3 Gennaio, 2015

 

 

 

1. Premessa

La pronuncia in rassegna formula alcune interessanti conclusioni su alcuni risvolti dell’accertamento sintetico.

Si tratta di affermazioni volte ad indirizzare gli Uffici finanziari sulla corretta interpretazione da attribuire alle norme che disciplinano il controverso istituto, in ampia parte, in controtendenza con quanto comunemente argomentato dalla giurisprudenza di legittimità e dalla prassi.

E ciò in linea con un comune sentire sul punto manifestato dalla giurisprudenza di merito negli ultimi tempi. In diverse occasioni, infatti, le Commissioni tributarie si sono espresse a favore di una maggiore tutela del contribuente, soprattutto quando quest’ultimo, da parte sua, si sia dimostrato collaborativo nel presentare i chiarimenti richiestigli. In questi casi gli Uffici finanziari, oltre a dare corso ad un contraddittorio in cui si tengano nel giusto conto le osservazioni formulate dal contribuente, devono improntare l’azione amministrativa ai principi di buon andamento e imparzialità che sono loro propri. E, pertanto, non possono far gravare sul contribuente – che, per giustificare alcune spese sostenute, abbia rilevato l’apporto, in termini di disponibilità a copertura delle predette, del coniuge convivente all’epoca dei fatti, fornendo la documentazione relativa in suo possesso – le conseguenze della mancata risposta al questionario da parte dell’altro coniuge ormai separato.

Con riguardo alle disposizioni di legge che disciplinano l’accertamento sintetico e, quindi, specificamente all’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, i giudici friulani concludono che l’Ufficio fiscale, nell’applicarlo concretamente, non può andare oltre quanto disposto dalla norma. In essa infatti non si richiede la prova dello specifico collegamento tra le spese sostenute non in linea con il reddito dichiarato e le disponibilità che il contribuente indica a copertura delle predette. Quest’ultimo, pertanto, adempie il proprio onere probatorio semplicemente indicando le fonti dei singoli incrementi.

Inoltre essi precisano che il predetto art. 38, a partire dal giugno del 2010, deve essere applicato nella sua nuova formulazione, derivante dalla novella effettuata con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), secondo quanto affermato dal legislatore stesso.

Riassumiamo, pertanto, i profili di fatto e di diritto rilevanti evidenziati nella sentenza e, successivamente, ne esaminiamo criticamente gli aspetti più interessanti.

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2. La sentenza della Commissione provinciale di Trieste e quella della Commissione regionale del Friuli-Venezia Giulia

L’Agenzia delle entrate inviava ad un contribuente dei questionari con i quali gli chiedeva di fornire tutta la disponibilità documentale connessa agli indicatori di reddito di cui al D.M. 10 settembre 1992, successivamente modificato dal D.M. 19 novembre 1992. Egli li riscontrava fornendo quanto in suo possesso e precisando che i beni si sarebbero dovuti considerare nella disponibilità di chi li utilizzava, sopportandone le spese, indipendentemente dalla proprietà degli stessi e, in particolare, anche del proprio coniuge prima convivente, poi separato. Nondimeno, l’Ufficio finanziario ignorava la posizione dell’altro coniuge, rettificava per tutte le annualità in discussione i redditi dichiarati e liquidava la maggiore imposta, con interessi e sanzioni, fondando la presunzione sulla disponibilità di alcune polizze assicurative, di tre autovetture e di due residenze. Considerava infine le spese per incrementi patrimoniali imputandole per quinti agli esercizi di sostenimento e ai quattro precedenti.

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Il contribuente presentava istanza di accertamento con adesione, invitando l’Ufficio fiscale ad acquisire il previsto questionario anche dal coniuge separato. Dimostrava altresì l’inesistenza di uno dei beni utilizzati. L’istanza otteneva esito negativo in quanto il coniuge separato non rispondeva alla richiesta dell’Ufficio finanziario che emetteva tre avvisi di accertamento ex art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 per le annualità 2005, 2006 e 2007 con riguardo all’IRPEF, tutti prontamente impugnati dal contribuente innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Trieste.

Nel ricorso si lamentava la violazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, nonché la carenza del presupposto impositivo, sia in ordine alla pretesa imputazione della quota integrale di spesa afferente taluni indici, sia per l’errata determinazione delle quote di incremento patrimoniale. Si chiedeva pertanto l’annullamento degli avvisi con condanna dell’Ufficio fiscale alla rifusione delle spese di lite.

Si costituiva l’Ufficio fiscale che aveva ridotto in autotutela la propria pretesa riguardo al bene inesistente, ma che ribadiva l’insufficienza degli elementi e della documentazione atti a supportare quanto affermato dal contribuente. Il coniuge separato non aveva peraltro risposto al questionario e quindi non era stato possibile determinare la quota di utilizzazione dei beni. Chiedeva pertanto il rigetto dei ricorsi e la rifusione delle spese.

La Commissione tributaria provinciale di Trieste riuniva i procedimenti e li accoglieva disponendo la riduzione della pretesa accertativa e compensando le spese, in quanto riconosceva che un bene era nella piena disponibilità del coniuge separato – che ne sosteneva i costi – e che le spese per la residenza principale avrebbero dovuto essere imputate al contribuente solo per il 70% del totale, poiché il restante 30% era riferibile al coniuge convivente.

