11 Marzo, 2019

1. L’esercizio del potere accertativo dell’Agenzia delle entrate nei confronti di società di capitali commerciali cancellate dal Registro delle Imprese prima della notifica dell’atto impositivo è fattispecie, ormai, che la giurisprudenza di legittimità ha ben esplorato; il fenomeno è stato regolamentato dal legislatore tributario con il D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175 (1), al fine di derogare (pro futuro) alle preclusioni temporali del codice civile creando uno ius specialis di dubbia costituzionalità (2).

2. Il quadro normativo cui la giurisprudenza ha fino ad oggi fatto riferimento è chiaramente definito dal combinato disposto degli artt. 2495 c.c. e 36 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, nel testo precedente alle modifiche apportate dal citato D.Lgs. n. 175/2014, alle quali la giurisprudenza stessa ha in termini consolidati attribuito valenza innovativa (3).
L’attuale secondo comma dell’art. 2495 c.c. come novellato prevede che «Ferma restando l’estinzione della società, dopo la cancellazione i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino alla concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, e nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi. La domanda, se proposta entro un anno dalla cancellazione, può essere notificata presso l’ultima sede della società»; in particolare, il perentorio incipit «Ferma restando l’estinzione della società» con il quale si apre il secondo comma evidenzia una scelta legislativa decisamente chiara la quale esclude in modo perentorio che l’estinzione si verifichi soltanto quando siano stati liquidati tutti i rapporti giuridici che fanno capo alla società (4).
La Corte di Cassazione, dopo aver confermato come l’art. 2495 c.c. evidenzi una scelta piuttosto netta del legislatore verso il principio dell’effetto “costitutivo” (e non più “dichiarativo” come nel precedente regime) – secondo cui l’estinzione della società consegue automaticamente all’iscrizione della sua cancellazione nel Registro delle Imprese, indipendentemente dalla possibile sopravvivenza alla formalità pubblicitaria della cancellazione di rapporti patrimoniali, sostanziali e processuali, nella composizione a Sezioni Unite – ha proposto una soluzione interpretativa che ha avuto delle ricadute tributarie importanti: l’autorevole Collegio ha infatti configurato, al fine della tutela del ceto creditorio, un’azione nei confronti del socio ma solo nei limiti di responsabilità costituito da quanto ricevuto in virtù di un fenomeno successorio a titolo derivativo (5).
Dal versante normativo tributario, nel testo antecedente alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 175/2014, la responsabilità dei soci, liquidatori ed amministratori è sempre stata regolata attraverso una disposizione, l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, che garantiva (e tuttora garantisce) un equilibrio tra tutela del creditore erariale e responsabilità patrimoniale del contribuente in un limite predeterminato, sul presupposto che si sia effettivamente realizzata un’assegnazione di beni e/o denaro pregiudizievole per il ceto creditorio erariale (6).
Da tale combinazione normativa discende (i) da un lato, che a fronte di un effetto estintivo costitutivo i creditori sociali non possono rivolgere le proprie pretese nei confronti della società estinta scaduto il termine previsto e che la notifica di un atto impositivo solo alla società sarebbe di per sé priva di efficacia; (ii) dall’altro, però, che ben si possono (e si potevano) chiedere al socio successore le imposte sui redditi dovute dalla società cancellata nei limiti di quanto ricevuto previa adeguata prova assolta da parte degli Uffici.

3. Concentrando l’attenzione sulle società di capitali e sulla prassi che l’Agenzia delle entrate adotta per i periodi di imposta ante modifiche, si nota come siano frequenti casi in cui gli Uffici notifichino al socio (persona fisica o giuridica) di una società cancellata dal Registro delle Imprese invece di due avvisi, uno singolare e uno societario secondo le modalità di cui all’art. 40 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, solo quello societario (riferibile, quindi, a una maggiore base imponibile complessiva e a maggiori imposte astrattamente di spettanza dell’ente), coinvolgendo ciascun socio per l’intero senza alcuna limitazione.
Tale prassi si rivela illegittima; al fine di una migliore comprensione delle relative ragioni si possono richiamare alcuni punti fermi degli effetti fiscali della cancellazione come sanciti dalla giurisprudenza di legittimità.

