28 Ottobre, 2016

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SOMMARIO: 1. Le buone intenzioni – 2. Depenalizzata l’elusione. Anzi, no – 3. La depenalizzazione delle valutazioni: sì, forse, anzi no – 4. Segue: ma cosa sono le valutazioni? – 5. Segue: le valutazioni “estreme” – 6. Segue: pronostico nero.

1. Le buone intenzioni

La legislazione penal-tributaria degli ultimi anni assomiglia a una fisarmonica: si allunga o si restringe a seconda di esigenze più o meno serie. Quando si vuole aumentare il gettito oppure si scopre un soggetto “nulla dichiarante” in realtà milionario, allora gli esponenti governativi fanno la faccia feroce che si traduce, sui media, in espressioni come “il governo alza la guardia”, “affila le armi”, “l’evasione è nel mirino” o “i furbetti KO”. Alla lessicologia pugilistico-militare segue regolarmente un inasprimento delle sanzioni, comprese quelle penali.
Quando poi ci si accorge che l’inasprimento delle pene serve soprattutto a intasare gli Uffici giudiziari, allora si fa macchina indietro, e si riduce l’area di intervento penale.
Oggi siamo in questa fase – in base all’art. 8 della legge 11 marzo 2014, n. 23 (legge delega) – in cui viene considerato normale perseguire i «soli casi connotati da un particolare disvalore giuridico, oltre che etico e sociale, identificati, in particolare, nei comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori, oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ritenuti insidiosi anche rispetto all’attività di controllo» (in tali termini si esprime la Relazione governativa).
Ma è proprio così? Quegli intenti sono stati scritti parecchie volte e parecchie volte rinnegati ricorrendo agli escamotages verbali di cui sopra. Come è successo anche questa volta. Ma questa volta, bisogna dirlo, il legislatore non ha colpe.