Avverso detta sentenza veniva proposto tempestivo appello da parte del contribuente, che lamentava la nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione e/o omessa pronuncia, non essendosi i primi giudici espressi sull’eccepita illegittimità degli atti impositivi in relazione alla valorizzazione degli incrementi patrimoniali. Egli rilevava inoltre come il Collegio giudicante non avesse recepito le modifiche apportate dall’art. 22 del D.L. n. 78/2010 – tutte operative a far data dal periodo d’imposta 2009 – e, in particolare, la soppressione della presunzione sulla base della quale le spese per incrementi patrimoniali si assumono sostenute, in quote costanti, con il reddito dell’anno e dei quattro precedenti. In seguito alla sovrapposizione dei due regimi, infatti, un incremento patrimoniale era stato commisurato due volte. Veniva infine rilevato come la Commissione tributaria provinciale di Trieste non avesse neppure argomentato sul fatto che il reddito dichiarato e posto a raffronto di quello sinteticamente determinato fosse stato considerato, per l’anno 2007, nella sua misura convenzionale e non in quella reale ed effettiva, secondo quanto richiesto agli Uffici finanziari anche da una circolare ministeriale.

Il contribuente, pertanto, chiedeva la riforma della decisione di primo grado, con l’annullamento degli atti impositivi e la condanna dell’Ufficio finanziario alla rifusione delle spese per entrambi i gradi di giudizio, nonché la sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, che otteneva.

L’Ufficio finanziario depositava le proprie controdeduzioni all’appello principale avversario respingendo le conclusioni del contribuente riguardo all’applicabilità del D.L. n. 78/2010, causa di potenziale duplicazione dell’accertamento per l’annualità 2009 ma da ritenersi del tutto inesistente o, tutt’al più, oggetto di un futuro ricorso in caso di doppio accertamento. Con riferimento all’omessa valutazione, da parte dei giudici di primo grado, degli errori di calcolo inerenti la corretta determinazione degli incrementi patrimoniali, obiettava che le incongruenze avrebbero fatto riferimento ad elementi di fatto non evidenziati nel ricorso introduttivo, ma soltanto successivamente nell’atto d’appello. L’Ufficio fiscale proponeva, inoltre, appello incidentale per la parte che lo aveva visto soccombente, relativamente cioè alle spese imputabili al ricorrente per il mantenimento della residenza principale, ridotte al 70 per cento, essendo il restante 30 per cento riferibile all’altro coniuge, reputando tale soluzione immotivata e non basata su prova alcuna, posto che quest’ultimo non aveva risposto al questionario inviato, non consentendo di procedere ad una verifica comprensiva dei redditi di tutto il nucleo familiare.

Replicava il contribuente che respingeva quanto sostenuto dall’Ufficio finanziario in tema di inapplicabilità del D.L. n. 78/2010, trattandosi di questione non afferente il futuro, bensì la corretta applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973. Quanto all’introduzione di nuove eccezioni, la difesa del contribuente ribadiva la legittimità delle proprie richieste e della nuova esposizione degli incrementi patrimoniali. Insisteva quindi per l’accoglimento del proprio gravame e per il rigetto di quello presentato incidentalmente dall’Ufficio finanziario.

La Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia ha innanzitutto rilevato l’erronea applicazione del metodo sintetico da parte dell’Ufficio procedente. E ciò non con riferimento alla sua ammissibilità, posto che la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9539/2013 (1) ha riaffermato che la determinazione effettuata con metodo sintetico dispensa l’Amministrazione finanziaria da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, ma in quanto la Corte medesima ha previsto che resti a carico del contribuente – posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori – l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. Nel caso in esame sembra, invece, che l’Ufficio finanziario non abbia in alcun modo tenuto conto della dettagliata descrizione della posizione reddituale effettuata dal ricorrente. Esso, infatti, non ha rispettato i principi sottesi alla circolare 9 agosto 2007, n. 49/E (2), con cui si evidenzia la necessità di valutare l’eventuale sussistenza in capo al contribuente di redditi fiscali c.d. “convenzionali”, in grado di alterare le risultanze dell’accertamento nell’effettiva consistenza, come i dividendi.

Con riguardo ai redditi dell’altro coniuge, l’Ufficio accertatore ha prima ritenuto legittima la richiesta di allargare l’analisi reddituale a tutto il nucleo familiare – facendogli pervenire l’apposito questionario – ma innanzi alla sua inerzia ha proseguito con l’accertamento nei confronti del contribuente, come se la questione non esistesse. Relativamente alla misurazione delle quote per gli incrementi patrimoniali e alla loro determinazione, infine, non ha tenuto conto del fatto che le modifiche apportate all’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 con la novella del 2010 sono entrate in vigore ben prima del settembre 2011, mese in cui gli avvisi contestati venivano notificati e che, su indicazione espressa del legislatore, la nuova disposizione andava applicata a far data dal periodo d’imposta 2009. Non ha, pertanto, considerato la soppressione della presunzione per la quale le spese per incrementi patrimoniali si assumevano sostenute, in quote costanti, con il reddito dell’anno e dei quattro precedenti, effettuando una ricostruzione pesantemente viziata. La difesa del contribuente ha infatti fornito le prove volte ad individuare le fonti dei singoli incrementi che, valutati nell’anno di riferimento – ossia senza il rovesciamento per quota negli anni precedenti – risultano in linea con le spese sostenute. Questa, a dispetto di quanto sostiene l’Ufficio finanziario, non è una richiesta nuova, in violazione della norma di cui all’art. 24 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ma semmai un argomento sulla questione dell’idoneità della prova opposta a comprovare la sussistenza di risorse nell’annualità in grado di giustificare l’incremento patrimoniale. Prova da non cercarsi nella corrispondenza, come sembra sostenere l’Agenzia delle entrate, tra gli investimenti e i disinvestimenti effettuati con le medesime risorse, che diverrebbe una prova diabolica, dovendosi invece limitare a dimostrare all’Ufficio finanziario la fonte che avrebbe reso possibile l’investimento.

