3 Ottobre, 2017

Il professionista che riscuote dalla curatela fallimentare il compenso di una prestazione effettuata nei confronti del fallito, afferma la Suprema Corte in un recente arresto (1), non ha diritto alla prededuzione dell’IVA addebitata in fattura in quanto la disposizione dell’art. 6 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, laddove prevede che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, «non pone una regola generale rilevante in ogni campo del diritto, ma individua solo il momento in cui l’operazione è assoggettabile ad imposta e può essere emessa fattura (in alternativa al momento di prestazione del servizio)». Sul piano civilistico, seppure autonomo rispetto al credito per la prestazione, il credito legato alla rivalsa IVA sorge unitamente ad esso, a cui è soggettivamente e funzionalmente connesso. Per conseguenza, afferma sempre la Suprema Corte, esso non può essere pagato in prededuzione ma «può giovarsi del solo privilegio speciale di cui all’art. 2758, secondo comma, c.c.».
Nell’ipotesi in cui il credito di rivalsa non dovesse essere soddisfatto in quanto non trova utile collocazione in sede di riparto, nessun indebito arricchimento sarebbe dunque ipotizzabile a carico del fallimento in quanto la detrazione dell’imposta sul valore aggiunto che la procedura effettua, sono ancora parole dei Supremi Giudici, è la mera conseguenza del sistema di contabilizzazione della medesima e non un effetto distorsivo del sistema concorsuale (2).
In buona sostanza, il pensiero così sviluppato è quello per cui l’IVA che il professionista addebita alla procedura fallimentare è legata al tempo della sua prestazione, a nulla valendo il momento del pagamento del corrispettivo e il fatto che la curatela recuperi l’imposta così addebitatale.
Una tale impostazione non è condivisibile.
In linea di principio, è vero che il credito del professionista non nasce con l’emissione della fattura ma con l’esecuzione del rapporto contrattuale, così come è vero che l’eventuale nota di variazione, emessa a mente dell’art. 26, quarto comma, del D.P.R. n. 633/1972, non determina, di per sé, la rinuncia al credito (3).
Questo non significa che la fattura serva soltanto a contabilizzare l’imposta sul piano del rapporto fra le parti, come tale per nulla determinante su quello tributario.
Partiamo dal presupposto impositivo. L’imposta sul valore aggiunto si applica, afferma l’art. 1 del D.P.R. n. 633/1972, a tutte le cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nell’esercizio di arti e professioni. Il successivo art. 6 indica il momento in cui queste operazioni si considerano effettuate. Quelle che ci interessano lo sono all’atto del pagamento del corrispettivo. La fattura, a norma dell’art. 21, quarto comma, del medesimo decreto n. 633/1972, deve essere emessa in questo momento.
È dunque questo il momento, per dirla con le parole del quinto comma dell’art. 6, che l’imposta diventa esigibile. Una sorta di fattispecie a formazione progressiva, in cui l’anello finale non è la prestazione del sevizio ma il pagamento del corrispettivo.
La Corte di Cassazione svaluta questo dato quando afferma che il pagamento del corrispettivo rappresenta soltanto il tempo in cui il professionista può emettere fattura, in alternativa a quello della prestazione del servizio, come se la norma questo chiedesse.
È vero l’esatto contrario. Pur vero che il professionista può anticipare l’emissione della fattura, anteriormente o indipendentemente dal pagamento del corrispettivo, la regola è quella per cui l’imposta legata alla prestazione di servizi diventa esigibile da parte dell’erario al momento del pagamento del corrispettivo.
Chiare su questo tema le parole di un altro arresto della Suprema Corte (4). Dopo aver ribadito che queste prestazioni si considerano effettuate all’atto del pagamento e che «prima di tale momento non sussiste alcun obbligo (ma solo la facoltà) di emettere fattura o di pagare l’imposta», la Corte di Cassazione ha statuito che l’Ufficio finanziario non può contestarne la mancata fatturazione riferendosi alla mera prestazione del servizio, non potendosi prescindere «dall’accertamento che il pagamento del corrispettivo sia stato effettuato, non essendo sufficiente la dimostrazione della sussistenza materiale della prestazione».
Concetto che le Sezioni Unite della Suprema Corte (5) hanno perfezionato allorché hanno precisato che la norma secondo cui le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, si riferisce «alla sola esigibilità dell’imposta, dando per scontata la sua concettuale distinzione ed autonomia dal relativo fatto generatore».
