5 Dicembre, 2018

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. I diversi settori affrontati dalla Direttiva – 3. La clausola generale antiabuso – 4. Il rapporto tra la clausola generale antiabuso e il progetto BEPS – 5. Il rapporto tra la clausola generale antiabuso e l’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.

1. Premessa

La Direttiva c.d. antiabuso (Direttiva n. 2016/1164/UE del 12 luglio 2016, ATAD I) (1) rappresenta un punto di svolta nell’evoluzione della normativa eurounitaria in ambito fiscale poiché introduce una serie di disposizioni atte a contrastare le pratiche di elusione fiscale che incidono direttamente sul corretto funzionamento del mercato interno.
Le disposizioni in essa contenute, come enunciato dai “considerando”, rispondono essenzialmente a due obiettivi: il primo, di “garantire che le imposte vengano versate nel luogo in cui gli utili sono generati”; il secondo, di ristabilire “la fiducia nell’equità dei sistemi fiscali” e di consentire “ai governi di esercitare effettivamente la loro sovranità fiscale”.
Al fine di realizzare detti obiettivi, il Consiglio dell’Unione europea ha inteso fare riferimento ai principi elaborati nel quadro dell’iniziativa condotta dall’OCSE per contrastare i fenomeni dell’erosione della base imponibile e del trasferimento degli utili (c.d. BEPS) in Paesi a bassa fiscalità.
La Direttiva introduce, quindi, delle soluzioni di contrasto comuni a livello europeo, in linea con le conclusioni formulate nei progetti BEPS, che dovranno essere attuate dagli Stati membri in modo efficace, rapido e coordinato.
In altri termini, la Direttiva antiabuso si prefigge l’obiettivo di preservare l’ordinamento fiscale degli Stati membri contro le forme di erosione della base imponibile e contro la traslazione degli utili verso Paesi a fiscalità privilegiata, garantendo l’imposizione del reddito nei Paesi in cui le attività economiche si sono realizzate.
A tal fine, la Direttiva introduce specifiche disposizioni riguardanti:
– i limiti alla deducibilità degli interessi;
– l’imposizione in uscita (exit tax);
– le società controllate estere (CFC);
– l’arbitraggio fiscale o il disallineamento da ibridi (Hybrid Mismatch Arrangements);
– l’introduzione di una clausola generale antiabuso (GAAR, General anti-avoidance rule).
Dopo una breve indicazione in ordine ai singoli settori oggetto di modifiche, ci si concentrerà soprattutto sulla clausola generale antiabuso, che rappresenta la previsione più rilevante alla luce anche della particolare evoluzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia UE sul tema dell’abuso del diritto.
La Direttiva ATAD I dovrà essere adottata dagli Stati membri entro il 31 dicembre 2018 ed entrerà in vigore a partire dal 1° gennaio 2019, salvo per le disposizioni relative all’imposizione in uscita, il cui termine di recepimento è stato posticipato di un anno (1° gennaio 2020) e per tutte le modifiche introdotte dalla Direttiva ATAD II (Direttiva n. 952/2017/UE del 21 febbraio 2017) in merito alle c.d. entità ibride.
Difatti, la Direttiva ATAD I rappresenta uno dei rarissimi casi – se ne registrano solo altri due – in cui una Direttiva è stata modificata in alcune sue parti ancora prima della sua adozione da parte degli Stati membri.