Pertanto la Commissione regionale ha accolto l’appello del contribuente con la riforma della sentenza. L’appello incidentale dell’Ufficio finanziario è stato, invece, respinto, in quanto contenente affermazioni e giudizi non condivisibili, in particolare sull’omessa verifica reddituale nei confronti del coniuge del contribuente, al quale sembra quasi che venga addebitata l’inattività della consorte con la mancata compilazione del questionario sottopostole.

3. Esame critico della pronuncia

La Commissione tributaria regionale friulana prende in esame diversi aspetti relativi alle modalità con le quali è stato concretamente utilizzato il metodo di accertamento sintetico e ne fornisce un giudizio critico sommariamente anticipato, peraltro, dall’ordinanza di sospensione della sentenza di primo grado. Su quest’ultimo punto, trattandosi di tematica estremamente complessa e troppo specifica, ci limitiamo ad osservare che, evidentemente, la Commissione tributaria regionale ha accolto, con riguardo alle disposizioni che regolano la tutela cautelare nel processo tributario, l’interpretazione costituzionalmente orientata auspicata dalla Corte Costituzionale (3) sulla cui ammissibilità, soprattutto da un punto di vista formale, si dibatte ancor oggi.

Quanto, invece agli altri profili privilegiati dai giudici friulani, soffermiamo la nostra attenzione su quelli che appaiono maggiormente interessanti.

Primariamente, ci sembra che l’ammonimento iniziale rivolto agli Uffici finanziari con il riferimento ad alcuni recenti risvolti della giurisprudenza di legittimità sia significativo.

La Corte di Cassazione ha, infatti, affermato che l’Ufficio finanziario a fronte di una determinazione del reddito attraverso i fattori-indice della capacità contributiva – certamente ammissibile – è dispensata da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei predetti elementi, «restando a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore» (4). Quest’ultimo, tuttavia, deve poter ribattere a tale contestazione e quanto argomentato in propria difesa deve essere preso in considerazione e riscontrato debitamente.

Nella motivazione della sentenza i giudici friulani contestano all’Ufficio finanziario di non aver correttamente applicato le disposizioni concernenti la misurazione delle quote per gli incrementi patrimoniali e la loro determinazione, con specifico riguardo alla reale portata dell’onere probatorio gravante sul contribuente, tutte contenute nell’art. 38, quarto comma, del D.P.R. n. 600/1973.

Ricordiamo che la predetta norma prevede che l’Ufficio, indipendentemente dalle disposizioni relative all’accertamento analitico, può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base delle spese di qualsiasi genere sostenute nel corso del periodo d’imposta, salva la prova che il relativo finanziamento sia avvenuto con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo d’imposta, o con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o, comunque, legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile.

Tale metodo di accertamento è comunemente definito sintetico puro (5)e, nella sua formulazione ante riforma del 2010, prevedeva che, se l’Ufficio finanziario determinava sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali, la stessa si dovesse presumere sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui era stata effettuata e nei quattro precedenti. Tale presunzione si basava sulla considerazione che le predette spese vengono normalmente effettuate con incrementi di ricchezza stratificati negli anni precedenti all’acquisto.

Con le modifiche apportate all’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 dall’art. 22 del D.L. n. 78/2010 è stata eliminata la previsione riguardante gli incrementi patrimoniali – in quanto si dispone che le spese di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta partecipano per l’intero alla determinazione del reddito presunto dell’anno di effettuazione dell’esborso – e anche la presunzione relativa alla distribuzione degli incrementi patrimoniali a ritroso.

La nuova disciplina, secondo quanto stabilito dal legislatore con il sopra citato art. 22, è peraltro applicabile agli accertamenti relativi ai redditi per i quali non è scaduto, alla data del 31 maggio 2010, il termine per la presentazione della dichiarazione e, quindi, dal periodo d’imposta 2009 in poi.

Secondo autorevole dottrina (6), la scelta del legislatore di derogare al principio di irretroattività della legge tributaria (prevista già in generale dall’art. 11 delle preleggi), in forza della considerazione che le norme in esame sono di carattere procedimentale, non è in linea con i principi costituzionali e dello Statuto dei diritti del contribuente, di cui alla legge 27 luglio 2000, n. 212. Sarebbe, pertanto, stato opportuno fissare l’applicabilità delle norme novellate al periodo d’imposta successivo a quello in cui è entrato in vigore il citato decreto legge, al fine di non violare gli artt. 3, 5 e 10 della legge n. 212/2000 (7).

