26 Settembre, 2017

L’IRAP NELLE PROFESSIONI, NOTE A MARGINE DELL’AUTONOMA ORGANIZZAZIONE

La recente sentenza 10 maggio 2016, n. 9451, resa dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione si occupa delle caratteristiche dell’autonoma organizzazione di cui all’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1998, n. 446, sul presupposto impositivo dell’IRAP, ossia «l’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi».
Secondo la Corte Costituzionale, intervenuta sul punto con la sentenza 21 maggio 2001, n. 156 (1), tale norma individua un nuovo e diverso indice di capacità contributiva: il «valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate». Se tali elementi di organizzazione non ci sono, come nel caso di lavoro autonomo che, ancorché svolto con carattere di abitualità, non richiede, sul piano ontologico prima ancora che su quello pratico, una organizzazione di capitali o di lavoro altrui, il presupposto dell’imposta non si realizza. In tale caso il tributo non è applicabile.
Se questo del valore aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate è l’oggetto dell’IRAP, e non il reddito personale del contribuente, chiave di volta del problema diventa il significato da attribuire a tale espressione, in particolare all’avverbio “autonomamente”, aggiunto dal legislatore delegato per valorizzarne la rilevanza. Problema non semplice in quanto mai il legislatore, prima di allora, ha usato la parola “autonoma” in riferimento all’organizzazione di un’attività.
Una tale indagine assume carattere dirimente anche in relazione alla fase applicativa del tributo. Se la capacità contributiva individuata dalla formula legislativa è quella del valore della produzione sviluppata dalla organizzazione dei fattori della produzione, questo valore non rappresenta soltanto la giustificazione costituzionale del tributo sul piano normativo, ma anche un suo preciso limite nella fase applicativa. In tali termini il prelievo d’imposta sarà giustificato soltanto se quanto viene tassato in capo al lavoratore autonomo rappresenta il valore aggiunto prodotto dalla combinazione dei fattori della produzione e non il mero risultato della sua attività professionale.
Vero, come dice la Consulta, che il legislatore è libero di individuare la capacità contributiva in qualsiasi manifestazione diretta o indiretta di ricchezza o di semplice forza economica, rappresentando essa capacità un semplice criterio comparativo sulla base del quale ripartire fra i singoli cittadini i carichi pubblici, è altrettanto vero però che una volta fissate le regole del gioco tali regole debbono essere rispettate fino in fondo, e dunque in ogni fase di applicazione del tributo.
Per quanto riguarda il caso in esame, dette regole vogliono che il risultato legato alle capacità manageriali del lavoratore autonomo circa la combinazione di uomini e macchine venga distinto dal puro valore della sua prestazione personale.
Il valore aggiunto che costituisce oggetto dell’imposizione, dice a questo proposito la sentenza n. 3675 resa dalla Sezione Tributaria della Corte di Cassazione il 16 febbraio 2007 (2), «deve derivare dal supporto fornito all’attività del professionista dalla presenza di una struttura riferibile alla combinazione di fattori produttivi, funzionale all’attività del titolare … che potenzi e accresca la capacità contributiva del contribuente stesso».
Se tali valori si confondono, se il risultato del lavoro personale del contribuente viene scambiato come un prodotto dell’organizzazione, magari inesistente, ne deriva che l’applicazione dell’IRAP in capo ai lavoratori autonomi e in genere a tutti quei soggetti che producono beni o servizi senza avvalersi di una struttura organizzativa autonoma entra in manifesto contrasto con i limiti di costituzionalità come sopra enunciati dalla Corte Costituzionale.
L’organizzazione in parola non è quella di cui si avvale normalmente un professionista per l’agevole compimento delle sue prestazioni. L’organizzazione che integra il presupposto impositivo è quella in grado di svolgere essa stessa la prestazione a contenuto professionale dello studio e che impegna il professionista anche nell’attività necessaria a farla funzionare, e non solo nell’opera intellettuale che gli appartiene.
Seppure scritte in relazione a un caso legato al diritto all’indennità di avviamento prevista dalla legge sull’equo canone, chiare su questo tema risultano le parole della Corte di Cassazione formulate dalla Sezione III nella pronuncia del 22 dicembre 2011, n. 28312 (3): «Anche il professionista intellettuale assume la qualità di imprenditore commerciale quando esercita la professione nell’ambito di un’attività organizzata in forma d’impresa, in quanto svolga una distinta e assorbente attività che si contraddistingue da quella professionale per il diverso ruolo che riveste il sostrato organizzativo il quale cessa di essere meramente strumentale e per il differente apporto del professionista, non più circoscritto alle prestazioni d’opera intellettuale, ma involgente una prevalente azione di organizzazione, ossia di coordinamento e di controllo dei fattori produttivi, che si affianca all’attività tecnica ai fini della produzione del servizio».
Seppure senza aderire ad una tale decisa impostazione, l’iniziale posizione del giudice di legittimità si apriva a questa distinzione. L’attività del professionista rientrava nel campo di applicazione dell’IRAP se l’organizzazione in parola procurava un apporto economico autonomamente apprezzabile rispetto a quello del professionista stesso. Non il semplice miglioramento delle condizioni di lavoro del medesimo, ma la capacità di sviluppare, per ripetere le parole della Consulta, «un fatto economico, diverso dal reddito, comunque espressivo di capacità di contribuzione» del professionista stesso, nella sua veste di «organizzatore dell’attività [e] autore delle scelte dalle quali deriva la ripartizione della ricchezza prodotta tra i diversi soggetti che, in varia misura, concorrono alla sua creazione».
Accanto a tale impostazione ne è tuttavia subito sorta un’altra, più favorevole alle ragioni erariali, secondo cui l’organizzazione che caratterizza il presupposto impositivo dell’IRAP è quella che utilizza beni strumentali e lavoro altrui; l’utilizzo ricorrente di servizi di segreteria, da parte del professionista, ancorché in outsourcing – si legge ad esempio nella sentenza della Sezione Tributaria della Suprema Corte 12 aprile 2013, n. 8962 (4) – dimostra la presenza di un’autonoma organizzazione. L’esatto opposto di quanto sopra menzionato.
Consapevole della sua funzione nomofilattica, e per certi versi di supplenza del legislatore, incapace di dettare criteri oggettivi di valutazione, la Corte di Cassazione si è fatta carico del contrasto come sopra evidenziato con l’ordinanza del 13 marzo 2015, n. 5040 della stessa Sezione Tributaria (5).
