19 Novembre, 2019

Il giudizio di ottemperanza in materia tributaria, disciplinato dall’art. 70 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è stato rivisitato in profondità dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 (Misure per la revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario, in attuazione della legge-delega 11 marzo 2014, n. 23), con efficacia, per la parte di odierno interesse, a far tempo dal 1° giugno 2016. Degli aspetti procedurali di nuovo conio si è detto nel commento a un’altra decisione resa in sede di ottemperanza dalla stessa Commissione tributaria regionale lombarda (1), mentre ora tocca dare conto dei contenuti, della finalità istituzionale di questa tipologia di provvedimenti.
La caratteristica più spiccata della sentenza (collegiale o monocratica) (2) che riscontra la domanda di ottemperanza avanzata dal privato (nel quale intuitivamente si identifica “la parte che vi ha interesse” di cui all’art. 70, primo comma, del citato D.Lgs. n. 546/1992) (3) è, come in tutte le altre branche del nostro rito processuale, di dare esecuzione a una precedente sentenza (4), anche non definitiva (5), rimasta inattuata o che si ritenga – come nel presente caso – solo parzialmente attuata. Intento apprezzabile, certo, e doveroso in uno Stato di diritto; che però nasce monco, in quanto anche qui, così come in tutti gli altri settori processuali del nostro ordinamento, il giudice preposto deve «attenersi agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione» (art. 70, settimo comma, primo periodo, in fine).
Ivi appunto, nel cosiddetto effetto conformativo (6), sta il limite dell’istituto: la fase dell’ottemperanza è di mera esecuzione e il giudice non può azzardarsi a varcare i paletti fissati dalla sentenza di riferimento (7). Come coerentemente sottolinea il Giudice Unico nella decisione in commento, quando ricorda che gli è negata «alcuna attività ermeneutica che integri, ampliandolo, il contenuto del comando contenuto nel giudicato»; ciò in perfetta sintonia con «la funzione tipica ed essenziale del giudizio di ottemperanza … di adeguare la realtà giuridica e materiale ad un preciso giudicato» (8).
Con tali premesse, e accantonando profili importanti ma qui indifferenti (9), occorre concordare con la risposta data dal giudice dell’ottemperanza nella specifica fattispecie. Infatti la decisione del giudizio di cognizione, allorché si è trattato di liquidare gli oneri processuali a carico dell’Amministrazione finanziaria soccombente, ha parlato di una somma x “onnicomprensiva”, quindi quello era il credito rivendicabile dal contribuente, implicitamente comprensivo di tutti gli accessori ipotizzabili (e consueti) quali imposte, interessi, svalutazione (quando la vicenda ricorreva), contributi alla Cassa professionale (10). Mettervi mano e aggiungervi alcunché più tardi, ad opera del giudice dell’ottemperanza, sarebbe stato un errore perché non solo avrebbe alterato la chiara volontà (giusta o sbagliata che sia) del primo giudice (11) ma avrebbe anche rappresentato un inammissibile salto di corsia verso carreggiate di percorrenza altrui (pacifica invece la deroga alla ferreità della regola nell’eventualità di ius novum, e più in generale delle cosiddette “sopravvenienze” che, con portata generale, possono insorgere medio tempore, cioè nell’intervallo fra la conclusione del processo di cognizione e l’instaurazione del processo di ottemperanza) (12). Del resto, alla dinamica non si configura estranea la stessa volontà della parte insoddisfatta, con l’acquiescenza prestata di fatto alla decisione: che bene avrebbe potuto contestare invece di lasciarla passare in giudicato (13).
Un parallelo quanto mai calzante è con il giudizio contabile, con riguardo al quale è stata stabilita, in capo al giudice amministrativo dell’ottemperanza, la preclusione ad emettere una pronuncia integrativa della sentenza della Corte dei Conti in tema di trattamenti pensionistici attribuendo anche il diritto a rivalutazione monetaria e interessi sui relativi crediti (14).
In calce, un breve approfondimento di quel «criterio della ragione più liquida» – nozione che si vuole di diretta derivazione costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.) – di cui parla la sentenza massimata richiamando due elaborati precedenti (15).
Locuzione relativamente recente ma già entrata nell’uso, a significare l’anteponibilità della soluzione della vertenza in base a motivi radicati nel merito, ove suscettibili di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una o più questioni pregiudiziali e con assorbimento di queste ultime. In altre parole: la risposta del giudice al nocciolo sostanziale (tecnicamente: l’evidenza dirimente) ha la meglio sulla stretta coerenza sequenziale logico-argomentativa, una sorta di ribaltamento operativo, per mano del giudice stesso, dell’agenda stilata dai litiganti in linea con l’ordine delle questioni da esaminare tracciato dall’art. 276 c.p.c.
Strada che il diritto vivente (e non solo, come appena visto) ha imboccato con fermezza, ma tutt’altro che immune da critiche legate al rischio di verdetti superficiali.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. I, 27 giugno 2017, n. 2850, in Boll. Trib., 2017, 1212, con nota di V. AZZONI, Il nuovo giudizio di ottemperanza: quando una sentenza diventa un prezioso decalogo per gli operatori.