2. Depenalizzata l’elusione. Anzi, no

È di sicuro solo una coincidenza ma dopo la condanna (penale) – per fatti di elusione fiscale – dei noti stilisti Dolce & Gabbana (1), che se ne sono risentiti a tal punto da minacciare di lasciare il suolo italico, si è accesa la discussione sull’opportunità di mantenere la sanzione penale per le operazioni fiscali abusive-elusive.
Un noto accademico, Raffaello Lupi, a proposito delle vicissitudini dei bravi stilisti, scriveva non molto tempo addietro che fino a che si «metterà l’evasione interpretativa sul piano della ricchezza non registrata, chi la commette sarà sempre esposto all’etichetta di “grande evasore”. Per capire questa differenza occorre però diradare le cortine fumogene di chi divaga apparentemente in tema, senza dire nulla, ma con grande autorevolezza, confondendo gli interlocutori per motivi … politici e di sensazionalismo editoriale. Sarà dura» (2).
Aveva ragione Lupi: sarà dura. E dire che l’abbrivo sembrava dare torto al suo pessimismo.
Ancora prima della novellazione del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, con il D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, era stato inserito l’art. 10-bis nella legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente); la nuova norma prevede che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie» (mentre resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie).
Insomma, l’elusione o l’abuso del diritto – che sono la stessa cosa e che si possono definire come “evasione interpretativa” – non costituiscono più reato (ma solo un illecito amministrativo).
L’elusore, infatti, diversamente dall’evasore, non occulta ricavi (il c.d. “nero”) né erode l’imponibile mediante costi fittizi; l’elusore agisce senza nascondere nulla, contando sulla solidità del disegno (elusivo) ancorato al testo letterale della legge; quello che però viene vulnerato è lo spirito del sistema.
Per rendere l’idea «pensiamo ad un locale pubblico alla cui porta di entrata è stato affisso un cartello del seguente tenore letterale: “vietato l’ingresso ai cani”. Chi entra nel locale con un gatto può plausibilmente sostenere di essere nel lecito perché oltre al rispetto del dato testuale (preclusione sancita solo per i cani) ha dalla sua la presumibile ratio del divieto: tra gli animali di comune affezione solo i cani non sono desiderati. Chi invece entra nel locale tenendo al guinzaglio un maiale sostenendo di essere nel lecito perché il divieto lavora solo per i cani interpreta la norma come l’elusore: ineccepibile sotto il profilo formale (il divieto non contempla i maiali), l’esegesi del suinofilo urta contro lo spirito della preclusione: se in un locale pubblico non sono graditi i cani, è logico che, a maggior ragione, non siano graditi i maiali. Insomma, mentre l’evasore agisce al coperto, badando di non farsi scoprire, l’elusore si infila tra le maglie del testo normativo (fisiologicamente) incompleto per aggirare, senza occultare nulla, la logica del sistema» (3).
Per queste condotte – sosteneva Lupi – «l’assurdità della sanzione penale non deriva quindi dalla presenza di un “mero errore”, ma dalla mancanza di ricchezza nascosta al Fisco, cioè dall’adempimento, da parte dell’azienda, di un dovere amministrativo di inquadramento giuridico di un fatto materiale, che nessuno nasconde». Il fatto è che «in questo confusionario clima di caccia alle streghe, le contestazioni sull’inquadramento giuridico dato alla ricchezza registrata finiscono per essere accomunate a quelle relative alla ricchezza non registrata» (4).
Ora, i fenomeni indicati come abuso del diritto o elusione – dove il contribuente non nasconde nulla ma interpreta (in suo favore) le norme fiscali – dovrebbero uscire senza rimpianti dall’area di attenzione penale.
Invece no. Secondo la prima interpretazione della Suprema Corte «rimane impregiudicata la possibilità di ravvisare illeciti penali – sempre, naturalmente, che ne sussistano i presupposti – nelle operazioni contrastanti con disposizioni specifiche che perseguano finalità antielusive (ad esempio, negando deduzioni o benefici fiscali, la cui indebita autoattribuzione da parte del contribuente potrebbe bene integrare taluno dei delitti in dichiarazione). Parimenti rimane salva la possibilità di ritenere, nei congrui casi, che – alla luce delle previsioni della normativa delegata e della possibile formulazione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici – operazioni qualificate in precedenza dalla giurisprudenza come semplicemente elusive integrino ipotesi di vera e propria evasione» (5).
L’irrilevanza penale dell’elusione fiscale viene dunque uccisa nella culla.
Non è più vero che la sanzionabilità penale viene esclusa quando il contribuente dichiara tutto, non nasconde nulla, ma interpreta la legge in maniera difforme dagli organi fiscali. Sembra non essere cambiato nulla.
Se la Corte di Cassazione afferma che da una interpretazione non condivisa possa sorgere la responsabilità penale, anche il contribuente che non bara si troverà sempre esposto al rischio di un processo penale. Poi magari verrà assolto perché si sentirà dire che la sua interpretazione: a) è conforme alla legge; ovvero: b) è difforme ma di quel poco che consente la sola applicazione delle sanzioni amministrative. Ma potrà essere penalmente condannato perché: c) il giudice affermerà che la sua interpretazione merita anche la sanzione penale perché, ad esempio, è scivolato nell’infedeltà della dichiarazione.
Insomma, sul versante penale dell’elusione si è fatto molto rumore per nulla. Avevano ragione i pessimisti come Lupi. Avevano anche ragione quelli che usavano il condizionale rafforzato: «La scelta operata dal legislatore … parrebbe segnare la fine di una lunga querelle dottrinaria e giurisprudenziale» (6).
Meno ragione l’avevano gli ottimisti: «Un punto però è acquisito: l’abuso del diritto genera responsabilità amministrativa e non penale … per cui il legislatore prossimo venturo non potrà ragionevolmente smentirsi ed affermare il contrario ricollegando all’abuso del diritto questa o quella fattispecie penale» (7). Non c’è stato bisogno di attendere il legislatore: ci hanno pensato prima i giudici.