Dopo avere ricordato l’interpretazione adeguatrice fornita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001 sopra riferita e l’approdo ermeneutico raggiunto con la sentenza n. 3673 del 2007 (6), secondo cui l’organizzazione che integra il presupposto impositivo è quella che impiega beni strumentali eccedenti «il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza dell’organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui», la Suprema Corte ha rilevato che la successiva giurisprudenza era giunta a ritenere che il presupposto dell’autonoma organizzazione fosse integrato «ogni volta che il lavoratore autonomo si avvalga del lavoro di un dipendente … non occasionale».
Secondo la suddetta nuova linea di pensiero, di cui la Corte stessa riporta ampi riferimenti, il presupposto dell’autonoma organizzazione si veniva a configurare anche in «presenza di un solo lavoratore dipendente, a prescindere dal tipo di lavoro svolto, anche se per un tempo limitato e per un corrispettivo non elevato, pure se con mansioni di segreteria … pure se part-time, e perfino se con mansioni di apprendista» (7).
Un tale risultato, e cioè la sottopozione all’IRAP del lavoratore autonomo che si avvale di un dipendente, qualsiasi siano le mansioni da questi svolte, si poneva dunque in manifesto contrasto con l’altra parte della giurisprudenza per cui la norma vuole che si accerti, «in concreto se la struttura organizzativa costituisca un elemento potenziatore ed aggiuntivo ai fini della produzione del reddito, tale da escludere che l’IRAP divenga una [probabilmente incostituzionale] tassa sui redditi di lavoro autonomo» (8).
Per risolvere tale contrasto interpretativo la questione è stata dunque rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte. Ciò con l’intento di pervenire, attraverso criteri univoci, a un chiarimento inteso «a riempire di significato e contenuto il concetto di “autonoma organizzazione”» (9).
Pronunciandosi su questa richiesta, le Sezioni Unite hanno escluso qualsiasi automatismo tra l’utilizzo non occasionale di lavoro altrui e l’assoggettabilità all’IRAP. Il principio di diritto alla fine enunciato è quello pronunciato dalla Sezione Tributaria nel 2007, con la sola variante di alcune precisazioni circa il fattore lavoro.
L’utilizzo di collaboratori integra il presupposto impositivo, si legge nella sentenza annotata, se le mansioni da questi svolte «concorrano o si combinino con quel che è il proprium della specifica “attività diretta allo scambio di beni o di servizi” … È infatti in tali casi che può parlarsi, per usare l’espressione del giudice delle leggi, di “valore aggiunto” o, per dirla con le pronunce della sezione tributaria del 2007, di “quel qualcosa in più”».
Le parole sono chiare. Il presupposto d’imposta si verifica soltanto se il collaboratore svolge mansioni in grado di incidere sull’essenza dell’attività del professionista, potenziandone l’attività produttiva. Se questi si limita ad aiutarlo a svolgere la sua attività, prestando generiche mansioni di segreteria o meramente esecutive, il presupposto non si verifica.
Ciò significa che l’applicazione dell’IRAP in capo ai professionisti continuerà a dipendere dall’accertamento di dette circostanze, eseguito sulla base di una valutazione del tutto discrezionale, tale essendo quella che si risolve nel valutare se l’apporto di questa organizzazione sia sostanzialmente ininfluente sul piano del risultato ovvero fornisca quel qualcosa in più, non altrimenti determinato, rispetto a quanto il professionista avrebbe ottenuto senza di essa.
Il rischio paventato nell’ordinanza di rimessione, di rendere imprevedibile l’applicazione dell’imposta nei confronti dei professionisti, sottoposti a un giudizio discrezionale circa l’esatta sussunzione del proprio caso all’interno di questo principio, resta dunque attuale.
Non competeva alla Corte di Cassazione dettare i parametri aritmetici per stabilire quando un tale impianto organizzativo trasforma l’attività del professionista da pura opera intellettuale in attività, anche in parte, di organizzazione dei fattori produttivi.
Questo è compito del legislatore, nella sua qualità di titolare del potere impositivo. E questi non l’ha fatto. Un approccio l’aveva tentato allorché aveva istituito un fondo finalizzato ad escludere dall’ambito impositivo le persone fisiche che «non si avvalgono di lavoratori dipendenti o assimilati e che impiegano, anche mediante locazione, beni strumentali il cui ammontare massimo è determinato con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze» (10), ma il progetto non ebbe alcun seguito in quanto la norma venne subito soppressa con la legge di stabilità dell’anno successivo (11).
Tale parametro è stato invece dettato dalle Sezioni Unite quando hanno enunciato il principio di diritto.
Dopo avere detto che l’organizzazione che fa scattare il presupposto dell’IRAP in capo ai lavoratori autonomi non deve necessariamente essere un apparato organizzativo di particolare rilevanza, bastando che esso renda più efficace o produttiva l’attività del professionista, e che l’apprezzamento di questo ruolo è rimesso al giudice di merito che deve effettuarlo sulla base di una comparazione del contesto socio-economico in cui il professionista si trova ad operare, le Sezioni Unite hanno del tutto eluso questo concetto nel momento in cui, enunciando il correlato principio di diritto, hanno utilizzato un banale articolo indeterminativo avanti alla parola collaboratore: «che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive». Nel modo in cui la frase è stata costruita, al singolare, l’articolo in parola perde l’usuale carattere di indicatore indeterminato di una categoria di genere, nel caso in specie i collaboratori, per divenire, sul piano grammaticale, un aggettivo numerale. Ciò fa assumere alla frase un significato del tutto incongruente rispetto alle premesse argomentative come sopra enunciate. In buona sostanza, la frase attesta che il professionista che dovesse utilizzare, con funzioni meramente esecutive, almeno due collaboratori, magari part time, si trova per ciò solo soggetto all’imposta per aver superato il limite numerico di un collaboratore, a nulla valendo le mansioni nelle quali essi vengono impiegati e, ancora, l’eventuale incremento del valore aggiunto di cui parlava la Corte Costituzionale. Riscontro, questo, del tutto irrilevante.
Questo nuovo automatismo non è certamente la risposta all’ordinanza di rimessione laddove chiedeva di riempire di contenuto il concetto di autonoma organizzazione.
La parola torna dunque ai giudici di merito, nei confronti dei quali la sentenza, allorché ha rimesso alla loro competenza l’indagine sulla capacità della struttura organizzativa a fornire un effettivo “qualcosa in più”, è indubbiamente un chiaro invito a ragionare. E ciò anche in termini di incostituzionalità dell’imposta che allo stato dell’arte, legata com’è stata al mero utilizzo di lavoro altrui «che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore», appare sempre più evidente.

