31 Ottobre, 2017

SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. LA RISOLUZIONE 29 SETTEMBRE 2016, N. 84/E – 3. ALCUNE QUESTIONI ANCORA DA CHIARIRE IN MERITO AI PRESUPPOSTI SOGGETTIVI PER L’APPLICAZIONE DEL REGIME DI ESENZIONE DA RITENUTA DEGLI INTERESSI E ALTRI PROVENTI DERIVANTI DA FINANZIAMENTI A MEDIO E LUNGO TERMINE ALLE IMPRESE; 3.1 La riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti al pubblico; 3.2 Le banche stabilite in Stati extra-UE.

1. PREMESSA

Come noto l’art. 22, primo comma, del D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, e recante “Misure a favore del credito alle imprese”), ha, tra l’altro, inserito nell’art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, il comma 5-bis che, in deroga al generale disposto di cui al quinto comma della predetta norma (1), prevede un regime di esenzione da ritenuta con riferimento agli interessi e agli altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine (2) “erogati” (3) alle “imprese” (4) da determinati soggetti esteri. Più in dettaglio, il comma 5-bis dell’art. 26 del D.P.R. n. 600/1973, così come modificato, da ultimo, dall’art. 17, secondo comma, del D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 2016, n. 49), dispone che: «Ferme restando le disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 la ritenuta di cui al comma 5 non si applica agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi stabiliti negli Stati membri dell’Unione europea, enti individuati all’articolo 2, paragrafo 5, numeri da 4) a 23), della Direttiva 2013/36/UE, imprese di assicurazione costituite e autorizzate ai sensi di normative emanate da Stati membri dell’Unione europea o investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, di cui all’articolo 6, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 1° aprile 1996, n. 239, soggetti a forme di vigilanza nei paesi esteri nei quali sono istituiti».
Come chiarito anche nella Relazione illustrativa all’art. 22 del D.L. n. 91/2014, la ratio che ha ispirato l’intervento del legislatore consisteva nella volontà di ampliare la platea dei soggetti ammessi a fruire del regime di esenzione da ritenuta alla fonte sugli interessi derivanti da contratti di finanziamento, precedentemente riservato ai soli soggetti residenti in Italia o alle stabili organizzazioni in Italia di soggetti non residenti; e ciò al fine di «eliminare il rischio di doppia imposizione giuridica (5), che economicamente risulta di norma traslato sul debitore, favorendo l’accesso delle imprese italiane a costi competitivi anche a fonti di finanziamento estere (6)».
Di seguito, traendo spunto anche da una recente risoluzione che ha confermato – ove mai ce ne fosse bisogno – la valenza “sostanziale” della norma in commento, con la quale il legislatore non ha inteso semplicemente eliminare l’applicazione di una ritenuta, bensì ha stabilito la non tassabilità, a certe condizioni, degli interessi percepiti da determinati soggetti non residenti, si esamineranno alcuni aspetti ancora dubbi della disposizione.

2. LA RISOLUZIONE 29 SETTEMBRE 2016, N. 84/E

All’indomani dell’introduzione della novella normativa vi era stato chi, partendo dall’analisi della lettera dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, che si limita a disporre, a certe condizioni, l’esonero da ritenuta relativamente agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine erogati da determinati soggetti esteri senza, tuttavia, specificare che gli interessi in questione non scontano alcuna imposizione in Italia, aveva sollevato il dubbio che la mancata applicazione della ritenuta alla fonte a titolo di imposta non si traducesse in un’esenzione, ma comportasse l’obbligo per il finanziatore estero di assoggettare a tassazione gli interessi in dichiarazione (7).
Una simile interpretazione, per quanto suffragata dal tenore letterale della disposizione, non risultava assolutamente condivisibile in quanto l’assoggettamento a tassazione degli interessi in sede di dichiarazione (8) (al pari del prelievo operato mediante ritenuta) avrebbe comunque determinato un fenomeno di doppia imposizione giuridica che la disposizione in commento, invece, mirava a prevenire.