2. I diversi settori affrontati dalla Direttiva

Innanzitutto, occorre definire l’ambito di applicazione della Direttiva ATAD I: i destinatari sono solo i contribuenti soggetti all’imposta sul reddito delle società in uno o più Stati membri, comprese le stabili organizzazioni situate in uno o più Stati membri che appartengono a società residenti ai fini fiscali in Paesi terzi.
In tale ambito di applicazione, il primo settore di intervento della Direttiva riguarda i limiti alla deducibilità degli interessi passivi.
Per contrastare lo spostamento dei profitti attraverso operazioni di indebitamento all’interno delle società del gruppo, l’art. 4 della Direttiva introduce la c.d. earning-stripping rule, che impone agli Stati membri di dotarsi di una normativa che limiti la deducibilità degli interessi passivi ad un importo non superiore al 30 per cento degli utili imponibili del contribuente al lordo di interessi, imposte, deprezzamento e ammortamento (c.d. EBITDA).
Il secondo ambito di intervento riguarda la tassazione in uscita (c.d. exit tax): per evitare che i gruppi spostino i propri assets (specialmente quelli immateriali, quali brevetti e proprietà intellettuali) verso Stati con tassazione più favorevole, l’art. 5 stabilisce che gli Stati membri debbano dotarsi di una disciplina specifica della tassazione in uscita, che deve essere computata come la differenza tra valore di mercato degli assets al momento dell’uscita dallo Stato e il loro valore fiscale.
Con riferimento alle società controllate estere (controlled foreign companies – CFC), la Direttiva (art. 7) persegue lo scopo di evitare che i gruppi societari trasferiscano i propri utili verso società del gruppo aventi sede in Stati con un’imposizione più favorevole allo scopo di ridurre gli oneri fiscali complessivi.
Come emerge anche dai “considerando” della Direttiva, le norme sulle CFC intendono riattribuire i redditi di una società controllata soggetta a bassa imposizione alla società madre; quest’ultima è quindi tassabile per i redditi che le sono stati attribuiti nello Stato in cui è residente a fini fiscali.
Gli Stati membri possono esentare da tale disciplina alcune entità con scarsi utili o uno scarso margine di profitto che comportano rischi minori di elusione fiscale.
La Direttiva si occupa anche di disciplinare il fenomeno dei c.d. disallineamenti da ibridi o arbitraggio fiscale (art. 9).
L’arbitraggio fiscale o disallineamento da ibridi consiste nello sfruttare le discordanze tra sistemi fiscali, una presenza costante nell’attività finanziaria, assicurativa e imprenditoriale transanazionale che è diventata particolarmente evidente a partire dalla crisi finanziaria del 2008 e che genera il “reddito vagabondo o senza Stato”: un reddito non soggetto a imposta in nessuna parte del mondo.
La strategia di elusione fa sì che l’imposta venga dedotta in entrambi i Paesi o che un Paese deduca l’imposta su un reddito che è già esente nell’altro Paese, e la sua unica finalità è quella di ottenere un vantaggio fiscale. La Direttiva 2016/1164/UE si occupa di queste due ipotesi di elusione denominandole “doppia deduzione” e “deduzione senza inclusione” e fornisce due metodi per contrastarle.