Nondimeno la discutibile impostazione privilegiata comporta che non siano ammissibili coinvolgimenti dei periodi d’imposta precedenti al 2009 per distribuire gli incrementi patrimoniali giustificanti le spese riferibili a quell’arco temporale.

L’erronea applicazione della norma aveva, peraltro, determinato conseguenze di non poco conto, perché aveva sensibilmente alterato la ricostruzione del reddito del contribuente accertato, a causa della sovrapposizione delle norme vecchie con quelle nuove.

Di conseguenza, al di là del volere condividere o meno le critiche alla scelta del legislatore, non v’è dubbio sul fatto che una retroattività fissata in una norma di legge deve essere rispettata.

Un altro aspetto sul quale i giudici friulani si soffermano è quello relativo all’arroccarsi dell’Ufficio fiscale nella propria convinzione di non considerare prova idonea ad assolvere l’onere individuato dal quarto comma dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 a carico del contribuente la sola indicazione specifica delle fonti dei singoli incrementi giustificanti le sue disponibilità e di pretendere la dimostrazione della corrispondenza specifica tra gli incrementi patrimoniali e le spese sostenute.

Si tratta di una problematica di non poco conto, posto che su di essa si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6813/2009 (8).

In tale pronuncia i Supremi Giudici hanno sostenuto che sia necessaria, oltre alla dimostrazione della sussistenza di redditi esenti o soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, a copertura delle spese sostenute dal contribuente rilevanti ai fini dell’accertamento sintetico, anche la prova che tali spese per incrementi patrimoniali siano state effettivamente sostenute con tali redditi.

Ciò ha spinto condivisibile dottrina (9) ad affermare che la Suprema Corte avrebbe ipotizzato un onere ulteriore, e non espressamente previsto dalla norma, a carico del contribuente il quale, peraltro, sarebbe tenuto a mantenere in ordine la propria contabilità, anche qualora non facesse parte della pletora degli obbligati ad adempimenti contabili. Condizione questa non accettabile, alla luce del dettato dell’art. 38 citato.

Più di recente, peraltro, a seguito di un intervento della giurisprudenza di merito (10) di tenore differente rispetto alla testé delineata interpretazione della Corte di Cassazione, il medesimo punto di vista è stato riproposto e arricchito di contenuti altrettanto rilevanti (11) nell’affermare che, quella effettuata dalla Corte di Cassazione, è stata una forzatura interpretativa frutto di un’interpretazione estensiva non giustificabile.

Non possiamo, pertanto, non convenire con la posizione maggiormente garantista e aderente alla lettera della normativa vigente espressa dall’autorevole dottrina citata e affermare che l’Ufficio finanziario non può pretendere dal contribuente una dimostrazione talmente complessa da potere incidere negativamente sulla propria sfera giuridico-patrimoniale.

Nondimeno, nella circolare 31 luglio 2013, n. 24/E (12), avendo riguardo proprio alle spese per incrementi patrimoniali, l’Amministrazione finanziaria ribadisce che il contribuente, in sede di contraddittorio, potrà fornire la prova relativa:

a) alla formazione della provvista, che potrebbe anche essersi realizzata nel corso di un periodo diverso rispetto ai quattro anni indicati dalla legge;

b) all’utilizzo della provvista per l’effettuazione dello specifico investimento.

Questo potrà diventa dovrà per l’Ufficio finanziario nel momento in cui la mancata presentazione della prova relativa con le caratteristiche sopra individuate può comportare l’emissione di un atto impositivo nei confronti del contribuente.

Ad avviso di chi scrive, rendere al contribuente l’onere della prova una probatio diabolica appare assolutamente inaccettabile con riferimento agli accertamenti basati sul redditometro in quanto legati ad uno strumento che si basa su valutazioni standardizzate (13), ma non può essere considerato accettabile nemmeno con riguardo alle spese per incrementi patrimoniali, soprattutto nei confronti di contribuenti che non sono tenuti a conservare la documentazione delle proprie operazioni e quando appare verosimile che vi sia il coinvolgimento di soggetti terzi (genitori, altri familiari e quant’altro).

A quest’ultima condizione si lega l’ultimo aspetto critico sul quale vogliamo soffermarci: il non aver tenuto in giusto conto la situazione relativa al nucleo familiare, dopo averne considerato la rilevanza, a causa dell’inerzia del coniuge del contribuente – che non ha risposto al questionario inviato in tal senso – proseguendo l’accertamento nei confronti di quest’ultimo.

La Commissione tributaria adita rileva che non si è considerato l’apporto del coniuge che conviveva con il contribuente all’epoca dei fatti e che la mancata risposta al questionario da parte del coniuge non consente all’Ufficio finanziario di proseguire l’accertamento contro il contribuente, ignorando la circostanza che alcuni beni fossero nell’effettiva disponibilità dell’altro coniuge.

È circostanza frequentissima, soprattutto in periodi di crisi, che il contribuente accertato, pur avendo la titolarità del bene, non abbia la disponibilità dello stesso e non ne sopporti i relativi oneri, coinvolgendo così nella propria sfera patrimoniale il nucleo familiare di appartenenza.

Proprio per questo motivo è consentito al contribuente dimostrare l’inesistenza del reddito accertato, evidenziando il contributo finanziario proveniente, in questo caso, dal coniuge o dagli altri componenti del nucleo familiare.

