cautelari concessi perdono efficacia qualora non eseguiti nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione (86).

Per il resto la disposizione è rimasta invariata e prevede la perdita di efficacia dei provvedimenti cautelari qualora:

  • nel termine di centoventi giorni dalla loro adozione, non sia notificato atto impositivo, di contestazione o di irrogazione; in tal caso, il presidente della commissione dispone la cancellazione dell’ipoteca, su istanza di parte e sentito l’ente impositore che ha formulato l’istanza;
  • a seguito della sentenza, anche se non passata in giudicato, che accoglie il ricorso proposto avverso l’atto impositivo o di contestazione o di irrogazione; tale sentenza costituisce titolo per la cancellazione dell’ipoteca; se la sentenza ha disposto l’accoglimento parziale, lo stesso giudice che l’ha emessa riduce proporzionalmente l’entità dell’iscrizione di ipoteca o del sequestro; quando la sentenza è emessa dalla Cassazione, vi provvede il giudice la cui sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione. (87)

3. MODIFICHE AL D.LGS. N. 545 DEL 1992

L’articolo 11 del decreto di riforma ha apportato diverse modifiche all’ordinamento delle Commissioni tributarie, sotto forma di “novella” al testo del D.Lgs. n. 545 del 1992 (decreto n. 545), la cui entrata in vigore è stabilita al 1° gennaio 2016.

Di seguito vengono illustrate sinteticamente le più rilevanti novità introdotte.

Alla luce dei criteri direttivi dettati dalla legge n. 23 del 2014, il decreto di riforma è intervenuto innanzitutto sull’articolo 2 del decreto n. 545, introducendo un criterio di rotazione degli incarichi direttivi analogo a quello sperimentato nella giustizia ordinaria.

Si prevede che l’incarico di presidente della commissione abbia durata quadriennale e sia rinnovabile per una sola volta e per un uguale periodo, previa valutazione positiva da parte del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dell’attività svolta nel primo triennio. Con proprio regolamento il Consiglio di presidenza stabilisce il procedimento e le modalità di tale valutazione. Si stabilisce inoltre che il presidente non può essere nominato tra soggetti che raggiungeranno l’età pensionabile entro i quattro anni successivi alla nomina.

La rotazione degli incarichi viene dunque attuata dopo l’ottavo anno di esercizio delle funzioni ovvero dopo il quarto anno, in ipotesi di valutazione negativa da parte del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.

In entrambi i casi, all’esito del menzionato periodo, il giudice sarà, salvo tramutamento all’esercizio di funzioni analoghe o diverse, riassegnato all’incarico di presidente di sezione di commissione tributaria.

All’articolo 6 del decreto n. 545, è stata prevista l’istituzione, con provvedimento del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, di “sezioni specializzate in relazione a questioni controverse individuate con il provvedimento stesso“. Conseguentemente, i Presidenti delle Commissioni tributarie assegneranno il ricorso ad una delle sezioni “tenendo conto, preliminarmente, della specializzazione e applicando solo successivamente i criteri cronologici e casuali“.

La ragione dell’introduzione di sezioni specializzate è da rintracciarsi nella complessità delle materie trattate e nella volontà di valorizzare le diverse professionalità dei giudici.

Il decreto di riforma modifica anche i successivi articoli 7 e 8 del decreto n. 545, relativi ai requisiti generali dei componenti delle Commissioni e alla disciplina delle incompatibilità per l’incarico di giudice tributario.

In particolare, al fine di rafforzarne la qualificazione professionale, i giudici dovranno essere muniti di laurea magistrale o quadriennale in materie giuridiche o economico-aziendalistiche.

Inoltre, con l’obiettivo di assicurare la terzietà della giurisdizione tributaria, non potranno essere componenti delle Commissioni coloro che svolgono attività di consulenza fiscale non solo direttamente ma anche indirettamente, attraverso forme associative. L’incompatibilità si estende, inoltre, a chi ricopre incarichi direttivi o esecutivi nei movimenti politici e non solo nei partiti.

Le modifiche all’articolo 9 del decreto n. 545, inerente ai “Procedimenti di nomina dei componenti delle commissioni tributarie“, prevedono, con finalità di semplificazione, che l’adozione di un decreto del Presidente della Repubblica sarà necessaria solo per i casi di prima nomina dei giudici tributari, mentre per i trasferimenti e le progressioni in carriera si provvederà con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze.

Ancora al fine di rafforzare l’imparzialità e la terzietà dell’organo giudicante, significative novità sono state apportate in tema di vigilanza e sanzioni disciplinari, sostituendo integralmente l’articolo 15 del decreto n. 545.

Da un lato, viene confermato il potere di vigilanza di ogni presidente sugli altri componenti della propria commissione, nonché sulla qualità e sull’efficienza dei servizi di segreteria, allo scopo di segnalarne le risultanze al Ministero dell’economia e delle finanze per i provvedimenti di competenza. Resta altresì ferma la vigilanza del presidente di ciascuna commissione tributaria regionale sull’attività giurisdizionale delle commissioni provinciali e sui loro componenti.

Dall’altro lato, sono state elencate le sanzioni disciplinari irrogabili, sulla falsariga di quelle previste per i magistrati ordinari, con la previsione dettagliata dei comportamenti censurabili, “al fine di consentire al soggetto legittimato ad irrogare la sanzione – in sede di procedimento disciplinare – di assolvere l’obbligo di specificare un capo di incolpazione puntuale e circostanziato” (cfr. relazione illustrativa al decreto di riforma).

Le modifiche apportate agli articoli 21, 22 e 23 del decreto n. 545, riguardano, infine, la disciplina relativa al meccanismo di elezione del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.

Da ultimo, con l’obiettivo di rendere più efficace il monitoraggio sull’attività delle Commissioni tributarie, attraverso una modifica all’articolo 29 del decreto n. 545, la riforma prescrive che il Ministro dell’economia e delle finanze presenta al Parlamento la relazione annuale sullo stato della giustizia tributaria entro il 30 ottobre di ciascun anno (non più entro il 31 dicembre)”.