3. La depenalizzazione delle valutazioni: sì, forse, anzi no

La recente miniriforma penal-tributaria è intervenuta sull’annosa questione della punibilità delle valutazioni.
In particolare, nell’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 (“Infedele dichiarazione”) è stato inserito il comma 1-bis secondo cui «ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1 [che appunto prevede il reato di dichiarazione infedele], non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali».
La relazione governativa è molto chiara: «Al riguardo, va rilevato che le risultanze dei lavori parlamentari relative alla legge delega appaiono univoche nel senso che la prefigurata revisione di detta disciplina deve attuarsi nella direzione dell’“alleggerimento” della situazione attuale. Dalla stessa relazione alla proposta di legge n. 282/C (e, prima ancora, dalla relazione al disegno di legge n. 5291/C della scorsa legislatura, che ne costituisce il diretto antecedente) emerge, in particolare, come il legislatore delegante abbia visto con sfavore il fatto che l’attuale descrizione del fatto incriminato – la quale, per un verso, prescinde da comportamenti fraudolenti e, per altro verso, rende penalmente rilevanti non solo le omesse o mendaci indicazioni di dati oggettivi, ma anche l’effettuazione di valutazioni giuridico-tributarie difformi da quelle corrette – comporti la creazione di una sorta di “rischio penale” a carico del contribuente, correlato agli ampi margini di opinabilità e di incertezza che connotano i risultati di dette valutazioni: “rischio penale” non sufficientemente circoscritto dalla previsione di un dolo specifico di evasione (nella relazione alla proposta di legge n. 282/C si prospetta, cosi, l’esempio del contribuente portato “a giudizio … unicamente per aver imputato un costo o un ricavo fuori competenza”). Come è stato da più parti evidenziato, il fenomeno ora indicato è foriero di conseguenze pregiudizievoli anche in termini macroeconomici. Sul piano della “competizione tra ordinamenti”, esso rischia, infatti, di tradursi in un disincentivo alla allocazione delle imprese sul territorio italiano, stante la prospettiva che una semplice divergenza di vedute tra contribuente e organi dell’accertamento fiscale in ordine agli esiti delle operazioni valutative considerate porti, con inesorabile automatismo, all’avvio di un procedimento penale».
Si direbbe che non ci sono dubbi: delle valutazioni del contribuente non condivise dagli organi fiscali si discuterà solo davanti al giudice tributario; il giudice penale si occuperà solo dei fatti di evasione.

4. Segue: ma cosa sono le valutazioni?

Detto della finalità della modifica legislativa, occorre però precisare il concetto di “valutazioni”. Che la valutazione sia un giudizio è ovvio.
Nella logica i giudizi si suddividono in due categorie: i giudizi descrittivi e i giudizi di valore. Il giudizio descrittivo ha per oggetto una valutazione che non lascia alcun margine di discrezionalità. Questo implica che un giudizio descrittivo si può definire vero o falso. Ad esempio, se dico che l’ultimo articolo del codice civile è il 34 affermo una cosa falsa (l’ultimo articolo è il 2969).
I giudizi di valore hanno invece per oggetto una valutazione soggettiva; una valutazione in cui spesso il suo autore è chiamato a esprimere preferenze per una scelta piuttosto che un’altra.
Un giudizio di valore non si potrà mai definire errato o falso sul piano dell’evidenza empirica; si potrà solo definire condivisibile o non condivisibile. Se io affermo che ho un credito di difficile realizzabilità nessuno può dirmi che ho detto il falso; si potrà al più sostenere – se, per esempio, il debitore è una banca – che la mia valutazione non è condivisibile perché secondo l’id quod plerumque accidit una banca è solvibile. Anche i giudizi di valore più “scombiccherati” non potranno mai essere definiti falsi: se Tizio, di modesta avvenenza secondo i canoni comuni, sostiene di essere l’uomo più bello del mondo, si potrà dire che quello che afferma non è condivisibile ma non che dice il falso (si troverà sempre una donna per la quale quell’uomo è il più bello del mondo).