Egli ha dunque correttamente agito facendo presente che si configurava una situazione siffatta e ha invitato l’Ufficio finanziario a richiedere al proprio coniuge separato di compilare il questionario dal quale si potesse evincere la realtà dei fatti.

Il coniuge, da parte sua – e ne ignoriamo i motivi – non ha risposto al questionario.

I giudici affermano, pertanto, che il fatto che il coniuge separato non abbia compilato il questionario non può andare a danno del contribuente accertato, al quale si contesta di non avere offerto un quadro esaustivo, in quanto tale compito spetterebbe all’Amministrazione finanziaria.

La pronuncia, pertanto, ci appare in linea con il recente orientamento di merito in cui si cerca di ridimensionare la posizione del contribuente che non può essere sistematicamente vessato dall’Amministrazione finanziaria, oltre i limiti derivanti da una corretta interpretazione delle norme, in ragione dell’onere probatorio posto a suo carico dal legislatore.

Il fatto che le sentenze sul tema siano così numerose non può che rafforzare la criticità della disciplina sull’accertamento sintetico che andrebbe opportunamente rimeditata, viste le obiettive difficoltà applicative. E ciò vale, anche, per gli strumenti che l’Amministrazione finanziaria ha delineato per rendere le rettifiche più aderenti alla realtà effettiva, in ossequio al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.

Avv. Patrizia Accordino

Università degli Studi di Messina

(1) Cfr. Cass., sez. trib., 19 aprile 2013, n. 9539, in Boll. Trib. On-line.

(2) In Boll. Trib., 2007, 1294.

(3) Cfr. Corte Cost. 17 giugno 2010, n. 217, in Boll. Trib., 2010, 1150, con nota di Azzoni, Un passo avanti verso la completa tutela del contribuente anche in fase cautelare; e anche in Riv. dir. trib., 2011, II, 47, con nota di Accordino, La Corte costituzionale apre uno spiraglio per un révirement sulla sospensione cautelare, in secondo grado, nel processo tributario. Si tratta, in particolare, dell’interpretazione da attribuire all’art. 49 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’art. 337 c.p.c. I giudici costituzionali hanno, infatti, affermato che il contenuto normativo del predetto articolo è costituito da una regola e da un’eccezione, e che l’inapplicabilità al processo tributario della regola non comporta necessariamente l’inapplicabilità delle relative eccezioni.

(4) Si richiama espressamente Cass. n. 9539/2013, cit.

(5) Cfr. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, Torino, 2011, 216 ss.; Falsitta, Corso istituzionale di diritto tributario, Padova, 2012, 254 ss.; Fantozzi, Il diritto tributario, Torino, 2003, 426 ss.; e Lupi, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 188 ss.

(6) Cfr. Marongiu, I profili costituzionali del nuovo accertamento sintetico e redditometrico, in Corr. trib., 2013, 351 ss.

(7) In tema di efficacia temporale delle norme tributarie, informazione del contribuente e tutela della buona fede di quest’ultimo.

(8) Cfr. Cass., sez. trib., 20 marzo 2009, n. 6813, in Boll. Trib. On-line.

(9) Cfr. Muleo, Limitazioni probatorie nella difesa del contribuente dall’accertamento sintetico, in Corr. trib., 2009, 1588 ss.

(10) Ci riferiamo a Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. I, 9 ottobre 2012, n. 272, in Boll. Trib. On-line.

(11) Cfr. Beghin, Accertamento sintetico, dimostrazione del nesso eziologico e «probatio diabolica», in Corr. trib., 2013, 875 ss.

(12) In Boll. Trib., 2013, 1191.

(13) Cfr. Beghin, op. cit., 875 ss.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Redditometro – Determinazione del reddito presunto mediante i fattori-indice di capacità contributiva – Sufficienza – Prova contraria – È a carico del contribuente – Obbligo dell’Ufficio di considerare le argomentazioni del contribuente e la situazione del suo nucleo familiare – Sussiste.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – Spese per incrementi patrimoniali – Sono imputabili al solo anno di effettuazione.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento sintetico – spese per incrementi patrimoniali – Onere di provare la fonte dell’incremento patrimoniale da parte del contribuente – Sufficienza – Onere di dimostrare la corrispondenza tra investimento e disinvestimento con le medesime risorse – Non sussiste.

Ai fini dell’accertamento sintetico del reddito complessivo netto del contribuente di cui all’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, l’Amministrazione finanziaria può fondare le risultanze della rettifica sui fattori-indice della capacità contributiva provenienti dai parametri e calcoli statistici qualificati previsti dai relativi decreti ministeriali, restando a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore, ma ciò nondimeno l’Ufficio finanziario deve consentire al contribuente di ribattere e deve prendere in considerazione quanto eventualmente argomentato da quest’ultimo, e deve tenere altresì conto sia della sussistenza, in capo al contribuente, di redditi fiscali in grado di alterare le risultanze dell’accertamento nell’effettiva consistenza e sia della situazione relativa al suo nucleo familiare.

Ai fini dell’accertamento sintetico del reddito complessivo netto del contribuente, a decorrere dal periodo d’imposta 2009 deve essere applicato l’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, modificato dall’art. 22 del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), con la conseguenza che le spese di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta partecipano per intero alla determinazione del reddito presunto dell’anno di effettuazione dell’esborso, senza possibilità di ripartire gli incrementi patrimoniali negli anni precedenti, a differenza di quanto previsto nella precedente formulazione della norma.

