22 Giugno, 2015

 

 


Decisione attenta, scrupolosamente motivata e non poco coraggiosa a fronte di una vicenda dai contorni stagliati in maniera così netta da farne un perfetto prototipo della fattispecie (1). Fattispecie finora risolta in modo diametralmente opposto dalla consolidata giurisprudenza interna: il collegio è il primo a darne atto, il che è un ulteriore indizio di serietà della sentenza in rassegna.

La vicenda muove da un processo verbale di constatazione elevato dalla Guardia di finanza nei confronti di una società di capitali (nella specie, come per lo più accade, a responsabilità limitata), che si è vista rettificare in aumento il reddito di impresa (a fini IRPEG), il valore della produzione (a fini IRAP) e il volume d’affari (a fini IVA). Il tutto in forza di ricavi asseritamente non contabilizzati. Trattandosi di una società a ristretta compagine familiare, consequenziale – secondo prassi risalente, contrastata dal collegio barese – l’imputazione, a fini IRPEF, del maggiore reddito pro quota ai soci partecipanti (due fratelli). Così è stato. Tutti i soggetti interessati (società e soci) hanno però impugnato gli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate; se comune ai tre è stata la doglianza di omessa considerazione dei costi sostenuti, i due fratelli – ed è ciò che qui preme evidenziare – sono insorti anche «contro l’attribuzione automatica a loro, appunto in ragione della loro (indiscussa) qualità di soci, dei maggiori utili accertati, “per il solo fatto della ristretta base azionaria ed il legame familiare”». Si noti: «per il solo fatto …», cioè senza ulteriore suffragio probatorio. Quasi il rilievo si ergesse a caposaldo insuperabile (presunzione legale) o – il che, nella circostanza, è praticamente lo stesso – incombesse alla persona accertata di produrre la prova contraria (presunzione semplice con inversione dell’onere della prova).

I. Come accennato, il collegio ha tutt’altro che ignorato la «consolidata giurisprudenza della suprema Corte di Cassazione [alla cui stregua] è ammessa la presunzione di distribuzione, ai soci di società di capitali a ristretta base familiare, degli utili non contabilizzati, la quale [secondo la visione della stessa Suprema Corte] non viola il divieto di presunzione di secondo grado, stante il fatto noto costituito dalla ristrettezza della base sociale, dal vincolo di solidarietà e dal reciproco controllo dei soci che in tale situazione normalmente caratterizza la gestione sociale». Nondimeno, giunta al bivio, la commissione ha lucidamente imboccato la strada opposta, quella che l’ha condotta – in perfetta sintonia con la prospettazione dei ricorrenti-persone fisiche – a bollare di illegittimità la presunzione, «in assenza di valide prove, [dell’] automatica distribuzione ai soci di società di capitali di utili derivanti da operazioni in nero, in virtù unicamente della ristretta base azionaria e dei vincoli di parentela esistenti fra i componenti la compagine sociale, come se si trattasse di una presunzione legale che caratterizza, come è noto, solo il regime tributario delle società di persone».

[-protetto-]

Il collegio pugliese si è così dissociato dalla linea di pensiero, oggi consolidata a sfavore dei contribuenti, che, sul fronte dell’accertamento delle imposte sui redditi, si esprime nell’equazione: emersione di maggiori utili in capo a società di capitali a ristretta compagine sociale = loro attribuzione, occulta e pro quota, a tutti i partecipanti. Equazione accompagnata dal corollario che è fatta «salva, ovviamente, la prova contraria [a cura dei privati sottoposti a verifica] che gli stessi utili siano stati accantonati o reinvestiti». Prova contraria – di difficile allegazione per chiunque debba fornirla – che invece, se la presunzione non scattasse, graverebbe, in base alle regole generali, ei qui dicit, ovverosia sull’Amministrazione finanziaria. Non è chi non veda come, in buona sostanza, la partita si giochi sulla sussistenza o meno di una siffatta presunzione perché, una volta sfondato questo primo fronte, l’avversario è sbaragliato, pressoché annichilito dalla prova diabolica che gli viene sollecitata (2).

Sorvolo sul disagio (personalmente sperimentato) di un giudice tributario che si trovi a trattare vertenze al cospetto delle quali le conclusioni raggiunte dalla Suprema Corte, cioè dal vertice dell’elaborazione del diritto, non lo appaghino, e pour cause; e che pure sa per certo come, impugnazione dopo impugnazione, proprio davanti a quel collegio di ultima istanza la questione finirebbe, spazzando via – tranne improbabili suggestioni di revirement – tutto l’iter giudiziale precedente. Di qui l’interrogativo: intestardirsi sul comando che viene dall’intimo sentire oppure accodarsi alla tesi dominante (3)? Sorvolo e mi attengo al tema.

Non è da ieri che, a fronte di un accertamento a carico della società di capitali a composizione ristretta a sèguito di una verifica che abbia fatto emergere ricavi non contabilizzati ovvero costi inesistenti, è riconosciuta la legittimità degli accertamenti eseguiti, a cascata, nei confronti dei soci, in ragione di una gestione da considerarsi per definizione addomesticata e frutto di sotterranei maneggi. Si sostiene infatti che 1) nessuno dei pochi/pochissimi partecipanti può obiettare di non sapere e che 2) tutti i partecipanti sono coinvolti in vista di un beneficio materiale (4). Giuridicamente, si suole inquadrare la spirale logica creata dalla combinazione enunciata sotto la voce presunzione. Ebbene, qui mi propongo di dimostrare che, più che di presunzione nell’accezione tecnica (cioè, alla stregua dell’art. 2727 c.c., di «conseguenza che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto»), si tratta di altro, di ben altro, addirittura di (pre-giudizio e quindi di) pregiudizio toutcourt, di un preconcetto la cui ombra negativa macchia irreversibilmente l’utilizzo che in parte qua dell’istituto codicistico hanno fatto, nella stragrande maggioranza, gli organi giudicanti (5).