NOTE:

(1) La legge n. 23 del 2014 è rubricata “Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita“.

(2) II Titolo I del decreto di riforma ha attuato la delega contenuta nell’articolo 6, comma 6, della legge n. 23 del 2014, relativamente alla revisione generale della disciplina degli interpelli.

(3) Si tratta di soggetti privati abilitati ad effettuare attività di liquidazione e di accertamento dei tributi e quelle di riscossione dei tributi e di altre entrate delle province e dei comuni.

(4) Finora escluse dal reclamo/mediazione a causa dell’indeterminabilità del valore.

(5) Il mantenimento del meccanismo della riscossione frazionata del tributo in pendenza di giudizio consente di non aggravare gli obblighi di versamento da parte dei contribuenti, a fronte di atti impositivi ancora non definitivi.

(6) L’articolo 69-bis del decreto n. 546 è stato abrogato dall’articolo 9, comma 1, lettera hh), del decreto di riforma.

(7) L’istituto del reclamo/mediazione – introdotto dall’articolo 39 del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111 – ha cominciato ad operare in relazione agli atti di valore fino a 20.000 euro, notificati dall’Agenzia delle entrate a decorrere dal 1° aprile 2012.

(8) Ciò in aderenza a quanto previsto dalla sentenza 14 maggio 2008, n. 130, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 …, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria

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“. La Corte costituzionale ha ritenuto che l’articolo 2, comma 1, in questione “finisce per attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie relative a sanzioni unicamente sulla base del mero criterio soggettivo costituito dalla natura finanziaria dell’organo competente ad irrogarle e, dunque, a prescindere dalla natura tributaria del rapporto cui tali sanzioni ineriscono. Essa, dunque, si pone in contrasto con l’art. 102, secondo comma, e con la VI disposizione transitoria della Costituzione, risolvendosi nella creazione di un nuovo giudice speciale“.

(9) Con sentenza 14 marzo 2008, n. 64, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2, secondo periodo, del decreto n. 546, relativamente all’inclusione nella giurisdizione tributaria delle controversie sul COSAP, evidenziando di condividere la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale “ha costantemente dichiarato che le controversie attinenti al COSAP non hanno natura tributaria (ex multis, Cassazione, sezioni unite civili, nn. 25551, 13902, 1611 del 2007; n. 14864 del 2006; n. 1239 del 2005; n. 5462 del 2004; n. 12167 del 2003)“. Inoltre, con sentenza 11 febbraio 2010, n. 39, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 2, secondo periodo del decreto n. 546, nella parte inerente all’attribuzione alla giurisdizione tributaria delle controversie sulla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue, quale disciplinato dagli articoli 13 e 14 della legge 5 gennaio 1994, n. 36, nonché dagli articoli 154 e 155 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

(10) Si fa riferimento alle espressioni “uffici delle entrate o del territorio del Ministero delle finanze” ed “enti locali ovvero concessionari del servizio della riscossione“, contenute nel testo originario dell’articolo 4 del decreto n. 546 e delle altre norme in commento.

(11) Come noto, si fa riferimento, in particolare, agli atti di accertamento parziale con modalità automatizzate, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IVA, che il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate prot. n. 2011/16271 del 28 gennaio 2011, in attuazione dell’articolo 71 del D.Lgs. n. 300 del 1999, ha attribuito alla competenza del Centro operativo di Pescara.

(12) Si ricorda che, come anticipato in premessa, in sede di modifiche di coordinamento conseguenti alla nuova disciplina del contenzioso, il comma 2 dell’articolo 10 del decreto di riforma ha modificato l’articolo 14, comma 3-bis del DPR n. 115 del 2002, che, nella nuova formulazione, proprio in relazione alla determinazione del valore della controversia, fa riferimento al “comma 2“, anziché al “comma 5” dell’articolo 12 del decreto n. 546.

(13) L’articolo 182 c.p.c., rubricato “Difetto di rappresentanza o di autorizzazione“, prevede che “Il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione.“.

(14) Si rammenta che – in conformità all’indirizzo espresso dalla Corte costituzionale con sentenza 13 giugno 2000, n. 189 – la consolidata giurisprudenza di legittimità riconosce l’applicabilità della disciplina sulla regolarizzazione dei vizi di rappresentanza, assistenza o autorizzazione anche con riferimento al testo dell’articolo 12 del decreto n. 546 vigente fino al 31 dicembre 2015. Più precisamente, la Suprema Corte ritiene che tale disciplina “si applica … ai ricorsi di valore superiore (a 2.582,28 euro, n.d.r.), a decorrere da quando – con la sentenza n. 189 del 13 giugno 2000, con la quale è stata dichiarata l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 12, comma 5, e art. 18, commi 3 e 4, ove interpretato nel senso che il ricorso sottoscritto dal solo contribuente sia inammissibile – la Corte Costituzionale ha evidenziato che, secondo un’interpretazione corrispondente al significato delle norme del D.Lgs. n. 546 del 1992 …, in armonia con un sistema processuale volto a garantire la tutela delle parti …, l’inammissibilità del ricorso deve intendersi riferita soltanto all’ipotesi in cui sia rimasto ineseguito l’ordine del presidente della commissione, della sezione o del collegio, rivolto alle parti diverse dall’amministrazione, di munirsi, nel termine fissato, di assistenza tecnica, conferendo incarico a difensore abilitato. A seguito di ciò è divenuto jus receptum anche nella giurisprudenza di questa Corte (secondo l’indirizzo fatto definitivamente proprio da Cass. Sez. U, Sentenza n. 22601 del 02/12/2004) il principio secondo cui: <<Nel processo tributario, il giudice chiamato a conoscere di una controversia di valore superiore a L. 5.000.000, a norma del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 12, comma 5, e art. 18, commi 3 e 4, è tenuto a disporre che l’attore parte privata che stia in giudizio senza assistenza tecnica si munisca di essa, conferendo incarico a difensore abilitato; con la conseguenza che l’inammissibilità del ricorso può essere dichiarata solo a seguito della mancata esecuzione di tale ordine>>” (Cass. 29 dicembre 2011, n. 29567).