3. La clausola generale antiabuso

È la prima volta che il legislatore eurounitario codifica una norma di portata generale atta a disciplinare, in modo uniforme, l’applicazione del principio dell’abuso del diritto nel settore fiscale, e in particolare per quanto riguarda l’imposta sulle società.
Partendo dall’analisi “letterale” della norma, si evince che essa si articola in tre commi: il primo comma prevede che «ai fini del calcolo dell’imposta dovuta sulle società, gli Stati membri devono ignorare una costruzione o una serie di costruzioni che, essendo stata posta in essere allo scopo principale o a uno degli scopi principali di ottenere un vantaggio fiscale che è in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile, non è genuina, avendo riguardo a tutti i fatti e le circostanze pertinenti. Una costruzione può comprendere più di una fase o una parte».
Nel secondo comma si sancisce che «una costruzione si considera non genuina nella misura in cui non sia stata posta in essere per valide ragioni commerciali che rispettano la realtà economica».
Il terzo e ultimo comma prevede che «quando le costruzioni sono ignorate a norma del paragrafo uno, l’imposta è calcolata in conformità del diritto nazionale».
È evidente che la Direttiva introduce una limitazione all’applicazione della clausola antiabuso, poiché essa non si applica ai contribuenti che non sono assoggettati all’imposta sulle società di uno Stato membro, ossia le persone fisiche e le società di persone.
Tuttavia, rimane innegabile la portata innovativa della Direttiva destinata a introdurre una clausola antiabuso dal valore generale nell’ordinamento eurounitario, in grado di risolvere il precedente quadro estremamente frammentato che sussiste nei vari Paesi europei.
Difatti, il panorama legislativo e giurisprudenziale antecedente alla Direttiva risulta essere estremamente eterogeneo e, nel tentativo di comporre tale situazione, il legislatore eurounitario ha effettuato una scelta peculiare.
Da un lato ha introdotto una definizione di antiabuso che sostanzialmente ricalca quella formulata nella Direttiva madre figlia (Direttiva n. 2011/96/UE); dall’altro si è discostato da quanto affermato dalla Corte di Giustizia europea in ordine agli elementi costituivi dell’abuso del diritto.
Occorre soffermarsi sulle diverse pronunce rese dal Giudice comunitario al fine di comprendere la portata innovativa della clausola generale antiabuso.
Nella giurisprudenza della Corte di Giustizia europea relativa all’abuso del diritto si evidenziano diversi orientamenti.
La recente giurisprudenza della Corte di Giustizia europea attribuisce rilevanza centrale, al fine di integrare l’abuso del diritto, alla sussistenza di elementi di tipo oggettivo, da cui si evidenzi l’artificialità dell’operazione, intesa quale insussistenza di una effettiva sostanza economica dell’operazione contestata.
L’insistenza sulla centralità dell’elemento oggettivo ha messo in secondo piano la verifica circa l’elemento soggettivo, richiesto dalla giurisprudenza più risalente attraverso le pronunce Cadbury Schweppes (2) e Halifax (3), circa la verifica della volontà elusiva in capo al contribuente, tesa ad aggirare la norma di legge con la finalità di ottenere un risparmio indebito.
La pronuncia Halifax, con riferimento all’IVA, aveva infatti cristallizzato la necessaria sussistenza di entrambi gli elementi ai fini dell’abuso.
Da un lato l’interprete doveva verificare se lo scopo perseguito dalle operazione economiche fosse essenzialmente rivolto al conseguimento di un vantaggio fiscale di matrice indebita, in quanto contrario alla ratio della norma; dall’altro lato occorreva verificare se lo scopo essenziale dell’operazione stessa, alla luce di un insieme di elementi certi e oggettivi, fosse quello di raggiungere l’obiettivo di minimizzazione del carico fiscale.
Tale orientamento è stato successivamente modificato, sia con riguardo al profilo soggettivo che oggettivo.
Con riferimento al primo, con la giurisprudenza Part Service (4) e Weald Leasing (5), la Corte di Giustizia europea ha modificato parzialmente i confini dell’elemento soggettivo, rilevando la necessità dell’intenzione abusiva, ma affermando, al contempo, che affinché il vantaggio fiscale possa essere ritenuto indebito è sufficiente che lo scopo del risparmio d’imposta costituisca la ragione principale per cui è stata messa in atto l’operazione abusiva.
In relazione all’elemento oggettivo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE ha subito, negli ultimi anni, un profondo mutamento proprio con riguardo all’artificialità dell’operazione economica posta in essere dal contribuente, che si realizza allorché la stessa non rispecchi l’effettività economica e commerciale delle operazioni.
Nelle recenti pronunce Paul Newey (6) e WebMindLicenses (7) emerge come la Corte di Giustizia europea attribuisca rilevanza centrale, ai fini dell’integrazione dell’abuso del diritto, alla sussistenza di elementi di tipo oggettivo, dimostranti l’artificialità dell’operazione, ossia l’assenza di sostanza economica dell’operazione contestata.
Il legislatore eurounitario, partendo dai predetti orientamenti giurisprudenziali, ha attribuito rilevanza con la Direttiva ATAD a quello più risalente nel tempo, prevedendo la necessaria presenza di entrambi gli elementi (oggettivo e soggettivo) ai fini della sussistenza dell’abuso del diritto.
In relazione al primo elemento, la Direttiva utilizza l’espressione “costruzione non genuina”, di significato ben più ampio delle mere costruzioni artificiali, la cui sussistenza era richiesta dalle precedenti clausole antiabuso.
La “genuinità” dovrà essere valutata con riferimento a tutti i fatti e circostanze pertinenti: dovranno essere vagliate tutte le ragioni economiche e finanziarie che hanno spinto il contribuente a porre in essere l’operazione economica.
Il secondo elemento costitutivo dell’abuso del diritto è dato dall’essenzialità del risparmio fiscale indebito quale scopo della condotta contestata al contribuente: esso deve costituire lo scopo principale o uno degli scopi principali della condotta posta in essere dal contribuente.
Si dà così rilievo all’“intenzionalità abusiva” perseguita dal soggetto passivo d’imposta, il quale pone in essere una determinata operazione in contrasto con l’oggetto o la finalità del diritto fiscale applicabile.
Un dato è chiaro: la Direttiva colpisce non solo strutture meramente artificiali ma, più in generale, costruzioni “non genuine”, fondate su motivazioni commerciali che, seppur valide, non riflettono la realtà economica e giuridica effettiva dell’operazione posta in essere, sussistendo un evidente intento fraudolento.
L’esplicita previsione del vantaggio fiscale indebito quale scopo della condotta perpetrata dal contribuente avrà importanti riflessi anche dal punto di vista dell’onere probatorio.
Difatti, vi sarà un’estensione dei compiti accertativi in capo alle Amministrazioni finanziarie dei diversi Stati membri, le quali dovranno compiere delle specifiche istruttorie sulle ragioni extrafiscali affinché si dimostri che il risparmio fiscale indebito sia lo scopo essenziale della condotta contestata.
L’effetto della clausola generale antiabuso si ripercuote non solo a livello sostanziale, ove si introduce una nuova norma di portata generale, ma anche a livello procedimentale, atteso il necessario innalzamento dello standard probatorio e motivazionale che si richiederà alle diverse Amministrazioni finanziarie per la contestazione dell’abuso del diritto.