3.1. La Corte di Cassazione è consolidata nel ritenere esistente un fenomeno successorio tale per cui il socio succederebbe alla società nella propria esposizione debitoria anche se il debito dovesse emergere in un atto posteriore alla cancellazione; la legittimazione attiva spetterebbe, quindi, non più alla società cancellata per il tramite dell’ultimo legale rappresentante ma soltanto ai soci (7) con la conseguenza che la notifica dell’avviso solo alla società non consentirebbe agli Uffici alcuna azione nei confronti di questi (8).
Gli effetti estintivi della cancellazione, in altri termini, non impedirebbero all’Agenzia delle entrate di coinvolgere ciascun socio e alla Commissione tributaria di accertare nei confronti di questo un debito riferibile all’ente; non mancano, però, alcune necessarie condizioni perché ciò possa accadere.

3.2. Dal citato quadro normativo deriva una responsabilità del socio (ma anche dell’amministratore e liquidatore) limitata al valore dei beni assegnati al momento in cui ha avuto luogo l’inadempimento (omesso versamento) con un onere sia motivazionale che probatorio gravante sull’Ufficio tale per cui quest’ultimo dovrebbe dimostrare l’effettiva assegnazione (in danno del creditore erariale) e il valore di quanto assegnato.
Si avrebbe, quindi, una inderogabile limitazione della responsabilità e ripartizione dell’onere probatorio tra le parti della controversia.
È ovviamente innegabile che la responsabilità del socio della società cancellata dovrebbe essere illimitata – rispetto alla quota ma non, però, al valore del ricevuto ex art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 – ove si trattasse di una società di persone (9).

3.3. In ordine alla prova dell’effettiva percezione di somme e valori da parte del socio essa è, ormai, patrimonio acquisito: la pretesa fiscale è destinata a rivelarsi infondata laddove l’ente non dimostri il trasferimento di somme o valori, non bastando una prova presuntiva ma occorrendo una prova diretta (sarebbe diabolica la prova di non aver percepito nulla).
Tale ricostruzione si lega coerentemente ai principi costituzionali in materia sia di capacità contributiva che di tutela giurisdizionale; l’estensione, infatti, della responsabilità a un soggetto terzo rispetto a quello che avrebbe realizzato il presupposto, seppur attraverso un fenomeno successorio singolare, è dipendente dall’avere il chiamato ricevuto denaro o beni che, se non se ne fosse disposto per impieghi diversi, sarebbero stati destinati all’adempimento (totale o parziale) dell’obbligazione tributaria societaria.
È evidente che le forme giuridiche in cui tale disposizione potrebbe aver luogo sono molteplici; da un lato, quella della liquidazione ed assegnazione “formalizzata”; dall’altra – ed il punto è assai delicato – quella informale, spesso presunta dagli Uffici, realizzata al di fuori dei procedimenti istituzionali societari.
Nel primo caso la formalizzazione (dell’assegnazione o della mancata assegnazione) come dato oggettivo non controvertibile dovrebbe risolvere i dubbi in uno o in un altro senso del contendere.
Nel secondo, invece, l’assenza della formalizzazione dell’attribuzione non dovrebbe impedire un’indagine concreta di vie non formali con onere gravante sull’Ufficio (10); in altri termini, i poteri istruttori dovrebbero essere utilizzati dall’Agenzia delle entrate per dimostrare con prova diretta il beneficio patrimoniale del socio attraverso, ad esempio, accrediti bancari o pagamenti con corrispettivi superiori ingiustificatamente a valori di mercato, etc., a nulla rilevando la circostanza che l’avviso di accertamento notificato alla società non sia stato da questa impugnato e sia diventato, così, definitivo (11).
Sembra, quindi, minoritaria o, quantomeno, dal fondamento giuridico più debole l’ipotesi di ritenere che l’onere probatorio in questione possa essere nei fatti non assolto in virtù di un interesse dell’Erario a precostituirsi con l’accertamento notificato al socio un titolo valido nei confronti di questi laddove, ex post rispetto alla notifica di tale avviso, emergessero sopravvenienze attive extrabilancio o redditi societari non dichiarati (12); si tratterebbe, quindi, di una prospettiva nella quale la legittimazione processuale verrebbe autonomizzata dal requisito dell’effettiva assegnazione, ponendosi questa solo come condizione per la riscossione in capo al socio (13).

