SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Il fatto – 3. L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria – 4. La risposta della Corte di Giustizia europea – 5. La giurisprudenza della Corte di Cassazione – 6. Conclusioni.
1. Premessa
La Corte di Giustizia europea, con la sentenza 6 dicembre 2012, causa C-285/11 (1), proseguendo su un lungo filone giurisprudenziale che ha coinvolto tanto i giudici comunitari quanto quelli nazionali, fa il punto in merito alla posizione rivestita da un soggetto IVA che si trova in una catena di scambio all’interno della quale, a monte o a valle, sono state commesse delle irregolarità.
In particolare, nel suddetto pronunciamento, i Giudici della Corte, chiamati a decidere su una serie di questioni pregiudiziali, hanno affrontato la questione inerente al riparto dell’onere della prova.
È noto che i particolari meccanismi di funzionamento dell’IVA possono, fra l’altro, consentire l’evasione del tributo in un determinato punto della catena di scambio. Le problematiche connesse ai sistemi frodatori generati per tale tipo di tributo sono stati più volte oggetto dell’attenzione degli organi comunitari preposti. Infatti nel Regolamento (CEE) n. 218/1992 del Consiglio del 27 gennaio 1992, al terzo considerando, viene richiamato il pericolo del verificarsi di frodi con i conseguenti effetti distorsivi della concorrenza (2).
Le frodi in materia di IVA, tra cui si ricorda quella detta anche “carosello” (3), producono due tipi di danno di cui il primo è diretto e immediatamente percepibile mentre il secondo è soltanto riflesso. Il primo è chiaramente quello riconducibile al mancato incasso del tributo; il secondo invece genera quell’effetto, per l’appunto di natura riflessa, in base al quale chi si avvantaggia “a valle” della frode prodotta da tale sistema gode del vantaggio di potere inevitabilmente immettere sul mercato gli stessi beni a prezzi più bassi con ciò falsando il gioco della concorrenza per di più in un mercato caratterizzato da uno spazio doganale unico.
Un elemento fondamentale della frode può essere costituito da quei particolari acquisti che non sono soggetti ad imposta o perché sono acquisti intracomunitari o perché sono acquisti extra-UE di merci che sono importate utilizzando il sistema del deposito fiscale (ex art. 50-bis del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), o ancora perché l’acquirente è un “esportatore abituale” (acquisti in regime di “non imponibilità” ex art. 8, comma 1, lett. c), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633) (4).
[-protetto-]
2. Il fatto
La fattispecie oggetto del citato pronunciamento causa C-285/11 riguardava una società bulgara nei confronti della quale, a seguito di un controllo fiscale, venivano rilevate delle anomalie inerenti tanto a forniture della materia prima quanto a rimanenze di merci in magazzino. In particolare, i verificatori prendevano in considerazione una cessione intra-comunitaria a favore di una società rumena. In merito a questa operazione i verificatori, dopo aver riscontrato che i quantitativi di merce indicati nelle fatture emesse risultavano in base alla contabilità della verificata usciti dal magazzino e che gli stessi non erano presenti al momento della realizzazione di detta verifica, ritenevano che tali quantitativi fossero stati oggetto di cessioni imponibili nel territorio nazionale (5). Infine le operazioni di verifica proseguivano con il controllo della fornitura di detta merce effettuata nei confronti della verificata. i verificatori infatti, dopo aver analizzato la fornitura di grano nei due precedenti passaggi commerciali, avevano modo di riscontrare l’assenza a monte dei quantitativi successivamente ceduti a valle con l’operazione intra-comunitaria.—
A seguito di tale controllo veniva negato alla società verificata il diritto di detrarre, sotto forma di credito d’imposta, l’IVA relativa alle cessioni di grano effettuate dai suoi fornitori (6).