5. Segue: le valutazioni “estreme”

Il comma 1-bis dell’art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000 preclude al giudice penale ogni sindacato sulla scelta dei criteri utilizzati nelle valutazioni. Così, ad esempio, è insindacabile – sotto il profilo penale – la scelta di appostare un costo all’interno di un periodo di imposta piuttosto che in un altro. Alla stessa stregua è insindacabile la qualificazione di un costo come di pubblicità piuttosto che di rappresentanza. Quello che importa – afferma il comma 1-bis – è che la scelta sia motivata; che cioè una valutazione ci sia stata e sia stata esternata. Una volta che il criterio viene illustrato allora quel criterio potrà essere disatteso sotto il profilo tributario ma è penalmente insindacabile.
La valutazione motivata è penalmente insindacabile anche se (ritenuta) in aperta violazione della legge?
La risposta è sì, perché tutto quella che rientra nella “valutazione motivata” è insindacabile, fosse anche la motivazione assolutamente non condivisibile.

6. Segue: le valutazioni estreme sono sempre valutazioni

A questo punto dobbiamo aprire un’altra parentesi.
Una certa disposizione di legge prevede che i magistrati debbano andare in pensione a 70 anni. Alcuni magistrati ultrasettantenni di andare in pensione non ne hanno proprio voglia. Allora ricorrono al Consiglio di Stato perché dichiari illegittimo il loro pensionamento.
Il Consiglio di Stato sospende il pensionamento. Ma come, se la legge dice chiaramente che a settant’anni i magistrati devono andare in pensione?
È interessante verificare come i giudici amministrativi motivano il loro provvedimento che dà ragione ai magistrati ultrasettantenni. Il Consiglio di Stato offre una duplice motivazione: – la ragionevole aspettativa di questi magistrati a essere tenuti in servizio fino a settantacinque anni; – il danno organizzativo per gli Uffici giudiziari che si vedono privati di quei magistrati.
Sembra che l’interpretazione del Consiglio di Stato sia palesemente contra legem. Primo perché la legge pare chiarissima: a settant’anni i magistrati devono andare in pensione. Secondo perché nessuna legge autorizza i giudici amministrativi a tenere conto delle aspettative dei singoli giudici o dell’organizzazione degli Uffici giudiziari.
Contro questa interpretazione che sembra sostanzialmente abrogatrice della legge si levano critiche pesanti: «Come può il Consiglio di Stato ergersi a giudice della funzionalità degli uffici giudiziari quando per questo compito ci sono il ministro della Giustizia ecc.» (8). Insomma, i giudici amministrativi avrebbero violato la legge. I giudici amministrativi hanno sbagliato.
O no?
Trattandosi però di una valutazione (i giudici amministrativi non hanno detto che non esiste la legge che pensiona i magistrati a settant’anni ma l’hanno interpretata), c’è anche chi ha letto in chiave positiva la pronuncia del Consiglio di Stato: «la decisione del Consiglio di Stato sembra quasi spingere nella direzione di un intervento legislativo per evitare un possibile caos» (9).
Ecco, siccome si tratta di una valutazione nel coro dei dissenzienti si leva una voce che ritiene condivisibile – e chi ci ha seguito fino a qui può cogliere la differenza tra vero e condivisibile (e la differenza tra falso e non condivisibile) – la preoccupazione dei giudici amministrativi che hanno a cuore il buon funzionamento dell’Amministrazione della giustizia.
Nessuno comunque potrà mai dire che la decisione del Consiglio di Stato è sbagliata. Siamo sempre nell’ambito di una valutazione, non condivisibile fino a che si voglia, ma sempre una valutazione (per quanto criticabile). Anzi, un quotidiano autorevole come il Sole 24 Ore l’apprezza.
Ora, supponiamo che una società per azioni deduca il costo di una sanzione pagata per avere violato la disciplina in materia di privacy o di antitrust. Per consolidato insegnamento giurisprudenziale il costo di una sanzione non è deducibile. La società lo deduce ugualmente sostenendo che il costo è inerente perché la violazione – che ha dato luogo all’applicazione della sanzione, di solito di importo molto rilevante – è stata commessa nell’esercizio dell’attività d’impresa.
I panpenalisti non avrebbero dubbi (se ovviamente sono superate le soglie di punibilità): il reato esiste perché il contribuente sapeva che non poteva dedurre quel costo.
Però, quel contribuente potrebbe fare osservare che la giurisprudenza della Corte di Cassazione è suscettibile di mutamenti e, a volte, eccessivamente ondivaga: basti pensare al “tormentone” in tema di giurisdizione relativamente all’individuazione del giudice (tributario od ordinario) competente nelle liti tra sostituto di imposta e sostituito: ogni anno la Corte di Cassazione mutava orientamento. Chi ci dice che non lo cambierà anche in tema di deduzione di costi da sanzioni amministrative?
Alla società contribuente dell’esempio i più irriducibili avversari della depenalizzazione potrebbero opporre una considerazione del genere: «Dedurre una sanzione amministrativa pecuniaria? Ma dove hai sentito questa sciocchezza? Al bar o in uno scompartimento ferroviario? Se una sanzione fosse deducibile perderebbe il suo carattere affittivo …».
A quel punto la società contribuente potrebbe ribattere in questo modo: «No, questa è una tesi che sostiene un professore che insegna alla Accademia della Guardia di Finanza. Non solo: è anche un consulente della Commissione finanze del Senato della Repubblica» (10).
Si può condannare al carcere chi segue le interpretazioni di un consulente del Senato che pure insegna alla Guardia di finanza?
All’imbarazzante interrogativo si può evitare di rispondere se si applica la legge come è scritta: le valutazioni non sono punibili. Tutte, perché la legge non distingue.