In sede di accertamento sintetico del reddito complessivo netto ex art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è onere del contribuente specificare e chiarire all’Ufficio finanziario procedente le fonti dei singoli incrementi che abbiano reso possibile l’investimento elevato a sospetto senza che vi sia la necessità di dimostrare la specifica corrispondenza tra l’investimento e il disinvestimento con le medesime risorse, considerato che altrimenti si finirebbe con il pretendere una prova diabolica.

 [Commissione trib. regionale del Friuli-Venezia Giulia, sez. X (Pres. Tito, rel. Friso), 10 luglio 2013, sent. n. 50, ric. G.V. c. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con separati ricorsi alla Commissione Tributaria provinciale di Trieste G.V. impugnava tre avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 per le annualità 2005, 2006 e 2007: imposta Irpef.

Gli avvisi avevano fatto seguito all’invio di questionari al contribuente, con cui gli si chiedeva di fornire tutta la disponibilità documentale connessa agli indicatori di reddito di cui ai D.M. del 1992. Il G. forniva tutta la documentazione richiesta, precisando come, in conformità alle disposizioni di legge, i beni si sarebbero dovuti considerare nella disponibilità di colui che li utilizzava, sopportandone le spese, indipendentemente dalla proprietà degli stessi poiché nei periodi in questione l’effettivo utilizzatore sarebbe stato il coniuge, all’epoca convivente, ma poi separato.

L’Ufficio, ignorando la posizione dell’altro coniuge, rettificava per tutte le annualità in discussione il reddito, fondando la presunzione attraverso la disponibilità di alcune polizze assicurative, di tre autovetture e di due residenze (una principale ed una secondaria) nel comune di Duino Aurisina. Considerava infine le spese per incrementi patrimoniali che, in applicazione del disposto del comma 5 dell’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 venivano imputate per quinti agli esercizi di sostenimento e nei quattro precedenti.

Venivano pertanto rettificati i redditi dichiarati e liquidata la maggiore imposta, con interessi e sanzioni.

Il contribuente presentava istanza di accertamento con adesione, invitando l’Ufficio ad acquisire il previsto questionario anche dal coniuge separato. Dimostrava altresì l’inesistenza di un bene utilizzato, in particolare di un’automobile.

L’istanza dava però esito negativo, pur se l’Ufficio aveva inviato il formulario al coniuge separato, non ricevendone però risposta. Venivano pertanto emessi gli avvisi di accertamento.

Nel ricorso si lamentava la violazione, sotto diversi profili, dell’art. 38 cit., nonché la carenza del presupposto impositivo, sia in ordine alla pretesa imputazione della quota integrale di spesa afferente taluni indici, sia l’errata determinazione delle quote di incremento patrimoniale. Chiedeva pertanto il loro annullamento con condanna dell’Ufficio alla rifusione delle spese di lite.

Si costituiva l’Ufficio che informava di aver ridotto in autotutela la propria pretesa con riguardo ad un automezzo, di cui riconosceva che non sarebbe stata né di proprietà né in disponibilità del ricorrente. Quanto alle restanti obiezioni, ribadiva invece come non sarebbero stati portati elementi e documentazione atti a supportare quanto affermato. Il coniuge separato non aveva comunque mai risposto al questionario, per cui l’Ufficio non avrebbe potuto determinare la quota di utilizzazione dei beni.

Chiedeva pertanto che i ricorsi venissero respinti e le spese rifuse.

Con sentenza del 3 luglio 2012 la Commissione tributaria provinciale di Trieste, previa riunione dei procedimenti, li accoglieva disponendo la riduzione della pretesa accertativa secondo quanto esposto nella parte motiva, compensando le spese. Cioè i primi giudici ritenevano che un’autovettura di marca BMW sarebbe stata nella piena disponibilità del coniuge separato, che ne sosteneva le spese. Altra vettura, una Opel Corsa, non sarebbe stata né nella disponibilità né tantomeno di proprietà del ricorrente, mentre le spese per la residenza principale in Duino Aurisina avrebbero dovuto essere imputate al G. solo nella misura del 70% del totale, essendo il restante 30% riferibile al coniuge convivente.

Avverso detta sentenza veniva proposto tempestivo appello da parte del contribuente che lamentava la nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione, non essendosi i primi giudici espressi sulla eccepita illegittimità degli atti impositivi in relazione alla valorizzazione degli incrementi patrimoniali, non dandone riscontro alcuno né nella parte espositiva né tantomeno i quella motiva. Rilevava poi come il Collegio non avesse recepito le modifiche apportate dall’art. 22 del D.L. n. 78 del 2010, tutte operative a far data dal periodo d’imposta 2009, tra le quali segnalava in particolare la soppressione della presunzione sulla base della quale le spese per incrementi patrimoniali si assumono sostenute, in quote costanti con il reddito dell’anno e dei quattro precedenti, sì che con il nuovo redditometro le spese di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta partecipano per l’intero alla determinazione del reddito presunto dell’anno di effettuazione dell’esborso, con l’evidente conseguenza che, nella sovrapposizione dei due regimi, un incremento patrimoniale potrebbe venir commisurato due volte. Quanto sostanzialmente verificatosi attraverso la c.d. spalmatura dell’incremento patrimoniale del 2009, attraverso l’imputazione di un quinto in tutte le tre annualità oggetto dell’attuale verifica. Circostanza assolutamente non presa in considerazione dai primi giudici, in tal modo ingenerando una spirale all’indietro irragionevole. Inoltre si sarebbero limitati a decidere sul merito solo relativamente ad una riduzione parziale della pretesa impositiva basata sulle quote degli indici di redditività attribuibili al coniuge, omettendo di pronunciarsi sugli incrementi patrimoniali.