Il giudice remittente nella trattazione della vicenda:
a) afferma che le autorità tributarie bulgare non contestano il fatto che la società verificata abbia effettuato successive cessioni di merci analoghe per tipologia e quantitativi, né tantomeno affermano che detta società abbia acquistato tali merci presso fornitori diversi da quelli risultanti in contabilità;
b) effettua una prima analisi mediante la quale conferma l’esistenza di prove idonee a dimostrare l’effettiva realizzazione delle cessioni dirette e, prosegue, affermando che la mancata prova delle cessioni a monte non può portare a concludere che tali cessioni dirette non siano state effettuate;
c) entra nel merito della questione rilevando che all’interno della normativa nazionale bulgara non è stabilito che il diritto a detrarre l’IVA, sotto forma di credito d’imposta, sia subordinato alla prova dell’origine della merce. Ed infatti la questione generatrice del rinvio ha origine, secondo il giudice remittente, nel fatto che tanto i documenti di prassi dell’amministrazione tributaria bulgara quanto un certo indirizzo giurisprudenziale formatosi sul punto richiedono una prova dell’effettività delle cessioni a monte ai fini del riconoscimento del diritto alla detrazione da parte del soggetto passivo.
Fatte queste premesse, il rinvio alla Corte di Giustizia è finalizzato a far chiarezza sul fatto che le disposizioni della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, e i principi di proporzionalità, della parità di trattamento e della certezza del diritto, debbano essere interpretati di modo che non venga impedito a un soggetto passivo, in circostanze come quelle di cui al procedimento principale, il diritto di detrarre l’IVA relativa a una cessione di beni con la motivazione che, alla luce di elementi riguardanti operazioni effettuate a monte di tale cessione, quest’ultima deve considerarsi non effettivamente avvenuta.
Secondo quanto è stato affermato dalle Direttive (IV Direttiva 77/388/CEE del 17 maggio 1977, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alle imposte sulla cifra di affari, e Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune di IVA) l’IVA è un’imposta generale sul consumo di beni e servizi che, attraverso i meccanismi della rivalsa e della detrazione, ha lo scopo di effettuare un prelievo definitivo sul consumatore finale. Di conseguenza il presupposto di tale tributo consiste nel tassare il consumo e, nel rendere neutrale per i soggetti passivi dell’imposta, il prelievo durante la filiera della produzione e della distribuzione.Sul punto la Corte di Giustizia europea, in un suo precedente pronunciamento, con l’intento di definire le situazioni giuridiche soggettive cui danno vita le due situazioni, ha affermato che mentre la rivalsa nelle operazioni attive è materia di un obbligo per il cedente (o prestatore), la detrazione, invece, costituisce un diritto – non assoluto, né incondizionato – del soggetto di imposta, finalizzato a sgravare totalmente l’imprenditore dall’onere dell’IVA pagata nell’effettuazione delle operazioni passive concernenti l’esercizio dell’impresa o dell’attività professionale autonoma, così da assicurare la totale neutralità dell’imposta in parola (7).
Detto ciò, è noto che le operazioni commerciali presupposto dell’IVA sono provate prima facie a seconda dei casi, attraverso l’emissione e la contabilizzazione di un documento chiamato fattura.
Sul valore probatorio di tale documento la Suprema Corte di Cassazione (8) ha effettuato un distinguo tra l’ambito civilistico e quello tributario.
Secondo detto pronunciamento, il valore probatorio della fattura dal punto di vista civilistico, va ricercato nel dettato dell’art. 2709 c.c. considerato che tale documento è a formazione unilaterale e ha la funzione di documentare i requisiti relativi all’esecuzione del contratto. Infatti a tale documento deve essere riconosciuta la natura giuridica di atto a contenuto partecipativo visto che è formato dalla dichiarazione destinata all’altra parte contrattuale di fatti inerenti un rapporto in essere.
Di conseguenza, nel caso in cui dovesse sorgere una controversia fra l’emittente e il cessionario dei beni in essa documentati, tale documento, sebbene annotato nei libri obbligatori, non può assurgere a prova a favore di colui che l’abbia emessa. Ciò detto, precisa la Suprema Corte, è fatta salva la diversa efficacia probatoria, anche a favore del soggetto emittente, che a tale documento può essere riconosciuta ai sensi dell’art. 2710 c.c.
Rispetto all’ambito civilistico, quello tributario presenta profonde differenze. Dalla lettura dell’art. 21 del D.P.R. n. 633/1972, risulta che, in materia di IVA, alla fattura viene riconosciuta l’idoneità a rappresentare un costo dell’impresa, comprensivo dell’imposta applicata in parola sul prezzo di acquisto dei beni. Ed è proprio in tali limiti che tale documento può costituire una prova a favore dell’imprenditore o del professionista nei rapporti con il fisco.
