8 Agosto, 2014

Una delle novità più rilevanti conseguente alla introduzione del comma 2-ter all’art. 13 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 642 (di seguito: tariffa1), è senz’altro rappresentata dalla inclusione nella tassazione c.d. “permillare” anche dei c.d. “conti deposito”, uno strumento che ha registrato un notevole interesse fra la clientela bancaria in questi ultimi anni, sempre alla ricerca di nuove e relativamente semplici opportunità di impiego dei propri risparmi.

Ciò è derivato dall’inciso, riguardante anche i certificati di deposito (1), inserito in detta disposizione dall’art. 8, comma 13, del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44), secondo cui sono imponibili, con l’aliquota del 1,5 per mille del valore esposto, le comunicazioni relative ai prodotti finanziari: «… ivi compresi i depositi bancari e postali, anche se rappresentati da certificati».

Invero proprio la finalità prevalentemente orientata a scopi di risparmio connessa alla scelta di tali forme di prodotti bancari aveva suscitato in alcuni, anche a livello estremamente autorevole (2), notevoli perplessità, atteso che questi rapporti venivano ricompresi espressamente dal legislatore in una forma di tassazione alquanto onerosa [del resto, proprio lo stesso TUF esclude i depositi di denaro tra gli strumenti finanziari, cfr. art. 1, lett. u), del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58], tipica dei prodotti di investimento, mentre sembrava come più naturale la loro assimilazione con i conti correnti e i libretti di risparmio, già considerati nel precedente comma 2-bis dell’art. 13 della tariffa1, pena la possibile insorgenza di distorsioni concorrenziali (3).

Per il Garante infatti: «l’applicazione di una tassazione differente per i libretti di risparmio e per i c.d. conti deposito non appare giustificata alla luce del fatto che i due prodotti presentano la stessa funzione giuridica e finalità economica, differenziandosi esclusivamente per il supporto cartaceo nel quale vengono effettuate le annotazioni sui movimenti (art. 1835 c.c.).

Allo stesso tempo introdurre una no tax area per i libretti di risparmio e per i conti correnti, escludendola per i conti deposito, determina per quest’ultimo prodotto un ingiustificato svantaggio concorrenziale e rischia di creare una differenziazione tra prodotti equivalenti con conseguente freno allo sviluppo del conto deposito, il quale rappresenta uno strumento di risparmio innovativo e competitivo all’interno del settore bancario».

Sostanzialmente il conto deposito, rispetto agli analoghi depositi regolati in conto corrente (rispetto ai quali non offre gli stessi tipici servizi di pagamento, come gli assegni, i bonifici, addebiti di prelevamenti tramite bancomat, ecc.) e i libretti di risparmio, è un prodotto bancario spesso offerto on line, con investimento minimo, a costo zero e con tassi di rendimento più elevati rispetto ai precedenti.

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La sua innovativa connotazione telematica, inoltre, favorisce l’avvicinamento del consumatore bancario italiano al sistema internet che risulta senz’altro più conveniente, anche se ancora non sufficientemente diffuso. Ciò contribuisce ad implementare l’educazione finanziaria e incentiva il confronto degli strumenti bancari favorendo la scelta del migliore prodotto e l’assetto concorrenziale del mercato.

Come si ricorderà, in passato, il “rendiconto annuale” che il cliente del conto deposito riceve non rientrava nell’ambito di applicazione del previgente comma 2-bis dell’art. 13 della tariffa1, che prevedeva un’imposta periodica di 34,20 euro per le persone fisiche sugli estratti dei conti correnti bancari (di corrispondenza) e sulle comunicazioni relative ai depositi titoli, inviati dalle banche ai clienti ai sensi dell’art. 119 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, c.d. “TUB”.