Tale conclusione – già avallata in dottrina (9) – è stata recentemente confermata dall’Agenzia delle entrate nella risoluzione 29 settembre 2016, n. 84/E (10). Nel predetto documento di prassi, infatti, l’Amministrazione finanziaria afferma che «La tesi della possibilità che la non applicazione della ritenuta alla fonte non si traduca in un’esenzione, ma piuttosto, nel ben più gravoso obbligo per il percettore estero di assoggettare ad imposta gli interessi a seguito della presentazione di una dichiarazione dei redditi, non può essere condivisa, in quanto si pone in radicale contrasto con la ratio dell’articolo 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600 del 1973, che finirebbe quindi con il perdere qualsiasi significato». L’Agenzia delle entrate ha tentato, inoltre, di coordinare tale conclusione con il tenore letterale dell’art. 151 del TUIR osservando che «considerato che l’esclusione prevista dal comma 5-bis del citato articolo 26 del D.P.R. n. 600 del 1973 concerne una ritenuta a titolo d’imposta e che la stessa ha carattere di prelievo definitivo per l’espressa previsione contenuta nel citato comma 1 dell’articolo 151 T.U.I.R., si ritiene che gli interessi sui finanziamenti a medio e lungo termine erogati dalla banca istante non debbano essere assoggettati a tassazione in Italia».
Quanto alle condizioni necessarie per beneficiare del predetto regime di esenzione, nel citato documento di prassi, peraltro, è stata data particolare rilevanza al fatto che condizione necessaria perché possa trovare applicazione il disposto di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, è che il finanziatore estero soddisfi le «disposizioni in tema di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo Unico Bancario – TUB)» (11). Nel paragrafo successivo intendiamo soffermarci sulle implicazioni di tale affermazione.

3. ALCUNE QUESTIONI ANCORA DA CHIARIRE IN MERITO AI PRESUPPOSTI SOGGETTIVI PER L’APPLICAZIONE DEL REGIME DI ESENZIONE DA RITENUTA DEGLI INTERESSI E ALTRI PROVENTI DERIVANTI DA FINANZIAMENTI A MEDIO E LUNGO TERMINE ALLE IMPRESE

3.1 La riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti al pubblico

Il secondo comma dell’art. 17 del D.L. n. 18/2016 ha modificato l’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, al fine di specificare che l’esenzione fiscale sugli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi, imprese di assicurazione e investitori istituzionali esteri white list, soggetti a forme di vigilanza negli Stati esteri nei quali sono stati istituiti, è subordinata al rispetto delle norme del TUB in materia di riserva di attività per l’erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico, previste per gli omologhi soggetti costituiti in Italia.
Non è chiaro quale sia stata la motivazione che ha indotto il legislatore ad inserire tale precisazione. Nelle schede di lettura che illustrano il provvedimento, si legge che tale modifica è stata introdotta «al fine di non creare uno svantaggio competitivo per gli operatori nazionali».
Secondo una prima ricostruzione, la precisazione inserita nella norma fiscale intendeva semplicemente sottolineare che le modifiche alla disciplina tributaria dei finanziamenti concessi da soggetti non residenti non volevano in alcun modo interferire con la normativa regolamentare, “allentando” i divieti posti dal TUB all’attività di erogazione di finanziamenti nei confronti del pubblico.
L’Agenzia delle entrate nella risoluzione commentata al paragrafo precedente, invece, pare attribuire a tale modifica una valenza sostanziale, in quanto sembrerebbe addossare al finanziato l’onere di verificare il rispetto da parte del finanziatore delle norme del TUB, con la conseguenza che il regime di esenzione non dovrebbe essere riconosciuto (dovendo, pertanto, essere prelevata la ritenuta alla fonte), laddove venga accertato il mancato rispetto della normativa regolamentare.
A prescindere da quale delle due tesi finirà per prevalere, ci pare che anche seguendo l’interpretazione accolta dall’Agenzia delle entrate l’agevolazione non debba essere limitata ai soli soggetti che – in base alla normativa regolamentare – sono autorizzati ad “erogare” i finanziamenti. Ne consegue che la ritenuta dovrà essere disapplicata nei confronti di quei soggetti (quali i fondi di investimento) che, pur non potendo accedere al mercato primario del credito in quanto non autorizzati ad erogare finanziamenti diretti in Italia, possono tuttavia essere divenuti legittimamente titolari del finanziamento avendo acquistato il credito sul mercato secondario (12). Sarebbe, tuttavia, auspicabile in proposito un chiarimento dell’Amministrazione finanziaria volto a confermare che con riferimento agli interessi corrisposti a investitori istituzionali esteri, che soddisfano i requisiti previsti dall’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, e che hanno acquistato il credito sul mercato secondario, non deve trovare applicazione la ritenuta di cui all’art. 26, quinto comma, del D.P.R. n. 600/1973; e ciò a prescindere dal fatto che i predetti investitori istituzionali non avrebbero potuto erogare direttamente il finanziamento e anche nell’eventualità in cui il finanziatore originario fosse un soggetto che non presenta i requisiti soggettivi richiesti dalla norma in commento. Ove così non fosse, infatti, la finalità agevolativa che ha ispirato il legislatore rischierebbe di essere vanificata o quantomeno significativamente depotenziata.