3. L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria
La giurisprudenza della Corte di Giustizia europea si è a più riprese occupata di questo tipo di problematica con varie sentenze che, attraverso vari stadi, sono giunte alla formulazione dei principi oggetto delle presenti riflessioni.
Il problema è particolarmente avvertito dagli organi comunitari se si prende in considerazione il fatto che l’IVA è un’imposta armonizzata il cui gettito contribuisce a finanziare il funzionamento degli organismi comunitari. Nel giudicare in materia di frodi IVA la Corte UE è chiamata ad effettuare un bilanciamento di interessi tra la tutela del gettito fiscale da una parte e la tutela della buona fede e dell’affidamento del contribuente dall’altra.
La Corte di Giustizia europea, come si diceva in precedenza, si è a più riprese occupata del problema attraverso numerosi pronunciamenti.
La necessità di contemperare i due orientamenti citati può essere valutata alla luce delle seguenti sentenze.
Nella sentenza Genius Holding Bv (9)la Corte è stata chiamata a giudicare un caso in cui un contribuente aveva detratto l’IVA indicata in una fattura relativa ad una prestazione non soggetta a tale tributo. In casi come questo il contribuente sosteneva che la disposizione dell’art. 17, n. 2, lett. a), della VI Direttiva, dovesse essere interpretata nel senso di consentire la detrazione di ogni imposta indicata nella fattura.
Per sostenere tale posizione la ricorrente ha fatto riferimento alla lettera dell’art. 21, n. 1, lett. c), della VI Direttiva, dove si afferma che l’IVA è dovuta da chiunque indichi l’imposta stessa in una fattura o in un altro documento che ne fa le veci, anche nel caso in cui essa non sia dovuta per legge. Infatti, prosegue la ricorrente, l’esclusione del diritto di detrazione, in casi come questi, implicherebbe la tassazione di un’attività in contrasto col principio della neutralità dell’IVA. Si legge inoltre al punto 11 che «detta interpretazione porterebbe ad imporre agli operatori economici l’obbligo di accertare se l’IVA fatturata sia dovuta per legge, il che richiede l’esame della classificazione tariffaria scelta e la conoscenza delle esenzioni concesse. Essa striderebbe pertanto col buon svolgimento dei rapporti commerciali».
La Corte UE nella sentenza causa C-285/11 del 2012, citata, sebbene l’importo dell’IVA fosse indicato in fattura, ha negato il relativo diritto di detrarla in quanto quella determinata prestazione non era soggetta all’imposta.
Per questi motivi conclude la sua decisione affermando, al punto 17 della motivazione, che «Questa interpretazione dell’art. 17, n. 2, lett. a), è quella che meglio consente di prevenire le frodi fiscali che sarebbero agevolate qualora ogni imposta fatturata potesse essere detratta». Con tale ultimo inciso la Corte comunitaria, in via prudenziale, tutela le ragioni del fisco e obbliga gli operatori commerciali a prestare la massima attenzione in ordine al diritto a detrarre l’IVA. Probabilmente alla base di questa decisione c’è la consapevolezza da parte dei giudici comunitari che i soggetti titolari di partita IVA conoscano o debbano conoscere, in virtù di una certa ripetitività nell’effettuare gli acquisti inerenti l’attività commerciale, l’assoggettabilità o meno delle singole operazioni al tributo ed il loro relativo ammontare.
Questo orientamento era stato peraltro già assunto dalla sentenza Schmeink & Cofret (10).
È solo in un secondo momento che la valutazione inerente la spettanza del diritto a detrarre non viene più limitata alla valutazione del solo fatto oggettivo in sé ma viene estesa all’analisi dell’elemento soggettivo.
Nella sentenza “Optigen” (11), la Corte di Giustizia infatti ha dato rilievo all’elemento della buona fede di un soggetto inconsapevolmente coinvolto in una frode IVA. Di conseguenza, riconosciuta la buona fede del soggetto coinvolto, gli è stato riconosciuto il relativo diritto a detrarre l’imposta sugli acquisti.