In questi termini la prestazione del servizio realizza le condizioni di imponibilità, mentre quello che determina l’esigibilità dell’imposta ad essa prestazione collegata, è il pagamento del compenso.
Secondo una visione di principio ormai consolidata, la capacità contributiva menzionata nell’art. 53 Cost. rappresenta un semplice criterio comparativo sulla base del quale ripartire fra i singoli consociati i carichi pubblici. Compete all’interprete ricostruire la ratio del tributo per identificare la capacità contributiva specifica che con tale tributo si intende colpire e verificare poi se il soggetto chiamato a contribuire rientra o meno nei canoni così dettati (6).
Per quanto riguarda il nostro caso, va verificato se il soggetto che riscuote dalla procedura fallimentare il corrispettivo di un servizio prestato nei confronti del fallito, a cui la Corte di Cassazione nega la prededuzione dell’imposta contestualmente addebitata, è il soggetto che possiede i requisiti di capacità contributiva previsti dalla legge IVA.
La legittimità della norma sull’addebito dell’IVA, così come interpretata dalla Cassazione, in particolare laddove ritiene che la rivalsa abbia carattere civilistico e non sorga in relazione al pagamento del corrispettivo ma in quello della prestazione professionale in quanto tale, passa attraverso l’individuazione di queste caratteristiche.
Anche se la legge IVA dice che l’imposta è dovuta dai soggetti che effettuano le cessioni di beni o le prestazioni di servizio, che debbono versarla all’erario in determinate scansioni temporali, è ormai notorio che sono i consumatori finali i veri soggetti passivi del tributo (7). Sono questi i soggetti che, acquistando beni ed utilizzando servizi senza poter effettuare la detrazione dell’imposta che gli viene addebitata, partecipano alla spesa pubblica.
Pur vero che l’art. 17 del D.P.R. n. 633/1972, dedicato ai “soggetti passivi”, impone il versamento dell’imposta a chi cede i beni o presta i servizi imponibili, è altrettanto vero che il coinvolgimento di questi soggetti non deve trarre in inganno in quanto è del tutto usuale, nel nostro sistema tributario, che negli adempimenti previsti da un determinato tributo siano coinvolti anche soggetti diversi da quelli titolari della capacità contributiva (8). La classica sostituzione tributaria in cui alcuno viene chiamato, per esigenze legate ad una rapida e sicura attuazione del prelievo, ad adempiere il pagamento dell’imposta in luogo di altri. Si pensi ad esempio alle ritenute d’acconto che il datore di lavoro effettua quando eroga compensi ai suoi dipendenti e collaboratori. Egli è responsabile dell’imposta sul reddito verso l’erario, è vero, ma il debitore sostanziale del tributo resta pur sempre il percettore, effettivo e sostanziale soggetto passivo della obbligazione tributaria.
Nel nostro caso è certo che l’avere concentrato il prelievo dell’IVA su soggetti previamente identificati attraverso la partita IVA, facilita la vigilanza da parte degli Uffici e garantisce una più sicura attuazione del prelievo rispetto a quanto sarebbe accaduto se il versamento fosse stato posto a carico dei consumatori finali (9).
L’importante è che i soggetti così onerati non subiscano alcuna diminuzione patrimoniale per una capacità contributiva che non possiedono.
La rivalsa è lo strumento che la legge appresta per garantire questo risultato: far gravare l’imposta sul vero soggetto titolare della capacità contributiva prevista dalla legge istitutiva del tributo (10).
Se così è, se questa è la funzione della rivalsa, il problema relativo alla capacità contributiva del professionista che ci occupa non può essere risolto soltanto sulla base del presupposto di fatto che fa sorgere l’obbligazione tributaria e della condizione che la rende esigibile, dovendosi per l’appunto tener conto anche del ruolo di questa.
La legge IVA la prevede come un preciso obbligo che sorge nel momento in cui il soggetto che ha effettuato l’operazione imponibile emette la fattura in cui addebita «la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente».
La norma ha natura e carattere pubblicistico, tant’è vero che ogni patto contrario è nullo a mente del quinto comma dell’art. 18 del D.P.R. n. 633/1972. Da essa dipende il compiuto rispetto del principio della neutralità fiscale dell’IVA. Come tale, non può risolversi né in un vantaggio né in uno svantaggio per chi è sottoposto alla sua disciplina. In buona sostanza, l’IVA deve gravare soltanto sul consumatore finale.