3.2 Le banche stabilite in Stati extra-UE

Un’ulteriore questione di cui ad oggi si discute tra gli operatori del settore attiene alla possibilità, ovvero all’opportunità, di estendere il regime di esenzione previsto dall’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, anche agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine corrisposti a banche situate in Stati extra-UE compresi nella white list.
Sebbene tale possibilità appaia difficilmente conciliabile con (se non addirittura preclusa da) la lettera della norma, vi è chi ritiene che all’estensione del regime in parola in favore di banche situate in Stati extra-UE compresi nella white list si possa, comunque, pervenire in via interpretativa, includendo i predetti soggetti nell’ampia nozione di “investitori istituzionali esteri”.
A nostro avviso, una simile interpretazione non è condivisibile. Per quanto ampia, non ci pare che la nozione di “investitore istituzionale” sia idonea a ricomprendere anche gli “enti creditizi”. Sotto questo profilo si ritiene che, in ragione del richiamo operato dalla disposizione in commento all’art. 6 del D.Lgs. 1° aprile 1996, n. 239, al fine di comprendere quali soggetti possano essere inclusi nella nozione di “investitori istituzionali esteri” sia possibile fare riferimento ai chiarimenti forniti dall’Amministrazione finanziaria a mezzo delle circolari 1° marzo 2002, n. 23/E (13), e 27 marzo 2003, n. 20/E (14). In particolare, nei predetti documenti di prassi è stato precisato che «la nozione di “investitori istituzionali” identifica gli enti che, indipendentemente dalla loro veste giuridica e dal trattamento tributario cui sono assoggettati i relativi redditi nel Paese in cui sono costituiti, hanno come oggetto della propria attività l’effettuazione e la gestione di investimenti per conto proprio o di terzi». Secondo l’Amministrazione finanziaria rientrano in tale definizione «a titolo di esempio, le società di assicurazione, i fondi comuni di investimento, le Sicav, i fondi pensione, le società di gestione del risparmio … in quanto assoggettati a forme di vigilanza nei Paesi esteri nei quali sono istituiti» nonché quei soggetti «che pur non essendo soggetti a forme di vigilanza sono in possesso di una specifica competenza ed esperienza in operazioni in strumenti finanziari, espressamente dichiarata per iscritto dal legale rappresentante dell’ente». Pur non trattandosi di un elenco esaustivo, ci pare che la nozione di investitore istituzionale, così come intesa dall’Amministrazione finanziaria, non sia suscettibile di comprendere i soggetti che esercitano attività bancaria. E ciò in quanto, seppure tali soggetti possano anche effettuare e gestire investimenti, l’operatività in strumenti finanziari non rappresenta l’attività tipica di un ente creditizio, la quale consiste nella raccolta del risparmio presso il pubblico e nella erogazione di prestiti (15).
Nello stesso senso depone anche l’evoluzione normativa dell’art. 6 del D.Lgs. n. 239/1996. Come noto, tale disposizione reca un regime di esonero dall’imposta sostitutiva per gli interessi, premi e altri frutti delle obbligazioni e titoli similari percepiti da determinati soggetti non residenti. In particolare, il primo comma del citato art. 6 prevede che non sono soggetti ad imposizione gli interessi «percepiti da soggetti residenti in Stati e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni». Tale disposizione è stata modificata dall’art. 10 del D.L. 25 settembre 2001, n. 350 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409), al fine di estendere il regime di non imponibilità ai proventi percepiti dagli «investitori istituzionali esteri, ancorché privi di soggettività tributaria, costituiti in Paesi di cui al primo periodo». Come chiarito nella citata circolare n. 23/E/2002, tale modifica si era resa necessaria in quanto «tali soggetti frequentemente non possedevano i requisiti formali per usufruire dell’esonero dall’imposta sostitutiva, in quanto privi della residenza». L’evoluzione normativa dell’art. 6 del D.Lgs. n. 239/1996 testimonia, quindi, come la definizione di “investitore istituzionale” contenuta nella lett. b) non sia mai stata utilizzata per fare riferimento agli istituti di credito che, in quanto dotati di soggettività tributaria, erano già compresi nel primo periodo del primo comma.