4. Un profilo altrettanto critico che consegue alla notifica al socio del solo avviso societario assumendo il fondamento di ciò sulla successione del primo nella posizione processuale e sostanziale della società è quello attinente alla natura illimitata della responsabilità che l’Ufficio fiscale andrebbe a sostenere nel chiedere a ciascun socio il pagamento di tutte le imposte e sanzioni che si sarebbero accertate e irrogate alla società se questa non si fosse cancellata prima della notificazione.
Come si è evidenziato, né l’art. 2495 c.c. né l’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 prevedono tali situazioni e la stessa disciplina civilistica conforta l’assenza di qualsiasi fondamento normativo (14); inoltre, è noto che l’obbligazione è in solido ai sensi dell’art. 1292 c.c. «quando più debitori sono obbligati tutti per la medesima prestazione … oppure quando tra più creditori ciascuno ha diritto di chiedere l’adempimento dell’intera obbligazione» e che esiste una solidarietà tra i condebitori «se dalla legge o dal titolo non risulta diversamente».
Ancora più grave sarebbe il coinvolgimento del socio per le sanzioni irrogate alla società cancellata; sul punto occorre ricordare che, ancora una volta, è assente il fondamento normativo di tale richiesta a titolo di solidarietà non rinvenendosi in seno al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, alcuna disposizione in tal senso in quanto l’art. 11 intestato “Responsabili per la sanzione amministrativa” non prevede la fattispecie in esame.
Ma vi è di più, in quanto in base all’art. 7 del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, «1. Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica».

5. Un’interessante variante sul tema è quella in cui la società cancellata sia anche una piccola società di capitali cioè una società a responsabilità limitata o una società per azioni con base societaria ristretta (15); in quest’ipotesi la ristrettezza della base partecipativa è utilizzata dagli Uffici – con contraddittoria concorrenza di norme e ragionamenti – per presumere che ai soci della società cancellata siano stati assegnati i redditi presuntivamente non dichiarati dall’ente cancellato.
In tal modo gli effetti della cancellazione così come i limiti e le condizioni fissate dall’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973 vengono neutralizzati per valorizzare a fini accertativi esclusivamente il carattere ristretto della compagine; si violerebbe, così, l’onere probatorio diretto pretendendo il pagamento delle imposte sui redditi societari presunti in base alla quota di partecipazione e qualificandoli come dividendi tassabili come redditi di capitale o di impresa a seconda della natura del socio.
Non si deve dimenticare che il reddito di capitale è un reddito che presuppone l’effettiva percezione e che viene tassato secondo il principio di cassa.
Ne deriva che l’Agenzia delle entrate dovrebbe preliminarmente dimostrare l’avvenuta percezione nel periodo di imposta in esame secondo il principio di cassa a fronte di una tassazione dei redditi societari che segue il diverso criterio della competenza previsto per i soggetti IRES; l’identità di periodi di imposta può essere sostenuta in termini automatici solo per le società di persone i cui redditi sono per legge tassati secondo il principio della c.d. trasparenza.
Ove al socio fosse notificato l’avviso societario mancherebbe la necessaria qualificazione della ricchezza attraverso la classificazione della medesima all’interno di una delle sei categorie reddituali fissate dall’art. 6 del TUIR: la pretesa avanzata nei confronti del socio contribuente è legittima solo a seguito di una corretta qualificazione della maggiore ricchezza dello stesso presunta sulla base della ipotetica rilevanza della natura ristretta della compagine sociale e derivante dall’accertamento di una maggiore ricchezza complessiva della società.
Si evidenzia come a fronte della cancellazione della piccola società di capitali anteriormente all’accertamento verrebbe meno lo stesso presupposto logico della imputazione per trasparenza nelle società di capitali ovvero l’esistenza di un avviso validamente notificato alla società che abbia definitivamente accertato il maggior reddito che l’Ufficio vorrebbe imputare ai soci (16); l’inesistenza del soggetto societario renderebbe, infatti, improcedibile l’accertamento in capo al singolo socio della società cancellata (17) in quanto l’Ufficio stesso non potrebbe ottemperare alle prescrizioni procedurali fissate dall’art. 40, secondo comma, del D.P.R. n. 600/1973.
Infine, un cenno merita di essere dedicato al novero delle imposte il cui pagamento sarebbe richiedibile al liquidatore/amministratore o socio; l’art. 36 citato chiaramente si indirizza alle sole imposte sui redditi e ciò è confermato dal disposto dell’art. 19 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, con la conseguenza che il recupero, anche se con limiti quantitativi, sarebbe illegittimo per l’IVA (18).