Quindi in linea di principio, essendo il conto di deposito diverso dal contratto di conto corrente bancario, il relativo contratto di accensione avrebbe scontato l’imposta di bollo di cui alla nota 2-bis dell’art. 2 della tariffa1, allora pari a 14,62 euro, indipendentemente dal numero degli esemplari o copie e numero dei fogli che lo componevano, mentre sui relativi rendiconti cartacei inviati alla clientela sarebbe stata dovuta l’imposta indicata al primo comma dell’art. 13 della tariffa1 (allora pari a 1,81 euro, quando la somma indicata a saldo superava i 77,47 euro).

Tuttavia il conto deposito richiede, per la sua completa operatività, il collegamento con un ordinario conto corrente bancario (c.d. “conto d’appoggio”), acceso presso la stessa banca con la quale il cliente stipula il contratto di deposito collegato, ma anche presso una banca diversa, purché con la stessa intestazione.

Pertanto, nel caso in cui il contratto di conto-deposto è collegato ad un conto corrente intestato allo stesso cliente presso la medesima banca, sia il contratto di deposito sia gli estratti conto inviati alla clientela con riferimento a detto deposito (nonché le eventuali ricevute cartacee relative ai versamenti e ai prelievi in contante sullo stesso deposito) non dovevano essere assoggettati autonomamente a bollo, in quanto necessariamente e tecnicamente collegati ad un “conto di appoggio” regolato in conto corrente già, in quanto tale, autonomamente tassato, a questo scopo, in virtù del noto effetto “sostitutivo” dell’imposta periodica di bollo dovuta sulle relative comunicazioni, in forza del disposto della nota 3-ter apposta in calce allo stesso art. 13 della tariffa1.

Tale conclusione risultava suffragata dalla stessa Agenzia delle entrate (seppure in riferimento alla diversa fattispecie dei documenti attinenti alle carte di credito) (4) che, pur riscontrando la piena autonomia di due rapporti giuridici distinti che un cliente può intrattenere con la medesima banca, di cui uno in conto corrente, ha riconosciuto che, qualora le operazioni relative al rapporto diverso siano regolate in conto corrente, gli estratti conto e i documenti emessi in relazione a tale distinto rapporto non scontano autonomamente l’imposta di bollo, in quanto detto tributo è sostituito dall’imposta di bollo periodica dovuta sugli estratti del conto corrente bancario collegato.

Ove invece il “conto di appoggio”, su cui effettuare gli eventuali giroconti su disposizione del titolare del conto deposito, sia radicato presso una banca diversa, detto effetto sostitutivo non si poteva realizzare, sicché sul relativo contratto e sulle rendicontazioni si doveva applicare la specifica misura dell’imposta prevista e sopra indicata.

D’altro canto, proprio in virtù del fatto che non si realizzava detto effetto “sostitutivo”, le eventuali contabili di versamento e di prelevamento diretto di denaro contante sul conto deposito non scontavano comunque l’imposta di bollo, in virtù dell’esenzione assoluta prevista dall’art. 7 della Tabella allegata allo stesso D.P.R. n. 642/1972, per i documenti recanti addebitamenti e accreditamenti formati, emessi o ricevuti dalle banche non soggetti, appunto, all’imposta sostitutiva di cui al comma 2-bis dell’art. 13 della tariffa1.

Tali argomentazioni avevano, peraltro, indotto le banche a promuovere politiche commerciali che, per indurre la clientela a sottoscrivere contratti di deposito di tal fatta, assicuravano l’accollo della relativa imposta di bollo ove eventualmente risultasse dovuta.

L’introduzione dell’attuale imposta proporzionale (con l’applicazione, comunque, di un importo minimo annuale di 34,20 euro) ha portato al superamento, perlopiù, di tali iniziative.

Invero, in un primo momento, si è tentato di percorre altre strade per rendere appetibili strumenti di risparmio simili che avrebbero assicurato un trattamento fiscale più contenuto. Ad esempio, si sono studiate ipotesi di contratti di conto corrente di corrispondenza, rientranti perciò nell’ipotesi di tassazione di cui al ripetuto comma 2-bis, che – almeno per una parte del suo contenuto – assicurino al cliente tassi creditori più favorevoli a fronte di un vincolo imposto sulla durata minima delle somme ivi depositate.