La Corte di Cassazione ha svalutato questo aspetto giudicando la rivalsa un istituto a carattere meramente privatistico, così negandogli la caratteristica, voluta dal legislatore tributario, che è quella di individuare il soggetto passivo del tributo in quanto titolare della correlata capacità contributiva.
Questa caratteristica della rivalsa non può essere trascurata. Pur vero che essa ha riflessi economici nel rapporto fra il venditore e l’acquirente del bene o del servizio, e diversamente non potrebbe essere, è altrettanto vero che essa fa parte del sistema normativo che disciplina l’imposta sul valore aggiunto, all’interno del quale si esplicano i suoi effetti giuridici. In questi termini, la norma non è destinata a regolare i rapporti privatistici fra le parti, come se l’IVA fosse un costo di produzione da trasferire sull’acquirente attraverso il prezzo. La norma completa il sistema di riscossione del tributo laddove questo ha previsto, per i soggetti che effettuano le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, l’istituto giuridico dell’obbligo di versare l’imposta sulla operazione imponibile a cui essi hanno partecipato. Siccome questi soggetti non sono quelli gravati dal prelievo in quanto titolari della capacità contributiva legata al consumo, la norma stessa ha previsto, per logica conseguenza, l’obbligo di rivalersi nei confronti del soggetto passivo.
Se così non fosse, se il credito legato alla rivalsa fosse un credito autonomo rispetto a quello della prestazione, anche se sorge unitamente a questo, dovrebbe essere possibile, sul piano civilistico, l’esercizio del correlato diritto indipendentemente dalla emissione della fattura. Questo non è invece possibile in quanto, pur vero che la controversia che a questo proposito si dovesse instaurare fra le parti ha natura privatistica, come da ultimo ribadito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (11), l’azione di rivalsa presuppone l’emissione della fattura a cui essa è collegata. Chiare a questo proposito le parole della sentenza della Corte di Cassazione n. 17876/2013 (12) quando afferma che il prestatore di servizi non può rivalersi dell’imposta nei confronti del committente senza prima emettere fattura. Pur vero, si legge, che il meccanismo di applicazione dell’IVA vuole che colui che ha effettuato una prestazione di servizi debba corrispondere all’erario l’imposta sul corrispettivo, e debba poi rivalersene nei confronti del cliente, «è del tutto evidente che, ai fini dell’esercizio della rivalsa, si rende comunque necessaria la fatturazione, potendo la stessa avvenire all’atto della ricezione del compenso ovvero, alternativamente, al momento stesso della prestazione del servizio».
Nulla da osservare se non che, così discorrendo, la Corte ha applicato in ambito privatistico la normativa dettata dalla legge IVA, secondo cui la rivalsa presuppone l’esigibilità dell’imposta da parte dell’erario nei confronti di chi ha prestato il servizio.
Se così è, se l’esercizio della rivalsa pretende il previo verificarsi di una delle fattispecie che prevedono l’addebito dell’imposta, risulta evidente che, piaccia o no, la rivalsa è un istituto che fa parte del meccanismo di applicazione del tributo con l’intento di traslarne l’onere in capo al cessionario. Così salvando la legittimità costituzionale della previsione legislativa che rende responsabile dell’imposta il cedente del bene o il prestatore del servizio. In questi termini, è chiaro che il soggetto tenuto a versare l’imposta lo fa in sostituzione del committente del servizio e non in ragione di una sua ipotetica capacità contributiva, per nulla esistente.
In conclusione il lavoratore autonomo che riscuote dalla curatela fallimentare il compenso per un servizio prestato al fallito, deve emettere la fattura con l’addebito dell’IVA ed effettuare la rivalsa nei confronti della medesima. Lo pretende l’art. 18 della legge IVA. È in quel momento, ancorché il servizio sia stato prestato prima del fallimento, che l’imposta diventa esigibile.
La curatela detrae quanto le viene così addebitato da quanto essa deve all’erario, giusta il successivo art. 19 del D.P.R. n. 633/1972. Se non può compensarla per mancanza di debito, può chiederne il rimborso. Ciò in quanto, ancorché fallita, l’impresa continua ad esistere sino a che non siano terminate le operazioni di liquidazione (13).
Per conseguenza, trattandosi di operazione contingente alla gestione fallimentare, essa curatela deve effettuarne il pagamento con i mezzi a sua disposizione a mente dell’art. 111 del Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare).
