Mi piace iniziare con un aforisma attribuito a Guglielmo d’Orange «non occorre sperare per intraprendere, né riuscire per perseverare», un detto che può apparire pessimistico (e fors’anche disperato), ma che contiene, invece, un raggio di luce, posto che Guglielmo d’Orange riuscì piuttosto bene a realizzare i suoi propositi.
Ed è con questo auspicio, e comunque con la profonda convinzione che è nostro dovere agire al meglio che possiamo per fronteggiare, contenere, se non eliminare le difficoltà del presente, che enuncio qualche riflessione personale e soggettiva circa la odierna situazione del diritto tributario.
Viviamo un momento storico di incertezza in cui può apparire in crisi la classica catena di comando che vede la esclusiva fonte del diritto nella legge dello Stato; che vede nella amministrazione e nella giurisdizione gli esecutori della legge dello Stato.
Un momento in cui le sentenze assumono spesso un ruolo trainante nella formazione del diritto, tanto che – sia pure con una forzatura – si può asserire che vi sono sentenze che tengono le veci delle leggi, che hanno effetti sociali simili se non pari a quelli prodotti da una legge. Per converso, assistiamo alla promulgazione di disposizioni di legge la cui funzione, almeno nella intenzione di chi le ha redatte, è di ribaltare uno specifico indirizzo giurisprudenziale; tanto che si può qui parlare – in un certo senso – di leggi-sentenza.
Formulo qualche sommario esempio.
Nella visione tradizionale, la tutela, anche in sede giudiziaria, dell’interesse pubblico ad un corretto accatastamento del patrimonio immobiliare ed alla conseguente ripartizione degli oneri fiscali, compete alla Agenzia delle entrate (nella articolazione che ha assorbito l’Agenzia del territorio). E ai Comuni è riconosciuta solo una funzione di sollecito e di stimolo che si spinge, al massimo, fino a consentire l’intervento adesivo dipendente dell’ente locale, nella controversia giudiziaria fra contribuente e Agenzia.
Ora, però, due sentenze della Corte di Cassazione sembrano mutare il quadro e attribuire ai Comuni poteri (e responsabilità) nuovi, più coerenti con il ruolo primario loro attribuito dall’art. 114 Cost.
La sentenza delle Sezioni Unite n. 15203 del 21 luglio 2015 (sentenza Di Iasi) (1), ha riconosciuto ai Comuni il potere di impugnare gli atti catastali che siano lesivi di pretese fiscali dei Comuni stessi (ad esempio sottovalutando un immobile con conseguente minor esborso per imposte locali). E la Suprema Corte ha sorretto la sua pronuncia con una interpretazione costituzionalmente orientata del secondo comma dell’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui le controversie catastali sono «promosse dai singoli possessori», negando che tale dizione delimiti «la giurisdizione del giudice tributario» e attribuisca la piena legittimazione processuale solo ai «singoli possessori», dal momento che tale legittimazione compete anche ai Comuni, quale esercizio del loro diritto di difesa (art. 24 Cost.).
A sua volta, sempre in attuazione degli artt. 24 e 114 Cost., la sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione n. 1704 del 29 gennaio 2016 (sentenza Botta) (2) ha affermato che il Comune può disattendere i dati catastali ed applicare i tributi di sua pertinenza (nel caso di specie l’ICI) in base alla reale situazione di fatto da esso Comune verificata sul territorio.
Trova quindi supporto processuale la volontà dei Comuni di sottoporre a tassazione beni che la Agenzia delle entrate collochi invece in una categoria catastale non soggetta a imposta; si pensi alla discussione circa la applicabilità o meno dell’ICI alle piattaforme petrolifere (sentenza della Cassazione n. 3618 del 24 febbraio 2016) (3) e alla disciplina giuridica dei così detti “imbullonati” cui si accennerà più avanti.