Su tale questione aveva espresso le sue valutazioni l’ABI (5), sottolineando la circostanza della differente disciplina tra i due prodotti che trovano la loro regolamentazione nella disciplina del conto corrente, ai sensi dell’art. 1852 c.c., piuttosto che nella previsione dell’art. 1834 c.c. in cui viene invece disciplinato il deposito bancario di denaro.

A questo proposito veniva richiamata anche la posizione della stessa Amministrazione finanziaria (6), secondo cui: «caratteristica dell’operazione di conto corrente è l’esistenza o la creazione di una disponibilità del cliente presso la banca, la quale svolge un servizio di cassa. Pagamenti e riscossioni sono annotati sul conto in addebito e in accredito, e il saldo è sempre a disposizione del correntista (ex art. 1852 c.c.)».

Nel conto corrente bancario di corrispondenza assume quindi particolare rilievo la funzione di “pagamento”, non presente invece nel contratto di deposito.

A fronte di tale ricostruzione, si sono sviluppate configurazioni di forme di “deposito” associate ad un conto corrente, finalizzate ad assicurare un maggior rendimento ai correntisti che rispettino determinati vincoli di utilizzo per un tempo prestabilito, ma senza pregiudicare per questo la possibilità per il cliente di ottenere la restituzione delle somme versate sul conto in qualsiasi momento.

Si è ritenuto, quindi, che tali particolari caratteristiche non avrebbero fatto perdere, di per sé, al rapporto la natura civilistica del conto corrente per ricadere nella figura giuridica diversa del deposito considerata dalla nuova normativa sul bollo dal comma 2-ter dell’art. 13 della tariffa1.

Seguendo tale logica, la sola tassazione che sembrava applicabile per il contratto di conto corrente così unitariamente configurato – comprensivo quindi anche delle somme per i quali il computo degli interessi viene effettuato in modo separato sulla base delle condizioni specificatamente pattuite – doveva essere quella stabilita dal comma 2-bis dello stesso citato articolo, con l’applicazione dell’imposta sostitutiva in misura fissa (e la soglia di esenzione per le giacenze “medie” inferiori a 5.000 euro).

L’attesa interpretazione sull’argomento dell’Amministrazione finanziaria (7) ha però disatteso tali indicazioni (e, in fondo, le stesse indicazioni fornite dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Marcato).

Sottolineando, innanzitutto, che ciò che caratterizza il rapporto di conto corrente è il “servizio di cassa”, per cui chi intende aprirlo non si propone di realizzare un investimento e può disporre in qualsiasi momento delle somme risultanti a suo credito, salvo l’osservanza di un termine di preavviso eventualmente pattuito, l’Agenzia delle entrate richiama una nota della Banca d’Italia (8), alla quale si era appositamente rivolta.

Nella sua risposta invero l’Autorità di vigilanza osserva che la nozione di “deposito” di denaro comprende, per prassi bancaria:

i depositi che costituiscono la provvista di un conto corrente;

i depositi con funzione diversa, nei quali si possono comprendere non solo i contratti giuridicamente distinti dal conto corrente (certificati di deposito, depositi alimentati attraverso un conto corrente “di appoggio”, ecc.), ma anche i depositi regolati in conto corrente la cui funzione principale non sia quella di fornire una provvista al conto.

La circostanza che le giacenze di un deposito in conto corrente siano remunerate non sembra invece costituire, di per sé, un ostacolo a che le medesime costituiscano la provvista del conto.

L’Autorità di vigilanza nota, peraltro, che descritte diverse forme di deposito in conto corrente non hanno una diversa disciplina ai fini della normativa bancaria: ad esempio, ai fini della tutela offerta dai sistemi di garanzia dei depositanti ai sensi dell’art. 96-bis del TUB vengono in rilievo tutte le tipologie di deposito nominativo, compreso quello in conto corrente.