(2) La scelta del giudice, della sua composizione, del rito e del provvedimento da utilizzare per mettere la parola fine al giudizio di ottemperanza non dipende dalle ubbie dei giudicanti, posto che, in via generale, è il Collegio che «sentite le parti in contraddittorio ed acquisita la documentazione necessaria, adotta con sentenza i provvedimenti indispensabili per l’ottemperanza in luogo dell’ufficio che li ha omessi e nelle forme amministrative per essi prescritti dalla legge» (art. 70, settimo comma, primo periodo, incipit), salvo poi, una volta che le istruzioni impartite siano state eseguite (dal giudice delegato o dal commissario ad acta nominato ad hoc), dichiarare «chiuso il procedimento con ordinanza» (art. 70, ottavo comma). Per i casi di (almeno nominale) minore entità, ad incaricarsi della procedura e della sentenza è invece un giudice unico nominato dal Presidente di Sezione. Come si legge al successivo comma 10-bis: «Per il pagamento di somme dell’importo fino a ventimila euro e comunque per il pagamento delle spese di giudizio, il ricorso [per ottemperanza] è deciso dalla Commissione in composizione monocratica».
(3) Nell’occasione la domanda lamentava «il parziale pagamento del dovuto» e invocava l’«emanazione dei più opportuni e ritenuti pagamenti».
(4) Anche in campo amministrativo è stato sancito che «la funzione tipica ed essenziale del giudizio di ottemperanza è quella di adeguare la realtà giuridica e materiale ad un ben preciso giudicato» (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 26 luglio 2001, n. 6, in Foro amm., 2001, 1894).
(5) Cfr. art. 69 del D.Lgs. n. 546/1992.
(6) Il vincolo conformativo accomuna il giudice dell’esecuzione all’Amministrazione soccombente, perché per entrambi è esclusa la mera replica dell’atto giudiziariamente cassato mentre si rendono obbligatori (si noti: non opportuni, bensì obbligatori) tutti i provvedimenti che ripristinino la legalità violata (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5154, in Boll. Trib. On-line).
(7) Sulla funzione di “attuazione” (e non di mera “esecuzione”) della decisione da adempiere insistono i sostenitori della “formazione progressiva del giudicato”, precipuamente intesa ad «assicurare compiutamente la realizzazione sostanziale del bene della vita perseguito con il giudizio» (Cons. Stato, sez. IV, 27 gennaio 2015, n. 362, in Riv. giur. edilizia, 2015, I, 38).
(8) Aggiungendo però un’annotazione che forse tradisce le sue stesse aspettative di fondo: a suo dire, trattasi di «giudizio prevalentemente di esecuzione». Ora, se un’attività è solo prevalentemente di esecuzione, va da sé che qualche margine di manovra, qualche spazio innovativo le è rimesso.
(9) La sentenza della Corte Cost. 12 dicembre 1998, n. 406, in Boll. Trib. On-line, ha sottolineato, riscuotendo totale adesione sia in dottrina che in giurisprudenza, che il giudizio di ottemperanza è qualificabile come “rimedio complementare” (cioè concorrente, persino cumulativo e contestuale, beninteso con il limite e il tetto del conseguimento complessivo del diritto: cfr. Cons. Stato, sez. VI, 29 gennaio 2002, n. 480, in Foro amm. Cons. Stato, 2002, 188) rispetto alla tradizionale procedura espropriativa del rito civile, rimessa al giudice ordinario e vincolata all’ottenimento di un titolo esecutivo per l’esercizio di un diritto certo, liquido ed esigibile. Con un corollario non secondario (benché non spendibile, di fatto, nella circostanza): che, in sede di interpretazione del precetto contenuto nella sentenza da eseguire, il giudice dell’ottemperanza dispone di un certo potere, atteso che comunque, in un nuovo giudizio di cognizione, ne verrebbe investito egli stesso; viceversa, non detiene nessun potere di integrazione ove la sentenza ottemperanda discenda da un giudice appartenente a un diverso ordine giurisdizionale.
(10) Altro sarebbe stato se il giudice della cognizione avesse liquidato gli oneri di lite quantificandoli in un certo importo di euro senza specificare trattarsi di somma onnicomprensiva. In quel caso c’è da ritenere che le spese accessorie sarebbero seguite ope legis.
(11) Va da sé che sfugge al diktat la liquidazione delle spese processuali della fase di ottemperanza, compito preciso del giudice di essa. Eloquente il tenore dell’art. 112 (Disposizioni generali sul giudizio di ottemperanza) del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, recante il nuovo codice del processo amministrativo, che contempla l’adizione («anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza») della «azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza» (terzo comma).
(12) Rilevante il magistero di Cons. Stato, ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, in Foro amm., 2016, 1470. Dapprima, i Supremi Giudici amministrativi hanno affermato la regola generale per cui «l’esecuzione del giudicato amministrativo (sebbene [rectius: quand’anche] quest’ultimo abbia un contenuto poliforme), non può essere il luogo per tornare a mettere ripetutamente in discussione la situazione oggetto del ricorso introduttivo di primo grado, su cui il giudicato [ma, come s’è detto, non solo il giudicato] ha, per definizione, conclusivamente deciso; se così fosse, il processo, considerato nella sua sostanziale globalità, rischierebbe di non avere mai termine, e questa conclusione sarebbe in radicale contrasto con il diritto alla ragionevole durata del giudizio, all’effettività della tutela giurisdizionale, alla stabilità e certezza dei rapporti giuridici (valori tutelati a livello costituzionale e dalle fonti sovranazionali alle quali il nostro Paese è vincolato)». Si sono concentrati poi sull’incidenza delle sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia, alle quali va conferita «la stessa efficacia vincolante delle disposizioni interpretate: la decisione della Corte resa in sede di rinvio pregiudiziale, dunque, oltre a vincolare il giudice che ha sollevato la questione, spiega i propri effetti anche rispetto a qualsiasi altro caso che debba essere deciso in applicazione della medesima disposizione di diritto (in tal senso è costante la giurisprudenza comunitaria: cfr. Corte di giustizia 3 febbraio 1977, causa C-52/76, Benedetti contro Munari F.lli sas, in Racc., 1977, 163, e 5 marzo 1986, causa 69/85, Wünsche Handelgesellschaft Gmbh& Co. contro Repubblica