In particolare si legge, nella parte finale della motivazione, il fatto che il soggetto passivo non conoscesse e non avesse avuto la possibilità di conoscere dell’esistenza di un’altra operazione fraudolenta appartenente alla stessa catena, precedente o successiva all’operazione realizzata dal detto soggetto passivo, non pregiudica il relativo diritto a detrarre quando lo stesso non sapeva o non poteva sapere. Inizia con questa pronuncia a farsi strada un criterio che, tutelando il gettito erariale, prende in considerazione anche i requisiti dell’affidamento e della buona fede.
Nella successiva sentenza “Axel Kittel” (12),la Corte UE probabilmente è andata oltre rispetto a quanto specificato nel precedente pronunciamento. Infatti si legge, al punto 51, che non è possibile negare il diritto a detrarre agli operatori che abbiano adottato “tutte le misure” che possono essere, nel rispetto della ragionevolezza, richieste allo scopo di dimostrare che le operazioni poste in essere non facciano parte di una frode. Di conseguenza sarà compito del giudice nazionale vagliare la solidità delle misure adottate e, una volta effettuata questa analisi, sarà possibile riconoscere la detrazione considerato il fatto che gli operatori devono avere la possibilità di poter fare affidamento sulla liceità delle operazioni effettuate senza che ciò possa causare il rischio di perdere il proprio diritto alla deduzione dell’IVA pagata a monte.
4. La risposta della Corte di Giustizia europea
La Corte di Giustizia, con il decisum che ha suggerito le presenti notedi cui qui si discute, ha affrontato la questione posta alla sua attenzione affermando che il diritto a detrarre l’imposta è subordinato alla verifica del requisito della effettività tanto della cessione a monte quanto alla sua utilizzazione da parte della società sottoposta a verifica fiscale per le proprie operazioni soggette ad imposta. La valutazione di tale elemento spetta al giudice nazionale (13). Ha sostenuto inoltre che, nel caso portato alla sua attenzione, le autorità tributarie bulgare non hanno affermato che gli acquisti della verificata siano stati effettuati presso fornitori differenti da quelli rilevati in contabilità e che vi sono prove altresì capaci di dimostrare che sono state realizzate cessioni dirette.
Una volta valutati i presupposti fattuali e, dopo aver riscontrato dai documenti inviati che l’operazione risulta effettiva, deve essere riconosciuto il relativo diritto alla detrazione.
I punti fondamentali del percorso logico argomentativo mediante il quale la Corte decide sono quelli in cui viene individuato il soggetto cui spetta l’onere della prova.
Infatti al punto 43 della sentenza causa C-285/11 viene affermato che «dato che il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, spetta all’amministrazione tributaria dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione omessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di cessioni».
Con tale passaggio motivazionale la Corte europea afferma a chiare lettere la spettanza di tale onere a carico delle autorità di controllo.
Le ragioni poste a fondamento di tale decisum probabilmente sono enunciate in quel passaggio della motivazione (punto 42) in cui viene affermato che «l’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’erario». Con tale ultima espressione si fa riferimento a quel tipo di addebito che viene mosso indipendentemente dal fatto che «tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa)» (14)
Tuttavia, dopo aver negato l’operatività di un sistema di responsabilità oggettiva, la Corte UE prosegue nell’indagine relativa all’elemento soggettivo dell’operatore al quale è stato disconosciuto il diritto a detrarre l’imposta. Secondo la Corte è possibile negare il diritto di cui si discute nel solo caso in cui gli organi di controllo dimostrino che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, stava prendendo parte ad un’operazione facente parte di un’evasione dell’IVA. Nel caso in cui gli organi di controllo dimostrino tale circostanza il contribuente dovrà essere considerato, ai fini della Direttiva 2006/112, soggetto partecipante a tale evasione, senza che venga presa in considerazione la circostanza che egli abbia tratto o meno beneficio dalla successiva rivendita dei beni o dalla utilizzazione dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate in vendita.
Di conseguenza, secondo la Corte è possibile disconoscere il diritto alla detrazione nel solo caso in cui gli organi di controllo preposti dimostrino, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto passivo, al quale sono stati ceduti o forniti i beni o i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni (punto 40).
Nel sancire che l’onere della prova sia a carico delle autorità di controllo, in un preciso passaggio contenuto al punto 32 della motivazione, la Corte comunitaria coglie l’occasione per precisare che la valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto relativi a casi come quello sottoposto al suo esame, spetta al giudice nazionale il quale condurrà la relativa analisi «conformemente alle norme nazionali sull’onere della prova», così da poter stabilire se il singolo contribuente possa esercitare il relativo diritto a detrazione.