(15) Il nuovo codice deontologico forense è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 241 del 16 ottobre 2014.

(16) Si evidenzia al riguardo che l’articolo 92 c.p.c. , al secondo comma, individua le ragioni gravi ed eccezionali nella “assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti“.

(17) Ai fini della compensazione nel caso di soccombenza reciproca occorre, inoltre, aver riguardo all’oggetto della lite nel suo complesso, poiché “nessuna norma prevede, per il caso di soccombenza reciproca delle parti, un criterio di valutazione della prevalenza della soccombenza dell’una o dell’altra basato sul numero delle domande accolte o respinte per ciascuna di esse (così Cass. 24 gennaio 2013, n. 1703)” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 930).

(18) Non è invece applicabile al processo tributario il secondo comma dell’articolo 96 c.p.c., per il quale “Il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza. La liquidazione dei danni è fatta a norma del comma precedente“.

(19) In merito alla normativa precedente, cfr. punto 2.7 della circolare 31 marzo 2010, n. 17/E [in Boll. Trib., 2010, 527], ove si è ritenuta applicabile anche al contenzioso tributario la disposizione di cui all’articolo 91 c.p.c., evidenziando che “gli Uffici, nei casi in cui il contribuente abbia rifiutato la proposta di conciliazione giudiziale formulata, anche a seguito di tentativo di conciliazione esperito d’ufficio dal giudice, avanzeranno richiesta di condanna alle spese subordinandola alla circostanza che la Commissione tributaria decida in senso conforme alla proposta di conciliazione ovvero in termini ancora più favorevoli all’Ufficio“.

(20) Nella sentenza n. 274 del 2005, la Corte costituzionale ha, in particolare, osservato che “La compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere” rende inoperante il principio statuito dall’articolo 15 del decreto n. 546, secondo cui le spese di giudizio fanno carico al soccombente. Pertanto, tale compensazione “si traduce … in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell’atto, nel caso dell’amministrazione, o l’acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento della fondatezza delle altrui ragioni, e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio per la controparte, specie quella privata, obbligata ad avvalersi, nella nuova disciplina del processo tributario, dell’assistenza tecnica di un difensore e, quindi, costretta a ricorrere alla mediazione (onerosa) di un professionista abilitato alla difesa in giudizio.“.

(21) Cfr. quanto esposto a commento del nuovo articolo 10 del decreto n. 546.

(22) L’unica modifica intervenuta sull’articolo 17 riguarda l’abrogazione del comma 3-bis in commento.

(23) L’articolo 5 del decreto 26 aprile 2012 del Direttore generale delle finanze (“Regole tecniche per l’utilizzo, nell’ambito del processo tributario, della Posta Elettronica Certificata (PEC), per le comunicazioni di cui all’articolo 16, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 546 del 31 dicembre 1992“) stabilisce che: “1. L’indirizzo di P.E.C. utilizzato dall’Ufficio di segreteria della Commissione tributaria per le comunicazioni di cui al presente decreto, è quello dichiarato dalle parti nel ricorso o nel primo atto difensivo. 2. Per i professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato, l’indirizzo di cui al comma 1 deve coincidere con quello comunicato ai rispettivi ordini o collegi, ai sensi dell’articolo 16, comma 7, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2. Per i soggetti di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, abilitati all’assistenza tecnica dinanzi alle Commissioni tributarie, l’indirizzo di P.E.C. deve coincidere con quello rilasciato ai sensi dell’articolo 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009, ovvero altro indirizzo di posta elettronica certificata, rilasciato da un gestore in conformità a quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68. Per le società iscritte nel registro delle imprese l’indirizzo di posta elettronica certificata deve coincidere con quello comunicato al momento dell’iscrizione, ai sensi dell’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2.3. Per gli enti impositori, l’indirizzo di posta elettronica certificata di cui al comma 1 è quello individuato dall’articolo 47, comma 3, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, consultabile anche nel sito dell’Indice delle Pubbliche Amministrazioni (Indice PA) di cui all’articolo 16, comma 8, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2.4. Fermo restando quanto stabilito al comma 1, al fine di garantire l’invio delle comunicazioni mediante posta elettronica certificata, gli Uffici di segreteria delle Commissioni tributarie, in caso di omessa ovvero errata indicazione dell’indirizzo di P.E.C. negli atti difensivi delle parti, possono, altresì, utilizzare gli elenchi di cui all’articolo 16, commi 6, 7 e 8 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, con le modalità di cui all’articolo 6, comma1-bis, del C.A.D.5. Gli indirizzi di P.E.C. degli Uffici di segreteria delle Commissioni tributarie, utilizzati per le comunicazioni di cui al presente decreto, sono pubblicati sul portale internet del Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze «www.finanze.gov.it», oltre che nell’Indice PA“.

(24) In base all’articolo 16 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, tale obbligo è a carico delle imprese costituite in forma societaria, tenute a indicare il proprio indirizzo PEC al registro delle imprese; a carico dei professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato, tenuti a comunicare il proprio indirizzo PEC ai rispettivi ordini o collegi; a carico delle amministrazioni pubbliche, che devono indicare i loro indirizzi PEC al Centro nazionale per l’informatica nella pubblica amministrazione (CNIPA), che provvede alla pubblicazione di tali caselle in un elenco consultabile per via telematica.

(25) Il DM 163 del 2013 è il regolamento recante la disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111).