Sulla base di tali considerazioni riteniamo pertanto che il rinvio operato dall’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, agli investitori istituzionali di cui all’art. 6, primo comma, lett. b), del D.Lgs. n. 239/1996, non sia idoneo ad estendere il regime di esonero dalla ritenuta agli interessi sui finanziamenti a medio e lungo termine percepiti da banche extra-UE white list.
Alla stessa conclusione si perviene anche mediante l’argomento della non-ridondanza (o conservazione del testo) che impone all’interprete di attribuire al testo un significato tale per cui esso non risulti superfluo (16). Ed infatti, se le banche extra-UE situate in Stati o territori white list potessero essere ammesse a fruire dell’esonero da ritenuta previsto dall’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, per effetto dell’inclusione delle stesse nel novero degli investitori istituzionali esteri istituiti in uno degli Stati o territori inclusi nella lista di cui al D.M. 4 settembre 1996, così come modificato dal D.M. 9 agosto 2016, non si spiegherebbe il perché il legislatore abbia sentito l’esigenza di prevedere espressamente che la suddetta ritenuta «non si applica agli interessi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da enti creditizi stabiliti in Stati membri dell’Unione europea». Vale a dire che se fosse vero che la nozione di “investitori istituzionali esteri” deve essere interpretata come volta a ricomprendere anche gli “enti creditizi”, allora la stessa dovrebbe includere indistintamente sia le banche extra-UE stabilite in Stati o territori white list sia quelle situate in Stati membri dell’Unione europea, con la conseguenza che la separata ed espressa menzione degli istituti di credito stabiliti nell’Unione europea risulterebbe superflua. Viceversa, in presenza di due enunciati apparentemente confliggenti, la regola di conservazione impone di risolvere l’antinomia ricorrendo a principi, come quello della specialità, che consentano di attribuire a entrambi gli enunciati significati fra loro non confliggenti. Nel caso in esame, l’applicazione di tale canone interpretativo induce a concludere che, relativamente agli enti creditizi (ma lo stesso vale per le assicurazioni), il legislatore – richiamandoli espressamente – abbia voluto restringere geograficamente il campo di applicazione della disposizione. Ad avvalorare tale tesi contribuisce anche la considerazione che una diversa conclusione comporterebbe una (poco auspicabile) interpretatio abrogans di un requisito (quello dello stabilimento in uno Stato dell’Unione europea) che la lettera della legge inequivocabilmente richiede con riferimento ai soggetti citati nella prima parte della disposizione.
A ben vedere la ragione per cui l’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, nella formulazione attualmente vigente, comporta una sostanziale disparità di trattamento tra: gli enti creditizi, da un lato, con riferimento ai quali il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta opera limitatamente ai soggetti stabiliti in Stati membri dell’Unione europea, e gli investitori istituzionali esteri (fondi), dall’altro, i quali, invece, sono ammessi a fruire del beneficio in parola anche se istituiti in Stati extra-UE che consentono un adeguato scambio di informazioni, è da attribuire presumibilmente al fatto che la norma di cui si discute – nonostante la recente introduzione – è stata già oggetto di numerose modifiche (forse non sempre ben coordinate).