In un ambito di minore rilievo pratico ma non meno significativo sul piano dei principi, ricordo la sentenza della Corte di Cassazione n. 3110 del 17 febbraio 2016 (4) che ha modificato la precedente giurisprudenza relativa all’esenzione di cui all’art. 19 della legge 6 marzo 1987, n. 74, ricomprendendo in tale beneficio tutti i trasferimenti di beni compiuti in occasione di una crisi familiare (e non più solo quelli relativi allo scioglimento della comunione fra coniugi); ed è pervenuta a questo risultato in considerazione dei mutamenti della legislazione e del costume che hanno portato alla “degiurisdizionalizzazione” delle procedure di separazione e divorzio, ed attribuito al consenso tra i coniugi un valore sempre più pregnante.
Il ruolo forte ed espansivo oggi assunto dalla giurisdizione ha un fondamento istituzionale, costituito dai crescenti limiti che il legislatore incontra, nella Costituzione, nella normativa europea, nella Carta europea dei Diritti dell’Uomo, alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale, della Corte europea di Giustizia, della Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Una giurisprudenza che pressantemente invita gli organi giudiziari ad una interpretazione delle leggi “orientata” a renderle armoniche con disposizioni che si collocano su un piano superiore alla legge ordinaria, che li invita alla disapplicazione delle norme di legge contrarie al diritto europeo.
Di conseguenza, come già altre volte ho posto in evidenza, il giudice si trova a decidere le controversie attingendo direttamente a principi che sovrastano le leggi ordinarie, ponendo in secondo piano il dato letterale ricavabile dalla legge dello Stato.
Per altro verso il legislatore, e in specie il legislatore delegato, sembra rifuggire dalla enunciazione di principi ed invece prediligere quelle che ho sommariamente indicato come leggi-sentenza.
Così il legislatore delegato ha preferito non affrontare il delicato problema della affermazione o meno di un obbligo della Amministrazione di confrontarsi con il contribuente prima di emanare un avviso di accertamento destinato a regolare il rapporto tributario in termini difformi (e peggiorativi) rispetto alle prospettazioni del contribuente stesso. E non ha dato attuazione all’art. 9 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, secondo cui dovevano essere emesse misure volte a «rafforzare il contraddittorio nella fase di indagine e la subordinazione dei successivi atti di accertamento e di liquidazione all’esaurimento del contraddittorio procedimentale».
Quindi il delicato problema è rimasto alle cure della giurisprudenza, che ha dato una risposta con la notissima sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 9 dicembre 2015 (5), che ha delineato un quadro complesso e variegato.
Per cui vi sono ipotesi in cui il principio del contraddittorio amministrativo si applica tout court e la sua omissione determina la nullità dell’atto impositivo; vi sono imposte (quelle armonizzate dalla Unione europea) in cui il contraddittorio amministrativo si applica ma l’omissione determina nullità dell’atto impositivo solo se il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e se dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si rivelino non puramente pretestuose e tali da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto. Ed infine casi che non ricadono in nessuna delle enunciate ipotesi ed in cui istaurare il contraddittorio è una mera facoltà dell’Amministrazione finanziaria, ancorché caldeggiata da una circolare della Agenzia delle entrate.
Non solo, vi sono ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria è tenuta ad ascoltare il contribuente, ed anche a rispondere adeguatamente nella motivazione dell’atto che disattenda le considerazioni da lui proposte, come accade nell’ambito del così detto abuso di diritto di cui all’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), così come delineato dall’art. 1 del decreto legislativo delegato 5 agosto 2015, n. 128; mentre nella maggior parte dei casi l’Amministrazione stessa sarebbe tenuta soltanto ad ascoltare ma non a rispondere (sentenza della Corte di Cassazione n. 3583 del 24 febbraio 2016) (6).
Questa complessa situazione è parsa sospetta di incostituzionalità ad un Collegio della Commissione Tributaria Regionale della Toscana che, con l’ordinanza n. 736 del 10 dicembre 2015 (7), ha sollevato eccezione di illegittimità costituzionale supponendo che essa determini una lesione al diritto di difesa del contribuente, e disparità di trattamento prive di logica giustificazione.