La Suprema Corte è stata la prima ad ammettere che per le società di capitali (tutte, siano o non siano a ristretta base azionaria) non vige il regime che investe le società di persone, per le quali si applica l’art. 5 del TUIR (primo comma: «I redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili») (6). Se così è (come effettivamente è), dal nostro campo d’azione sono pacificamente spazzate via anche tutte le cosiddette presunzioni legali, le praesumptiones iuris il cui valore probatorio è fissato ope legis e a tal punto autoritativo da estromettere a monte il giudice da una libera, personale valutazione (7). Si resta, per la contradizion che nol consente, nell’ambito delle presunzioni semplici, quelle che, in quanto «non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice» (art. 2729 c.c., nel solco dell’art. 1354 del codice civile del 1865) e che al giudice permettono di risalire da un fatto noto a un altro fatto ignoto (8).

Ora, la correttezza del sillogismo (cioè dello schema mentale che presiede alla figura della presunzione semplice: premessa maggiore – premessa minore – conclusione) è legata strettamente ad alcuni fattori. Due su tutti: a) la continuità ontologica dei fattori stessi (evidente nel modello di tutti i sillogismi, quello di conio aristotelico: tutti gli uomini sono mortali/Socrate è un uomo/ergo Socrate è mortale), cosicché il circuito logico si salda in credibilità solo grazie alla coerenza del criterio unificante (nell’esempio fatto, l’umanità) che permea (che deve necessariamente permeare) sia la premessa maggiore sia la premessa minore; b) la certezza della sequenza logica, l’univocità della portata delle conclusioni tratte. Altrimenti detto: se (con riguardo ad a) si rompe la congruenza delle componenti, l’impianto del sillogismo è erroneo in partenza, pertanto le sue conclusioni sono fallaci e la presunzione che se ne fa discendere impraticabile; se (con riguardo a b) la conclusione non è universalmente certa (direi matematicamente, ma mettiamo pure: certa al di là di ogni ragionevole dubbio), se cioè si alimenta riduttivamente all’id quod plerumque accidit, vale a dire a un dato statistico di livello ampiamente inferiore alla uniformità e concordanza, allora la presunzione manca dell’indispensabile ubi consistam, perché restiamo nel campo nella opinabilità, ben lontani dal ricavare – come viceversa ci impone la legge – da un fatto noto un fatto ignoto (abbiamo solo creduto di ricavarlo) (9).

L’errore capitale della tesi qui ricusata consiste appunto nell’infrangere vistosamente il secondo dei due postulati (b) valorizzando conclusioni per nulla sicure. Come è successo quando si è affermato che «la prova per presunzioni non è condizionata dalla assoluta ed esclusiva necessità causale tra il fatto noto e quello ignoto essendo sufficiente che questo si ponga come conseguenza normalmente ed ordinariamente collegabile rispetto al primo» (10). Peccato che, agli occhi del dio della logica, così facendo, il fatto noto non diventi meno ignoto, in quanto la scienza della probabilità è l’ultima in grado di dare conto dei singoli casi; ed è di singoli casi che il giudice è chiamato a interessarsi.

La tesi ricusata è però oltremodo fragile anche sull’altro versante, quello descritto sub a (11). Non si sottrae infatti alla seguente critica: non si possono comparare, relazionandoli artatamente, fattori incongrui come quelli abbinati nel (falso) sillogismo: struttura delle società a base azionaria ristretta – vincolo di solidarietà = evasione tributaria. Come avviene quando si sostiene che l’addebito dei redditi occultati ai singoli soci «non viola il divieto di presunzione di secondo grado, poiché il fatto noto non è costituito dalla sussistenza dei maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale» (12). Dove, platealmente, si confondono le cause con gli effetti.

La frattura appare di tutta evidenza perché il sillogismo impostato su dati omogenei (e per ciò stesso comparabili) dovrebbe essere quest’altro. Premessa maggiore: le società di capitali a base ristretta sono adottate per evadere l’imposta sui redditi (tanto della persona giuridica quanto delle persone fisiche); premessa minore: la società X è società di capitali a base ristretta; conclusione: la società X evade l’imposta sui redditi e pertanto, anche se si tratta di società di capitali, ad essa va applicata contra legem la disciplina tributaria delle società di persone. Sillogismo inattendibile perché la premessa maggiore non è sicura.

Non accettare la verità appena illustrata equivale a nascondere sotto il manto della presunzione quella che, assai più banalmente, è una paura, la preoccupazione di vedere sfuggire di mano materia imponibile non attingibile se non attraverso un’azione accertativa dalle modalità talmente impervie da configurarsi come impossibili, davvero di probatio diabolica. Il che sarà anche vero, ma tant’è, un operatore della giustizia non può contrabbandare una palmare alterazione della realtà con i crismi del diritto (13).

Piccola parentesi. La fattispecie in esame ricorda da vicino (anche e soprattutto nella risposta offerta dalla giurisprudenza superiore) quella dell’accertamento del reddito di una società mediante l’utilizzo dei dati risultanti dai conti correnti bancari intestati ai suoi soci e viceversa (14). Purtroppo solo raramente, ed esclusivamente per mano di giudici di merito, l’utilizzo è stato considerato legittimo «solo a condizione che risultino provate la natura fittizia di tali intestazioni e la riconducibilità delle relative movimentazioni alla società stessa, nel puntuale assolvimento di un onere di prova che incombe sull’Ufficio finanziario» (15).