A tale riguardo si osserva che la norma in commento, nella versione in vigore prima delle modifiche introdotte dal D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2015, n. 33), prevedeva che, oltre che agli enti creditizi stabiliti in Stati membri dell’Unione europea, il beneficio dell’esenzione dalla ritenuta di cui all’art. 26, quinto comma, del D.P.R. n. 600/1973, spettasse anche con riferimento agli interessi e altri proventi derivanti da finanziamenti a medio e lungo termine alle imprese erogati da «organismi di investimento collettivo del risparmio che non fanno ricorso alla leva finanziaria, ancorché privi di soggettività tributaria, costituiti negli Stati membri dell’Unione europea e negli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo inclusi nella lista» di cui al D.M. 4 settembre 1996. Vi era già allora una discrasia – giudicata, peraltro, non giustificabile dai primi commentatori (17) – tra il trattamento riservato alle banche che beneficiavano dell’esonero solo se europee e quello riconosciuto agli OICR per i quali l’ambito soggettivo di applicazione era esteso anche ai soggetti SEE white list (all’epoca Norvegia e Islanda), ma chiaramente meno accentuata rispetto a quella che emerge dall’attuale disposto normativo. Allorché, anche in considerazione delle incertezze interpretative che il riferimento agli OICR «che non fanno ricorso alla leva finanziaria» poteva suscitare, è stato modificato il disposto dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973, al fine di individuare i fondi ammessi a fruire del regime di esenzione, il legislatore ha ritenuto, probabilmente per ragioni di semplicità, di operare un rinvio alla già ben nota nozione di “investitore istituzionale estero” di cui all’art. 6 del D.Lgs. n. 239/1996. Per effetto di tale rinvio, l’ambito geografico dei soggetti ammessi a beneficiare dell’esenzione risulta chiaramente più esteso (Paesi white list) rispetto a quello valido per gli enti creditizi (Unione europea). Benché non voluta e presumibilmente ascrivibile al processo di stratificazione delle modifiche normative, per le ragioni sopra esposte non si ritiene che l’ambito soggettivo di applicazione della norma possa essere esteso, sotto il profilo geografico, in via interpretativa.
Al fine di superare l’irragionevole disparità di trattamento che ad oggi sussiste tra enti creditizi e investitori istituzionali sarebbe, pertanto, auspicabile un intervento del legislatore volto a riconoscere l’applicabilità dell’esenzione anche con riferimento ai finanziamenti erogati da banche extra-europee white list. E infatti, posto che con l’introduzione dell’esenzione in parola il legislatore ha, tra l’altro, voluto agevolare l’accesso da parte delle imprese italiane a fonti di finanziamento estere a costi competitivi, non si comprende per quale ragione un investitore istituzionale istituito in uno Stato extra-UE white list (come, ad esempio, un fondo americano) avente causa dal finanziatore originario (a prescindere dal fatto che quest’ultimo rientrasse tra i soggetti di cui all’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973) possa fruire dell’esenzione da ritenuta all’atto della percezione degli interessi derivanti da un finanziamento a medio e lungo termine alle imprese, mentre una simile agevolazione non possa essere riconosciuta ad un ente creditizio situato nel medesimo Paese.

Dott. Luca Rossi – Dott. Marina Ampolilla

(1) Il quinto comma dell’art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, prevede che siano assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta nella misura (a partire dal 1° luglio 2014) del 26 per cento i redditi di capitale corrisposti da soggetti residenti a soggetti non residenti nel territorio dello Stato. È, tuttavia, fatta salva l’applicazione della ritenuta in misura ridotta prevista dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni, ove applicabili.
(2) Quanto all’ambito oggettivo di applicazione delle disposizioni, in mancanza di autonome definizioni, pare ragionevole richiamare la nozione di “finanziamento a medio e lungo termine” rilevante ai fini dell’imposta sostitutiva di cui all’art. 15 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, il quale, al terzo comma, richiede che la “durata contrattuale sia stabilita in più di diciotto mesi”. A tale conclusione induce, peraltro, la circostanza che le modifiche concernenti la disciplina fiscale dei finanziamenti relative, da una parte, al regime di esonero da imposizione ai fini delle imposte dirette disposto dal comma 5-bis e, dall’altra, all’estensione dell’ambito applicativo dell’imposta sostitutiva sono state introdotte dallo stesso provvedimento (cfr. l’art. 22 del D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116); con ciò confermando che – anche nelle intenzioni del legislatore – tali modifiche rientrano in un progetto unitario volto a favorire l’accesso al credito. Ne discende che entrambe le disposizioni dovrebbero ragionevolmente applicarsi alle medesime