Avv. Bruno Aiudi

(1) In Boll. Trib., 2001, 873, con nota di F. BRIGHENTI, L’IRAP è conforme alla Costituzione.
(2) In Boll. Trib., 2007, 384, con nota di F. BRIGHENTI, Niente IRAP per i professionisti non organizzati: parola della Cassazione.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) In Boll. Trib., 2013, 974.
(5) In Boll. Trib., 2016, 242, con nota di F. BRIGHENTI, IRAP professionisti: la segretaria va alle Sezioni Unite (o all’altare).
(6) Ved. Cass., sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3673, in Boll. Trib., 2007, 486, con nota di F. BRIGHENTI, La Cassazione sull’IRAP dei professionisti non organizzati: certezze e dubbi.
(7) Così Cass. n. 5040/2015, cit.
(8) Così sempre Cass. n. 5040/2015, cit.
(9) Così ancora Cass. n. 5040/2015, cit.
(10) Art. 1, comma 515, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.
(11) Con ciò evidenziando il paradosso per cui, nel nostro sistema, per applicare un’imposta nei limiti di costituzionalità occorre una legge che autorizzi la minor entrata rispetto a quella che si ottiene interpretando la medesima in modo non conforme alla Costituzione.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione confermano:
il professionista con segretaria non paga l’IRAP