Sostenere il contrario, dire cioè che il credito di rivalsa IVA non sorge nel momento in cui l’imposta si rende esigibile, ma quando si è semplicemente prestato il servizio imponibile e non si è ancora riscosso il corrispettivo, senza tuttavia collegare questo dato con il correlato esercizio del diritto di esazione, si entra in manifesta contraddizione sul piano dell’inquadramento sistematico della questione. Contraddizione che si esalta nel momento in cui si giudica del tutto irrilevante il fatto che la curatela recuperi nei confronti dell’erario l’imposta che le viene così addebitata, in perfetta osservanza della norma di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, laddove afferma la regola per cui il diritto alla detrazione «sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile».
Evidentemente delle due l’una. Se si stima che la norma tributaria determina sia l’esigibilità dell’imposta che la detraibilità della medesima, l’applicazione di questa norma non può essere negata quando entra in gioco l’esercitabilità della rivalsa. Questi tre momenti della nascita dell’obbligazione dell’imposta in capo al prestatore del servizio, del suo diritto di rivalsa nei confronti del cessionario e, da ultimo, del diritto alla detrazione da parte di quest’ultimo, sono indissolubilmente legati fra loro e nascono tutti contestualmente sulla base della legge IVA (14).
Se di questo non si tiene conto, a parte la contraddizione esegetica sopra rilevata, si addossa ad un soggetto diverso da quello identificato dalla legge IVA il carico dell’imposta stessa in manifesta violazione dell’art. 53 Cost.
Da ultimo deve dirsi del privilegio che assiste il credito di rivalsa sui beni ai quali si riferisce il servizio ai sensi dell’art. 2758 c.c. (15).
Nei fatti nessuna garanzia è prevista per la rivalsa che si esercita in relazione a servizi che non hanno avuto ad oggetto beni, come ad esempio quelli dipendenti da contratto d’opera intellettuale o, ancora, qualora quelli oggetto della prestazione non siano semplicemente rinvenibili (16).
Dato che il privilegio in parola intende garantire il soggetto che esegue il versamento dell’imposta in luogo del consumatore, così che il tributo non venga a gravare su di lui, ne risulta che, a parità di addebito d’imposta, la rivalsa effettuata da chi ha prestato un servizio prettamente intellettuale non è assistita da alcuna garanzia.
Così interpretata, la norma si rivela incostituzionale per violazione dell’art. 3 Cost. sulla parità di trattamento (17).

Avv. Bruno Aiudi

(1) Cfr. Cass., sez. trib., 3 luglio 2015, n. 13771, in Boll. Trib. On-line.
(2) Nello stesso senso, Cass., sez. I, 11 aprile 2011, n. 8222, in Boll. Trib. On-line, la quale aggiunge che se il credito del professionista venisse soddisfatto in prededuzione, si produrrebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto a chi, a parità della anteriorità della prestazione professionale, emettesse la fattura prima dell’apertura del fallimento; e Cass., sez. I, 14 febbraio 2011, n. 3582, in Boll. Trib. On-line.
(3) Sulle note di variazione cfr. F. BRIGHENTI, Note di variazione IVA dei creditori del fallimento, in Boll. Trib., 1997, 434; e ID., Ancora sulle note di variazione IVA nel fallimento, ibidem, 765.
(4) Cfr. Cass., sez. trib., 9 giugno 2009, n. 13209, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 21 aprile 2016, n. 8059, in Boll. Trib. On-line.
(6) «Questa non è una indagine di carattere metagiuridico», afferma A.E. GRANELLI, L’imposizione dei plusvalori immobiliari, Padova, 1981, 21, «come potrebbe sembrare a prima vista: essa, infatti, attraverso l’art. 53 della Costituzione, che istituisce un indefettibile collegamento tra l’obbligo di concorrere ai carichi pubblici e la capacità contributiva, entra di pieno diritto nel campo dell’indagine positiva. Ed invero, a prescindere dalle dispute, tuttora perduranti, circa la precisazione del concetto di capacità contributiva, almeno su un punto è dato riscontrare una tal quale unanimità di consensi: essere, cioè, il vincolo della capacità contributiva, un principio di razionalizzazione del fenomeno tributario, in virtù del quale il legislatore non può limitarsi alla realizzazione del fine immediato di reperimento del gettito, ma deve, altresì perseguire – ci si passi il termine pretenzioso – una certa “filosofia dell’imposta”».
(7) Il consumatore finale, come destinatario di un obbligo tributario, è il soggetto che manifesta la capacità contribuiva che costituisce la ratio economica dell’IVA, così E. DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2011, 380.