6. Segue: pronostico “nero”

La modifica normativa della dichiarazione infedele fa il paio – sia sotto il profilo delle ragioni di fondo sia della struttura lessicale – con la recente modificazione del reato di false informazioni sociali previsto dall’art. 2621 c.c. (falso in bilancio) che punisce i soggetti ivi menzionati (amministratori, ecc.) se «espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge» (modifica ex legge 27 maggio 2015, n. 69).
La Corte di Cassazione, in un primo tempo, ha preso atto della novella e ha affermato che «il dato testuale e il confronto con la previgente formulazione degli artt. 2621 e 2622, come si è visto in una disarmonia con il diritto penale tributario e con l’art. 2638 cod. civ., sono elementi indicativi della reale volontà legislativa di far venir meno la punibilità dei falsi valutativi» (11).
Il falso valutativo (espressione inesatta perché una valutazione non può mai essere falsa ma solo condivisibile o non condivisibile), cioè la valutazione che sembra urtare con il dato legislativo (come quella del Consiglio di Stato a proposito della pensione dei giudici ultrasettantenni) – siccome fa parte delle valutazioni – si sottrae alla sindacabilità penale. Sembra ovvio: sono solo i fatti che possono essere predicati come falsi, cioè contrari al vero; le valutazioni, non condivisibili fino a che si vuole, non sono fatti.
Ma ecco la macchina indietro.
È vero, non è una sentenza. Si tratta solo di un “avviso interpretativo”. Proviene sempre dalla Corte di Cassazione, ma dall’Ufficio del massimario. Viene denominata “Relazione per la Quinta Sezione Penale (Riunione sezionale del 15 ottobre 2015)”.
Cosa afferma l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte? In due parole: la novella legislativa è tamquam nom esset. Quello che ha detto la Corte di Cassazione con la citata sentenza n. 33774/2015 non va bene. Con un virtuosismo semantico viene confezionato il concetto di “vero legale”: «il bilancio è “vero” non già perché rappresenti fedelmente l’obiettiva realtà aziendale sottostante, bensì perché si conforma a quanto stabilito dalle prescrizioni legali in proposito. Si tratta di un “vero legale” stante la presenza di una disciplina legislativa che assegna valore cogente a determinate soluzioni elaborate dalla tecnica ragionieristica. La decisione circa la falsità di una valutazione di bilancio, rilevante ai sensi delle nuove figure di falso in bilancio, dipende dal rispetto dei criteri legali di redazione del bilancio. In tal senso, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che la veridicità o falsità delle componenti del bilancio va valutata in relazione alla loro corrispondenza ai criteri di legge e non alle enunciazioni “realistiche” con le quali vengono indicate».
Cosa è il “vero legale”? Il “vero legale” è semplicemente un nonsense perché è solo un fatto che può essere predicato vero o falso in base a un riscontro empirico. Il vero ha per oggetto i fatti bruti, ha connotazioni oggettive, verificabili empiricamente. Il “vero legale”, invece, è quello che, secondo un certo modello interpretativo, viene ritenuto conforme alla legge. Il vero legale, quindi, non è altro che una valutazione.
Ma non si dovevano cacciare fuori dall’area di sanzionabilità penale le valutazioni? Con il “vero legale” le valutazioni rientrano dalla finestra (ovviamente si rimane nella sfera di sanzionabilità penale quando la valutazione è supportata da falsa documentazione: in questo caso scatta inesorabilmente il reato ex art. 3 del D.Lgs. n. 74/2000).
Si dice che i giudici faciunt de albo nigrum. Possono ciò trasformare il bianco in nero. Nero (di umore) come il contribuente – cui l’avvocato aveva detto «stai tranquillo, le valutazioni sono penalmente insindacabili» – che si ritrova sul groppone una pesante condanna a pena detentiva.