Le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno deciso: i lavoratori autonomi che si avvalgono di un collaboratore che svolge mansioni di segreteria o semplicemente esecutive non è soggetto passivo ai fini dell’IRAP.
Per inquadrare la questione occorre ricordare che la tassazione IRAP – che è un’imposta di carattere reale (e cioè che attiene alle cose) e non è un’imposta sul reddito – colpisce la struttura di cui si avvale il lavoratore autonomo, cioè quel complesso dato dalla combinazione di mezzi e di uomini capace di creare, come sottolinea la Corte Costituzionale nella famosa sentenza 21 maggio 2001, n. 156 (1), “valore aggiunto”. In altri termini, la struttura di cui si avvale il contribuente deve possedere attitudine a incrementare la capacità produttiva del lavoratore autonomo rispetto a quella che deriverebbe da un’ordinaria attività personale, mentre per tutte le attività esercitate in forma societaria o associata l’autonoma organizzazione è invece presunta ex lege proprio in ragione della cooperazione tra i soci o gli associati che viene istituita per raggiungere scopi normalmente irrealizzabili dal singolo (2).
In questo ordine di idee – osservava il giudice delle leggi con la citata pronuncia – «in assenza di elementi di organizzazione … risulterà mancante il presupposto stesso dell’imposta sulle attività produttive, per l’appunto rappresentato, secondo l’art. 2, dall’esercizio abituale di un’attività autonomamente organizzata diretta alla produzione e allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi, con la conseguente inapplicabilità dell’imposta stessa».
Ma quando si può dire che il professionista si avvale di un’autonoma organizzazione, cioè di una struttura che abbia attitudine a produrre “valore aggiunto”? A questa domanda è estremamente difficile, se non addirittura impossibile, rispondere: nessuno ha ancora individuato con precisione la linea di confine dove finisce l’organizzazione non autonoma (che non realizza il presupposto dell’IRAP) e inizia l’organizzazione autonoma (che realizza il presupposto d’imposta).
Non rimane quindi che ricorrere a semplificazioni convenzionali di carattere generale. È quello che ha fatto la Corte di Cassazione che – in numerosissime sentenze – ha ripetutamente affermato il seguente principio: «l’esercizio delle attività di lavoro autonomo è escluso dall’applicazione dell’imposta sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui» (3).
In particolare, per quanto riguarda l’impiego “non occasionale di lavoro altrui”, il criterio adottato si ispira a un’osservazione della Corte Costituzionale che aveva affermato (sempre nella già citata sentenza n. 156 del 2001) che si poteva «ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui». L’assenza di “lavoro altrui” nasce proprio da lì.
Ecco quindi che diviene costante il principio secondo cui «in tema di IRAP, il ricorso al lavoro di terzi per la fornitura di tutti i necessari servizi (dalla telefonia al segretariato) in forma rilevante e non occasionale, ma continuativa, integra il presupposto dell’esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata, previsto dall’art. 2, comma 1, del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, non rilevando che la struttura posta a sostegno e potenziamento dell’attività professionale del contribuente sia fornita da personale dipendente o da un terzo in base ad un contratto di fornitura» (4). Si tratta dell’ennesima conferma di precedenti arresti: «il requisito dell’autonoma organizzazione … ricorre quando il contribuente … si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui» (5); alla stessa stregua, solo la «sporadica assistenza da parte di terzi, cioè la occasionalità dell’impiego di lavoro altrui, esclude la sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione» (6).
Insomma, era ormai principio indiscutibile che il lavoratore autonomo il quale si avvalesse stabilmente (non occasionalmente), anche part-time, dell’opera di terzi – a prescindere dalle caratteristiche della prestazioni lavorative di questi terzi (sempre che fossero funzionali all’attività professionale: non lo è, ad esempio, la donna delle pulizie) – dovesse considerarsi soggetto passivo ai fini dell’IRAP.
A sorpresa, però, verso la fine del 2013 la Corte di Cassazione cambia idea: non è più vero che il lavoratore autonomo che si avvale stabilmente di lavoro altrui è sempre soggetto passivo ai fini dell’IRAP.
La Suprema Corte osserva che «vi sono infatti ipotesi in cui la disponibilità di un dipendente (magari part time o con funzioni meramente esecutive) non accresce la capacità produttiva del professionista, non costituisce un fattore “impersonale ed aggiuntivo” alla produttività del contribuente, ma costituisce semplicemente una comodità per lui (e per i suoi clienti)» (7).
La novità, però, viene snobbata. “Una rondine non fa primavera” è, in sintesi, il commento degli addetti ai lavori: neppure il più audace dei consulenti fiscali consiglia i propri clienti – professionisti con una segretaria – di non pagare l’IRAP.
Ma il nuovo corso giurisprudenziale viene alimentato da altra linfa.
Circa un anno dopo la Suprema Corte afferma che si deve «ritenere che l’apporto di un collaboratore che apra la porta o risponda al telefono, mentre il medico visita il paziente o l’avvocato riceve il cliente, rientri, secondo l’id quod plerumque accidit, nel minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale, compete al giudice di merito apprezzare, con un giudizio di fatto, se nel caso concreto, per le specifiche modalità qualitative e quantitative delle prestazioni segretariali di cui il professionista si avvale, le stesse debbano giudicarsi eccedenti il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività professionale» (8).