Secondo però le ulteriori considerazioni esplicitate nella richiamata declaratoria dall’Agenzia delle entrate, per la seconda specie di rapporti di deposito sopra delineata, la cui funzione non sarebbe quella di fornire provvista al conto corrente, la formula di tassazione ai fini del bollo deve essere quella percentuale di cui al comma 2-ter.

Sostanzialmente, anche se il deposito è regolato in conto corrente, la predetta misura proporzionale dell’imposta si deve applicare, in via autonoma, alle rimanenti somme contemporaneamente detenute nel conto corrente, anche se fruttifere di un proprio tasso di interesse, in quanto rappresentano: «… giacenze che risultano vincolate, ovvero per le quali il cliente perde la libera disponibilità, fintanto che permane il vincolo», anche se tali giacenze non devono essere considerate ai fini della valutazione complessiva della posizione del cliente persona fisica, per la verifica del limite di esenzione di 5.000 euro di giacenza, disposto dalla nota 3-bis dello stesso art. 13 della tariffa1.

Questo perché, con l’accordo con il quale si dispone la “segregazione”, le somme “vincolate” perdono la funzione principale di fornire una provvista al rapporto di conto corrente.

Come si è visto, l’Amministrazione finanziaria chiama a sostegno della propria tesi una specifica nota della Banca d’Italia ma, a ben vedere, aggiunge inopinatamente, rispetto al parere dell’Autorità di vigilanza, ulteriori requisiti non esplicitati nella nota stessa, come quelli del “vincolo”, della “indisponibilità” e della “segregazione” delle somme, normalmente retribuite con un più favorevole tasso di interesse, che con l’accordo del cliente sono riservate, a suo dire, a “scopo di investimento” nell’ambito della complessiva giacenza nel conto corrente. Alla sussistenza di queste condizioni, tornerebbe applicabile a questa quota di giacenza la più onerosa tassazione del comma 2-ter rispetto al rimanente, per il quale rimane applicabile il tributo fisso annuale di cui al precedente comma 2-bis (e, fatta salva, per le persone fisiche, la loro non computabilità nella soglia di esenzione dall’imposta di 5.000 euro).

Ma se si portasse alle estreme conseguenze l’utilizzo di tali locuzioni, si potrebbe sostenere che l’interpretazione ministeriale troverebbe applicazione solamente nei casi in cui tali caratteristiche di vincolo/indisponibilità/segregazione funzionassero in senso assoluto, ossia sia al cliente che alla banca sarebbe inibita la disponibilità di dette somme fino a quando sussista nel tempo detto vincolo.

Così, ad esempio, al cliente sarebbe preclusa la possibilità di prelevare le somme vincolate fino alla scadenza del vincolo, come la banca non potrebbe rivalersi su di esse nel caso debba onorare un assegno ricevuto e per il quale non avesse provvista sufficiente nella rimanente giacenza, non vincolata, di somme sul conto corrente.

Ma tale è una fattispecie che sostanzialmente non si realizza mai nella realtà, mentre l’Amministrazione finanziaria aveva senz’altro in mente, nell’esprimere la sua posizione, quella ben più diffusa, in cui il cliente si impegna a mantenere sul conto una certa somma, a fronte del riconoscimento di un più favorevole tasso creditore, senza che però questo “vincolo” gli impedisca in assoluto, sorgendo particolari necessità nel futuro, di disporre di tali somme in qualsiasi momento perdendo, ovviamente, i più favorevoli interessi all’origine pattuiti.