Prof. Valerio Ficari
Ordinario di Diritto Tributario
Università di Roma Tor Vergata

(1) Su cui tra gli altri cfr. FICARI – RAGUCCI, in AA.VV., Commento al decreto sulle semplificazioni (D.Lgs. n. 175 del 2014), a cura di MULEO, Torino, 2015, 129-153.
(2) Per alcune considerazioni leggasi NICCOLINI, I disagi del diritto commerciale di fronte all’art. 28, comma 4, D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175 in materia di cancellazione delle società dal Registro delle Imprese in Riv. trim. dir. trib., 2015, 1020 ss.; nonché, se si vuole, FICARI, La disciplina delle società estinte: il profilo dei termini di accertamento, in AA.VV., Commento al decreto sulle semplificazioni (D.Lgs. n. 175 del 2014), cit., 129 ss.
(3) Sulla natura innovativa e non interpretativa delle modifiche cfr. Cass., sez. trib., 2 aprile 2015, n. 6743; e poi tra le altre Cass., sez. VI, 25 agosto 2017, ord. n. 20427; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(4) Di tale nuova disciplina ha dato atto la sentenza n. 18618 resa dalla Corte di Cassazione in data 28 agosto 2006 (in Boll. Trib. On-line), in cui si osserva che «il nuovo testo dell’art. 2495, comma 2, del codice civile antepone al vecchio testo, che prevede le azioni dei creditori insoddisfatti nei confronti di soci e liquidatori, la proposizione ferma restando l’estinzione della società. In tal modo il legislatore della riforma del 2003 ha chiaramente manifestato la volontà di stabilire che la cancellazione produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo non definiti»; l’orientamento è stato confermato, e non poteva che essere così data la chiarezza della formulazione dell’art. 2495 c.c., anche da successive pronunce della Suprema Corte: risolutiva è la sentenza resa a Sezioni Unite in data 22 febbraio 2010, n. 4062 (ivi), la quale, nel ribadire la natura costitutiva dell’avvenuta cancellazione, afferma che l’estinzione per avvenuta cancellazione comporta la perdita della capacità e della legittimazione tale per cui essa non potrà né agire direttamente in giudizio né essere destinataria di alcuna efficace notifica né essere rappresentata dal punto di vista sostanziale da alcuno al fine della sottoscrizione di accordi e contratti.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6071, in Boll. Trib. On-line.
(6) Art. 36 del D.P.R. n. 602/1973: «I liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se soddisfano crediti di ordine inferiore a quelli tributari o assegnano beni ai soci o associati senza avere prima soddisfatto i crediti tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti. La disposizione contenuta nel precedente comma si applica agli amministratori in carica all’atto dello scioglimento della società o dell’ente se non si sia provveduto alla nomina dei liquidatori. I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione danaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile. Le responsabilità previste dai commi precedenti sono estese agli amministratori che hanno compiuto nel corso degli ultimi due periodi d’imposta precedenti alla messa in liquidazione operazioni di liquidazione ovvero hanno occultato attività sociali anche mediante omissioni nelle scritture contabili. La responsabilità di cui ai commi precedenti è accertata dall’ufficio delle imposte con atto motivato da notificare ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600».
(7) Leggasi, da ultimo, Cass., sez. VI, 9 ottobre 2017, ord. n. 23625; e Cass., sez. VI, 4 settembre 2017, ord. n. 20752; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(8) Per tutte cfr. Cass., sez. trib., 23 marzo 2016, n. 5736, in Boll. Trib. On-line.
(9) Ved. Cass., sez. VI, 23 maggio 2017, ord. n. 12953, in Boll. Trib. On-line.
(10) Sulla ripartizione di tale onere cfr. Cass., sez. VI, 28 novembre 2017, ord. n. 28465, in Boll. Trib. On-line; Cass. n. 23265/2017, cit.; e Cass., sez. VI, 2 ottobre 2017, ord. n. 23029, ivi.
(11) Cfr. Cass. n. 23029/2017, cit.
(12) Per tale ipotesi pare esprimersi Cass., sez. trib., 7 aprile 2017, n. 9094, in Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. Cass., sez. trib., 16 giugno 2017, n. 15035, in Boll. Trib. On-line.
(14) Si richiama, ad esempio, in materia di cooperazione, che il disposto dell’art. 2518 c.c. è chiaro nell’affermare che «Nelle società cooperative per le obbligazioni sociali risponde soltanto la società con il suo patrimonio».
(15) Nell’eventualità della cancellazione delle società cooperative di produzione e lavoro sarebbe molto raro dimostrare l’esiguità della compagine societaria in quanto occorrerebbe effettuare una distinzione, priva di qualsiasi fondamento giuridico, tra soci fondatori (magari anche lavoratori) e soci solo lavoratori.
(16) Leggasi Cass., sez. trib., 19 giugno 2013, n. 15334, in Boll. Trib. On-line.
(17) Ved. Cass., sez. VI, 23 novembre 2016, ord. n. 23916, in Boll. Trib. On-line.
(18) Cfr. l’art. 19 del D.Lgs. n. 46/1999; sul punto anche Cass., sez. trib., 5 agosto 2016, n. 16446, in Boll. Trib. On-line.

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