fattispecie. In tal senso cfr. M. GUSMEROLI, Prime considerazioni in merito al nuovo regime di esenzione da ritenuta su interessi da finanziamenti a medio e lungo termine. Art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973 introdotto dall’art. 22, comma 1, del D.L. n. 91/2014, in Boll. Trib., 2014, 1131 ss.; nello stesso senso anche C. GALLI, Esenzione da ritenuta sugli interessi transfrontalieri da finanziamenti a medio e lungo termine, in Corr. trib., 2015, 2311 ss. Ci si chiede, però, se la sussistenza – sotto questo profilo – di una sovrapposizione quanto all’ambito oggettivo di applicazione delle due disposizioni, comporti che tutti i dubbi (alimentati da certa giurisprudenza) in merito ai presupposti per l’applicazione dell’imposta sostitutiva debbano necessariamente riverberarsi anche ai fini del riconoscimento dell’esonero da ritenuta. Le questioni più discusse che attualmente sono al vaglio dei giudici attengono, principalmente: i finanziamenti erogati al fine di estinguere esposizioni finanziarie pregresse, nel qual caso si ritiene che per distinguere tra nuovi finanziamenti e un mero riscadenziamento (ovvero un piano di rientro) occorre accertare la sussistenza di effetti novativi; nonché quelle clausole che prevedono, in certi casi, il diritto del lender di richiedere l’estinzione anticipata del finanziamento, le quali tuttavia non dovrebbero incidere sulla durata dell’operazione, a meno che non si tratti di clausole che attribuiscono al finanziatore il diritto di richiedere ad nutum la restituzione del finanziamento. In linea di principio, sebbene debba mantenersi una tendenziale unitarietà della nozione di finanziamento a medio e lungo termine, in considerazione del fatto che le due imposte presentano aspetti strutturalmente differenti, non si ritiene che tutti i dubbi sollevati a proposito dell’ambito applicativo dell’imposta sostitutiva debbano necessariamente riflettersi anche ai fini dell’esonero della ritenuta disposto dall’articolo in commento.
(3) Il riferimento testuale alla “erogazione” del finanziamento ha fatto sorgere il dubbio che il requisito soggettivo per beneficiare dell’esonero dovesse essere verificato solo al momento dell’originaria erogazione, restando viceversa ininfluenti i successivi trasferimenti. Tale soluzione è stata unanimemente (e condivisibilmente) rigettata (cfr. M. GUSMEROLI, op. cit., 1138, e C. GALLI, op. cit., 2311), in quanto porterebbe al risultato paradossale che un finanziamento erogato in origine da una banca europea continuerebbe a beneficiare dell’esonero anche se successivamente trasferito ad un fondo black list, mentre una banca europea che ha acquistato il credito da una banca extra-europea la quale ha, in origine, erogato il finanziamento non potrebbe mai beneficiare dell’esonero. Considerata la finalità della disposizione che è quella di regolamentare l’applicazione delle ritenute sugli interessi, appare più logico fare riferimento all’identità del soggetto che percepisce gli interessi piuttosto che a quello che ha in origine erogato il finanziamento.
(4) La norma prevede che il beneficio dell’esonero da ritenuta sia limitato ai finanziamenti erogati alle imprese. Tale locuzione, anche alla luce dei chiarimenti forniti ad altri fini dall’Agenzia delle entrate nella ris. 5 agosto 2016, n. 69/E (in Boll. Trib., 2016, 1269), dovrebbe intendersi riferita “a tutti i soggetti titolari di reddito d’impresa”. Viceversa, non ci pare possano beneficiare dell’esonero i fondi di investimento (tipicamente immobiliari i quali generalmente fanno ricorso entro certi limiti alla leva finanziaria) in quanto non svolgono un’attività produttiva di redditi d’impresa. Nello stesso senso, in termini dubitativi, si veda M. GUSMEROLI, op. cit., 1137. Ritiene, invece, di poter superare tale conclusione “privilegiando un approccio sistematico”, C. GALLI, op. cit., 2311.
(5) Sul punto si osserva che la doppia imposizione giuridica si realizza in ragione del fatto che, di regola, lo Stato della fonte assoggetta a imposizione mediante ritenuta l’interesse lordo, mentre lo Stato della residenza del creditore tassa il reddito netto (costituito dagli interessi attivi dedotti quelli passivi); e ciò con la conseguenza che è strutturalmente impossibile accreditare per intero la ritenuta subita all’estero. Peraltro, proprio con riferimento a questo aspetto, recentemente Corte Giust. UE, sez. V, 13 luglio 2016, causa C-18/15, Brisal (in Boll. Trib. On-line), ha stabilito che è incompatibile con il diritto dell’Unione, in quanto comporta una restrizione alla libera prestazione di servizi garantita dall’art. 56 del TFEU, una normativa nazionale che prevede la tassazione su base lorda degli interessi corrisposti a finanziatori esteri quando per i residenti è prevista la tassazione su base netta. Allo stato, tuttavia, non è chiaro quali saranno le implicazioni del principio sancito dai giudici del Lussemburgo, stante la difficoltà per il sostituto di individuare i costi sostenuti dal finanziatore.