Federale di Germania, in Racc., 1986, 947)». Ne hanno concluso che «la sentenza interpretativa pregiudiziale della Corte di Giustizia è equiparabile ad una sopravvenienza normativa, la quale, incidendo su un procedimento ancora in corso di svolgimento e su un tratto di interesse non coperto dal giudicato, ha determinato non un conflitto ma una successione cronologica di regole che disciplinano la medesima situazione giuridica». Ciò perché «l’interpretazione, da parte del giudice amministrativo, di una norma di diritto interno in termini contrastanti con il diritto dell’Unione europea, secondo quanto risultante da una pronunzia della Corte di Giustizia successivamente intervenuta, dà luogo alla violazione di un “limite esterno” della giurisdizione, rientrando in uno di quei “casi estremi” in cui il giudice adotta una decisione anomala o abnorme, omettendo l’esercizio del potere giurisdizionale per errores in iudicando o in procedendo che danno luogo al superamento del limite esterno (in questi termini, cfr. Cass., S.U., ordinanza 8 aprile 2016, n. 6891, che richiama in motivazione gli analoghi princìpi precedentemente espressi da Cass., S.U., 6 febbraio 2015, n. 2403)». In questi “casi estremi” si impone l’emenda della sentenza di cognizione come momento «indispensabile per impedire che il provvedimento giudiziario, una volta divenuto definitivo ed efficace, esplichi i suoi effetti in contrasto con il diritto comunitario, con grave nocumento per l’ordinamento europeo e nazionale e con palese violazione del principio secondo cui l’attività di tutti gli organi dello Stato deve conformarsi alla normativa comunitaria».
(13) Tramite impugnazione ovvero ricorrendo, qualora la discrasia fosse dipesa da uno sbaglio involontario, alla procedura di correzione degli errori materiali (artt. 287 ss. c.p.c.).
(14) Cfr. Cons. Stato, ad. plen., 17 gennaio 1997, n. 1, in Riv. amm., 1997, 243. Citazione significativa allorché si pensi alla latitudine della funzione di ottemperanza affidata al giudice amministrativo, con connessi poteri che assicurano una ben più rapida soddisfazione del diritto inevaso rispetto all’ordinaria procedura esecutiva innanzi al giudice civile (benché circoscritti, siffatti poteri, alle sentenze del giudice ordinario passate in giudicato: cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 dicembre 2015, n. 5645, in Boll. Trib. On-line; e Corte Cost. 8 febbraio 2006, n. 44, in Giur. cost., 2006, 348).
(15) Cfr. Cass., sez. un., 8 maggio 2014, n. 9936, in Mass. Foro it., 2014, 334, e Cass., sez. VI, 28 maggio 2014, n. 12002, ibidem, 409; cui merita di essere aggiunta – anche per gli spunti che colgono angolature problematiche – Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, in Boll. Trib., 2008, 1853, con nota di A. CUONZO – F. MONTECCHIANI, Onlus e Corte di Cassazione. Riconosciuta l’operatività commerciale, ove si può leggere che «Il principio della ragionevole durata del processo diventa l’asse portante della nuova lettura dell’art. 37 c.p.c. In altri termini, il principio di ragionevole durata del processo, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro di costituzionalità con riguardo a quelle norme processuali le quali – rispetto al fine primario del processo, che consiste nella realizzazione del “diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita oggetto della loro contesa” (v. Corte Costituzionale 12 marzo 2007, n. 77) – prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all’altro, formalità superflue non giustificate da garanzie difensive né da esigenze repressive o di altro genere. È vero che il principio della ragionevole durata “deve essere contemperato con le esigenze di tutela di altri diritti e interessi costituzionalmente garantiti rilevanti nel processo … la cui attuazione positiva, ove sia frutto di scelte assistite … da valide giustificazioni, non è sindacabile sul terreno costituzionale” (in tal senso, Corte Costituzionale 11 dicembre 2001, n. 399), ed è anche vero che le disposizioni processuali concernenti l’individuazione del giudice competente sono volte ad assicurare il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale, ma pur sempre a condizione di non sacrificare il diritto della parte ad una valida decisione di merito in tempi ragionevoli (in tal senso Corte Costituzionale n. 77/2007, cit.)». Resta però aperto il fronte del difetto di giurisdizione. Lato che la richiamata sentenza ha colto nei seguenti termini: «Nel bilanciamento tra i valori costituzionali della precostituzione per legge del giudice naturale (artt. 25 e 103 Cost.) e della ragionevole durata del processo, si deve tenere conto che una piena ed efficace realizzazione del primo ben può (e deve) ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del giudice adito possa emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio. L’art. 37, primo comma, c.p.c., nell’interpretazione tradizionale basata sulla sola lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.), in quanto comporta la regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito. In definitiva, la norma il cui tenore letterale sembra consentire che un vizio procedurale immediatamente rilevabile possa essere fatto valere per saltum soltanto dopo che il processo abbia esaurito i gradi di merito, con l’effetto di riportare a zero tutta l’attività svolta, non può essere ascritta tra quelle che assicurano la ragionevole durata del processo e, quindi, va interpretata utilizzando i riferimenti sistematici e costituzionali che consentano di contenerne la portata nei limiti dei parametri di ragionevolezza utilizzati dal legislatore per istituti analoghi». Cfr. anche Cass., sez. III, 16 maggio 2006, n. 11356, in Boll. Trib. On-line; Cass. n. 24883/2008, cit.; Cass. n. 12002/2014, cit.; e Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, in Giur. it., 2015, 70.