Se scarseggiano le leggi che enuncino principi e regole generali, abbondano le disposizioni specifiche; spesso emesse in sede di attuazione di una legge delega e che quindi suscitano ulteriori problemi di costituzionalità alla luce dell’art. 76 della Costituzione.
Anche qui l’elencazione potrebbe essere lunga e mi farebbe “sforare” il tempo a mia disposizione.
Ricordo solo che il comma 665 dell’art. 1 della legge 23 dicembre 2014, n. 190, precisa da quale data decorra il termine biennale di decadenza per richiedere taluni benefici fiscali concessi agli abitanti di aree colpite da taluni disastri naturali; che l’art. 5 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, esclude che il valore del bene dichiarato od accertato ai fini della imposta di registro possa costituire elemento decisivo ai fini della applicazione delle imposte sui redditi; e di nuovo il medesimo art. 5 dell’appena citato D.Lgs. n. 147/2015 “corregge” taluni indirizzi giurisprudenziali in tema di trasferimenti di beni fra società di un medesimo gruppo, operanti nel territorio dello Stato.
Accenno ancora al comma 21 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016), che detta una disposizione che sembra escludere dai calcoli dei valori posti a base della rendita catastale i macchinari così detti “imbullonati”.
Qui veramente si giunge al paradosso (o in termini calcistici al “fallo per confusione”), perché la recentissima disposizione di legge pare intenda derogare ad una norma contenuta nel comma 244 dell’art. 1 della analoga legge di stabilità del 2015, ossia della legge 29 dicembre 2014, n. 190. Norma che la già citata e recentissima sentenza della Corte di Cassazione n. 3618 del 24 febbraio 2016 (presidente e relatore Chindemi) ha qualificato “anomala” e ha bollato scrivendo che essa presenta «evidenti profili di incostituzionalità» in quanto «si limita a rinviare, ai fini della applicazione di una normativa, senza altra specificazione, alle istruzioni di una circolare ministeriale, emanata da una delle parti del giudizio».
Non è dunque facile scorgere un filo conduttore in una legislazione minuta e fors’anche caotica, in cui sovente la pulsione che ha determinato l’emanazione della norma non ha trovato (almeno a giudizio della Corte di Cassazione) un adeguato sbocco lessicale. O – per dirla in latino – la intentio legislatoris non si è tradotta in voluntas legis e dunque la norma produce effetti non previsti e non voluti.
Così come è accaduto con il quarto comma dell’art. 28 del D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, che recita «ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese». Su tale disposizione già mi sono intrattenuto l’anno scorso ed ora registro soltanto che l’affermazione dell’Agenzia delle entrate, probabile ispiratrice della norma, secondo cui la modifica avrebbe solo una portata procedurale, non ha trovato conforto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha attribuito alla modifica stessa valore sostanziale con la sentenza n. 6743 del 2 aprile 2015 (8), seguita da numerose altre conformi.
Ritengo quindi di dovere condividere il giudizio del Presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno, secondo cui assistiamo ad una «turbolenza e fibrillazione normativa». E «la crisi di qualità della legislazione si manifesta sia con un’abnorme inflazione normativa sia con scarsa chiarezza, contraddittorietà, difetto di generalità e astrattezza delle regole, con le conseguenti incertezze nella loro applicazione» (9).
Si tratta di una crisi di consistente rilievo pratico specie in un momento di difficoltà economica, come emerge dalla constatazione di quanto le pronunce giudiziarie incidano sulla realtà imprenditoriale e professionale del Paese, sulla vita dei singoli contribuenti, sulla competitività della nostra economia in rapporto con il “mercato globale” in cui viviamo immersi.
A questo proposito non posso che ribadire quanto ho altre volte detto in analoghe circostanze.