In questo passaggio la Corte europea permette ai singoli ordinamenti di ritrovare il proprio ambito di operatività così da poter avallare quella posizione della Corte di Cassazione secondo la quale la prova idonea a dimostrare la partecipazione diretta o colposa del contribuente può essere fornita anche mediante l’uso della prova presuntiva.
5. La giurisprudenza della Corte di Cassazione
Per quanto riguarda la giurisprudenza nazionale, la Corte di Cassazione, attraverso i suoi pronunciamenti, ha prodotto sulla questione inerente il riparto dell’onere della prova due orientamenti tra di loro contrastanti.
Il primo orientamento è quello ispirato a criteri di maggiore rigore. Tra questi pronunciamenti si ricorda quello con il quale la Corte di Cassazione (15) ha affermato l’irrilevanza, ai fini del rapporto tributario, dell’elemento soggettivo inerente la conoscenza della circostanza relativa alla illegalità o illiceità degli accordi esistenti tra le società variamente interessate alle vendite. Infatti, secondo questo pronunciamento, l’infrazione fiscale si configura in base al solo fatto oggettivo costituito dalla condotta che il contribuente, mediante un comportamento doloso o colposo, abbia generato il rischio per l’Amministrazione finanziaria di non conseguire il pagamento dell’imposta effettivamente dovuta.
Di conseguenza, anche nel caso in cui il contribuente avesse dimostrato tanto la propria buona fede quanto l’assenza di partecipazione agli accordi fraudolenti, sarebbe stato comunque responsabile e non avrebbe potuto detrarre l’IVA relativa alle operazioni illecite.
Questo orientamento, in particolar modo, pone l’accento su una responsabilità di tipo oggettivo fondata, quindi, sulla valutazione esclusiva del solo fatto illecito indipendentemente dalla valutazione di qualsiasi componente di natura soggettiva.
Escludendo la responsabilità oggettiva, la Corte di Cassazione (16) ha affrontato la tematica inerente la misura della prova che il contribuente deve fornire per dimostrare la propria buona fede.
In particolare è stato affermato che in tema di frodi IVA il diritto alla detrazione dell’imposta versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente-prestatore che ha emesso la fattura, non sorge in modo automatico. Non basta solo l’avvenuta corresponsione dell’imposta indicata in fattura ma è necessario, al fine di dimostrare l’effettiva inerenza dell’operazione all’attività d’impresa, che il committente-cessionario che invoca la detrazione fornisca, sul proprio stato soggettivo in ordine alla altrui fatturazione riscontri precisi, non limitati alla prova dell’avvenuta consegna della merce, del pagamento della stessa e dell’IVA riportata sulla fattura emessa dal terzo.
Secondo quanto statuito dalla Corte di Cassazione, tali circostanze non sono decisive per quanto riguarda il thema probandum, rispetto alle particolari caratteristiche del funzionamento dell’IVA e dei potenziali abusi connessi. Di conseguenza, secondo questo primo orientamento, non basterà come prova mostrare una contabilità regolare ma occorrerà fornire ulteriori elementi.
Con il secondo orientamento consolidatosi negli ultimi mesi, la Corte ha avuto modo di affermare che in materia di onere della prova nelle fattispecie IVA, di cui qui si discute, nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria dovesse riscontrare l’apparente regolarità contabile delle fatture e volesse contestare il coinvolgimento di un contribuente nella frode, dovrà dimostrare tanto gli elementi di fatto della frode attinenti il cedente (che possono consistere nell’inesistenza di una struttura autonoma operativa, nel mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento), quanto la partecipazione nella frode del cessionario. Tale ultima prova non deve essere resa esclusivamente con prova certa ed inconfutabile ma, al contrario, può essere fornita mediante lo strumento della presunzione relativa, a patto che quest’ultima possegga i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza.