Altra breve parentesi, racchiusa in una domanda: ma se, nella fattispecie che ci occupa, si accetta di utilizzare, per di più in chiave penalizzante per i destinatari (ergo, si rifletta, in malam partem), il regime concepito per un’altra branca (le società di persone), nella considerazione che i pochissimi despoti della società di capitali non possono che averla piegata ai loro interessi individuali, non sarà che dobbiamo riconoscere anche, in nome di quel minimo di coerenza che tuttora alberga in noi, che fra tutti i protagonisti si sia instaurato un litisconsorzio necessario, così come, in evenienze similari, le Sezioni Unite hanno voluto fosse appunto per le società di persone (16)?

II. Un’altra situazione avallata dalla Corte di Cassazione merita di essere qui richiamata per stretta contiguità di riflessione. Riguarda la presunzione dell’imputazione degli utili extrabilancio di una società di capitali a ristretta base sociale «anche nei confronti dei soci della distinta società di capitali che sia socia della prima società e che, a sua volta, sia anch’essa a ristretta base sociale» (17). L’assioma, che tradisce scopertamente il ricorso (proibito) alla presunzione su presunzione, è stato affermato ancora e sempre puntando sul paradigma costituzionale di capacità contributiva (art. 53, primo comma, Cost.), ma anche, e soprattutto, sul «principio, che ne è corollario, del divieto dell’abuso di diritto tributario». Bene, a parte l’arditezza di un principio derivato da un altro principio, se c’è un concetto logico spurio al meccanismo della presunzione è l’abuso del diritto, che è – sempre e inconfutabilmente – una conseguenza fattuale concreta, non una premessa; ergo, anche se a qualcuno la cosa farebbe molto comodo, non può mai essere speso con il rango tecnico di presunzione (18).

Avv. Valdo Azzoni

(1) L’uso del lemma “fattispecie” si è fatto in noi più consapevole e meditato dopo la lettura di M.V. Serranò, Evoluzione del concetto di fattispecie imponibile, in Boll. Trib., 2012, 1045, che fervidamente raccomandiamo al lettore.

(2) A dire la verità, i giudici pugliesi non ritengono così improbo e proibitivo il compito probatorio addossato all’Agenzia delle entrate. Affermano infatti che la sua «non sarebbe certamente una prova “impossibile o diabolica”, come a volte definita, atteso che non viene preclusa all’Amministrazione finanziaria la possibilità di fornire anche la prova logica nei singoli casi concreti, fondata su una reale pluralità di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti (indagini presso banche, fornitori e clienti dell’impresa accertata ecc.) che, in concorso con la ristrettezza della compagine sociale, possano concretizzare la logica e verosimile presunzione che i redditi non contabilizzati dalla società siano stati effettivamente percepiti da tutti i soci o solamente da alcuni di essi». Al contribuente, invece, per superare la presunzione a suo sfavore, servirebbe dare «la dimostrazione che gli utili sono stati reinvestiti o accantonati» (Cass., sez. trib., 11 novembre 2003, n. 16885, in Boll. Trib., 2004, 1681, con nota redazionale nettamente sfavorevole, che accomuna nella critica – per entrambe, di crogiolarsi nei “luoghi comuni” – anche Cass., sez. trib., 29 dicembre 2003, n. 19803, ibidem). A chi scrive sembra che, a chiunque incomba, l’onus probandi pesi come un macigno.

(3) Ci sia consentito indulgere nella digressione che segue. C’era una volta, a Torino, un magistrato di rara statura culturale e di alta tempra morale che, nella sua qualità di primo presidente della locale Corte d’Appello, ebbe l’ardire – nell’Italia benpensante degli anni Cinquanta, così poco proclive a repentine levate di scudi – di anticipare di un ventennio la temperie storica e ordinare la trascrizione delle sentenze che, all’estero, avevano concesso il divorzio (di concessione si trattava, infatti) a cittadini italiani. Quel magistrato si chiamava Domenico Peretti Griva (1882-1962) e aveva sempre sostenuto che chi amministra la giustizia, se messo alle strette e obbligato a scegliere fra i due poli del suo ministero – cioè fra gli obblighi di lealtà al dettato legislativo, investigato secondo coscienza, da un lato, e il vincolo all’insegnamento impartito, attraverso i precedenti, dal giudice della legittimità, dall’altro – dovesse accordare il primato, beninteso con la circospezione del caso, al primo dei due valori. Ciò tanto più dopo l’entrata in vigore della Costituzione, che con l’art. 101, secondo comma, ha subordinato il giudice “soltanto alla legge”. La situazione è oggi sensibilmente mutata, perché alla Corte di cassazione è unanimemente riconosciuto un ruolo di supremo esegeta del diritto vivente, ruolo da dispiegare – e per lo più dispiegato, benché non senza pesanti cadute, peraltro da ascrivere all’umana natura – con spirito democratico (quindi aperto al dubbio e non preconcetto) e insieme dinamico (quindi ricordando che è il diritto al servizio della società e non il contrario).