4. Il rapporto tra la clausola generale antiabuso e il progetto BEPS

Risulta essere interessante porre in relazione la clausola generale antiabuso della Direttiva ATAD con la norma antiabuso (PPT Rule) elaborata nel progetto BEPS.
L’action 6, Final report del progetto BEPS ha proposto l’introduzione di una norma generale antiabuso nel Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni, fondata sul principal purpose test (PPT Rule), ossia sul disconoscimento dei benefici della Convenzione contro le doppie imposizioni qualora sia ragionevole concludere che il conseguimento dei benefici sia uno degli scopi principali dell’operazione posta in essere e la loro concessione non sia conforme con l’oggetto e lo scopo del trattato.
La norma si sostanzia in un accordo o in una transazione tra i cui scopi principali vi sia la ricerca di un beneficio fiscale e il contrasto tra il beneficio convenzionale perseguito e l’oggetto o lo scopo della Convenzione.
L’elemento di novità, secondo l’OCSE, deriva dal fatto che l’inserimento nei trattati di tale clausola non è condizione per la loro efficacia: tale clausola rappresenterebbe un principio di diritto internazionale che opera comunque e in ogni caso, a prescindere dalla sua positiva codificazione, la cui funzione, peraltro, sarebbe meramente confermativa.
È evidente che l’approccio della PPT rule risulti essere completamente differente rispetto alla clausola generale antiabuso europea.
Per applicare la PPT rule è sufficiente che lo scopo principale dell’accordo o della transazione sia quello di ottenere un vantaggio fiscale in base a una Convenzione, a prescindere dall’assenza o meno di una genuina attività economica, a differenza di quanto prescritto dalla clausola generale antiabuso.
È evidente che il differente “oggetto” (per la PPT rule la sussistenza di un vantaggio fiscale in contrasto con la Convenzione; per la clausola generale antiabuso l’assenza di genuinità dell’entità costituita) comporti delle perplessità circa la compatibilità con il quadro normativo eurounitario.
La stessa Commissione UE, nella raccomandazione sull’implementazione delle misure contro l’abuso dei trattati fiscali del 28 gennaio 2016, ha rilevato la necessità di modificare la PPT rule tramite l’introduzione del riferimento alla “genuina attività economica”, come indicato nell’art. 6 della Direttiva ATAD.
Sicché è evidente che la PPT rule, prima di poter trovare applicazione nell’ordinamento eurounitario, dovrà essere modificata, al fine di coordinare entrambe le disposizioni e di garantire un efficace contrasto alle operazioni abusive.