Procedimento – Giudizio di ottemperanza – Attuazione della condanna alle spese di lite indicate in sentenza – Potere del giudice dell’ottemperanza di svolgere attività ermeneutica e di aggiungere gli accessori di legge alla somma liquidata in sentenza – Esclusione.

Procedimento – Giudizio di ottemperanza – Funzione prevalentemente esecutiva di adeguare la realtà giuridica e materiale ad un preciso giudicato – Integrazione o modificazione del contenuto della sentenza da parte del giudice dell’ottemperanza – Inammissibilità.

Il giudice dell’ottemperanza in materia tributaria non può svolgere alcuna attività ermeneutica che integri, ampliandolo, il contenuto del comando insito nel giudicato, ma deve attuare l’assetto di interessi determinato con la pronuncia di cui si chiede l’esecuzione, individuandolo attenendosi “agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione” a norma dell’art. 70, settimo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di talché, in assenza di specifica indicazione nel dispositivo o nella motivazione della sentenza da eseguire circa gli accessori di legge, quali l’IVA ed i contributi previdenziali del difensore, costituisce funzione preclusa al giudice dell’ottemperanza stabilire se essi debbano o meno essere corrisposti, atteso che tale giudice deve unicamente valutare se l’Amministrazione finanziaria abbia dato corso ai suoi obblighi risultanti dal dispositivo della sentenza.