(4) Secondo Cass. n. 16885/2003, cit., una sorta di complicità – dettata dai comuni vantaggi e agevolata dall’egemonia sui poteri di controllo dell’attività gestionale – legherebbe, a mo’ di fenomeno naturale e come tale tendenzialmente irreversibile, i membri di una ristretta compagine sociale nel momento in cui pongono in essere dei comportamenti tesi a realizzare utili senza che gli stessi siano transitati nelle scritture contabili della medesima e che, quindi, abbiano concorso alla formazione del reddito imponibile societario e di quello personale dei singoli soci. Una collusione che, come si vedrà, secondo l’insegnamento della Suprema Corte, essendo nella natura delle cose, non confliggerebbe con il divieto di doppia presunzione. Un’efficace censura del convincimento della «complicità che normalmente avvince un gruppo così composto» la troviamo nella nota redazionale di commento a Cass., sez. trib., 17 giugno 2009, n. 14046, in Boll. Trib., 2009, 1712, ove è reperibile un analitico excursus della dottrina e della giurisprudenza in allora pronunciatesi (in ispecie Cass., sez. trib., 29 aprile 2009, n. 10030, ibidem, 1462, con nota critica di S. Picciolo, La Suprema Corte legittima la riqualificazione dei dividendi non riscossi in finanziamenti, anch’essa munita di un esauriente apparato documentale). Consultabili, in dottrina, A. Voglino, La presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati accertati a carico delle società di capitali a ristretta base sociale, in Boll. Trib., 1991, 468; ID., Ancora su alcuni persistenti “luoghi comuni” in tema di presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati, ivi, 1993, 1402; ID., Appunti critici sulla presunzione di distribuzione ai soci deimaggiori utili accertati a carico delle società a ristretta base azionaria, ivi, 1996, 476; T. Marino, Le società di capitali a base azionaria ristretta o familiare e la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori ricavi accertati, ivi, 1998, 623; A. Militerno, Osservazioni in ordine alla attribuzione ai soci dei maggiori redditi accertati in capo alla società di capitali, ivi, 2000, 1297.

(5) Per la verità, nel cuore dei consessi preposti, in campo tributario, alla funzione nomofilattica, non sono mancate, nel corso del tempo, voci di dissenso. Nel segnalare la debolezza logico-giuridica dell’automatica deduzione della avvenuta riscossione da parte dei soci degli utili occulti accertati a carico di una società di capitali a base circoscritta, esse – peraltro sporadiche e presto disattese – hanno statuito che, qualora l’Amministrazione finanziaria intenda tassare in capo a un socio la corrispondente quota del maggior reddito societario, deve provarne (“provare” non corrisponde a “ventilare”) la percezione da parte dello stesso, utilizzando anche presunzioni, purché rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c. Così ex pluribus Comm. trib. centr., sez. XXVI, 22 dicembre 1993, n. 3714, in Boll. Trib., 1995, 155.

(6) Cfr. Cass. n. 16885/2003, cit.

(7) Va da sé che perde istantaneamente importanza il binomio interno alla nozione di presunzione legale, la quale si distingue, a seconda dell’incisività del vincolo, in assoluta (iuris et de iure) e relativa (iuris tantum), e la seconda è l’unica suscettibile, pur con limitazioni preventive, di prova contraria.

(8) Il lemma “fatto”, però, ha qui un contenuto di specificità e di individualità che bandisce, ad esempio, l’ingresso nel ragionamento dei cosiddetti fatti notori (art. 115 c.p.c.). Che sono tutt’altra cosa, appartenendo alla categoria delle conoscenze frutto di esperienze diffuse nella comunità di riferimento; e che sono fatti in sé (per massima di vita io so, noi tutti sappiamo che quel certo giorno c’era sciopero degli autobus, che l’11 settembre 2001 è capitato quel che è capitato, ecc.). Insomma, i fatti notori corrispondono a eventi storici determinati, la cui documentazione processuale è pleonastica ed equivale a perdita di tempo. Non materializzano invece criteri utili a fondare la conoscenza di altri eventi, al momento ancora e pur sempre bisognosi di documentazione decisiva ai fini processuali. Esempio: il fatto notorio che il 25 dicembre è Natale non ci aiuta a sapere se il giorno di dicembre in cui sappiamo essere stata tenuta una certa condotta era Natale.

(9) Il meccanismo deduttivo «quando è usato dal legislatore, quando cioè si è fissato in una norma espressa di legge, può solo porsi come strumento interpretativo della ratio legis, mentre, quando è usato dal giudice, si presenta come strumento di controllo della sufficienza dei collegamenti logici per la deduzione dell’esistenza di un fatto dalla conoscenza di un altro» (V. Andrioli, evocato da G. Fabbrini alla voce Presunzioni, Digesto delle discipline privatistiche, XIV, Torino, 1996, 280). L’interrogativo sorge appunto qui: quando sono sufficienti, quando non lo sono i citati collegamenti logici? Al riguardo ricordo, con v. andrioli, che dei tre requisiti voluti dalla legge (gravità, precisione, concordanza) «i due primi si confondono nella esigenza che la definizione del procedimento deduttivo non lasci luogo a dubbi» (V. Andrioli alla voce Presunzioni. Diritto civile e Diritto processuale civile, Novissimo Digesto Italiano, XIII, Torino, 1966, 771). Certezza, dunque; non basta la probabilità. Così per M. Taruffo: «Le conclusioni presuntive sono “probabilmente vere”, non certe o necessarie, tutte le volte che derivano da una inferenza fondata su massime che non corrispondono a leggi generali; il grado di probabile verità di tali conclusioni dipende dal grado di probabilità della connessione tra classi di fatti espressa nella massima utilizzata dal giudice come criterio dell’inferenza in cui si articola il ragionamento presuntivo» (M. Taruffo alla voce Presunzioni. Diritto processuale civile, Enciclopedia giuridica Treccani, XXVII, Roma, 1991). Come, ancora di recente, è stato esemplarmente scritto, «la legislazione tributaria consente di determinare il reddito di impresa prescindendo dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili, in presenza di irregolarità quali la ingiustificata compressione dei ricavi e la genericità delle fatture, ricorrendo alle prove logiche anche prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza»; lì all’Ufficio è dato di ricorrere «ai fini della rettifica della dichiarazione annuale, a presunzioni semplici per affermare l’esistenza di omissioni, false o inesatte indicazioni della dichiarazione stessa, ma il fatto ignoto di cui si afferma l’esistenza deve costituire la conseguenza univoca e logica di una premessa nota, determinata e certa ed è quindi da ritenersi inefficace una deduzione che lasci sopravvivere un margine di dubbio con conseguente ipotizzabilità di soluzioni diverse. Inoltre deve ritenersi assolutamente esclusa la derivazione di presunzioni da altre presunzioni, considerato quanto afferma con particolare vigore la Corte di Cassazione, la quale fissa il principio secondo cui “se la presunzione semplice è la conseguenza che il giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignoto, non può ammettersi che quest’ultimo si ponga a sua volta come fonte di un’ulteriore presunzione, perché al processo logico-induttivo, su cui essa deve fondarsi, verrebbe così a mancare la certez
za della premessa, tale non essendo più il fatto noto, ormai retrocesso a causa remota, bensì il fatto che prima era ignorato e poi viene presunto per farne l’antecedente primo di una nuova induzione
”. In buona sostanza, la nuova induzione non si trova più in un nesso di correlazione con il fatto noto e pertanto risulta indebolita ulteriormente nel suo grado di verosimiglianza e, quindi, giuridicamente inammissibile» (Comm. trib. prov. di Aosta, sez. I, 30 novembre 2012, n. 31, ined.). Estremamente ben detto: di contro alle attese del legislatore, il circuito delle certezze fattuali, ergo giuridiche, si rompe non appena si compia il passaggio al gradino ulteriore, dove esso sempre più si sfilaccia, rendendosi inutilizzabile, man mano che ci si allontana dalla credibilità sottesa alla nozione di presunzione.

(10) Cass., sez. I, 28 settembre 1994, n. 7906, in Boll. Trib., 1995, 1285. La labilità delle prove con cui si ha la presunzione (!) di ricavare pesantissimi addebiti, in capo ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria o familiare, a seguito della mancata riscossione di dividendi non riscossi, perequati d’autorità a finanziamenti occulti, traspare in Cass. n. 10030/2009, cit.

(11) Il divieto della doppia presunzione (cosiddetto praesumptis de praesumpto) proprio a ciò reagisce, alla mancanza di stretta continuità fra le due premesse del sillogismo. Altro tipo di argomentazione è, rispetto alla presunzione fondata su un’altra presunzione, la presunzione modulata su una sequenza di serrati passaggi logici intermedi. A differenza della prima, essa trova ingresso nel nostro ordinamento (Cass., sez. I, 1° luglio 1991, n. 7234, in Boll. Trib. On-line).

(12) Cass., sez. trib., 16 maggio 2002, n. 7174; e Cass., sez. trib., 8 agosto 2005, n. 16729; entrambe in Boll. trib. On-line.

(13) Un accomodamento tutto sommato dignitoso fra il dramma (letale, in frangenti storici come gli attuali) di assistere impotenti all’evaporazione di materia imponibile e la necessità (sacrosanta in ogni tempo) di scongiurare una lesione madornale al diritto del contribuente di ricevere un trattamento equo, fondato sulla correttezza della contestazione e del riparto degli oneri di prova, è quello che la giurisprudenza ha riservato agli studi di settore. Con riferimento ad essi, come si ricorderà, è stato a suo tempo insegnato che «la procedura di accertamento standardizzato costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente» (Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, nn. 26635, 26636, 26637 e 26638, in Boll. Trib., 2010, 302, con nota di M. Proietti, Presunzioni semplici quelle di parametri e studi di settore: la lettura costituzionalmente orientata delle Sezioni Unite). Di compromesso si tratta, perché l’accertamento, pur avendo i piedi d’argilla, acquista consistenza attraverso – fase imprescindibile – il dialogo fra fisco e contribuente, e quest’ultimo può anche «restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento»; sarà il giudice, poi, a «liberamente valutare l’applicabilità degli standard al caso concreto». Un modo elegante, mi è sempre parso, per “bypassare” signorilmente il nodo della presunzione. Circa lo stato dell’arte della vexata quaestio, ved. F. Brighenti, Miniguida agli studi di settore, in Boll. Trib., 2012, 552, in nota a Cass., sez. trib., 20 ottobre 2011, ord. n. 21856. Sulla valutazione probatoria degli scostamenti dalle ricostruzioni statistiche, così care al nostro legislatore, ved. S. Fiaccadori, La prova contraria per superare la presunzione da studi di settore e la difesa del contribuente, in Boll. Trib., 2010, 251.

(14) Il parallelo («ragionamento simile, ma dalla direzione inversa») è stato colto, tra gli altri, da V. Ficari, Conti correnti dei soci e ricavi presunti della società di persone a base familiare, in nota a Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1452, in Boll. Trib., 2009, 885. Osserva l’Autore come, in buona sostanza, «il vero punto nodale è quale [sia] la natura della presunzione … e quale il rapporto con la possibilità di prova contraria», dovendosi attribuire all’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, la funzione di «norma sulla ripartizione dell’onere probatorio e non sulla qualificazione legale della natura imponibile delle movimentazioni non giustificate». Conclusione cui mi sento di aderire con forza perché tocca il nocciolo del problema. Anche qui, manco a dirlo, pollice verso dalla più alta giurisprudenza: per tutte cfr. Cass., sez. trib., 20 luglio 2012, n. 12624, in Boll. trib. On-line.

(15) Comm. trib. prov. di Pesaro, sez. I, 29 aprile 2011, n. 86, in Boll. Trib., 2012, 780, con ficcante, magistrale nota di B. Aiudi, Gli accertamenti bancari e il paradosso del mentitore. L’Autore loda la decisione perché privilegia uno sviluppo argomentativo capace di ergersi a «classico percorso critico», riportandoci «indietro nel tempo, addirittura agli albori del sillogismo aristotelico; meglio ancora, alla nascita della logica»; e al contempo depreca, proprio con riferimento alla fattispecie di nostro odierno interesse (del maggior reddito ascritto ai soci delle società di capitali a ristretta base sociale), l’atteggiamento delle commissioni tributarie, biasimato laddove, nell’assumere «che un tale elemento possa integrare i requisiti di gravità, precisione e concordanza menzionati dall’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, in altro non si risolve se non nella trascrizione di alcuni dictum della Cassazione, così traducendosi in una motivazione meramente assertiva, come tale del tutto apodittica». Tornando agli accertamenti bancari, in seno ai quali «deve ritenersi che la presunzione legale dell’art. 32, primo comma, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973 abbia portata generale e che pertanto il relativo meccanismo di inversione dell’onere della prova, ove applicato unitamente all’art. 38 del medesimo decreto, riguardi la rettifica dei redditi di qualsiasi contribuente, quale che sia la natura dell’attività da questi svolta e dalla quale quei redditi provengano» (Cass., sez. trib., 27 settembre 2011, n. 19692, e Cass., sez. trib., 2 marzo 2012, n. 3263, in Boll. Trib., 2012, 707 ss.), perspicua si appalesa la nota redazionale, scorata ma ferma nel respingere l’infelice automatismo praticato nell’inversione dell’onere della prova.

(16) Cfr. Cass., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14816, in Boll. Trib. On-line; un’intuizione non dissimile ha avuto Cass., sez. VI, 8 febbraio 2012, n. 1867, ivi, nel riscontrare un caso di sospensione necessaria del processo ex art. 295 c.p.c. «qualora risultino pendenti davanti a giudici diversi procedimenti legati tra loro da un rapporto di pregiudizialità tale che la definizione dell’uno [il procedimento avviato in ordine ai redditi della società a ristretta compagine sociale] costituisce indispensabile presupposto logico-giuridico dell’altro [il procedimento avviato in ordine ai redditi dei soci], nel senso che l’antecedente venga postulato con effetto di giudicato, in modo che possa astrattamente configurarsi l’ipotesi di conflitto di giudicati».

(17) Cass., sez. trib., 10 giugno 2009, n. 13338, in Boll. Trib., 2009, 1623, la quale cita due precedenti: Cass., sez. trib., 23 dicembre 2008, n. 30055, in Boll. Trib., 2009, 481, con nota di T. Marino, Considerazioni critiche sulla costante evoluzione giurisprudenziale in tema di elusione tributaria ed abuso del diritto, e Cass., sez. trib., 8 aprile 2009, n. 8481, ibidem, 816, rispettivamente 1) per innestare sulla vicenda «il principio generale del divieto dell’abuso del diritto» (che troverebbe fondamento, oltre che nell’art. 53 Cost., nel canone di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.), e 2) per elogiare la «tendenza alla oggettivazione del diritto commerciale e alla attribuzione di rilevanza giuridica all’impresa, indipendentemente dalla forma giuridica assunta dall’imprenditore». Personalmente ritengo una mostruosità l’abuso dell’abuso del diritto che si è fatto negli ultimi anni. Cfr. Cass., sez. trib., 9 marzo 2011, n. 5583, in Boll. Trib., 2012, 68, con nota redazionale pesantemente sfavorevole; sul tema si consiglia F. Ciani, Abuso dello strumento societario (antieconomicità) e tassazione patrimoniale per “perdite fiscali sistematiche”, ibidem, 334. Soccorre, saltuariamente, qualche voce illuminata e non faziosa, come quella che impone, nell’uso di tale strumento, la predisposizione di una «particolare cautela, dovendosi sempre tenere conto che l’impiego di forme contrattuali e organizzative che consentono un minore carico fiscale costituisce esercizio della libertà di impresa e di iniziativa economica, nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall’ordinamento comunitario» e che sottolinea come l’individuazione dell’impiego abusivo di una forma giuridica incomba «sempre all’Amministrazione finanziaria, la quale, lungi dal limitarsi ad affermazioni generiche e apodittiche, deve precisare gli aspetti e le particolarità che inducono a ritenere l’operazione considerata priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio di imposta», per concludere perentoriamente che «in tema di abuso del diritto, nonostante gli interventi della giurisprudenza comunitaria e della Corte di cassazione, nel nostro ordinamento non esiste una norma antielusiva generale, tanto più che essa risulta incompatibile con un sistema tributario che in materia di reddito, dal punto di vista della definizione dei presupposti tassabili, segue il metodo casistico» (Comm. trib. prov. di Aosta n. 29/2012, cit.). Di «principio generale antielusivo» continua però a parlare la giurisprudenza predominante, sostenendo che esso, prendendo il destro dai «principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, dettati dall’art. 53 Cost., non contrasta con quello di riserva di legge in materia tributaria (art. 23 Cost.), atteso che – lungi dal tradursi nell’imposizione di obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge – esso si concreta
esclusivamente nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo, o prioritario, scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali
» (da ultimo, cfr. Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7393, in Boll. Trib. On-line).

(18) È evidente che «l’interesse economico marginale», predicato da Cass., sez. trib., 2 novembre 2011, n. 22716, in Boll. Trib. On-line, come requisito perché di abuso del diritto si possa parlare, non è un dato a priori, ma va documentato volta per volta dall’Amministrazione finanziaria.

 

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento per presunzioni – Presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili di una società di capitali a ristretta base azionaria o familiare – Automatica operatività della presunzione sul solo fondamento della ristretta base partecipativa – Esclusione – Ristretta base azionaria o familiare assunta quale unico elemento probatorio – Insufficienza – Necessità di una reale pluralità di elementi presuntivi a sostegno dell’accertamento – Sussiste.