5. Il rapporto tra la clausola generale antiabuso e l’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente

Occorre porre l’attenzione anche sulla relazione tra la clausola generale antiabuso della Direttiva ATAD e l’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), introdotto nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.
A poco più di due anni dalla sua entrata in vigore, la norma italiana sull’abuso del diritto sembra aver bisogno di un aggiornamento. A imporlo è l’evoluzione della disciplina europea sull’elusione.
La disposizione italiana sull’abuso (art. 10-bis della legge n. 212/2000) è stata adottata avendo come fonte d’ispirazione la raccomandazione della Commissione UE del 6 dicembre 2012 (2012/772/UE). Raccomandazione che oggi è – di fatto – superata dalla Direttiva 2016/1164, sulle pratiche antielusive che incidono sul funzionamento del mercato interno, la quale, come si è detto, prevede all’art. 6 una “norma generale antiabuso”, che gli Stati membri sono chiamati a introdurre nei propri ordinamenti entro il 31 dicembre 2018.
L’art. 6 riproduce la clausola antiabuso contenuta nella Direttiva 2015/121 del 27 gennaio 2015, che ha modificato la cosiddetta Direttiva “madre-figlia” 2011/96/UE del 30 novembre 2011.
La Direttiva 2015/121 è stata attuata in Italia attraverso la legge comunitaria 2016 (legge 7 luglio 2016, n. 122) facendo riferimento all’art. 10-bis della legge n. 212/2000. Il che farebbe pensare – posto che l’art. 6 della nuova Direttiva antiabuso 2016/1164 risulta coincidente con quello contenuto nella stessa Direttiva 2015/121 – che anche la nuova Direttiva antiabuso si dovrebbe considerare attuata attraverso l’art. 10-bis dello Statuto. Tale conclusione desta però delle perplessità.
La nozione di abuso che ispira l’art. 6 della nuova Direttiva 2016/1164 (ma il medesimo discorso va fatto sulla disciplina antiabuso della Direttiva madre-figlia) non sembra coincidere con quella dell’art. 10-bis dello Statuto.
L’ambito di operatività della clausola antiabuso europea è indubbiamente più ampio di quello dell’art. 10-bis dello Statuto.
Dalla norma interna italiana si ricava che l’abuso del diritto va individuato per esclusione. In sostanza, prima occorre verificare se il vantaggio fiscale risulta legittimo o meno. Se è illegittimo, occorre verificare se si tratta di una vicenda ascrivibile all’evasione; solamente in presenza di un vantaggio fiscale illegittimo e non ascrivibile all’evasione si ravvisa ipotesi di abuso del diritto.
Ci sono, tuttavia, alcune ipotesi in cui il confine tra evasione ed elusione (abuso del diritto) non risulta così nitido. Il riferimento va, in particolare, alla previsione dell’art. 37, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in tema di interposizione fittizia. Secondo la prevalente giurisprudenza della Corte di Cassazione, la previsione dell’art. 37, terzo comma, andrebbe applicata anche all’interposizione reale. Si tratta tuttavia di una conclusione che non appare condivisibile e che è destinata ad essere superata se si vuole rendere l’art. 10-bis dello Statuto conforme all’art. 6 della Direttiva 2016/1164.
Quella dell’art. 37, terzo comma, del D.P.R. n. 600/1973, è chiaramente una norma antievasione volta a permettere all’Agenzia delle entrate di contrastare l’interposizione fittizia, facendo luce su una vicenda simulata, quindi solo apparente, per ricercare la realtà “vera”.
Nell’interposizione reale, di contro, gli unici effetti realizzati sono quelli resi palesi; quella realizzata attraverso l’interposizione reale è una realtà – assolutamente vera e voluta dal contribuente – così strutturata solo per conseguire vantaggi fiscali indebiti.
L’interposizione reale si realizza, infatti, quando l’interposto agisce come effettivo contraente, assumendo in proprio i diritti derivanti dal contratto e impegnandosi a trasferirli all’interponente con un successivo negozio di trasferimento. In questi termini lo strumento di contrasto all’interposizione reale non può che essere la clausola antiabuso contenuta nell’art. 10-bis dello Statuto. Una conclusione questa che, pur già sostenibile, appare oggi necessitata dall’esigenza di rendere conforme al nuovo art. 6 della Direttiva 2016/1164 la nostra clausola antiabuso.
In sostanza, le operazioni non genuine risultano quelle che non possono essere ricondotte a fenomeni di evasione consistenti nell’alterazione dei fatti economici (ad esempio tramite una simulazione), ma a quelle operazioni pienamente legittime tra le parti finalizzate a conseguire un vantaggio illegittimo. Sicché, l’interposizione reale sembra rientrare in tale ambito.
Va osservato, infine, che tra i “considerando” della nuova Direttiva antiabuso viene riconosciuta agli Stati membri la possibilità di comminare sanzioni nel caso in cui torni applicabile la norma generale antiabuso (8).