(6) Nei contratti di finanziamento sono di regola presenti clausole di gross-up che hanno quale finalità quella di tenere indenne il finanziatore estero da eventuali ritenute applicabili nello Stato della fonte sugli interessi dovuti in relazione al contratto di finanziamento, facendo gravare il relativo onore sul prenditore il quale è tenuto ad incrementare l’importo degli interessi corrisposti al creditore in misura tale che, una volta scomputata la ritenuta alla fonte, l’importo netto corrisponda all’interesse contrattualmente pattuito.
(7) Con riferimento alle società e agli enti commerciali non residenti, l’art. 151, primo comma, del TUIR, prevede che il reddito complessivo «è formato soltanto dai redditi prodotti nel territorio dello Stato, ad esclusione di quelli esenti da imposta e di quelli assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta o di imposta sostitutiva». Per il soggetto non residente che eroga il finanziamento gli interessi e altri proventi relativi a tali finanziamenti costituiscono redditi di capitale ai sensi dell’art. 44, primo comma, del TUIR. Inoltre, ai sensi dell’art. 23 del medesimo Testo Unico, detti redditi si considerano prodotti in Italia in quanto corrisposti da soggetti residenti nel territorio dello Stato. Si era, pertanto, posto il dubbio se la mancata applicazione della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta comportasse l’obbligo per il percettore di presentare la dichiarazione dei redditi in Italia al fine di assoggettare ad imposta i suddetti interessi.
(8) Si precisa che, in un interpello inedito commentato sulla stampa specializzata (cfr. M. PIAZZA – A. SAINI, Interessi, benefici fiscali allargati, in Il Sole 24 Ore del 2 giugno 2015, 39), l’Agenzia delle entrate ha confermato la possibilità per i finanziatori non residenti di fruire dei benefici convenzionali anche in sede di dichiarazione. Il quesito sottoposto all’Agenzia delle entrate riguardava il caso di una banca estera la quale erogava finanziamenti a soggetti privati residenti in Italia che non rivestivano la qualifica di sostituti d’imposta. In risposta all’istanza presentata dalla banca estera, l’Agenzia delle entrate ha osservato che l’art. 11 della Convenzione non subordina l’applicazione dell’aliquota ridotta ivi prevista ai casi in cui intervenga un sostituto. Ne consegue che la banca estera potrà godere dei benefici del Trattato applicando l’IRES nella dichiarazione dei redditi secondo l’aliquota ridotta prevista dalla Convenzione, in luogo di quella ordinaria.
(9) In tal senso cfr. M. GUSMEROLI, op. cit., 1140. Nello stesso senso C. GALLI, op. cit., 2311 ss., il quale osserva che non è raro che il legislatore attribuisca all’esonero da ritenuta una valenza assoluta idonea a prevenire la reviviscenza del tributo sostituito, come nel caso degli interessi interbancari di cui allo stesso art. 26 del D.P.R. n. 600/1973 o all’art. 6 del D.Lgs. n. 239/1996.
(10) In Boll. Trib., 2016, 1498; in particolare, una banca austriaca priva di stabile organizzazione nel territorio dello Stato aveva chiesto all’Amministrazione finanziaria di chiarire se la stessa fosse tenuta a presentare una dichiarazione dei redditi in Italia al fine di assoggettare a tassazione gli interessi derivanti da un finanziamento a medio e lungo termine erogato ad un’impresa residente e non assoggettati a ritenuta ai sensi dell’art. 26, comma 5-bis, del D.P.R. n. 600/1973. In realtà il quesito era stato già risolto, in senso negativo, dall’Amministrazione finanziaria, nella circ. 30 marzo 2016, n. 6/E, in Boll. Trib., 2016, 616 (presumibilmente dopo la presentazione dell’istanza da parte della banca), affermando «che con l’introduzione della richiamata disposizione, il legislatore ha evidentemente voluto escludere non solo l’applicazione della ritenuta, ma anche l’imponibilità degli interessi in commento prevista dall’articolo 23, comma 1, lett. b), del TUIR. Ciò in coerenza con la ratio della nuova disposizione, dichiaratamente agevolativa, da individuare nella volontà di eliminare il rischio di doppia imposizione giuridica, che economicamente risulta traslato sul debitore, favorendo in ultima analisi l’accesso delle imprese italiane a costi competitivi anche a fonti di finanziamento estere».