A questo punto, visto che altri Collegi della Corte di Cassazione continuano a ribadire che la segretaria è indice di autonoma organizzazione (e quindi il professionista è soggetto passivo ai fini dell’IRAP), la questione viene rimessa alla Sezioni Unite per dirimere il contrasto di giurisprudenza.
E le Sezioni Unite – a sorpresa, come traluce dai primi commenti sulla stampa di settore – affermano che la segretaria non fa autonoma organizzazione.
La sentenza massimata è piuttosto asciutta (non che sia un male, si intende). Ma comunque il ragionamento è chiaro: siccome oggi è praticamente impossibile esercitare una professione senza avvalersi di una segretaria, allora per aversi autonoma organizzazione, cioè per realizzare il presupposto ai fini dell’IRAP, occorre qualcosa di più di un semplice collaboratore cui sono affidate le incombenze esecutive connesse allo svolgimento della professione. Del resto, il sintagma della Corte Costituzionale laddove predica l’insussistenza del presupposto dell’IRAP – e cioè «in assenza di organizzazione di … lavoro altrui» – può leggersi nel senso che il concetto di lavoro altrui sia riferibile a un lavoro professionale, attinente cioè all’attività esercitata dal lavoratore autonomo, e non si riferisca invece alle prestazioni lavorative meramente esecutive.
In effetti, se il medico sta visitando un paziente o l’avvocato sta ricevendo un cliente, se suona il campanello o il telefono occorre per forza che ci sia qualcuno che apra la porta o che risponda. Per l’avvocato poi c’è il problema che deve assentarsi dallo studio per le udienze. Lo stesso vale per il medico quando viene chiamato per una visita domiciliare urgente. E così per altre figure di lavoratori autonomi. La segretaria, insomma – come dice la Corte di Cassazione nel 2013 – in definitiva serve più ai clienti che al professionista: ingiusto quindi far pagare l’IRAP per un servizio reso ai propri assistiti.
Detto questo è importante chiarire la questione dell’onere della prova.
La Sezioni Unite affermano che per essere esonerato dall’IRAP il ricorso al lavoro altrui non deve superare «la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive».
Ora, come funziona la ripartizione dell’onere della prova? È l’Agenzia delle entrate che è tenuta a dimostrare che il lavoro del collaboratore eccede le mansioni segretariali e che quindi il professionista è soggetto passivo ai fini dell’IRAP? Oppure è il professionista che, per sfuggire all’IRAP, è onerato della prova che il collaboratore non va al di là di mansioni meramente esecutive?
Come è intuitivo, rispondere nell’uno o nell’altro modo significa decidere se la sentenza massimata vale zero o ha effetti pratici. La prova positiva che il collaboratore svolge mansioni eccedenti quelle segretariali (che dovrebbe fornire l’Amministrazione finanziaria) è praticamente impossibile; ma è altrettanto impossibile la prova (che dovrebbe fornire il lavoratore autonomo) che il collaboratore non eccede le mansioni segretariali. Insomma: se la prova incombe sull’Agenzia delle entrate, qualunque collaboratore (ovviamente che non sia un altro professionista) non determinerà mai (o quasi) la tassabilità ai fini dell’IRAP; se la prova incombe sul professionista, qualunque collaboratore determinerà sempre (o quasi) l’imponibilità ai fini dell’IRAP.
Per rispondere al quesito su chi grava l’onere della prova occorre muovere dalla sentenza annotata. Affermano infatti le Sezioni Unite che per la soggettività passiva ai fini dell’IRAP «occorre che le mansioni svolte dal collaboratore non occasionale concorrano o si combinino con quel che è il proprium della specifica (professionalità espressa nella) “attività diretta allo scambio di beni o di servizi”, di cui fa discorso l’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, e ciò vale tanto per il professionista che per l’esercente l’arte, come, più in generale, per il lavoratore autonomo ovvero per le figure “di confine” individuate nel corso degli anni dalla giurisprudenza di questa Corte. È infatti in tali casi che può parlarsi, per usare l’espressione del giudice delle leggi, di “valore aggiunto” o, per dirla con le pronunce della sezione tributaria del 2007, di “quel qualcosa in più”».
Dunque, se l’eccedenza delle prestazioni collaborative va a realizzare il presupposto d’imposta la relativa prova non può che ricadere – secondo i principi generali – sull’Agenzia delle entrate che di quel presupposto deduce l’esistenza (come succede per tutte le imposte: se l’Amministrazione finanziaria intende tassare un reddito di lavoro dipendente deve dimostrarne la sussistenza del presupposto, e cioè la percezione di uno stipendio, etc.).
Poi, siccome la Corte di Cassazione afferma che per lo svolgimento di un’attività di lavoro autonomo l’ausilio di una segretaria o di un collaboratore esecutivo è fisiologico, a maggior ragione la prova che invece quella segretaria o che quel collaboratore riescano a produrre valore aggiunto, facendo cioè eccezione all’id quod plerumque accidit e realizzando così il presupposto d’imposta, grava sull’Amministrazione finanziaria.
La sentenza massimata apre la strada ai rimborsi in favore dei professionisti che hanno versato l’IRAP pur avvalendosi di una sola segretaria.
In tale caso, però – ribadisce la Suprema Corte – la prova del diritto alla restituzione di un’imposta grava, secondo il principio generale, su chi ne chiede la restituzione stessa. Sarà quindi il contribuente a dover dimostrare (anche) l’assenza del presupposto d’imposta, e cioè che la prestazione lavorativa del collaboratore abbia il connotato proprio delle mansioni esecutive.