(26) Il comma 3, dell’articolo 3 del DM n. 163 del 2013 stabilisce che “3. Con uno o più decreti del Ministero dell’economia e delle finanze, sentiti l’Agenzia per l’Italia Digitale e, limitatamente ai profili inerenti alla protezione dei dati personali, il Garante per la protezione dei dati personali, sono individuate le regole tecnico-operative per le operazioni relative all’abilitazione al S.I.Gi.T., alla costituzione in giudizio mediante deposito, alla comunicazione e alla notificazione, alla consultazione e al rilascio di copie del fascicolo informatico, all’assegnazione dei ricorsi e all’accesso dei soggetti di cui al comma 2 del presente articolo, nonché alla redazione e deposito delle sentenze, dei decreti e delle ordinanze. Con i medesimi decreti sono stabilite le regole tecnico-operative finalizzate all’archiviazione e alla conservazione dei documenti informatici, in conformità a quanto disposto dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni e integrazioni“. In attuazione della suddetta disposizione è stato emanato il decreto direttoriale 4 agosto 2015, recante “Specifiche tecniche previste dall’articolo 3, comma 3, del regolamento recante la disciplina dell’uso di strumenti informatici e telematici nel processo tributario in attuazione delle disposizioni contenute nell’articolo 39, comma 8, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111“.L’articolo 16 (“Entrata in vigore e individuazione delle Commissioni Tributarie“) del decreto direttoriale 4 agosto 2015 stabilisce che “Le presenti disposizioni si applicano agli atti processuali relativi ai ricorsi notificati a partire dal primo giorno del mese successivo al decorso del termine di novanta giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto (n.d.r.:10 agosto 2015), da depositare presso le Commissioni tributarie provinciali e regionali dell’Umbria e della Toscana…“.Pertanto, le disposizioni contenute nel comma 3 dell’articolo 16-bis del decreto legislativo n. 546 del 1992 si applicano con decorrenza dal 1° dicembre 2015 con riguardo agli atti da depositare presso le Commissioni tributarie provinciali e regionali dell’Umbria e della Toscana.

(27) L’articolo 17-bis è stato introdotto dall’articolo 39, comma 9, del DL n. 98 del 2011 e successivamente modificato dall’articolo 1, comma 611, lettera a), della legge 27 dicembre 2013, n. 147.

(28) Come già esposto a commento del nuovo articolo 15 del decreto n. 546, la previsione relativa alla maggiorazione delle spese di giudizio nella misura del cinquanta per cento, nelle cause soggette a reclamo/mediazione, in origine contenuta nel comma 10 dell’articolo 17-bis, è stata traslata, per esigenze di sistematicità, nel comma 2-septies dello stesso articolo 15.

(29) L’estensione della mediazione agli atti dell’agente della riscossione è stata prevista anche in considerazione del consolidato orientamento della Corte di cassazione secondo cui “l’azione può essere svolta dal contribuente indifferentemente nei confronti dell’ente creditore o del concessionario e senza che tra costoro si realizzi una ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo rimessa alla sola volontà del concessionario, evocato in giudizio, la facoltà di chiamare in causa l’ente creditore” (Cass., SS.UU., 25 luglio 2007, n. 16412, richiamata da numerose sentenze successive).

(30) L’articolo 12, comma 2, prevede che per individuare il valore della lite occorre aver riguardo all’importo del tributo, al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni, irrogate con l’atto impugnato; per le cause relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somme di queste (sul punto si rinvia alle indicazioni fornite con la circolare n. 9/E del 2012, paragrafo 1.3) [in Boll. Trib., 2012, 430].

(31) Sulla necessità, ai fini dell’applicazione del reclamo/mediazione, che la causa non fosse di valore indeterminabile, l’Agenzia era giunta in via interpretativa con la circolare n. 9/E del 2012, par. 1.3.2 [in Boll. Trib., 2012, 430]

(32) Quest’ultima categoria ricomprende, in particolare, le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonché le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale.

(33) Si tratta delle controversie aventi ad oggetto il recupero degli aiuti di Stato incompatibili con il diritto comunitario, in esecuzione di una decisione adottata dalla Commissione europea, ai sensi dell’articolo 14 del regolamento (CE) n. 659/1999 del Consiglio del 22 marzo 1999, nonché dei relativi interessi e sanzioni, previste, appunto, dall’articolo 47-bis del decreto n. 546. Si ricorda comunque che attualmente – per effetto dell’articolo 49 della legge 24 dicembre 2012, n. 234 – la cognizione delle controversie sul recupero di aiuti di Stato incompatibili è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

(34) In particolare, la precedente formulazione dell’articolo 17-bis prevedeva, al comma 1, che “chi intende proporre ricorso è tenuto preliminarmente a presentare reclamo” e, al comma 9, che “Decorsi novanta giorni senza che sia stato notificato l’accoglimento del reclamo o senza che sia stata conclusa la mediazione, il reclamo produce gli effetti del ricorso“.

(35) Cfr. Cass. 21 aprile 2011, n. 9173; 28 giugno 2012, n. 10815; 28 settembre 2012, n. 16565; 26 ottobre 2012, n. 18373; 12 novembre 2012, n. 19677; 11 dicembre 2012, n. 22675.

(36) A norma dell’articolo 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742, come modificato dall’articolo 16 del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, dalla legge 10 novembre 2014, n. 162, il decorso dei termini processuali è sospeso di diritto dal 1° al 31 agosto di ciascun anno.

(37) Con riferimento agli altri enti impositori ai quali è stato esteso l’istituto del reclamo, il legislatore ha invece rimesso alla organizzazione interna di ciascuno di essi l’individuazione della struttura eventualmente deputata alla trattazione dei reclami.

(38) Nella precedente disciplina operava la medesima previsione, mutuata dalla disciplina sulla conciliazione in forza del richiamo operato all’articolo 48 del decreto n. 546 dal previgente comma 8 dell’articolo 17-bis.