Avv. Fausta Brighenti

(1) I noti stilisti sono stati condannati in primo grado dal Tribunale penale di Milano con sentenza 17 settembre 2013, n. 7777 (in Boll. Trib. On-line), entrambi a un anno e otto mesi ciascuno, per il reato di omessa presentazione della dichiarazione di cui all’art. 5 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74; condanna confermata dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza 20 giugno 2014, n. 3534 (anch’essa in Boll. Trib. On-line), con una leggera diminuzione della pena, e poi definitivamente dalla Corte di Cassazione con formula piena perché il fatto non sussiste, con sentenza 30 ottobre 2015, n. 43809, di prossima pubblicazione in questa Rivista e già in Boll. Trib. On-line.
(2) Cfr. R. LUPI, Dolce e Gabbati: quando la reazione all’elusione travalica la rimozione del vantaggio fiscale indebito, in Dial. trib., 2013, 257.
(3) Cfr. A. MARTINELLI, Manuale di tecnica processuale tributaria, Torino, 2014, 156.
(4) Cfr. R. LUPI, Rilevanza penale dell’abuso del diritto e delle questioni interpretative: quando le aziende si danno la zappa sui piedi, in Dial. trib., 2012, 439.
(5) Cfr. Cass., sez. III pen., 7 ottobre 2015, n. 40272, in Boll. Trib., 2016, 150, con nota di V. AZZONI, Sull’abuso del diritto e le sanzioni penal-tributarie.
(6) Cfr. E. FONTANA, La riforma dei reati tributari: luci ed ombre di un parto travagliato, in www.dirittoegiustizia.it.
(7) Cfr. P. CORSO, Abuso del diritto: non genera responsabilità penale, in sito IPSOA.
(8) Cfr. S. CASSESE, La pensione dei magistrati e la legge da non beffare, in Corriere della Sera del 11 dicembre 2015, 27.
(9) Cfr. D. STASIO, Giudici, prepensionamento sospeso dal Consiglio di Stato, in il Sole 24 Ore del 5 dicembre 2015, 21.
(10) Cfr. R. LUPI, “Contestazioni interpretative” e sanzioni penali tra equilibrio di fondo ed espedienti punitivi, in Dial. trib., 2010, 605.
(11) Cfr. Cass., sez. V pen., 30 luglio 2015, n. 33774, in Boll. Trib. On-line.