Avv. Fausta Brighenti

(1) In Boll. Trib., 2001, 873, con nota di F. BRIGHENTI, L’IRAP è conforme alla Costituzione.
(2) Cfr. in tal senso Cass., sez. un., 14 aprile 2016, n. 7371, in Boll. Trib. On-line.
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3677, in Boll. Trib., 2007, 386, con nota di F. BRIGHENTI, Niente IRAP per i professionisti non organizzati: parola della Cassazione; Cass., sez. trib., 16 febbraio 2007, n. 3678, ibidem, 479, con nota di F. BRIGHENTI, La Cassazione sull’IRAP dei professionisti non organizzati: certezze e dubbi; Cass., sez. trib., 5 marzo 2007, n. 5020; Cass., sez. trib., 5 marzo 2007, n. 5021; Cass., sez. trib., 30 dicembre 2011, ord. n. 30394; Cass., sez. trib., 25 luglio 2012, ord. n. 13095; e Cass., sez. trib., 21 ottobre 2013, n. 23719; queste ultime tutte in Boll. Trib. On-line.
(4) Cfr. Cass., sez. trib., 12 aprile 2013, n. 8962, in Boll. Trib., 2013, 974.
(5) Cfr. ex pluribus Cass., sez. trib., 21 marzo 2012, ord. n. 4490, in Boll. Trib., 2012, 1275.
(6) Cfr. Cass., sez. trib., 10 febbraio 2012, ord. n. 1941, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Cass., sez. VI, 25 settembre 2013, n. 22020, in Boll. Trib., 2014, 473, con nota di F. BRIGHENTI, Presupposto IRAP: il lavoro altrui conta solo se di qualità.
(8) Così Cass., sez. VI, 19 dicembre 2014, n. 26991, in Boll. Trib., 2015, 1197, con nota di F. BRIGHENTI, Il professionista con la segretaria non è soggetto ad IRAP.

IRAP – Attività professionale – Professionisti non organizzati – Autonoma organizzazione – Impiego di un collaboratore con mansioni di segreteria o meramente esecutive – Esclusione dell’autonoma organizzazione – Difetto di soggettività passiva – Consegue.

Con riguardo al presupposto dell’IRAP, il requisito dell’autonoma organizzazione previsto dall’art. 2 del D.Lgs. 15 settembre 1997, n. 496, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità e interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive.

[Corte di Cassazione, sez. un. (Pres. Rovelli, rel. Greco), 10 maggio 2016, sent. n. 9451, ric. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – L’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione con un motivo, illustrato con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che, rigettandone l’appello, ha riconosciuto a C.N., avvocato, il diritto al rimborso dell’IRAP versata per gli anni dal 2000 al 2004.
Il giudice d’appello, rilevato che nello svolgimento dell’attività professionale il contribuente si avvaleva “solo di un lavoratore dipendente con mansioni di segretario e di beni strumentali minimi”, ha ritenuto che “la presenza minimale di strumenti e di collaborazione non costituiva autonoma organizzazione” ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 446.
C.N. resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.
Con l’unico motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, e 3, lettera c), del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446”, l’amministrazione ricorrente critica la sentenza impugnata perché, pur avendo riconosciuto la presenza di un dipendente e di beni strumentali ha escluso il requisito dell’autonoma organizzazione ai fini dell’IRAP, laddove, secondo le disposizioni in rubrica, tale requisito ricorrerebbe “allorché il contribuente sia, sotto qualsiasi forma il responsabile dell’organizzazione e si avvalga del lavoro anche di un solo dipendente”.
Il contribuente resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.
Fissato per la discussione, a seguito di ordinanza interlocutoria della sezione tributaria (ord. 5040/15 (1)), il ricorso è stato rimesso a queste Sezioni unite per l’esame di questione di massima di particolare importanza.
L’Agenzia delle entrate ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Con l’ordinanza del gennaio 2015 la sezione tributaria ha ravvisato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, con riguardo al presupposto dell’imposta regionale sulle attività produttive, fissato dall’art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e segnatamente al concetto di “autonoma organizzazione”, un contrasto fra un orientamento più radicato – di cui costituisce espressione Cass. n. 3676 del 2007 (2) –, secondo cui la presenza anche di un solo dipendente, anche se part time ovvero addetto a mansioni generiche, determinerebbe di per sé l’assoggettamento all’imposta, ed un orientamento più recente, secondo cui sarebbe invece necessario accertare in punto di fatto l’attitudine del lavoro svolto dal dipendente a potenziare l’attività produttiva al fine di verificare la ricorrenza del presupposto stesso.
Osserva il Collegio che la sentenza n. 3676 del 2007, menzionata come significativa dell’indirizzo più risalente, e decisamente maggioritario, rappresenta, con alcune pronunce coeve, il punto di approdo di una prima fase dell’elaborazione giurisprudenziale di questa Corte sull’IRAP, incentrata sul presupposto dell’imposta, regolato dagli artt. 2 e 1 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, istitutivo del tributo, mentre la seconda fase è stata piuttosto caratterizzata dalla definizione dei contorni della platea dei soggetti passivi.