Data però l’esplicita interpretazione ministeriale, non ci sentiamo di suggerire di sottoporre alla tassazione tipica dei conti correnti anche queste diffuse fattispecie. Risulta invero evidente che con essa l’Agenzia delle entrate abbia voluto ricomprendere nella tassazione più onerosa anche quelle quote comunque “vincolate” di giacenza nel rapporto, seppur regolate unitariamente come conto corrente, riconoscendo a queste somme, più che una funzione propria di “servizio di cassa/pagamento”, quella di “investimento” dei propri risparmi, come avviene prevalentemente con la sottoscrizione di prodotti finanziari.

D’altro canto però, date le chiare indicazioni ministeriali, non riteniamo che tale interpretazione debba valere per altre forme commerciali di proposta di conti correnti, ove non sussiste il descritto “vincolo temporale” di giacenza, mentre l’ottenimento di più favorevoli interessi remunerativi per il cliente siano collegati al superamento di una certa soglia di giacenza delle somme depositate (c.d. “conti correnti a scaglioni”).

Residue perplessità persistono semmai per altre forme di “vincolo” possibilmente imposte ai conti correnti come avviene, ad esempio, quando le somme ivi depositate siano poste a garanzia di un altro rapporto intrattenuto con la banca, come un finanziamento concesso. Non sembra però che debba trovare ingresso anche in riferimento a ciò la più onerosa tassazione percentuale del bollo del comma 2-ter perché qui, evidentemente, non si può riscontrare un intento di “investimento” del conto corrente di che trattasi.

Risultano, infine, assolutamente “ibride” e non rientranti in nessuna delle ipotesi contemplate né nel comma 2-bis né nel comma 2-ter dell’art. 13 della tariffa1 (mentre potrebbero essere considerati nell’ipotesi di tassazione “ordinaria”, ai fini del bollo, di cui al comma primo dello stesso art. 13), quelle altre fattispecie di conti correnti, anche intrattenuti con banche, previsti dalla legge ed assolutamente infruttiferi, previsti per la partecipazione, ad esempio, di aste pubbliche, non avendo queste una funzione di “pagamento” né tantomeno di “investimento”.

Avv. Gianni Polo

 

(1) Sulla complessa questione, di fatto superata dalla vigente disciplina, della possibile tassabilità ai fini dell’imposta di bollo dei certificati di deposito, cfr. G. Polo, Inquadramento normativo e fiscale dei certificati di deposito nell’ottica delle rinnovate scelte di investimento da parte della clientela bancaria, in Boll. Trib., 2012, 13.

(2) Cfr. segnalazione alle Autorità parlamentari e di Governo dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato 16 maggio 2013, n. AS936.

(3) Sull’argomento cfr. G. Di Vittorio, Il bollo colpisce i conti deposito, in Italia Oggi del 26 febbraio 2012, pag. 37; e M. Piazza, Depositi e piani di azionariato, rischio rivalsa sui nuovi costi, in Il Sole 24 Ore del 8 maggio 2012, pag. 31.

(4) Cfr. ris. 11 novembre 2005, n. 160/E, in Boll. Trib., 2006, 242; sull’argomento si veda anche parere ABI n. 444 del 2010.

(5) Cfr. parere ABI 12 novembre 2012, n. 1297.

(6) Cfr. ris. 23 gennaio 2009, n. 15/E, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cfr. circ. 10 maggio 2013, n. 15/E, punto 2.1, in Boll. Trib., 2013, 762; al riguardo si veda anche circ. Assofiduciaria 5 giugno 2013, n. COM-2013-035. In dottrina cfr. R. Parisotto – G. Renella, Per la corretta applicazione del bollo sui conti correnti e prodotti finanziari è necessario riesaminare i contratti, in Corr. trib., 2013, 1931; V. Tamburro, Per i depositi il prelievo è proporzionale, in Il Sole 24 Ore del 11 maggio 2013, pag. 23; e V. Stroppa, C/c, vincolo con il bollo, in Italia Oggi del 11 maggio 2013, pag. 24.

(8) Cfr. nota 1° marzo 2013, prot. n. 0215567.

 

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