Il potere di utilizzazione dello strumento presuntivo è fra l’altro riconosciuto per l’IVA, dall’art. 54, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 [analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nell’art. 39, comma 1, lett. d), del TUIR]. I requisiti della gravità, della precisione e della concordanza si manifestano nell’esposizione di elementi obiettivi capaci di obbligare l’imprenditore mediamente esperto a prestare attenzione all’inesistenza sostanziale del contraente. Nel caso in cui l’Ufficio fornisca una prova dotata di queste caratteristiche graverà sul contribuente l’onere di dimostrare il fatto contrario (17).
Inoltre la Corte di Cassazione, nel cercare un trait d’union con la giurisprudenza comunitaria, ha sempre negato che la prova per presunzioni fornita dall’Ufficio fiscale possa essere in contrasto con le decisioni dei giudici europei della Corte di Lussemburgo.
Infatti i giudici europei richiedono che la prova in capo al cessionario della consapevolezza dell’inesistenza dell’operazione e dell’evasione a monte della stessa debba risultare da “elementi oggettivi”. Questo tipo di approccio potrebbe lasciare spazio ad una valutazione tale per cui la prova per presunzioni si tradurrebbe in un ragionamento frutto di una valutazione logica così da apparire impregnato di valutazioni meramente soggettive che, di conseguenza, sarebbero prive della stessa consistenza obiettiva che connota le altre prove precostituite o costituende.
Tuttavia proprio la stessa Suprema Corte accetta e valorizza appieno la prova indiziaria o presuntiva, quando stabilisce che la sussistenza di “indizi”, tali per cui è possibile sospettare dell’esistenza di irregolarità o di evasioni nella sfera dell’emittente delle fatture, deve spingere l’operatore avveduto ad entrare in possesso di informazioni sul soggetto dal quale intenda acquistare beni o servizi.
Di conseguenza nel caso in cui dovesse essere dimostrato, anche in via presuntiva, che il cessionario non abbia tenuto un comportamento finalizzato ad escludere simili pericoli, a questo stesso dovrà essere negato il diritto a detrarre la relativa imposta (18).
Per quanto riguarda invece la prova presuntiva, dalla lettura degli artt. 2697 e 2729 c.c. è possibile riscontrare che la prova per presunzioni è inclusa nel novero delle prove utilizzabili in giudizio, incluse all’interno del titolo II del libro VI del codice civile, ed il suo regime giuridico è del tutto assimilato a quello della prova testimoniale (art. 2729 c.c.). Di conseguenza, la caratteristica di prova piena ed oggettiva attribuibile alle presunzioni appare, secondo un certo orientamento della Corte di Cassazione, difficilmente contestabile (19).
Attraverso questo orientamento inoltre la Suprema Corte ha avuto modo di affermare la completezza della prova per presunzione che il giudice di merito può legittimamente utilizzare, anche in maniera esclusiva, nell’esercizio del suo potere discrezionale. Nell’esercizio di tale discrezionalità sarà il giudice a selezionare le fonti di prova e a verificarne l’attendibilità per valutare, tra gli elementi probatori acquisiti, quelli che risultano maggiormente idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione (20).
Di conseguenza, affermano i Supremi Giudici, è possibile che la decisione presa dal giudice territoriale sulla verità di un fatto sia fondata su una presunzione in contrasto con le altre prove acquisite. Questo può accadere quando la prova presuntiva viene giudicata di una precisione e gravità tali da porre in secondo piano gli elementi di giudizio ad esso contrari purché lo stesso giudice dia una giustificazione adeguata e logicamente non contraddittoria del convincimento maturato. Questa attività si concretizzerà inizialmente nella valutazione dei singoli elementi di modo da poterne valutare la relativa efficacia probatoria. Successivamente, una volta effettuata tale valutazione, il giudice vaglierà gli elementi presi in considerazione nella loro complessità così da poter vagliare la solidità della prova presuntiva.
Questo tipo di procedimento valutativo, secondo i giudici della Cassazione (21), se raggiunge un certo grado di certezza attraverso un attento uso degli elementi presuntivi unitariamente considerati, “in nulla si differenzia” dal convincimento maturato dall’organo giudicante all’esito dell’assunzione di mezzi di prova differenti.