2. Con la sentenza 16 febbraio 2007, n. 3676, dunque, la sezione tributaria aveva in primo luogo posto in luce che il d.lgs. n. 446 del 1997 aveva stabilito all’art. 2 che il presupposto del tributo è costituito dall’esercizio di un’attività “autonomamente organizzata” (così dopo la novella recata dal d.lgs. 10 aprile 1998, n. 137) diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi, ribadendo al successivo art. 3 che i soggetti passivi dell’IRAP sono quelli che svolgono una delle attività di cui all’art. 2 e, “pertanto”, anche le persone fisiche e le società semplici (od equiparate) che esercitano un’arte o una professione ai sensi dell’art. 49, comma 1 (nella vecchia numerazione) del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, che, come chiarito dalla lettera a) del comma 2 all’epoca vigente, ricomprendeva nella categoria tutti coloro che, per professione abituale, svolgevano un’attività di lavoro autonomo non classificabile come impresa o come collaborazione coordinata o continuativa e, cioè, come prestazione di servizi senza impiego di organizzazione propria.
Aveva quindi rilevato come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 156 del 2001 (3) avesse puntualizzato che l’IRAP non operava nessuna indebita equiparazione dei redditi di lavoro autonomo a quelli d’impresa, essendo un’imposta volta ad incidere su di un fatto economico diverso dal reddito, ossia sul valore aggiunto prodotto dalle singole unità organizzative, che ove sussistente, costituiva un indice di capacità contributiva capace di giustificare l’imposizione sia nei confronti delle imprese che dei lavoratori autonomi: ciò non voleva certamente dire che questi ultimi rientravano sempre tra i soggetti passivi dell’imposta perché se quello organizzativo costituiva un elemento connaturato alla nozione stessa d’impresa, non altrettanto poteva dirsi per le arti e le professioni, riguardo alle quali non era impossibile escludere in assoluto che l’attività potesse essere svolta anche in assenza di un’organizzazione di capitali e/o lavoro altrui.
Ma la ipotizzabilità di un’evenienza del genere, il cui accertamento costituiva una questione di mero fatto, non valeva a dimostrare la denunciata illegittimità dell’IRAP, ma soltanto la sua inapplicabilità per quei lavoratori autonomi che non si fossero giovati di alcun supporto organizzativo.
In tal modo, la Corte costituzionale “aveva in definitiva affermato che l’IRAP può ed, anzi, deve essere applicata pure ai lavoratori autonomi, tenendo però presente che non si tratta di una regola assoluta, ma solo dell’ipotesi ordinaria, nel senso che l’assoggettamento all’imposta costituisce la norma per ogni tipo di professionista, mentre l’esenzione rappresenta l’eccezione valevole soltanto per quelli privi di qualunque apparato produttivo. Vero è che l’interpretazione che di una norma sottoposta a scrutinio di costituzionalità offre la Corte costituzionale in una sentenza di non fondatezza non costituisce un vincolo per il giudice chiamato successivamente ad applicarla, ma è altrettanto vero che quella interpretazione, se non altro per l’autorevolezza della fonte da cui proviene, rappresenta un fondamentale contributo ermeneutico che non può essere disconosciuto senza l’esistenza di una valida ragione”.
Secondo la sezione tributaria, “l’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 richiede unicamente la presenza di un’organizzazione autonoma senza fissare alcun limite quantitativo diverso da quello insito nel concetto stesso evocato dalle parole usate che, a loro volta, postulano soltanto l’esistenza di uno o più elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell’interessato, potenziandone le possibilità. Non occorre, quindi, che si tratti di una struttura d’importanza prevalente rispetto al lavoro del titolare o addirittura in grado di generare profitti anche senza di lui, ma è sufficiente che vi sia un insieme tale da porre il professionista in una condizione più favorevole di quella in cui si sarebbe trovato senza di esso. La maggiore o minore consistenza di tale insieme non è dunque importante purché, ben s’intende, si tratti di fattori che non siano tutto sommato trascurabili, bensì capaci di fornire un effettivo qualcosa in più al lavoratore autonomo. L’indagine sull’esistenza di tale qualcosa in più costituisce senza dubbio un accertamento di fatto che il giudice di merito dovrà compiere caso per caso sulla base di una valutazione di natura non soltanto logica, ma anche socio-economica perché l’assenza di una struttura produttiva non può essere intesa nel senso radicale di totale mancanza di qualsiasi supporto, ma neppure in quello di particolare rilevanza o, peggio, di prevalenza dei beni e/o del lavoro altrui su quello del titolare. Per far sorgere l’obbligo di pagamento del tributo basta infatti, l’esistenza di un apparato che non sia sostanzialmente ininfluente, ovverosia di un quid pluris che secondo il comune sentire, del quale il giudice di merito è portatore ed interprete, sia in grado di fornire un apprezzabile apporto al professionista. Si deve cioè trattare di un qualcosa in più la cui disponibilità non sia, in definitiva, irrilevante perché capace, come lo studio o i collaboratori, di rendere più efficace o produttiva l’attività. Non varrebbe in contrario replicare che così ragionando si giunge a fare dei professionisti una categoria indefettibilmente assoggettata all’IPAP perché, nell’attuale realtà, è quasi impossibile esercitare l’attività senza l’ausilio di uno studio e/o di uno o più collaboratori o dipendenti. È infatti proprio per questo che il d.lgs. n. 446 del 1997 ha inserito gli autonomi fra i soggetti passivi dell’imposta, in quanto anch’essi sì avvalgono normalmente di quella struttura organizzativa che costituisce il presupposto dell’imposta. Ed è sempre per lo stesso motivo che il d.lgs. n. 446 del 1997 ha, fra l’altro, abrogato l’ICIAP, essendo l’IRAP destinata normalmente a colpire coloro che in precedenza pagavano l’ICIAP che, a sua volta, gravava sui professionisti indipendentemente dalla consistenza della organizzazione da essi predisposta”.
“In considerazione di quanto sopra, va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “A norma del combinato disposto del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lettera c), l’esercizio delle attività di lavoro autonomo di cui all’art. 49, comma 1 (nella versione vigente fino al 31/12/2003), ovvero all’art. 53, comma 1 (nella versione vigente dal 1/1/2004), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata. Il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod pderumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate”.