(39) Il novellato articolo 17-bis ratifica sul punto la prassi dell’Amministrazione finanziaria di cui alla circolare n. 9/E del 2012, punto 7 [in Boll. Trib., 2012, 430], ove si è precisato che “Nel caso di accordo avente ad oggetto il rifiuto espresso o tacito di un rimborso, la mediazione si perfeziona con la conclusione del relativo accordo“.

(40) L’articolo 15 del D.Lgs. n. 218 del 1997 ammette la riduzione delle sanzioni ad un terzo “se il contribuente rinuncia ad impugnare l’avviso di accertamento o di liquidazione e a formulare istanza di accertamento con adesione, provvedendo a pagare, entro il termine per la proposizione del ricorso, le somme complessivamente dovute, tenuto conto della predetta riduzione. In ogni caso la misura delle sanzioni non può essere inferiore ad un terzo dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi relative a ciascun tributo“.

(41) Come sostituito dall’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. n. 159 del 2015. Nella mediazione, invero, appare poco probabile che le somme complessivamente dovute superino i cinquantamila euro.

(42) Il citato articolo 15-ter, inserito nel DPR n. 602 del 1973 dall’articolo 3, comma 1, del D.Lgs. n. 159 del 2015, è applicabile all’accertamento con adesione per espressa previsione contenuta nel comma 4 dell’articolo 8 del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218.

(43) Le speciali disposizioni di cui all’articolo 29 del DL n. 78 del 2010, valevoli per tutti gli avvisi di accertamenti esecutivi, devono ritenersi applicabili anche in vigenza del nuovo articolo 8 del D.Lgs. n. 218 del 1997, richiamato dal nuovo articolo 17-bis, comma 6, del decreto n. 546.

(44) L’articolo 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, stabilisce che “L’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso“.

(45) L’articolo 52, terzo comma, c.p.c., stabilisce che “La ricusazione sospende il processo“.

(46) L’articolo 296 c.p.c. prevede che “Il giudice istruttore, su istanza di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi, può disporre, per una sola volta, che il processo rimanga sospeso per un periodo non superiore a tre mesi, fissando l’udienza per la prosecuzione del processo medesimo“.

(47) Ai sensi dell’articolo 295 c.p.c., “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa“.

(48)Ex multis, Cass. 8 aprile 2015, n. 6988; Cass. 3 ottobre 2014, n. 20928; Cass. 11 aprile 2014, n. 8614; Cass. 10 gennaio 2013, n. 394; Cass. 30 ottobre 2000, n. 14281.

(49) La Consulta, con sentenza 26 febbraio 1998, n. 31, richiamata nelle successive ordinanze 21 gennaio 1999, n. 8, 16 aprile 1999, n. 136 e 21 luglio 2000, n. 330, ha ritenuto la norma non in contrasto con i principi costituzionali, evidenziando che, attraverso la limitazione dei casi di sospensione, il legislatore “ha inteso rendere più rapida e agevole la definizione del processo tributario oberato di una rilevante mole di contenzioso. Finalità in sé del tutto legittima anche sotto l’aspetto, non certo secondario, della tutela dei diritti del contribuente“, operando una scelta “non lesiva del criterio di ragionevolezza“. Anche nella più recente sentenza 25 luglio 2011, n. 247, la Corte costituzionale ha evidenziato che gli “artt. 2, comma 3, e 39 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 … limitano le ipotesi di sospensione ai casi di querela di falso e di questioni di stato e capacità delle persone (diversa dalla capacità di stare in giudizio) ed impongono al giudice, in tutti gli altri casi, di risolvere in via incidentale ogni questione pregiudiziale“.

(50) Cfr. circolare n. 25/E del 21 marzo 2002 [in Boll. Trib., 2002, 511], nella quale si è precisato che il “comma 3 dell’articolo 2” del decreto n. 546sancisce … esplicitamente che “il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipenda la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio” di cui al citato articolo 39.La nuova disposizione sembra superare l’orientamento della Corte di Cassazione, in quanto attribuisce al giudice tributario la possibilità di decidere in via incidentale ogni questione pregiudiziale, senza che assuma rilevanza l’autorità giudiziaria presso cui pende tale questione. Sono fatte salve, comunque, le due ipotesi di sospensione obbligatoria previste dall’articolo 39 e confermate dalla nuova formulazione dell’articolo 2 in esame.“.

(51) Cfr. Cass. 13 novembre 2009, n. 23950.

(52) Cfr. citata Cass. n. 417 del 2015.

(53) Cfr. Cass. 3 dicembre 2010, n. 24581 e Cass. 28 aprile 2006, n. 9999 e n. 10013.

(54) Cfr. Cass 15 novembre 2013, n. 25683, ove si precisa che precedente giurisprudenza di legittimità “evidenzia chiaramente la relazione di pregiudizialità, con conseguente sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., tra il giudizio avente ad oggetto il perfezionamento del condono e la causa avente ad oggetto la impugnazione dell’atto impositivo, venendo a determinare l’accertamento dell’avvenuto perfezionamento della definizione agevolata del rapporto la cessazione della materia del contendere in ordine alla causa pregiudicata“.

(55) La Corte di cassazione ha affermato che il riconoscimento dell’applicabilità dell’articolo 295 c.p.c. al processo tributario richiede “l’esplicita condizione della “dipendenza” in tutto od in parte della soluzione della causa da sospendere dalla decisione dell’altra causa. Tale dipendenza esige la coincidenza dei soggetti partecipanti ai due procedimenti, quale requisito indispensabile perchè la definizione dell’uno possa assumere valore vincolante per la definizione dell’altro, secondo i principi generali che presiedono all’autorità del giudicato sostanziale (v. Cass. 26 maggio 1999 n. 5083, 21 gennaio 2000 n. 661, 19 febbraio 2000 n. 1907, 24 maggio 2000 n.6792)” (Cass. 22 giugno 2001, n. 8567; conforme: Cass. 10 marzo 2006, n. 5366).