Sugli incrementi patrimoniali venivano riproposti, poiché presenti anche negli atti di primo grado, i calcoli afferenti gli anni in questione, palesemente errati su aspetti e cifre già esposti ma sostanzialmente ignorati dai primi giudici.

Veniva infine rilevato come la CTP non avesse neppure argomentato sul fatto che il reddito dichiarato e posto a raffronto di quello sinteticamente determinato fosse stato considerato, per l’anno 2007, nella sua misura convenzionale e non reale ed effettiva, quanto cioè richiesto agli Uffici da una circolare ministeriale che aveva invitato, nel 2007, a verificare in capo alla persona fisica solo la sua effettiva capacità reddituale, intesa quale flusso finanziario idoneo e congruo a giustificare un eventuale maggior reddito sintetico.

Il contribuente avanzava altresì istanza di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata, chiedendo quindi la riforma della decisione di primo grado con l’annullamento degli atti impositivi e la condanna dell’Ufficio alla rifusione delle spese per entrambi i gradi di giudizio.

Con ordinanza del 10 aprile 2013 la CTR sospendeva l’esecuzione della sentenza di primo grado.

L’Ufficio depositava quindi le proprie controdeduzioni all’appello principale. In primis respingeva le conclusioni del contribuente con riguardo all’applicabilità del D.L. n. 78 del 2010 che potrebbe causare la duplicazione dell’accertamento per l’annualità 2009: circostanza respinta in quanto che ritenuta inesistente od al più oggetto di un futuro ricorso in caso di doppio accertamento.

Con riferimento poi alla omessa valutazione da parte di giudici di primo grado degli errori di calcolo inerenti la corretta determinazione degli incrementi patrimoniali, l’Ufficio faceva rilevare come le incongruenze avrebbero fatto riferimento ad elementi di fatto, in particolare movimentazioni bancarie, non evidenziate nel ricorso introduttivo, ma soltanto successivamente e nell’atto d’appello. Per tale ragione i giudici della CTP non li avrebbero considerati stante anche il divieto di cui all’art. 24 del D.Lgs. n. 546 del 1992. Andava pertanto confermata sul punto la decisione di primo grado. L’Ufficio proponeva altresì appello incidentale per la parte che lo aveva visto soccombente. E cioè per la riduzione delle spese imputabili al ricorrente per sostenere la residenza principale, ridotte al 70%, essendo il restante 30% riferibile alla moglie. Soluzione non condivisa dall’Ufficio poiché immotivata e non basata su prova alcuna, posto che il coniuge del ricorrente non aveva risposto al questionario inviatole, impedendo con ciò all’Ufficio di procedere ad una verifica tenendo conto dei redditi di tutto il nucleo familiare. Corretto sarebbe stato pertanto l’agire dell’Ufficio che, in riforma della sentenza di primo grado, chiedeva ai giudici d’appello di voler accertare, con la riforma appunto della sentenza di primo grado.

Replicava il contribuente che respingeva quanto sostenuto dall’Ufficio in tema di inapplicabilità del D.L. n. 78 del 2010, trattandosi di questione non afferente il futuro, bensì la corretta applicazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973. Quanto poi all’introduzione di nuove eccezioni, la difesa del contribuente ribadiva la legittimità delle richieste e della nuova esposizione degli incrementi patrimoniali. Insisteva quindi per l’accoglimento del proprio gravame ed il rigetto di quello presentato incidentalmente dall’Ufficio.

MOTIVI DELLA DECISIONE – L’appello del contribuente contiene valide critiche alla sentenza di primo grado, critiche che inducono questo Collegio – per i motivi in seguito descritti – ad accoglierlo con la riforma del provvedimento impugnato.

Va da principio e preliminarmente esaminata la legittimità dell’utilizzo del metodo accertativo sintetico da parte dell’Ufficio, che sotto vari aspetti non sembra essere stato rispettoso delle disposizioni che lo regolamentano. Proprio recentemente, la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9539 del 19 aprile 2013 (1) ha riaffermato il principio secondo il quale “In tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, dispensa l’amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, giacché codesti restano individuati nei decreti medesimi. Ne consegue che è legittimo l’accertamento fondato sui predetti fattori-indice, provenienti da parametri e calcoli statistici qualificati, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore”. Ciò significa che è legittima la determinazione del reddito attraverso i fattori-indice della capacità contributiva, l’Ufficio deve però porre il contribuente nelle condizioni di ribattere ed in particolare dovrà tener conto di quanto gli verrà comunicato, obbligandolo nel contempo a rispondere alle osservazioni presentate. Nel caso qui in esame sembra invece che, a fronte di una dettagliata e ampia descrizione della posizione reddituale effettuata dal ricorrente, l’Ufficio non ne abbia in alcun modo tenuto conto, trincerandosi sulle proprie posizioni. Prima di proseguire nella analisi delle singole osservazioni, vanno ancora aggiunte alcune osservazioni sul corretto utilizzo del metodo accertativo. Come evidenziato dall’appellante l’Ufficio non ha rispettato le disposizioni di cui alla circolare 9.8.2007 n. 49 (2) dell’Agenzia delle Entrate, con cui lo si invitava a valutare l’eventuale sussistenza in capo al contribuente di redditi fiscali c.d. “convenzionali”, in grado cioè di alterare le risultanze dell’accertamento nella effettiva consistenza: era il caso, veniva segnalato, dei dividendi.