(8) Nella sentenza 15 febbraio 1984, n. 25, in Boll. Trib., 1984, 722, la Corte Costituzionale afferma, senza tuttavia allegare alcuna motivazione, che l’art. 17 del D.P.R. n. 633/1972 identifica il presupposto, «la capacità contributiva va pertanto riscontrata in tutti i soggetti che quelle operazioni pongono in essere». Nella successiva sentenza 25 marzo 2010, n. 115 (in Riv. dir. trib., 2011, 449) sul conflitto di attribuzione fra lo Stato e la Regione Sicilia, la Corte regolatrice afferma invece che la rivalsa è un istituto del quale occorre tener conto per individuare la natura dell’imposta. Secondo G. FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2015, 719, «si può essere obbligati in via esclusiva verso l’ente impositore pur senza essere soggetti passivi del tributo».
(9) Cfr. R. LUPI, Diritto tributario, Milano, 2005, 291, secondo cui la normativa concentra sul fornitore di beni o servizi i rapporti con l’Amministrazione finanziaria, per una serie di ragioni pratiche.
(10) Cfr. G. GAFFURI, Lezioni di diritto tributario, Padova, 2002, 76, il quale ritiene che tale istituto «rende costituzionalmente tollerabile, in riferimento all’art. 53 e al principio in esso enunciato, il temporaneo trasferimento di doveri fiscali che competerebbero ad altri, poiché in definitiva – e nella sostanza economica, che è l’elemento decisivo di qualunque imposizione – mediante il regresso finisce per subire il sacrificio patrimoniale colui che effettivamente deve sopportarlo, in ragione dell’attitudine da lui manifestata».
(11) Cfr. Cass., sez. un., 4 aprile 2016, n. 6451, in Boll. Trib. On-line, e di prossima pubblicazione su questa Rivista con nota di M. PEIROLO. Se si ammette che anche qui possano insorgere conflitti di giudicato, sostiene E. DE MITA, op. cit., 399, se il cedente dovesse soccombere sia nei confronti del cessionario nel processo civile che nei confronti della finanza nel processo tributario, l’unica soluzione, posto che la rivalsa determina una situazione litisconsortile, dovrebbe essere, al pari di quanto avviene nel caso del sostituto d’imposta, quella di una sola azione davanti al giudice tributario che coinvolga tutte le parti.
(12) Cass., sez. II, 23 luglio 2013 n. 17876, in Boll. Trib. On-line.
(13) Così F. BRIGHENTI, Adempimenti tributari e responsabilità del curatore fallimentare, Torino 1992, 97, che aderisce all’opinione consolidata, tra cui F. GALGANO, Diritto civile e commerciale. L’impresa e le società, III, I, Padova, 1990, 124. Sul punto vedi anche Corte Cost. 30 aprile 1986, n. 115, in Boll. Trib., 1986, 1093, con nota di G. LO CASCIO, secondo cui il legislatore non distingue «tra l’attività gestionale dell’impresa e il momento della sua liquidazione, ancorché coattiva».
(14) Sul collegamento fra questi tre elementi, cfr. L. SALVINI, La rivalsa e i rapporti interni nell’IVA, Teramo, 2009, 37.
(15) Cfr. Cass. 23 novembre 1979, n. 6120, in Boll. Trib., 1980, 641, ha statuito che tutta la materia dei privilegi è stata espunta dalla legge tributaria e riportata nella sua sede naturale, quella del codice civile, dalla legge 29 luglio 1975, n. 426. Principio confermato da Corte Cost. n. 25/1984, cit. Nell’attuale ordinamento, dunque, questo dell’art. 2758 c.c. è il solo privilegio che assiste il credito di rivalsa IVA.
(16) La mancata indicazione da parte del creditore dei beni sui quali egli ritiene debba trovare collocazione il titolo di prelazione richiesto, afferma Cass., sez. I, 19 giugno 2014, n. 13978, in Boll. Trib. On-line, e anche in Diritto & Giustizia, 2014, 93, con nota di V. PAPAGNI, degrada il credito di rivalsa IVA in chirografo.
(17) Su questo tema, ben potrebbe intervenire il Giudice delle leggi in quanto non si tratterebbe di ripristinare il privilegio speciale introdotto con il D.P.R. 23 dicembre 1974, n. 687, ed eliminato con la riforma del 1975, ma valutare la disparità di trattamento che si ha fra chi ha prestato un servizio avente ad oggetto determinati beni e chi invece si è interessato dell’impresa in quanto tale.

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