È in primo luogo necessario utilizzare tutte le energie esistenti nella nostra struttura, tutte le professionalità acquisite in anni di lavoro; aggiungo una sola battuta per sottolineare come, in un momento in cui si privilegiano le soluzioni conciliative dei conflitti tributari, non si sia voluto procedere ad un potenziamento della figura del “garante del contribuente”, che potrebbe svolgere, ancora più di quanto già oggi lodevolmente faccia, un ruolo prezioso e autorevole nel promuovere le tanto auspicate conciliazioni.
Sono poi convinto che l’attuale composizione delle Commissioni tributarie con l’apporto di saperi e professionalità diverse rispecchi la complessità delle questioni sottoposte al giudice tributario e quindi debba essere salvaguardata. Prevedendo sì un nucleo di magistrati a tempo pieno necessari per la funzionalità degli uffici, ma consentendo anzi auspicando e disciplinando la partecipazione di professionisti qualificati. Ciò qualunque soluzione si privilegi sotto il profilo amministrativo-gestionale (conservazione di un ordinamento autonomo, sezioni specializzate della magistratura ordinaria, o amministrativa o contabile …). E il mio auspicio trova conforto in un recente intervento del Primo Presidente della Corte di Cassazione che ha apprezzato la professionalità di tutti i giudici tributari, auspicando che essi (siano o non siano “magistrati ordinari, contabili e amministrativi, o avvocati dello Stato”) accedano alle funzioni di giudici onorari di Cassazione.
Concludo con l’auspicio già formulato il 19 febbraio 2016 nella seduta del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria di inaugurazione dell’anno giudiziario: che si crei una simbiosi culturale ed operativa tra la magistratura tributaria e la Corte di Cassazione, che concorra ad accrescere la appropriatezza e coerenza delle risposte processuali ed a ridurre la quantità del contenzioso; come effetto non di vincoli giuridici, incompatibili con la natura stessa della funzione giudicante e con la dignità della professione di difensore, né della minaccia della condanna alle spese e (addirittura) per lite temeraria, ma della prospettiva di una pronuncia sollecita e, si spera, giusta.
Prof. Mario Cicala
Presidente della Commissione
Tributaria Regionale della Toscana
* Il presente scritto riproduce, con l’aggiunta di alcuni piccoli trattamenti redazionali, il testo degli interventi svolti il 19 febbraio 2016 nella seduta del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (CPGT) di inaugurazione dell’anno giudiziario e nella inaugurazione dell’anno giudiziario in Toscana dell’8 marzo 2016.
(1) Cfr. Cass., sez. un., 21 luglio 2015, ord. n. 15203, in Boll. Trib. On-line.
(2) Cfr. Cass., sez. trib., 29 gennaio 2016, n. 1704, in Boll. Trib. On-line.
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 24 febbraio 2016, n. 3618, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cfr. Cass., sez. trib., 17 febbraio 2016, n. 3110, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 9 dicembre 2015, n. 24823, in Boll. Trib., 2016, 222, con nota di B. AIUDI, Il contraddittorio? Non ce lo possiamo permettere!; e sempre sulla medesima pronuncia cfr. altresì V. AZZONI, Dialogo tra un antico e un moderno intorno ai diritti dei contribuenti sottoposti a verifica fiscale secondo il pensiero della Suprema Corte (sentenza n. 24823/2015), ibidem, 184.
(6) Cfr. Cass., sez. trib., 24 febbraio 2016, n. 3583, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Comm. trib. reg. della Toscana, sez. I, 10 dicembre 2015, ord. n. 736, in Boll. Trib. On-line e di prossima pubbl. su questa stessa Rivista con nota di V. AZZONI.
(8) Cfr. Cass., sez. trib., 2 aprile 2015, n. 6743, in Boll. Trib. On-line e di prossima pubbl. su questa Rivista.
(9) Si tratta del discorso tenuto dal Prof. Alessandro Pajno alla cerimonia di insediamento quale Presidente del Consiglio di Stato in data 16 febbraio 2016, il cui testo è pubbl. per esteso in Boll. Trib. On-line.
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