La funzione tipica ed essenziale del giudizio di ottemperanza in materia tributaria è quella di adeguare la realtà giuridica e materiale ad un preciso giudicato, atteso che il giudizio di ottemperanza è prevalentemente di esecuzione, con la conseguenza che il contenuto della sentenza alla quale l’Amministrazione finanziaria deve dare esecuzione non può essere integrato o modificato dal giudice.

[Commissione trib. regionale della Lombardia, sez. X (Giudice unico Bonomi), 19 luglio 2017, sent. n. 3253]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E RICHIESTE DELLE PARTI – Con ricorso ex art. 70 Dlgs 546/92 la contribuente ha radicato giudizio di ottemperanza nei confronti dell’Amministrazione Finanziaria chiedendo l’emanazione dei più opportuni e ritenuti provvedimenti, affinché l’Ufficio ottemperi ai propri obblighi derivanti dalla sentenza emessa da Codesta Commissione n. 5792/2016, depositata il 18.10 2016, lamentando il parziale pagamento da parte dell’Ufficio di quanto dovuto.
Si è costituito in questo grado di giudizio l’Ufficio eccependo di aver provveduto all’integrale pagamento delle spese di lite indicate in sentenza onnicomprensive, quindi anche degli accessori di legge.
Il ricorso è stato quindi esaminato e deciso nell’odierna udienza, previa discussione orale dei procuratori delle parti che hanno ribadito e sviluppato le argomentazioni enunciate in atti.

MOTIVI DELLA DECISIONE – A sensi degli artt. 132 secondo comma n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. la motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi.
A norma dell’art. 16 bis, comma 9 octies del D.L. 18 ottobre 2012 n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012 n. 221 [comma aggiunto dall’art. 19, comma 1, lett. a), n. 2 ter) del D.L. 27 giugno 2015 n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015 n. 132], la presente sentenza viene redatta in maniera sintetica, tenendo conto delle indicazioni contenute nel decreto n. 136 in data 14.9.2016 del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
L’esame delle questioni poste dalle parti seguirà il criterio della ragione più liquida (Cass. S.U. 8.5.2014 n. 9936 (1); Cass. 28.5.2014 n. 12002 (2)).
Il ricorso andrà respinto.
Il giudice dell’ottemperanza non può svolgere alcuna attività ermeneutica che integri, ampliandolo, il contenuto del comando contenuto nel giudicato, ma dovrà attuare l’assetto di interessi determinato con la pronuncia di cui si chiede l’esecuzione, individuandolo attenendosi “agli obblighi risultanti espressamente dal dispositivo della sentenza e tenuto conto della relativa motivazione” (comma 7 dell’articolo 70 del D.Lgs. n. 546 del 1992).
La funzione tipica ed essenziale del giudizio di ottemperanza è di adeguare la realtà giuridica e materiale ad un preciso giudicato. Il giudizio di ottemperanza è un giudizio prevalentemente di esecuzione, quindi non può essere integrato o modificato il contenuto della sentenza alla quale l’amministrazione finanziaria deve dare esecuzione.
Nel caso di specie l’Ufficio ha provveduto al pagamento di quanto portato in sentenza, mentre la contribuente chiede la corresponsione anche degli accessori di legge afferenti le spese di lite liquidate.
La risoluzione della questione impone una funzione ermeneutica volta a stabilire se pur in assenza di specifica indicazione nel dispositivo o nella motivazione della sentenza gli accessori di legge (IVA e CP) debbano essere corrisposti, funzione questa preclusa a questo giudice il quale deve unicamente valutare se l’amministrazione ha dato corso ai suoi obblighi risultanti dal dispositivo della sentenza.
Le questioni qui definite esauriscono la controversia, essendo, i motivi di doglianza non espressamente esaminati, ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque non idonei a condurre ad una conclusione di segno diverso.
Assorbito e superato ogni altro motivo di gravame e resistenza.
Data la complessità e particolarità della questione trattata sussistono giustificati ed equi motivi per l’integrale compensazione delle spese di giudizio, anche in considerazione della espressa rinuncia dell’Ufficio.

P.Q.M. – La Commissione Tributaria Regionale di Milano, sez. 10, respinge il proposto ricorso per ottemperanza. Spese di lite compensate.

(1) In Mass. Foro it., 2014, 334.
(2) In Mass. Foro it., 2014, 409.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *