4 Agosto, 2015


Decisione in perfetta sintonia con la lettura costantemente data dalla giurisprudenza di settore al precetto dell’art. 56 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che così recita: «Le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, s’intendono rinunciate» (1).

Si verte su un indirizzo in parte qua risalente (2). Indirizzo di cui importanti precedenti sono le tre sentenze richiamate nel testo – nell’ordine: Cass. n. 3330/2008 (3), Cass. n. 16049/2005 (4), e Cass. n. 12700/2001 (5) – e, in tempi recenti, riaffermato dalla pronuncia della Cassazione n. 8372/2013 (6), ove, per l’ennesima volta, è ribadita la ratio della disposizione, sintetizzabile nella indeclinabilità della pretesa tributaria.

La norma, che sulla scorta di una giurisprudenza quanto mai ondivaga si rivolge unicamente alla parte appellata (7) o anche, secondo altre voci, all’appellante (8) purché però si tratti dell’appellante incidentale (9), mira a ridurre l’area di impatto dell’effetto devolutivo dell’impugnazione, dovendo il giudice assecondare le intenzioni dei contendenti senza potersene discostare. Contendenti ai quali, nello stadio di transizione dal primo al secondo grado di scrutinio, è data facoltà di delimitare ulteriormente la materia del contendere, determinando in tal modo una progressiva erosione del thema decidendum originario (10).

La rinuncia a taluni aspetti conflittuali, dedotti e risolti in primo grado, impedisce al giudice successivo di conoscerne (11). Rinuncia che, oltre che esplicita, può essere presunta iuris et de iure, resa cioè sotto forma di inerzia che si carica, per fictio iuris, di un analogo, inequivocabile quanto insovvertibile, significato (12): e l’art. 56 svolge appunto siffatta opera di presunzione legislativa di tipo assoluto, nel senso che l’opzione, da intendersi come riconducibile alla cessazione di interesse in capo ai litiganti, è vincolante anche per l’organo giudicante senza che sia ammessa la prova contraria (13). Rinuncia inoltre, quella racchiusa ope legis nella mancata riproposizione di una domanda non esaminata dal giudice di prime cure, che non solo non va confusa con l’acquiescenza (14), ma che dà luogo ad una preclusione processuale, con il corollario che nulla osta a che la medesima domanda venga riproposta in un altro giudizio (15).

È dunque solo attraverso la riproposizione formale della questione di interesse che può essere scongiurato il rischio del giudicato interno. Forza e pregnanza di quest’ultimo istituto sono tali da abbracciare l’intera gamma delle eccezioni potenzialmente sollevabili, siano esse processuali o sostanziali di merito. Comprese nel lotto sono le istanze coperte indirettamente dal giudicato, quelle cioè assorbite da altre apertis verbis trattate e respinte nel grado anteriore (16), come pure le stesse eccezioni rilevabili d’ufficio (17).

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(1) Il tenore dell’art. 56 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, è speculare a quello dell’art. 346 c.p.c., che a sua volta recita: «Le domande e le eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado, che non sono espressamente riproposte in appello, si intendono rinunciate». Dove le varianti riscontrate (“domande” in luogo di “questioni”; “espressamente” in luogo di “specificamente”) sono unanimemente ritenute indifferenti. Cfr. Cass., sez. trib., 13 marzo 2001, n. 3653, in Boll. Trib. On-line, e in F. Carpi – M. Taruffo, Commentario breve al Codice di procedura civile, Padova, 2008, 346, nonché, con riferimento alla dottrina, C. Consolo C. Glendi, Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2005, 510. Affine, benché opportunamente più dettagliata, è la formula spesa dal nuovo rito amministrativo, con riguardo al quale, all’art. 101, secondo comma, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, si legge: «Si intendono rinunciate le domande e le eccezioni dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado, che non siano state espressamente riproposte nell’atto di appello o, per le parti diverse dall’appellante, con memoria depositata a pena di decadenza entro il termine per la costituzione in giudizio».

(2) Da ricordare, con Cass., sez. II, 20 giugno 2005, n. 13218, in Giust. civ., 2006, I, 361, che «l’onere di espressa riproposizione in appello delle eccezioni non accolte in primo grado, intendendosi per tali quelle sulle quali il giudice non abbia espressamente pronunciato, riguarda esclusivamente le eccezioni in senso proprio, attinenti cioè a fatti modificativi, estintivi o impeditivi, e non anche le contestazioni sull’esistenza del fatto costitutivo della domanda o di elementi dello stesso, le quali devono ritenersi implicitamente comprese nella richiesta di rigetto dell’appello formulata dall’appellato vittorioso nel giudizio di primo grado». Al rigore della regola si sottraggono altresì le istanze istruttorie (cfr. Cass., sez. III, 26 ottobre 2000, n. 14135, in Foro it., 2002, I, col. 227) e le fonti di prova, in ispecie quelle già acquisite al processo e in ipotesi dichiarate inammissibili dal giudice precedente: esse, anche in difetto di una espressa impugnazione sul punto, ben possono venire utilizzate ai fini della decisione (cfr. Cass., sez. trib., 16 aprile 2008, n. 9917, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. I, 12 settembre 2003, n. 13430, in Fall., 2004, 1104; contra Cass., sez. III, 25 febbraio 2009, n. 4496, in Mass. Foro it., 2009, 265).

(3) Cass., sez. trib., 12 febbraio 2008, n. 3330, in Boll. Trib. On-line; nel sostenere la legittimità costituzionale del precetto in quanto non incompatibile con il canone della parità delle parti, attesa «la diversità di regime del contenuto dell’atto di appello, a seconda che appellante sia l’Amministrazione ovvero il contribuente (tenuto alla specifica riproposizione delle questioni assorbite)», la decisione citata dà per (frettolosamente) scontato che l’atto impugnato «contiene l’enunciazione di dette ragioni [i motivi a sostegno dell’atto stesso, n.d.a.], oltre che dei relativi presupposti di fatto, stabilendo, nel contempo, i limiti dell’oggetto del giudizio». Il che, per ragionamento a negativis e in nome di un elementare valore di reciprocità, comporta che le conclusioni tratte (sostanzialmente favorevoli a priori alla posizione della mano pubblica) non possano che mutare radicalmente ove il provvedimento autoritativo taccia colpevolmente su questo o quel passaggio saliente dell’impalcatura motivazionale.

(4) Cass., sez. trib., 29 luglio 2005, n. 16049, in Boll. Trib. On-line; la decisione fa due affermazioni particolarmente significative nel presente discorso: la prima («È l’atto impugnato che contiene l’enunciazione della pretesa tributaria e dei suoi presupposti e che stabilisce, nel contempo, i limiti dell’oggetto del giudizio»), peraltro frequente, esprime un concetto incompleto, se è vero che l’ambito della lite tributaria è definito non solo dall’atto impugnato, ma anche, all’interno della cornice da esso tracciata, dal ricorso, pienamente titolato a circoscrivere, nell’interesse stesso del contribuente (si pensi alla responsabilità per le spese processuali), la materia del contendere. Visivamente il modello può essere rappresentato da due corone circolari, dove la più piccola può, nella sua massima estensione, coincidere con la più grande (vi si ritornerà entro breve nel testo); la seconda affermazione anticipa l’odierna massima così esprimendosi: «Pertanto, le ragioni poste a base dell’atto impositivo impugnato s’intendono acquisite al giudizio e l’Amministrazione finanziaria, che non sia impugnante, non ha l’onere di riproporre tali ragioni, che devono ritenersi sottratte al dibattito processuale soltanto a seguito di precisa volontà manifestata dall’Amministrazione stessa».

(5) Cass., sez. trib., 18 ottobre 2001, n. 12700, in Boll. Trib. On-line. Vi leggiamo un passo illuminante che merita di essere interamente riprodotto: «Nei gradi di impugnazione, il principio dell’interesse ad agire si configura diversamente che nel giudizio di primo grado, dovendo tener conto dell’intervenuta pronuncia della sentenza di primo grado, idonea ad assumere la consistenza del giudicato per le parti non impugnate, a causa dei limiti dell’effetto devolutivo dell’appello. Nel decidere su tale interesse, e quindi sull’ammissibilità dell’impugnazione proposta, si deve avere riguardo agli effetti che potrebbero derivare dal suo accoglimento e alla loro idoneità a soddisfare un interesse della parte impugnante in relazione ai temi del giudizio. Nel caso in esame, la sentenza della Commissione tributaria di primo grado aveva annullato la cartella esattoriale impugnata dal contribuente perché notificata oltre il termine. La stessa Commissione non si era pronunciata sugli altri vizi della cartella, denunciati dal contribuente, sicché su tali questioni, ritenute assorbite dal motivo di annullamento accolto, non era configurabile alcuna soccombenza dell’Amministrazione. La parte soccombente, che aveva indubbiamente interesse a rimuovere la decisione che le dava torto, aveva l’onere di proporre appello contro la sentenza, ma l’onere era esteso e al tempo stesso limitato alle rationes decidendi poste a fondamento della sentenza medesima. Non v’è dubbio, invero, che l’accoglimento delle ragioni dell’appello doveva per necessità condurre alla riforma della sentenza impugnata, nella parte in cui annullava l’atto impositivo per l’intervenuta decadenza dell’Amministrazione, parte che nella fattispecie esauriva l’intera pronuncia giudiziale di primo grado; e ciò è quanto è poi in fatto avvenuto. Né l’appellante aveva l’onere di svolgere, in aggiunta ai motivi di censura della sentenza, delle difese con riguardo a questioni sulle quali il giudice di primo grado non si era pronunciato».

(6) Cass., sez. trib., 5 aprile 2013, n. 8372, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cfr. Cass., sez. trib., 24 gennaio 2007, n. 1545, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. I, 20 settembre 2002, n. 13763, in Mass. Foro it., 2002.

(8) Cfr. Cass., sez. I, 20 agosto 2004, n. 16360, in Mass. Foro it., 2004.

(9) Cfr. Cass., sez. trib., 27 ottobre 2000, n. 14196, in Boll. Trib. On-line.

(10) Illuminante sul punto Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro it., 2006, I, col. 1433: «Nel vigore del codice di rito del 1865, “l’appellazione” si configurava come un gravame diretto a provocare, anche senza alcuna e concreta indicazione dei capi impugnati, la “prosecuzione” del giudizio di primo grado, ripreso nella condizione in cui si trovava prima della chiusura della discussione, davanti ad un giudice diverso, allo scopo (non già di porre riparo ai vizi della precedente fase o della sentenza impugnata, fatti oggetto di specifica censura, ma) di procedere ad un nuovo esame della lite già decisa. In tale nuova fase, le parti, ferme le preclusioni già maturate e nei limiti della domanda proposta, fruivano di tutti i mezzi istruttori che avrebbero potuto impiegare in primo grado e il giudice d’appello era investito, nell’ambito dei capi impugnati, della piena cognizione della lite trattata nella precedente fase (e, quindi, di tutte le questioni, già esaminate o esaminabili in tale fase, anche se non riproposte in grado d’appello), usufruendo di poteri identici a quelli attribuiti al primo giudice … Nel corso dei lavori preparatori del nuovo codice di procedura civile si rilevò tuttavia che il giudizio d’appello, così concepito, finiva spesso per “ridurre quello di primo grado ad un semplice saggio preliminare”, riservando la trattazione dei “problemi più salienti e le prove più importanti” alla fase d’appello (Relazione del Guardasigilli al progetto definitivo), con grave pregiudizio per la sollecita definizione dei processi. Di qui la proposta: a) di vietare, nel giudizio d’appello, la proposizione di nuove eccezioni, di nuovi documenti e la richiesta di nuovi mezzi di prova, ad eccezione del giuramento decisorio, “salvo che l’interesse o la possibilità di valersene” fossero “sorti dopo la chiusura del giudizio di primo grado”; b) di stabilire che dovevano intendersi abbandonate le domande e le eccezioni “non accolte” nella sentenza di primo grado, non riproposte in appello, salvo quelle rilevabili d’ufficio, facendo venir meno la possibilità, invece riconosciuta dal diritto previgente che attribuiva a tale mezzo di gravame pieno effetto devolutivo, di riesaminarle senza iniziativa della parte interessata; c) di prescrivere che l’atto d’appello contenesse la specificazione dei motivi d’impugnazione, e non si limitasse, quindi, ad una generica richiesta di riforma della sentenza di primo grado Le proposte puntualizzate alle lettere a) e b) sono state recepite senza riserve dal nuovo codice di rito».

(11) È giurisprudenza pacifica (per tutte cfr. Cass., sez. I, 20 luglio 2004, n. 13423, in Giur. it., 2005, 1432) che «l’onere di espressa riproposizione in appello riguarda le domande ed eccezioni non esaminate o non accolte dal giudice e pertanto non è estensibile alle domande ed eccezioni che il primo giudice abbia invece esaminato ed accolto, per ribadire le quali, salva l’ipotesi di una linea difensiva con esse incompatibile, è sufficiente che la parte vittoriosa richieda la conferma della sentenza impugnata ex adverso».

(12) Simmetricamente, la riproposizione delle domande e delle eccezioni non accolte in primo grado deve essere formulata in maniera espressa, chiara e specifica, non bastando il mero rinvio alle difese sviluppate in primo grado (cfr. Cass. n. 16360/2004, cit.). Da ricordare, sul tema, che «una eccezione deve ritenersi rinunciata non solo quando non sia stata riproposta in appello, ma anche quando, in entrambi i gradi di giudizio, sia stata formulata una richiesta che contrasti con il mantenimento e con la riproposizione dell’eccezione stessa» (così sempre Cass. n. 16360/2004, cit.).

(13) L’art. 56 collima con il dettato del precedente art. 53, primo comma, ove, tra gli elementi imprescindibili del ricorso in appello, sono enunciati «l’oggetto della domanda ed i motivi specifici dell’impugnazione» (elementi tutti prescritti a pena di inammissibilità in caso di loro mancanza o di «assoluta incertezza»).

(14) Essenza e regime dell’acquiescenza sono descritti all’art. 329 c.p.c.: «1.Salvi i casi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 [quattro dei sei casi di revocazione delle sentenze civili], l’acquiescenza risultante da accettazione espressa o da atti incompatibili con la volontà di avvalersi delle impugnazioni ammesse dalla legge ne esclude la proponibilità. 2. L’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate».

(15) Cfr. Cass., sez. I, 5 settembre 1997, n. 8605, in Giur. it., 1998, 1103; conforme Cass., sez. III, 9 ottobre 1998, n. 10029, in Mass. Foro it., 1998.

(16) Cfr. Cass., sez. trib., 27 agosto 2001, n. 11272, in Boll. Trib. On-line. Prezioso l’insegnamento impartito da Cass. n. 8605/1997, cit., secondo la quale «non può configurarsi l’omessa pronuncia le volte in cui sussistano le condizioni di una reiezione implicita del capo di domanda sul quale non è stata adottata esplicita statuizione o di un assorbimento dello stesso capo nella decisione di altro dal quale il primo dispensa, in tali casi sussistendo ipotesi di rigetto o di accoglimento implicito e non certo di assenza di pronunzia

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».

(17) Cfr. Cass., sez. II, 26 giugno 2006, n. 14755, in Mass. Foro it., 2006, 1170. Contra in dottrina P. Russo, Appello, IV) Diritto tributario, in Enc. giur. Treccani, 1998, II, 7.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Ragioni poste a fondamento dell’atto impositivo impugnato – Restano acquisite agli atti del processo – Onere dell’Amministrazione finanziaria di riproporle in appello se non esaminate in primo grado – Non sussiste – Formazione del giudicato interno sul punto – Esclusione.

Procedimento – Ricorsi – Appello – Ragioni poste a fondamento dell’atto impositivo impugnato – Restano acquisite agli atti del processo – Onere dell’Amministrazione finanziaria di riproporle in appello se non esaminate in primo grado – Non sussiste – Formazione del giudicato interno sul punto – Esclusione.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Produzione di nuovi documenti in grado di appello – Ammissibilità – Termine perentorio di 20 giorni liberi prima dell’udienza di trattazione ex art. 32 del D.Lgs. n. 546/1992 – Applicabilità al giudizio d’appello – Sussiste – Documento tardivamente prodotto – Inibisce al giudice di fondare la decisione su tale documento – Sanabilità della tardiva produzione documentale – Esclusione.

Procedimento – Ricorsi – Appello – Produzione di nuovi documenti – Ammissibilità – Termine perentorio di 20 giorni liberi prima dell’udienza di trattazione ex art. 32 del D.Lgs. n. 546/1992 – Applicabilità al giudizio d’appello – Sussiste – Documento tardivamente prodotto – Inibisce al giudice di fondare la decisione su tale documento – Sanabilità della tardiva produzione documentale – Esclusione.

Procedimento – Commissioni – Poteri istruttori – Consulenza tecnica d’ufficio – Potere del giudice di chiedere chiarimenti al consulente tecnico o di rinnovare la consulenza – Sussiste.

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Presunzione di imponibilità delle movimentazioni bancarie – Costituisce una presunzione legale relativa – Onere di prova contraria a carico del contribuente – Sussiste – Consulenza tecnica d’ufficio che abbia ritenuto giustificata ampia parte delle movimentazioni – Non inficia l’intero accertamento – Dovere del giudice di rideterminare l’imponibile – Sussiste.

 Nel processo tributario, in ragione della sua natura di processo di impugnazione di atti autoritativi dell’Amministrazione finanziaria, le ragioni poste a base dell’atto impugnato, che contiene l’enunciazione di dette ragioni e dei relativi presupposti di fatto, stabilendo nel contempo i limiti dell’oggetto del giudizio, si intendono acquisite agli atti del processo, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria, qualora in primo grado le questioni di merito poste a fondamento dell’atto impugnato non siano state esaminate in quanto ritenute assorbite dall’accoglimento di altre questioni preliminari proposte dal contribuente, non ha l’onere di riproporle nell’atto di appello, potendo esse ritenersi sottratte al dibattito processuale soltanto a seguito di precisa volontà manifestata dall’Amministrazione stessa.

In tema di contenzioso tributario, l’art. 58 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., ma tale attività processuale va esercitata, stante il richiamo operato dal successivo art. 61 alle norme relative al giudizio di primo grado, entro il termine previsto dall’art. 32, primo comma, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui al precedente art. 24, primo comma, e tale termine, anche in assenza di espressa previsione legislativa, deve ritenersi di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, riguardanti il rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio; ne consegue che resta inibito al giudice di appello fondare la propria decisione sul documento tardivamente prodotto anche nel caso di rinvio meramente interlocutorio dell’udienza su richiesta del difensore, o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva, essendo la sanatoria a seguito di acquiescenza consentita solo con riferimento alla forma degli atti processuali, e non anche relativamente all’osservanza dei termini perentori.

Il secondo comma dell’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, attribuisce alle Commissioni tributarie il potere di disporre la consulenza tecnica d’ufficio e in tale potere officioso deve necessariamente ricomprendersi la facoltà del giudice, ove ritenuto necessario, di richiamare il consulente a chiarimenti ovvero di rinnovare la consulenza peritale, non essendo la consulenza tecnica d’ufficio un mezzo di prova soggetto al potere dispositivo delle parti.

A norma dell’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, i singoli dati ed elementi risultanti dai conti correnti bancari sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili; tale norma attribuisce alle risultanze delle indagini bancarie un valore probatorio da ricondurre alle presunzioni legali, fatta salva la prova contraria che incombe sul contribuente, e perciò le risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio che abbia ritenuto giustificata ampia parte delle movimentazioni bancarie non appaiono idonee ad inficiare la fondatezza dell’intero avviso di accertamento emesso dall’Ufficio finanziario, essendo onere del contribuente dare puntuale e precisa giustificazione di ogni singolo movimento bancario, e rientrando nei poteri del giudice tributario quello di rideterminare l’imponibile.

 [Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Cappabianca, rel. Crucitti), 29 novembre 2013, sent. n. 26741, ric. Agenzia delle entrate]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – NM impugnò l’avviso di accertamento con il quale il locale Ufficio delle Entrate aveva rideterminato, ai fini IRPEF ed ILOR, il reddito di impresa per l’anno 1996 e, ciò, a seguito di diversi processi verbali di constatazione della Polizia Tributaria la quale, in presenza di contabilità non regolarmente tenuta, aveva assunto, a base delle rettifiche, costi indeducibili per carenza di documentazione e movimenti bancari di un conto corrente intestato al M nonché di due libretti a risparmio, ritenendo che tutte le operazioni registrate fossero relative a ricavi non dichiarati.

L’adita Commissione Tributaria Provinciale, sulla base delle risultanze di una esperita consulenza tecnica d’ufficio, accoglieva il ricorso con decisione che, appellata dall’Agenzia delle Entrate, veniva confermata dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna con la sentenza indicata in epigrafe.

I Giudici di appello, rilevato preliminarmente che sulla statuizione relativa ai costi indeducibili si era formato il giudicato implicito, ritenevano che le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio (secondo cui almeno il 70,98% delle somme versate nei libretti bancari nel corso dell’anno 1996 era quasi certamente relativo a movimenti annotati in contabilità e, quindi, a ricavi dichiarati mentre per il restante 29,02% esistevano indizi ed elementi tecnici tesi ad avvalorare la tesi del ricorrente) avevano apportato in causa elementi indiziari, di pari valore probatorio di quelli presuntivi addotti dall’Ufficio, che escludevano la definitiva operatività di quest’ultimi.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, l’Agenzia delle Entrate.

NM non ha svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE– 1. Con il primo motivo di ricorso – rubricato violazione e falsa applicazione dell’art. 56 d.lgs. 31.12.1992 n. 546, in relazione all’art. 360 n. 4, c.p.c. – si deduce l’errore in cui sarebbe incorsa la Commissione Tributaria emiliana nel ritenere che sui costi non ammessi in detrazione ed ai redditi da capitale si fosse formato il giudicato implicito non essendo stata la statuizione, emessa sul punto dalla Commissione Tributaria Provinciale, fatta oggetto di specifica impugnativa da parte dell’Ufficio.

Secondo la prospettazione difensiva, invece, la sentenza di primo grado aveva del tutto tralasciato, nel fatto e nel merito, tutti i rilievi diversi da quelli aventi ad oggetto l’esito delle indagini bancarie mentre in appello l’Ufficio aveva ribadito la legittimità del proprio operato richiamandosi ad entrambi i processi verbali di constatazione e, quindi, anche al rilievo per i costi indeducibili e la ripresa a tassazione del reddito da capitale.

1.1. Il motivo è fondato. Al riguardo, questa Corte ha già avuto modo di affermare, in fattispecie analoga alla presente (Cass. n. 3330/2008 (1); id. n. 16049/2005 (2); id. n. 12700/2001 (3)), il principio, condiviso dal Collegio, per cui nel processo tributario, in ragione della sua natura di processo di impugnazione di atti autoritativi dell’Amministrazione finanziaria, le ragioni poste a base dell’atto impugnato (che contiene l’enunciazione di dette ragioni, oltre che dei relativi presupposti di fatto, stabilendo, nel contempo, i limiti dell’oggetto del giudizio) si intendono acquisite agli atti del processo, con la conseguenza che l’Amministrazione, qualora in primo grado le questioni di merito poste a fondamento dell’atto impugnato non siano state esaminate in quanto ritenute assorbite dall’accoglimento di altre questioni preliminari proposte dal contribuente, non ha l’onere di riproporle nell’atto di appello, potendo esse ritenersi sottratte al dibattito processuale soltanto a seguito di precisa volontà manifestata dall’Amministrazione stessa.

Nella specie, peraltro, con l’atto di appello l’Amministrazione finanziaria aveva ribadito la legittimità del proprio operato e chiesto espressamente, in riforma della sentenza di primo grado, la conferma dell’atto impugnato.

Pertanto, in applicazione del principio sopra esposto, il processo d’appello doveva necessariamente comprendere le questioni di merito poste a base dell’accertamento e, a fronte della domanda articolata in appello, certamente non poteva ritenersi, come invece erroneamente statuito dalla Commissione regionale, che sui rilievi aventi ad oggetto i costi non ammessi in detrazione ed i redditi di capitale si fosse formato il giudicato.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, sempre ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., la violazione dell’art. 32 e dell’art. 58 comma 2 d.lgs. n. 546/1992. In particolare, viene censurato il passo della sentenza con il quale è stata ritenuta inammissibile la produzione da parte dell’Agenzia delle Entrate per il mancato rispetto del termine fissato dall’art. 32 citato. Secondo la prospettazione difensiva il deposito di documenti era consentito anche nel caso, verificatosi nella specie, di rinvio dell’udienza di discussione.

2.1. Il motivo è infondato. All’uopo è sufficiente ribadire il principio espresso da questa Corte (Sentenza n. 2787/2006 (4); n. 23580/2009 (5)) secondo cui “In tema di contenzioso tributario, l’art. 58 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli i stretti limiti consentiti dall’art. 345 cod. proc. civ., ma tale attività processuale va esercitata – stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato d.lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado – entro il termine previsto dall’art. 32, comma primo, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma primo. Tale termine, anche in assenza di espressa previsione legislativa, deve ritenersi di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio): con la conseguenza che resta inibito al giudice di appello fondare la propria decisione sul documento tardivamente prodotto anche nel caso di rinvio meramente “interlocutorio” dell’udienza su richiesta del difensore, o di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva, essendo la sanatoria a seguito di acquiescenza consentita con riferimento alla forma degli atti processuali e non anche relativamente all’osservanza dei termini perentori (art. 153 cod. proc. civ.)”.

3. Con il terzo motivo, articolato anch’esso ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c., si deduce la violazione dell’art. 7 d.lgs. n. 546/92. In particolare, si censura la Commissione emiliana per avere ritenuto il proprio difetto di potere nell’acquisire elementi conoscitivi utili al fine di esaminare nel merito la controversia (richiamo del Consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado ovvero rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio).

3.1. Il motivo è fondato alla luce del chiaro disposto di cui al secondo comma dell’art. 7 citato il quale attribuisce alle Commissioni tributarie il potere di disporre consulenza tecnica d’ufficio. Non appare, infatti, revocabile in dubbio che in tale potere officioso, debba necessariamente ricomprendersi – non essendo la consulenza tecnica d’ufficio un mezzo di prova soggetto al potere dispositivo delle parti – la facoltà del Giudice, ove ritenuto necessario, di richiamare il consulente a chiarimenti ovvero di rinnovare la consulenza peritale.

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 32 d.p.r. n. 600/73, e con il quinto motivo, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., insufficiente motivazione.

4.1. I motivi sono fondati. La sentenza impugnata, infatti – con motivazione insufficiente per non avere esplicitato le ragioni per cui le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, sia pure parziali ed incomplete, travolgessero integralmente i rilievi contenuti negli avvisi di accertamento – ha, anche, malamente applicato la norma indicata in rubrica a mente della quale “i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili. Detta norma, come costantemente affermato da questa Corte, attribuisce alle risultanze delle indagini bancarie un valore probatorio da ricondurre alle presunzioni legali fatta salva la prova contraria che incombe sul contribuente.

E, nella specie, le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio la quale ha ritenuto giustificate solo alcune delle movimentazioni bancarie non appaiono idonee – a maggior ragione a fronte della irregolare tenuta delle scritture contabili (come accertato dalla stessa Commissione tributaria regionale) – ad inficiare la fondatezza dell’intero accertamento essendo onere del contribuente dare puntuale e precisa giustificazione di ogni singolo movimento bancario e rientrando nei poteri del giudice tributario quello di rideterminare l’imponibile.

Tale tipo di accertamento è stato del tutto omesso dal Giudice di appello.

Pertanto, in accoglimento del ricorso, rigettato solo il secondo motivo, la sentenza impugnata va cassata disponendosi il rinvio ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Emilia Romagna la quale, alla luce dei principi sopra enunciati, provvederà, oltre che a regolare le spese processuali, all’esame delle questioni pretermesse ed ad un nuovo accertamento in fatto.

P.Q.M. (Omissis).

(1) Cass. 12 febbraio 2008, n. 3330, in Boll. Trib. On-line.

(2) Cass. 29 luglio 2005, n. 16049, in Boll. Trib. On-line.

(3) Cass. 18 ottobre 2001, n. 12700, in Boll. Trib. On-line.

(4) Cass. 8 febbraio 2006, n. 2787, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cass. 6 novembre 2009, n. 23580, in Boll. Trib. On-line.