3. Queste Sezioni unite, con riguardo al requisito dell’autonoma organizzazione nel presupposto dell’IRAP, condividono i principi e, più complessivamente, l’impianto ricostruttivo fornito allora con la sentenza capofila dell’orientamento maturato nel 2007 nella sezione tributaria, della quale si è dato conto sopra, e tuttavia ritengono che essi meritino, più che una rivalutazione, delle precisazioni concernenti il fattore lavoro.
Se fra “gli elementi suscettibili di combinarsi con il lavoro dell’interessato, potenziandone le possibilità necessarie”, accanto ai beni strumentali vi sono i mezzi “personali” di cui egli può avvalersi per lo svolgimento dell’attività, perché questi davvero rechino ad essa un apporto significativo occorre che le mansioni svolte dal collaboratore non occasionale concorrano o si combinino con quel che è il proprium della specifica (professionalità espressa nella) “attività diretta allo scambio di beni o di servizi”, di cui fa discorso l’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, e ciò vale tanto per il professionista che per l’esercente l’arte, come, più in generale, per il lavoratore autonomo ovvero per le figure “di confine” individuate nel corso degli anni dalla giurisprudenza di questa Corte. È infatti in tali casi che può parlarsi, per usare l’espressione del giudice delle leggi, di “valore aggiunto” o, per dirla con le pronunce della sezione tributaria del 2007, di “quel qualcosa in più”.
Diversa incidenza assume perciò l’avvalersi in modo non occasionale di lavoro altrui quando questo si concreti nell’espletamento di mansioni di segreteria o generiche o meramente esecutive, che rechino all’attività svolta dal contribuente un apporto del tutto mediato o, appunto, generico.
Lo stesso limite segnato in relazione ai beni strumentali – “eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione” – non può che valere, armonicamente, per il fattore lavoro, la cui soglia minimale si arresta all’impiego di un collaboratore.
Va pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “con riguardo al presupposto dell’IRAP, il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446 –, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive”.
Il ricorso dell’Agenzia delle entrate deve essere rigettato.
Le spese del giudizio vanno compensate fra le parti, in considerazione del carattere controverso della questione in sede di legittimità.

P.Q.M. – La Corte di cassazione, a sezioni unite, rigetta il ricorso.
Dichiara compensate fra le parti le spese del giudizio.

(1) Cass. 13 marzo 2015, n. 5040, in Boll. Trib., 2016, 243.
(2) Cass. 16 febbraio 2007, n. 3676, in Boll. Trib., 2007, 488.
(3) Cass. 21 maggio 2001, n. 156, in Boll. Trib., 2001, 873.

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