(56) Si tratta delle ipotesi di contemporanea pendenza del giudizio di impugnazione di un avviso di accertamento, riferito ad utili extracontabili, emesso nei confronti di una società di capitali a ristretta base partecipativa e della controversia relativa al conseguente accertamento del maggior reddito in capo al socio in virtù della presunzione di distribuzione dei predetti utili extracontabili (Cass. 2 dicembre 2015, n. 24572; Cass. 8 febbraio 2012, n. 1865; Cass. 31 gennaio 2011, n. 2214). La medesima disciplina è stata ritenuta applicabile nelle ipotesi in cui siano stati instaurati il giudizio avente ad oggetto la determinazione della rendita catastale da parte dell’ex Agenzia del territorio e il giudizio concernente gli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle entrate o dai comuni in applicazione di disposizioni che fondano la base imponibile sulla rendita catastale (cfr. Cass. 17 marzo 2008, n. 7087 e Cass. 15 ottobre 2014, n. 21776).

(57) Cass. 6 settembre 2004, n. 17937.

(58) Il Supremo Collegio ha chiarito che “ove una sentenza venga censurata in cassazione per non essere stato il giudizio di merito sospeso in presenza di altra causa pregiudiziale, incombe sul ricorrente l’onere di dimostrare che quest’altra causa è tuttora pendente, e che presumibilmente lo sarà anche nel momento in cui il ricorso verrà accolto. In difetto, manca la prova dell’interesse concreto ed attuale che deve sorreggere il ricorso, non potendo nè la Corte di Cassazione nè un eventuale giudice di rinvio disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione di un’altra causa che non risulti più effettivamente in corso (cfr. sentt. nn. 16992/07, 23720/08, 18026/12)” (Cass. 17 dicembre 2014, n. 26564). Inoltre, con la sentenza 10 dicembre 2007, n. 25708, la Cassazione ha evidenziato che “secondo giurisprudenza di legittimità la parte che invochi la sospensione di un giudizio ex art. 295 c.p.c., (norma applicabile anche in seno al procedimento tributario) ha l’onere di provare la pendenza di un’altra controversia e la sussistenza di un rapporto di “dipendenza” tra i due giudizi, senza che possa, all’uopo, invocarsi, in seno al processo tributario, l’esercizio, da parte delle competenti commissioni, delle facoltà istruttorie di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, trattandosi di poteri diretti a verificare esclusivamente le risultanze dell’istruttoria amministrativa, onde verificare l’esistenza dei vizi dedotti dal contribuente (Cass. 7506/01)”.

(59) Cfr., ex multis, Cass. 19 febbraio 2014. n. 3939.

(60) In base all’articolo 45 del decreto n. 546, Il processo si estingue nei casi in cui le parti alle quali spetta di proseguire, riassumere o integrare il giudizio non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge“.

(61) Con circolare n. 21/E del 5 giugno 2012 [in Boll. Trib., 2012, 914], sono stati forniti chiarimenti in ordine alla gestione delle controversie fiscali attraverso le procedure amichevoli, illustrandone, tra l’altro, le basi giuridiche, l’ambito soggettivo ed oggettivo, le modalità procedurali ed il rapporto con il contenzioso interno. Al riguardo, al punto 4.2.5 della predetta circolare n. 21/E del 2012 è stato evidenziato che il contemporaneo svolgimento della procedura amichevole e del giudizio instaurato dal contribuente innanzi al giudice nazionale avverso atti di accertamento comporta il rischio che si formi un giudicato in contrasto con il dispositivo dell’accordo amichevole eventualmente intervenuto tra le autorità competenti.

(62) Si aggiunge che, in ordine alle controversie oggetto di conciliazione giudiziale, una specifica disciplina delle spese di lite è contenuta nell’articolo 15, comma 2-octies, del decreto n. 546, il quale prevede che, qualora una delle parti abbia formulato una proposta conciliativa, non accettata dalla controparte senza giustificato motivo, restano a carico di quest’ultima le spese del processo, ove il riconoscimento delle sue pretese risulti inferiore al contenuto della proposta ad essa effettuata. Se è intervenuta conciliazione le spese si intendono compensate, salvo che le parti abbiano diversamente convenuto nel processo verbale di conciliazione. Per i relativi chiarimenti si rinvia al par. 1.4 della presente circolare.

(63) Il precedente testo dell’articolo 48 faceva riferimento alla sussistenza dei “presupposti di ammissibilità“.

(64) Come sostituito dall’articolo 2, comma 2, del D.Lgs. n. 159 del 2015.

(65) Le speciali disposizioni di cui all’articolo 29 del DL n. 78 del 2010, valevoli per tutti gli avvisi si accertamenti esecutivi, devono ritenersi applicabili anche in vigenza dei nuovi articoli 48, 48-bis e 48-ter del decreto n. 546, ancorché la lettera a) del comma 1 di detto articolo 29 continui a far riferimento al previgente articolo 48, comma 3-bis, del medesimo decreto n. 546.

(66) Si vedano, in particolare, la sentenza 26 aprile 2012, n. 109, e le ordinanze 15 novembre 2012, n. 254, e 13 febbraio 2014, n. 25, emanate dalla Corte costituzionale, nonché le sentenze della Corte di cassazione 24 febbraio 2012, n. 2845, 17 ottobre 2014, n. 21996 e 7 aprile 2014, n. 8053.