(11) Si precisa che tale condizione è stata inserita nella norma in commento dall’art. 17, secondo comma, del D.L. 14 febbraio 2016, n. 18 (convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 2016, n. 49).
(12) Generalmente i fondi di credito esteri partecipano alla sindacazione sul mercato secondario acquistando un credito già erogato da una banca (italiana o estera) ovvero stipulando con questa un contratto (c.d. subparticipation agreement) tramite il quale la banca (banca fronter), pur non procedendo alla formale cessione credito, trasferisce sostanzialmente al fondo (subparticipant) tutti i rischi e benefici del finanziamento. Tale schema, di norma, prevede che il subparticipant fornisca alla banca fronter una provvista di denaro il cui rimborso e la cui remunerazione è condizionata (nei tempi e nella misura) ai pagamenti effettuati dal soggetto debitore in base al finanziamento originariamente erogato dalla banca fronter. Con riferimento a strutture simili, l’Agenzia delle entrate nella circ. n. 6/E/2016, cit., ha chiarito che, giacché la banca svolge il ruolo di mero intermediario che consiste “nell’incasso e nel contestuale riversamento dei flussi reddituali” tra il soggetto finanziato e il beneficiario ultimo dei pagamenti, ai fini dell’applicazione della ritenuta il finanziato deve ignorare la banca fronter, considerando rilevante solo l’identità del beneficiario ultimo dei pagamenti. Nella stessa circ. n. 6/E/2016, l’Amministrazione finanziaria espressamente ammette l’applicabilità dell’esonero, ai sensi del citato comma 5-bis, facendo riferimento all’identità del beneficiario ultimo degli interessi. È evidente, quindi, che un’interpretazione che limitasse l’applicazione della misura agevolativa prevista dal predetto comma 5-bis solo ai soggetti autorizzati ad “erogare” il finanziamento si porrebbe in contrasto con quanto in precedenza affermato dalla stessa Amministrazione finanziaria nella citata circ. n. 6/E/2016.
(13) In Boll. Trib., 2002, 355.
(14) In Boll. Trib., 2003, 522.
(15) La nozione di “ente creditizio” deriva dalla normativa comunitaria e identifica “un’impresa la cui attività consiste nel raccogliere depositi o altri fondi rimborsabili dal pubblico e nel concedere crediti per proprio conto” (cfr. l’art. 4, par. 1, punto 1, del Regolamento UE n. 575/2013), ovvero che esercita attività bancaria così come definita dall’art. 10 del TUB.
(16) Cfr. G. TARELLO, L’interpretazione della legge, in A. CICU – F. MESSINEO – L. MENGONI (a cura di), Trattato di diritto civile e commerciale, vol. I, tomo 2, Milano, 1980, 151-152 e 371, ove, dopo aver spiegato che vi è ridondanza quando “due enunciati sono formulati in modo da poter essere interpretati come colleganti ad una stessa fattispecie una stessa conseguenza o effetto giuridico”, l’Autore afferma che “Come la regola di conservazione induce ad attribuire significati non confliggenti a enunciati che potrebbero essere ritenuti esprimere norme confliggenti, così la regola della non-ridondanza induce ad attribuire significati diversi ad enunciati che potrebbero essere ritenuti esprimere la stessa norma”. Queste considerazioni sono alla base dell’argomento interpretativo c.d. “economico” o “ipotesi del legislatore non ridondante”, ossia quello “per cui si esclude l’attribuzione a un enunciato normativo di un significato che già viene attribuito ad altro enunciato normativo, preesistente al primo o gerarchicamente superiore al primo o più generale del primo; e ciò perché se quell’attribuzione di significato non venisse esclusa, ci si troverebbe di fronte a un enunciato normativo superfluo. La persuasività di questo argomento si fonda sulla credenza che il legislatore … segua criteri di economicità e non sia ripetitivo: cioè che non produca – attraverso l’enunciazione di enunciati nuovi, o più particolari, o subordinati – la stessa norma che già era valida ed efficace”.
(17) M. GUSMEROLI, op. cit., 1135.

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