In questo modo troverebbe implicita giustificazione la norma italiana che già prevede l’applicazione delle sanzioni amministrative. Anche se per l’abuso del diritto sembrerebbe più appropriato, alla luce della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, un trattamento sanzionatorio specifico e mitigato rispetto alle ipotesi riconducibili all’evasione.
Tuttavia, i problemi non finiscono qua.
Difatti, la clausola antiabuso eurounitaria trova applicazione con riguardo all’imposta sul reddito delle società, mentre la disposizione interna si applica anche con riferimento alle persone fisiche e alle società di persone.
Il diverso ambito di applicazione potrebbe comportare una possibile discriminazione tra i contribuenti, difficilmente condivisibile.
Vi sarebbero delle garanzie e tutele diverse a seconda della categoria di contribuenti (società o persona fisica) e della normativa applicabile (UE o interna), con la conseguenza che potrebbe sussistere la violazione del principio di uguaglianza sostanziale.
Si tratterebbe di una discriminazione tra diverse categorie di soggetti cui è difficile dare una giustificazione e che potrebbe prestarsi a censure in chiave sia di diritto interno che del diritto dell’Unione europea.
Altro problema riguarda la clausola di antiabuso nell’IVA, imposta non considerata dalla Direttiva.
Orbene, i tre elementi costitutivi che contraddistinguono la fattispecie legale sono i seguenti:
– l’esistenza “di una o più operazioni prive di sostanza economica”;
– il conseguimento di “vantaggi fiscali indebiti”;
– l’“essenzialità” dello scopo consistente nel risparmio fiscale.
Orbene, mentre i primi due elementi costitutivi sopra indicati coincidono con il principio elaborato in sede comunitaria, una qualche perplessità si ravvisa nella precisazione del terzo elemento fatta dal terzo comma dell’art. 10-bis: “valide ragioni extrafiscali, non marginali”.
Vi è chi sostiene una perfetta sovrapposizione, e quindi una piena compatibilità, tra la definizione europea di abuso e quella desumibile dall’art. 10-bis, ritenendo che il concetto di “essenzialità”, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, coincida con la “non marginalità delle ragioni extrafiscali”.
In altri termini, le ragioni extrafiscali valide si sostanziano in ragioni giustificative delle operazioni, che, in base ad un giudizio oggettivo, possono essere valutate come “apprezzabili”, “non pretestuose”, “significative”, in una parola “determinanti” la realizzazione dell’operazione.
La ricostruzione qui prospettata è certamente valevole per i tributi non armonizzati, mentre per quanto riguarda l’IVA la fattispecie abusiva è rinvenibile nelle sole operazioni che manifestano il mero conseguimento di vantaggi fiscali.
Come si vede, una definizione semplice e al contempo più favorevole al contribuente: è l’Amministrazione finanziaria che deve dimostrare in maniera inequivoca che lo scopo essenziale, da intendersi come determinante, dell’operazione controversa è rappresentato dal solo conseguimento del vantaggio fiscale indebito (9): «il principio di divieto di pratiche abusive, che si applica al settore dell’IVA, comporta il divieto delle costruzioni meramente artificiose, prive di effettività economica, realizzate al solo scopo di ottenere un vantaggio fiscale» (10).
Non assumono alcuna rilevanza le ragioni giustificative non marginali, ragioni che dovrebbero essere provate dal contribuente.
La conclusione è nel senso che ci troviamo di fronte ad un sistema tributario irrazionale e diversificato. Ma se tale irrazionalità prima la si rinveniva spesso nel solo ordinamento interno, oggi, purtroppo, la ritroviamo anche nell’ordinamento europeo.

Prof. Maurizio Logozzo
Ordinario di Diritto Tributario
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) Cfr. Corte Giust. CE, sez. grande, 12 settembre 2006, causa C-196/04, in Boll. Trib. On-line.
(3) Cfr. Corte Giust. CE, sez. grande, 21 febbraio 2006, causa C-255/02, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cfr. Corte Giust. CE, sez. II, 21 febbraio 2008, causa C-425/06, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Corte Giust. UE, sez. III, 22 dicembre 2010, causa C-103/09, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cfr. Corte Giust. UE, sez. III, 20 giugno 2013, causa C-653/11, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Corte Giust. UE, sez. III, 17 dicembre 2015, causa C-419/14, in Boll. Trib. On-line.
(8) Questo diversamente da quanto stabilito da Corte Giust. CE causa C-255/02 del 2006, Halifax, par. 93, cit., in base alla quale «la constatazione di un comportamento abusivo non deve condurre ad una sanzione».
(9) Cfr. Corte Giust. UE, sez. IV, 13 marzo 2014, causa C-155/13, Sices, in Boll. Trib. On-line.
(10) Così Corte Giust. UE causa C-419/14 del 2015, WebMindLicenses, cit.

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