(67) La facoltà riconosciuta al contribuente di chiedere la sospensione dell’atto oppure della sentenza consente la tutela cautelare in diverse ipotesi; si pensi, ad esempio, al caso di una sentenza di rigetto del ricorso introduttivo, la cui sospensione lascerebbe comunque in piedi gli effetti dell’atto. Inoltre, la possibilità di chiedere la sospensione dell’atto nei gradi successivi al primo offre tutela al contribuente nelle ipotesi di sentenza di cassazione con rinvio, tenuto conto che, per consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il giudizio di rinvio costituisce una fase nuova ed autonoma, funzionale ad una sentenza che non si sostituisce ad alcuna precedente pronuncia, riformandola, ma statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti (cfr. Cass. 17 novembre 2000, n. 14892; 23 settembre 2002, n. 13833; 28 gennaio 2005, n. 1824; 28 marzo 2009, n. 7536; 5 aprile 2011, n. 7781). Dunque, “dopo la cassazione con rinvio la sentenza di primo grado e la sentenza di appello cassata si trovano sempre esattamente nella stessa condizione di inefficacia, di impossibilità di reviviscenza e di insuscettibilità di passaggio in giudicato” (Cass. 11 novembre 2011, n. 23596). Ciò comporta che l’Amministrazione è legittimata a riscuotere la pretesa erariale secondo le regole vigenti nella fase di impugnazione dell’atto impositivo.

(68) Anche se non viene prevista espressamente la possibilità di revoca o modifica dell’ordinanza a seguito di mutamenti delle circostanze, come contemplato dal comma 8 dell’articolo 47, si ritiene che la presentazione di un’istanza di parte in tal senso non sia preclusa.

(69) In particolare, se la pronuncia che dispone la sospensione interviene prima che sia stata notificata al contribuente l’intimazione ad adempiere all’obbligo di pagare gli importi rideterminati in base alla suddetta sentenza, l’Ufficio dovrà astenersi dall’emettere tale intimazione.Si precisa che l’obbligo di non emettere l’intimazione vale anche in presenza di fondato pericolo per la riscossione. Diversamente, se al momento della pronuncia di sospensione è già stata notificata l’intimazione, l’Ufficio procede all’affidamento del carico all’Agente della riscossione, dando contestuale comunicazione a quest’ultimo dell’intervenuta sospensione.La sospensione impedisce anche la prosecuzione delle attività esecutive sulle somme dovute in via provvisoria nei precedenti gradi di giudizio e già affidate all’Agente della riscossione. Per tale motivo, la comunicazione che l’Ufficio indirizza all’Agente della riscossione per richiedere la sospensione dell’attività esecutiva dovrà avere ad oggetto la totalità dei carichi affidati, relativi alla controversia interessata dalla sospensione.

(70) Tale precisazione ha portata innovativa rispetto agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. Infatti la Corte di cassazione, con la sentenza n. 2845 del 2012 – nell’ammettere la possibilità di sospensione in via cautelare della sentenza tributaria d’appello applicando l’articolo 373 c.p.c. – ha precisato che “La specialità della materia tributaria e l’esigenza che sia garantito il regolare pagamento delle imposte impone una rigorosa valutazione dei requisiti del fumus boni iuris dell’istanza cautelare e del periculum in mora”.

(71) In tema di sospensione della efficacia esecutiva della sentenza d’appello resa dai giudici speciali, impugnata con ricorso alle sezioni Unite della Corte di Cassazione, deve ritenersi applicabile, salvo che sia diversamente disposto da specifiche disposizioni, la disciplina di cui all’art. 373 cod. proc. civ., poiché nulla prevede al riguardo l’art. 111 Cost. sul ricorso per cassazione avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti, con la conseguenza che è inammissibile un’istanza “cautelare” contenuta nel ricorso per cassazione” (Cass., SS.UU., 22 febbraio 2007, n. 4112).

(72) Il secondo comma dell’articolo 360 c.p.c. così recita “Può inoltre essere impugnata con ricorso per cassazione una sentenza appellabile del tribunale, se le parti sono d’accordo per omettere l’appello; ma in tale caso l’impugnazione può proporsi soltanto a norma del primo comma, n. 3.“.

(73) In particolare, al comma 3, relativo alla sospensione dell’esecuzione delle sanzioni da parte della commissione tributaria regionale, l’attuale garanzia “anche a mezzo di fideiussione bancaria o assicurativa” è stata sostituita con il richiamo alla garanzia di cui all’articolo 69, comma 2, che sarà di seguito illustrata; al comma 6, la nuova formulazione prevede il richiamo alle disposizioni contenute nell’articolo 68, comma 2, del decreto n. 546, quando in esito ad una sentenza favorevole al contribuente, le somme a titolo di sanzione che risultano corrisposte in eccedenza devono essere rimborsate dall’Ufficio.

(74) Per queste ultime, l’abrogato articolo 69-bis prevedeva l’esecutività solo dopo il passaggio in giudicato (cfr. par. 1.15.3).

(75) In tale ipotesi, come chiarito con circolare n. 49/E del 2010 [in Boll. Trib., 2010, 1450], occorre che “la Direzione parte in giudizio si attivi prontamente per l’erogazione del rimborso in tutte le ipotesi in cui ne abbia riconosciuto la spettanza in corso di giudizio ed, in particolare, in caso di acquiescenza a sentenza favorevole al contribuente, al fine sia di evitare giudizi di ottemperanza o procedure di esecuzione forzata della sentenza sia di ridurre gli oneri per interessi“.

(76) Pubblicato in pari data nel sito internet dell’Agenzia del territorio, ai sensi del comma 361 dell’articolo 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244.

(77) Si segnala soltanto la sostituzione, al comma 7, del richiamo alla già abrogata legge 8 luglio 1980 con il richiamo al DPR n. 115 del 2002, in ordine alla determinazione del compenso spettante al commissario ad acta.

(78) Per le modifiche ai commi 2 e 3 dell’articolo 19 del D.Lgs. n. 472 del 1997, vd. anche par. 1.15.1.