Non può poi essere ignorata la grossa ombra relativa ai redditi del coniuge poi separato. Non è plausibile che l’Ufficio dapprima ritenga legittima la richiesta di allargare l’analisi reddituale a tutto il nucleo familiare, facendo così pervenire anche alla moglie l’apposito questionario, ed una volta appurato che l’interessata non ha mai provveduto a rispondere, proseguire con l’accertamento nei confronti del G. come se la questione non esistesse. Il risultato risulterà senz’altro viziato.

Dove però le ragioni del ricorrente emergono nella loro pienezza è nella misurazione delle quote per gli incrementi patrimoniali e nella loro determinazione, anche se va prima affrontato il problema sollevato dal contribuente in ordine all’applicabilità – al caso in esame – delle modifiche apportate all’art. 38 del D.P.R. n. 600 del 1973 dall’art. 22 del D.L. n. 78 del 2010, poi regolarmente convertito in legge. Norma quest’ultima entrata in vigore il 31.5.2010, quindi ben prima del settembre 2011 quando gli avvisi dei quali qui si verte venivano notificati. Doveva quindi trovare accoglimento, con gli ovvi effetti a far data dal periodo d’imposta 2009, perché veniva soppressa la presunzione sulla base della quale le spese per incrementi patrimoniali si assumono sostenute, in quote costanti, con il reddito dell’anno e dei quattro precedenti, in modo che le spese di qualsiasi genere sostenute nel periodo d’imposta partecipano per l’intero alla determinazione del reddito presunto dell’anno dell’effettuazione dell’esborso. È una modifica che avendo effetti a caduta sui quattro anni precedenti, ben va ad incidere pesantemente sulla ricostruzione effettuata dall’Ufficio.

Tutto quanto finora esposto sempre con riguardo al metodo ed alle modalità utilizzate dall’Ufficio per procedere sinteticamente. Se ora si cominciano ad analizzare le singole cifre, non possono non emergere le discrepanze e gli errori commessi.

Da una interessante tabella di riepilogo predisposta dalla difesa del G. si possono individuare e leggere le fonti dei singoli incrementi che se letti e valutati nell’anno di riferimento, senza quindi il rovesciamento per quota negli anni precedenti, risultano in linea con le spese sostenute. Non è poi una richiesta nuova, come sostiene l’Ufficio, in violazione della norma di cui all’art. 24 del D.Lgs. n. 546 del 1992, semmai un argomento sulla questione della idoneità della prova opposta a comprovare la sussistenza di risorse nell’annualità in grado di giustificare l’incremento patrimoniale.

Prova – si badi bene – da non cercarsi nella corrispondenza, come sembra sostenere l’Ufficio, tra investimenti e disinvestimenti effettuati con le medesime risorse, che diverrebbe una richiesta diabolica, dovendosi invece limitare a dimostrare all’Ufficio la fonte che avrebbe reso possibile l’investimento. Se ora gli estratti conto della banca, i movimenti patrimoniali effettuati nel periodo con la S.r.l. Gramar come pure le spese patrimoniali si leggono in questa ottica, la ricostruzione offerta dal contribuente diventa logica e condivisibile, non essendo frutto di un esasperato ricorso a tabelle e modelli statistici, troppo spesso non aderenti ad una realtà con la quale deve confrontarsi e non scontrarsi.

Va pertanto accolto l’appello del contribuente con la riforma della sentenza impugnata in accoglimento di tutte le sue richieste.

L’appello incidentale dell’Ufficio – ex adverso – va respinto, contenendo affermazioni e giudizi non condivisibili, in particolare sull’omessa verifica reddituale nei confronti del coniuge del G., al quale sembra quasi che venga addebitata l’inattività del soggetto con la mancata redazione del questionario sottopostole. Non si tratta quindi di opporre ragioni alla pretese dell’Ufficio, secondo il quale il ricorrente avrebbe dovuto offrire un quadro esaustivo della situazione patrimoniale del coniuge, sostituendosi in tal modo ai compiti propri dell’Amministrazione stessa. Ecco perché tale richiesta deve essere respinta con la condanna dell’Ufficio alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 800,00 oltre Iva, Cassa Previdenza ed il Contributo Unificato.

P.Q.M. – Ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa, definitivamente pronunciando la X Sezione della Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia in riforma della decisione di primo grado, accoglie il ricorso introduttivo ed annulla gli avvisi di accertamento. Condanna l’Ufficio alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 800,00 oltre Iva, Cassa Previdenza ed il Contributo Unificato.

 (1) In Boll. Trib. On-line.

(2) In Boll. Trib., 2007, 1294.