Qualora venga accertata a carico di una società di capitali a ristretta base azionaria o familiare l’esistenza di utili occulti, non si può automaticamente desumere la riscossione degli stessi da parte dei soci, essendo ipotizzabili, con uguale grado di probabilità, conclusioni diverse come, ad esempio, la creazione di riserve occulte da destinare agli usi più diversi, l’appropriazione indebita degli utili da parte di amministratori e soci disonesti all’insaputa degli altri soci, o la loro destinazione alla creazione di fondi occulti per il pagamento di poste passive non contabilizzate, di talché l’argomento della ristrettezza della base societaria, quale esclusivo fatto noto, non riveste di per sé alcuna valenza probatoria, perché non sempre può assurgere a spia dell’avvenuta distribuzione reale a tutti i soci, in proporzione alle loro quote di partecipazione, dei maggiori utili non contabilizzati accertati a carico della società di capitali, mentre analogamente pure il vincolo familiare tra i soci della società non può istituzionalizzare l’esistenza di una complicità tra di loro sulla cui base ritenere non illogica la presunzione di distribuzione degli utili occulti ai soci; pertanto, al fine di garantire da una giustizia sommaria tutti i soci delle società di capitali a ristretta base partecipativa, è necessario adottare le opportune cautele nell’attenta valutazione delle motivazioni fornitenegli avvisi di accertamento e negli atti dei relativi giudizi, dovendosi ritenere tassabile in capo ai soci la corrispondente quota del maggior reddito societario solo quando venga provata la reale percezione degli utili extracontabili da parte dei soci medesimi, mediante una prova logica fondata su una reale pluralità di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti (quali, ad esempio, le indagini presso banche, fornitori e clienti dell’impresa accertata) che, in concorso con la ristrettezza della compagine sociale, possano concretizzare la logica e verosimile presunzione che i redditi non contabilizzati dalla società siano stati effettivamente percepiti da tutti i soci o solamente da alcuni di essi.

[Commissione trib. regionale della Puglia, sez. V (Pres. Pugliese, rel. Ancona), 17 aprile 2012, sent. n. 19]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Sulla base di un P.V.C., elevato dalla Guardia di Finanza per l’anno di imposta 2003 a carico della società a responsabilità limitata … s.r.l. – in fallimento – l’Agenzia delle Entrate – Ufficio … – con l’avviso di accertamento n. …/2008 rettificava in aumento il reddito di impresa, il valore della produzione ed il volume di affari ai fini rispettivamente delle imposte I.R.P.E.G., I.R.A.P. e IVA.

Di conseguenza, quantificava in euro 408.912 il maggior reddito d’impresa, rispetto a quello dichiarato, che per la ristretta base familiare della compagine sociale, imputava ai due soci, … e …, con altrettanti avvisi di accertamento nn. …/2003 e …/2003, determinando le relative maggiori imposte a loro carico di euro 282.029 oltre agli interessi e sanzioni per euro 233.422.

Con tempestivi ricorsi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari si opponevano agli atti impositivi sia la società che i soci chiedendo il loro annullamento per l’illegittimità della determinazione del maggior reddito, in quanto non veritiero perché quantificato sulla base di documentazione extracontabile rinvenuta presso l’Azienda e non valutata adeguatamente ai fini di che trattasi.

In particolare, lamentavano che a fronte dei maggiori ricavi accertati, non erano stati considerati tutti i relativi costi effettivamente sostenuti, che avrebbero reso più aderente alla realtà il margine di profitto, rispetto a quello quantificato dall’Ufficio.

I soci, invece, oltre ad addurre le motivazioni opposte dalla società per contrastare la pretesa erariale, evidenziavano la illegittimità dell’attribuzione automatica a loro, in qualità di soci, dei maggiori utili accertati, per il solo fatto della ristretta base azionaria ed il legame familiare.

La Commissione adita, riuniti i ricorsi per connessione oggettiva, li rigettava con la decisione n. 49/8/10 ritenendo perfettamente conforme alla legge l’operato dell’Agenzia delle Entrate-Ufficio di …

Osservava che, per consolidata giurisprudenza della suprema Corte di Cassazione, è ammessa la presunzione di distribuzione ai soci di società di capitali a ristretta base familiare, degli utili non contabilizzati, la quale non viola il divieto di presunzione di secondo grado, stante il fatto noto – costituito dalla ristrettezza della base sociale, dal vincolo di solidarietà e dal reciproco controllo dei soci – che in tale situazione normalmente caratterizza la gestione sociale.

Avverso tale decisione proponevano appello i ricorrenti per la riforma della stessa adducendo analoghe motivazioni proposte nel giudizio di 1° grado, mentre con controdeduzioni l’Agenzia delle Entrate-Direzione Provinciale di … si costituiva in giudizio per il rigetto degli appelli e la condanna alle spese di giudizio.

MOTIVI DELLA DECISIONE – La società … s.r.l. – in fallimento – anche in sede di appello non ha fornito alcuna prova concreta idonea a censurare i rilievi formulati dalla Guardia di Finanza e recepiti dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio … – nell’avviso di accertamento impugnato.

Lamenta solo che l’Ufficio, a fronte dei maggiori ricavi accertati, avrebbe dovuto anche considerare i corrispondenti maggiori costi da cui gli stessi ricavi erano stati generati.

Trattasi, come è evidente, di eccezioni vaghe ed inconsistenti che fanno apparire, dilatorie, le argomentazioni ed eccezioni contenute nei propri atti difensivi mentre, fondate, le violazioni rilevate dalla Guardia di Finanza e recepite dall’Ufficio.

Fondate, invece, appaiono, a parere di questo Collegio, le motivazioni difensive dei due soci i quali, sostanzialmente, eccepiscono che non è possibile e legittimo presumere, in assenza di valide prove, l’automatica distribuzione ai soci di società di capitali, di utili derivanti da operazioni in nero, in virtù della ristretta base azionaria e di vincoli di parentela fra i componenti la compagine sociale, come se si trattasse di una presunzione legale che caratterizza, come è noto, solo il regime tributario delle società di persone.