(79) Ai sensi dell’articolo 669-sexies c.p.c., “Il giudice, sentite le parti omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto della domanda.Quando la convocazione della controparte potrebbe pregiudicare l’attuazione del provvedimento, provvede con decreto motivato assunte ove occorra sommarie informazioni. In tal caso fissa, con lo stesso decreto, l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé entro un termine non superiore a quindici giorni assegnando all’istante un termine perentorio non superiore a otto giorni per la notificazione del ricorso e del decreto. A tale udienza il giudice, con ordinanza, conferma, modifica o revoca i provvedimenti emanati con decreto.Nel caso in cui la notificazione debba effettuarsi all’estero, i termini di cui al comma precedente sono triplicati.“.

(80) L’iscrizione di ipoteca attribuisce al creditore il diritto (esercitabile anche nei confronti del terzo acquirente) di espropriare i beni vincolati a garanzia del credito e di essere soddisfatto con preferenza sul prezzo ricavato dall’espropriazione. Essa può avere ad oggetto, ai sensi dell’articolo 2810 c.c., “1) i beni immobili che sono in commercio con le loro pertinenze;2) l’usufrutto dei beni stessi;3) il diritto di superficie;4) il diritto dell’enfiteuta e quello del concedente sul fondo enfiteutico.Sono anche capaci d’ipoteca le rendite dello Stato nel modo determinato dalle leggi relative al debito pubblico, e inoltre le navi, gli aeromobili e gli autoveicoli, secondo le leggi che li riguardano.“.

(81) Il sequestro conservativo è un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, che gli Uffici dell’Agenzia delle entrate possono chiedere al giudice quando hanno motivo di ritenere che il contribuente possa disperdere il proprio patrimonio, al fine di rendere inopponibili allo stesso le alienazioni e gli altri atti di disposizione che hanno per oggetto i beni sottoposti a sequestro. A norma dell’articolo 671 c.p.c., il sequestro può essere chiesto su tutti i beni del debitore (mobili, mobili registrati, immobili, somme o cose dovute al debitore) e, per espressa previsione dell’articolo 22 in commento, anche sull’azienda. Come chiarito con circolare n. 4/E del 15 febbraio 2010 [in Boll. Trib., 2010, 281], l’iscrizione di ipoteca e il sequestro conservativo possono anche essere chiesti congiuntamente, qualora l’adozione di uno solo di essi non sia sufficiente a garantire la pretesa tributaria.

(82) Il rito ordinario, disciplinato nei primi tre commi dell’articolo 22, prevede che l’Ufficio notifichi l’istanza alle parti interessate che, a loro volta, possono depositare memorie e documenti difensivi entro i venti giorni successivi alla notifica. Decorso tale ultimo termine, il presidente fissa con decreto la trattazione per la prima camera di consiglio utile, disponendo che ne sia data comunicazione alle parti (ancorché non costituite) almeno dieci giorni prima.

(83) Relativamente al procedimento ordinario, si fa presente che, nonostante il silenzio della norma, le parti vanno sentite in camera di consiglio, prima che la commissione tributaria decida con sentenza. La Corte di cassazione ha chiarito che l’audizione deve aver luogo “(pur in assenza di preventiva richiesta delle parti di trattazione in pubblica udienza D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 33)”, in quanto “la mancata esplicita prescrizione della previa audizione delle parti in merito alla trattazione dell’istanza cautelare direttamente sottoposta alla cognizione del collegio costituisce mera lacuna legislativa, frutto d’imperfetta formulazione e, peraltro, agevolmente colmabile in funzione sistematica” (Cass. 19 marzo 2008, n. 7342). Inoltre, nella medesima pronuncia si precisa che “Poiché l’art. 22 del D.Lgs. 472/1997 qualifica espressamente come “sentenza” il provvedimento con cui la Commissione Tributaria Provinciale decide sulla istanza della Amministrazione, si deve ritenere che esso sia sottoposto dal legislatore ai mezzi di impugnazione previsti per le sentenze, vale a dire: all’appello ed al successivo ricorso per cassazione“.

(84) Così, ad esempio, l’opportunità del ricorso alla procedura speciale andrebbe valutata qualora si intenda chiedere il sequestro di conti correnti e/o di crediti, trattandosi di beni di cui il contribuente potrebbe agevolmente liberarsi in breve tempo.

(85) In aderenza all’analoga disposizione contenuta nell’articolo 669-terdecies, quinto comma, c.p.c. (“Il collegio, convocate le parti, pronuncia, non oltre venti giorni dal deposito del ricorso, ordinanza non impugnabile con la quale conferma, modifica o revoca il provvedimento cautelare“) e tenuto conto della volontà legislativa di allineare la disciplina delle misure cautelari alle corrispondenti disposizioni processualcivilistiche, evidenziata anche nella relazione illustrativa al decreto, si ritiene che l’ordinanza della commissione tributaria non sia impugnabile.

(86) Tenuto conto dell’espressa disposizione che prevede la perdita di efficacia del provvedimento cautelare qualora non eseguito entro sessanta giorni dalla comunicazione, deve ritenersi che nella materia in esame non trovi applicazione l’articolo 675 c.p.c., in forza del quale “Il provvedimento che autorizza il sequestro perde efficacia, se non è eseguito entro il termine di trenta giorni dalla pronuncia“.

(87) Dunque, il nuovo comma 7 dell’articolo 22 riproduce sostanzialmente il precedente comma 7, aggiungendo alle cause di perdita di efficacia del provvedimento cautelare l’ipotesi in cui lo stesso non sia eseguito entro sessanta giorni dalla comunicazione.

1In Boll. Trib., 2012, 430.

2In Boll. Trib., 2012, 902.

3In Boll. Trib., 2012, 1174.

4In Boll. Trib., 2013, 109.

5In Boll. Trib., 2014, 291.

6In Boll. Trib., 2014, 756.

7Circ. 23 aprile 1996, n. 98/E, in Boll. Trib., 1998, 687.

8In Boll. Trib., 2010, 1450.

9In Boll. Trib., 2011, 1619.

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