Quindi il procedimento di valutazione finalizzato a disconoscere al cessionario, eventualmente, il diritto a detrarre l’IVA sugli acquisti sarà articolato in due fasi ed in particolar modo:
a) con la prima sarà vagliata sia l’eventuale inesistenza di una struttura autonoma operativa, sia l’eventuale mancato pagamento dell’IVA come modalità preordinata al conseguimento di un utile nel meccanismo fraudolento;
b) con la seconda l’Ufficio fiscale dovrà dimostrare la partecipazione del cessionario verificato nella frode e per dimostrare ciò potrà utilizzare presunzioni semplici, a patto che queste ultime posseggano i requisiti previsti dall’art. 2727 c.c. Nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria dovesse conseguire una simile prova, secondo i giudici di legittimità, si avrà un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente che dovrà dimostrare il fatto contrario (22) e, in mancanza di tale ultima dimostrazione, il contribuente ai sensi dell’art. 17 della Direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE e dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 vedrà disconoscersi la relativa detrazione.
6. Conclusioni
La sentenza della Corte di Giustizia causa C-285/11 da cui abbiamo preso le mosse rappresenta un elemento di continuità rispetto alla precedente produzione giurisprudenziale europea. Inoltre la Corte di Cassazione, abbandonando il primo orientamento fondato sulla natura oggettiva della responsabilità, ha aperto ad un’analisi dell’elemento soggettivo tale per cui spetterà agli organi di controllo provare la frode. Tale prova, secondo la Suprema Corte, potrà essere fornita mediante l’utilizzo dello strumento presuntivo previsto in via generale dall’art. 2727 c.c. e, in via speciale, dall’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972. Una volta effettuata questa operazione, l’onere della prova si sposterà in capo al contribuente che dovrà a sua volta dimostrare la propria buona fede.
La valutazione ultima sulla solidità delle presunzioni utilizzate spetterà al giudice che, chiamato a giudicare sulla fondatezza di un eventuale avviso di accertamento, dovrà fare il punto bilanciando l’interesse collettivo alla tutela del gettito con quello individuale incentrato sulla certezza del diritto e, quindi, sulla tutela del legittimo affidamento e della buona fede.
Solo valutando tali elementi è possibile comprendere l’attenzione degli organi pubblici a fenomeni evasivi capaci di presentarsi sempre sotto nuove forme e dinamiche diverse.
Dott. Michele Rossi
(1) In questo stesso fascicolo a pag. 1687.
(2) E. Marello, Frodi carosello e buona fede del soggetto passivo, in Giur. it., 2011, 1214. L’Autore afferma che: «Già il terzo considerando del Regolamento (CEE) n. 218/1992 individuava l’emergenza del fenomeno: “È necessario che il regime transitorio in materia di imposta sul valore aggiunto … possa venire instaurato effettivamente senza rischi di frodi che potrebbero determinare distorsioni di concorrenza”».
(3) È noto come lo schema della “frode carosello” segua tre passaggi: nel primo passaggio la società acquirente coincidente nella maggior parte dei casi con l’effettivo operatore nazionale, acquista la merce dal fornitore comunitario ed inoltre adempie al pagamento ed a tutti gli atti consequenziali. Tuttavia la fattura d’acquisto viene emessa nei confronti del soggetto interposto anche detto missing trader. La merce entrata nel territorio nazionale viene immessa sul mercato a prezzi inferiori rispetto ai concorrenti del settore. Nel secondo passaggio il soggetto interposto emette una regolare fattura di vendita con il relativo addebito dell’IVA nei confronti della società acquirente molto spesso regista dell’operazione. Infine nell’ultimo passaggio il missing trader, non versando l’IVA né tantomeno le imposte dirette, ha la capacità di vendere applicando prezzi inferiori rispetto agli altri concorrenti. Di conseguenza tale soggetto ha la capacità vendere sottocosto con i connessi effetti distorsivi della concorrenza.
(4) F. Tesauro, Appunti sulle frodi carosello, in Giur. it., 2011, 1213.
(5) Per la “presunzione di cessione” all’interno del panorama normativo italiano si veda l’art. 1 del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441.