Come è noto, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, è ormai consuetudine seguita dal fisco e, peraltro, condivisa in maniera preponderante da costante giurisprudenza che, laddove siano accertati maggiori utili di una società di capitali a ristretta compagine sociale, operi la presunzione della loro attribuzione occulta e pro quota ai soci salvo, ovviamente, la prova contraria che gli stessi siano stati accantonati o reinvestiti.

È, quindi, soprattutto sul fatto noto della ristretta base sociale, ma anche sulla esistenza di un ipotetico e generalizzato vincolo di solidarietà e di reciproco controllo fra i soci, che si fonda la presunzione semplice di distribuzione degli utili extracontabili ai soci stessi, in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale.

Presunzione rafforzata a tal punto dal convincimento della complicità che sussisterebbe normalmente all’interno di una compagine sociale di questo tipo, da non fare ritenere affatto illogica la presunzione di distribuzione di utili occulti ai soci di una società di capitali a ristretta base azionaria o familiare, al pari della presunzione legale, stabilita dal legislatore per le società di persone.

Emerge evidente, ad avviso di questa Commissione Tributaria di appello, la fragilità delle motivazioni poste alla base degli accertamenti formulati in capo ai soci, non solo perché scaturenti sempre da presunzioni su presunzioni ma anche perché fondate su ipotesi varie (vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci) che dal fisco non sono mai verificate caso per caso con l’attenzione dovuta, ma vengono date per scontate e, quindi, utilizzate in maniera generalizzata.

Ciò deve indurre a ritenere che, qualora sia accertata a carico di una società di capitali, l’esistenza di utili occulti, non si può automaticamente desumere la riscossione degli stessi ad opera dei soci, essendo ipotizzabili con ugual grado di probabilità, conclusioni diverse come, ad esempio, la creazione di riserve occulte da destinare agli usi più diversi, l’appropriazione indebita degli utili da parte di amministratori o/e soci disonesti, all’insaputa degli altri soci, o la loro destinazione alla creazione di fondi occulti per il pagamento di poste passive non contabilizzate, ecc.

L’argomento della ristrettezza della base societaria, quale esclusivo fatto noto, non riveste, quindi, di per sé alcuna valenza probatoria perché non sempre può assurgere a spia dell’avvenuta distribuzione reale a tutti i soci, in proporzione alle loro quote di partecipazione, dei maggiori utili non contabilizzati, accertati a carico di società di capitali.

Come pure, il vincolo familiare fra i soci della società di capitali, giammai potrebbe istituzionalizzare la esistenza della complicità fra di loro, sulla cui base ritenere, poi, non illogica la presunzione di distribuzione degli utili occulti ai soci.

Ecco perché è oltremodo necessario, al fine di cautelare da una giustizia sommaria tutti i soci di società di capitali a ristretta base azionaria, ma soprattutto quelli che verosimilmente potrebbero anche non essere coinvolti in alcun modo nella gestione societaria, adottare le opportune cautele nella attenta valutazione delle motivazioni fornite dalle Agenzia delle Entrate negli avvisi di accertamento e negli atti dei giudizi riguardanti l’attribuzione di utili extracontabili ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria.

È indispensabile, al riguardo, che qualora l’Amministrazione finanziaria intenda tassare in capo ai soci, la corrispondente quota del maggior reddito societario, deve provarne la reale percezione da parte degli stessi, non essendo possibile fondare sulla mera contestazione della ristretta base azionaria, la presunzione che i maggiori redditi accertati a carico della società siano stati, sic et simpliciter, ripartiti fra i soci, senza una preventiva indagine da parte del fisco.

Non sarebbe certamente una prova “impossibile o diabolica” come a volte definita, atteso che non viene preclusa all’Amministrazione finanziaria la possibilità di fornire anche la prova logica nei singoli casi concreti, fondata su una reale pluralità di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, (indagini presso banche, fornitori e clienti dell’impresa accertata ecc.) che, in concorso con la ristrettezza della compagine sociale, possano concretizzare la logica e verosimile presunzione che i redditi non contabilizzati dalla società siano stati effettivamente percepiti da tutti i soci o solamente da alcuni di essi.

Nella fattispecie, dall’Ufficio non è stato fornito, nei termini di cui sopra, alcun elemento idoneo a dimostrare che i soci … abbiano percepito extra contabilmente ed in esatta proporzione alla loro quota di partecipazione al capitale sociale, i maggiori utili accertati in capo alla società … s.r.l.

Infatti, come emerge dalla documentazione processuale, l’Agenzia delle Entrate si è invece, limitata a formulare l’atto impugnato solo ed esclusivamente sull’accertamento posto a carico della Società e sulla ristrettezza della base societaria della stessa, come se rappresentassero la prova inconfutabile della presunzione della supposta percezione occulta da parte dei ricorrenti dei maggiori utili accertati in capo alla Società.

Presunzione che, a sua volta, trae origine dall’altra presunzione – nonostante il divieto di presunzione di secondo grado, che ad avviso di questa Commissione deve ritenersi sempre violato anche nel caso di società a ristretta base azionaria – che la citata Società avesse conseguito i maggiori redditi, accertati dall’Agenzia delle Entrate con altro atto impositivo regolarmente opposto.

In conclusione, questa Commissione Tributaria di appello ritiene, infondate, inattendibili e illegittime tutte le presunzioni operate dall’Agenzia dell’Entrate nei confronti dei soci …, in quanto non può, comunque, essere ritenuta automatica, come nel caso di specie, la presunzione che il maggior reddito accertato a carico della società … s.r.l. sia stato percepito dai soci, così come accade per le società di persone, senza il conforto di prove o, quantomeno, di significativi elementi presuntivi gravi, precisi, e concordanti, di cui obiettivamente non vi è traccia alcuna sia nelle motivazioni contenute nell’atto impositivo impugnato che in quelle addotte dall’Agenzia delle Entrate negli atti di resistenza.

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La particolarità della controversia costituisce valido motivo per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.(Omissis).

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