(6) Per maggiore comodità e immediatezza di riscontro si trascrive qui di seguito un passo della citata sentenza della Corte UE causa C-285/11, punti 10-16: «La Bonik è una società che è stata oggetto di una verifica fiscale relativa ai mesi di febbraio e marzo 2009. A seguito di tale verifica, le autorità tributarie bulgare hanno rilevato che non vi erano prove dell’esecuzione delle cessioni intracomunitarie di grano e di girasoli effettuate, stando alle dichiarazioni della Bonik, in favore della società di diritto rumeno Agrisco SRL, e che, considerato il fatto che i quantitativi di grano e di girasoli indicati sulle fatture emesse dalla Bonik risultavano, secondo la contabilità di tale società, usciti dal magazzino della medesima e non erano presenti al momento della realizzazione di detta verifica, tali quantitativi erano stati oggetto di cessioni imponibili nel territorio bulgaro. Peraltro, le suddette autorità tributarie hanno proceduto a verifiche relative ad acquisti di grano che la Bonik aveva dichiarato di aver compiuto presso la Favorit stroy Varna EOOD (in prosieguo: la «Favorit stroy») e l’Agro treyd BG Varna EOOD (in prosieguo: l’«Agro treyd») e per i quali l’IVA era stata detratta. La Bonik era in possesso delle fatture corrispondenti a tali acquisti emesse dalla Favorit stroy nonché dall’Agro treyd. Tuttavia, per assicurarsi che detti acquisti fossero effettivamente avvenuti, le autorità tributarie bulgare hanno compiuto ulteriori verifiche presso i fornitori della Bonik, vale a dire la Favorit stroy e l’Agro treyd, nonché presso i fornitori di queste ultime, ossia la Lyusi treyd EOOD, l’Eksim plyus EOOD e la Riva agro stil EOOD. Poiché tali verifiche non hanno consentito di dimostrare che la Lyusi treyd EOOD, l’Eksim plyus EOOD e la Riva agro stil EOOD avevano realmente ceduto merci alla Favorit stroy e all’Agro treyd, le autorità tributarie bulgare ne hanno dedotto che queste ultime società non disponevano dei quantitativi di merci necessari per effettuare le cessioni destinate alla Bonik e hanno concluso che non vi erano state effettive cessioni tra le suddette società e la Bonik. Pertanto, le suddette autorità tributarie, con avviso di accertamento in rettifica del 10 marzo 2010, hanno negato alla Bonik il diritto di detrarre, sotto forma di credito d’imposta, l’iva relativa alle cessioni di grano effettuate dai suoi fornitori, la Favorit stroy e l’Agro treyd».
(7) Corte Giust. UE 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax, in Boll. Trib. On-line.
(8) Cass., sez. trib., 14 dicembre 2012, n. 23075, in Boll. Trib. On-line.
(9) Corte Giust. CEE 13 dicembre 1989, causa C-342/87, Genius Holding BV, in Boll. Trib. On-line; cfr. M. Sutich, La rilevanza della buona fede nelle frodi carosello, in Dir. prat. trib., 2012, 303.
(10) Corte Giust. CEE 19 settembre 2000, causa C-454/98, in Boll. Trib. On-line.
(11) Corte Giust. CE 12 gennaio 2006, causa C-354/03, in Boll. Trib. On-line.
(12) Corte Giust. UE 6 luglio 2006, causa C 439/04, in Boll. Trib. On-line.
(13) Corte Giust. UE 6 settembre 2012, causa C 273/11, Mecsek-Gabona, in Boll. Trib. On-line.
(14) Corte Cost. 13 dicembre 1988, n. 1085, in Giur. it., 1989, I, 1, 1620.
(15) Cass., sez. trib., 5 giugno 2003, n. 8959, in Boll. Trib. On-line.
(16) Cass., sez. trib., 14 dicembre 2012, n. 23075, in Boll. Trib. On-line.
(17) Cass., sez. trib., 12 maggio 2011, n. 10414, in Boll. Trib. On-line.
(18) Corte Giust. UE 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében kft, in Boll. Trib., 2013, 1370.
(19) Cass., sez. trib., 14 dicembre 2012, n. 23075, in Boll. Trib. On-line.
(20) Cass., sez. III, 4 marzo 2005, n. 4743, in Mass. Foro it., 2005, 579; e Cass., sez. trib., 6 giugno 2012, n. 9108, in Boll. Trib. On-line.
(21) Cass. n. 23075/2012, cit.
(22) Cass. n. 10414/2011, cit.; e Cass., sez. trib., 23 febbraio 2010, n. 4306, in Boll. Trib. On-line.