26 Luglio, 2016

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Se un giudice fa delle affermazioni nel corpo di una sentenza, si dice lo faccia perché è convinto di essere nel giusto. Il nostro ordinamento non si accontenta di ciò e vuole che egli illustri le tappe del percorso seguito per giungere a quanto affermato; chiede cioè la motivazione: l’esposizione dei fatti rilevanti della causa e le ragioni giuridiche della decisione. In buona sostanza, vuole che il criterio di valutazione attraverso il quale è pervenuto a decidere in quel modo sia reso evidente affinché sia chiaro che trattasi di criterio indipendente da qualsiasi convinzione personale di giustizia, essendo basato esclusivamente sulla razionale applicazione della legge.
Questo percorso è quanto di una sentenza si può controllare e, perché no, criticare. Non dunque il fatto che la domanda sia stata o meno accolta sulla base dei motivi allegati, del tutto ininfluente ai fini di questo controllo, ma il modo in cui il giudice è pervenuto alla sintesi finale.
In questo esame l’interprete non ha limiti di analisi posto che, a differenza di quanto avviene nel campo della matematica, ove le proposizioni sono certe e sicure, in quello del diritto non esistono asserzioni che non possano essere confutate. Anche se ciascuno di noi cerca di argomentare il proprio pensiero avvalendosi di basi solide e sicure, nella realtà nessuno è in grado di trovare tali basi su un piano intersoggettivo.
Le norme che riguardano la redazione della motivazione della sentenza sono improntate alla celerità e alla semplificazione. L’art. 132 c.p.c. riduce ad esempio l’aspetto argomentativo che ci interessa ad una «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione». L’art. 36 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, sul contenzioso tributario segue a ruota parlando di «succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto».
Sul piano generale la funzione della motivazione non è quella di affermare o negare in termini assoluti una certa verità sui fatti allegati dalle parti del processo, ma quella di illustrare il perché il diritto da esse vantato è stato o meno affermato. Nel fare questo non serve che il giudice illustri tutte le questioni che gli sono state prospettate nel corso del processo, ma soltanto quelle necessarie per illustrare la soluzione adottata (1), giustificando evidentemente il perché di questa scelta rispetto agli altri elementi acquisiti al processo. Il procedimento di individuazione di queste fonti, il controllo della loro attendibilità e concludenza in funzione della loro idoneità a dimostrare la veridicità dei fatti di causa dovrà essere un percorso oltremodo chiaro sul piano giuridico sicché sia possibile controllare l’esattezza e la logicità del ragionamento (2).
Tra queste questioni non vanno annoverate soltanto quelle di natura sostanziale ma anche quelle di rito. Lo scontro fra le parti in causa non è infatti una contesa nella quale ciascuno è libero di comportarsi a proprio piacimento ma è soggetta a precise regole, il rispetto delle quali è in grado di condizionarne l’esito finale.
In questo senso le norme di procedura sono tutt’altro che accessorie rispetto a quelle di diritto sostanziale, rivestendo molto spesso un ruolo decisivo per la soluzione della lite. Per quanto possa non piacere, non è raro il caso di sentenze che si giustificano soltanto sulla base del diritto processuale, piuttosto che su quello sostanziale. Questo è il nostro sistema processuale. Chi viola una norma del processo, rischia di perdere lo scontro anche se dal punto di vista sostanziale potrebbe aver ragione. La mole dei ricorsi che vengono ad esempio risolti dalla Corte di Cassazione sulla base della mera declaratoria di inammissibilità, attesta senza ombra di dubbio che l’idea “benthamiana” di un processo destinato a servire il benessere della comunità, è un’idea ancora del tutto da realizzare.
La realtà è quella per cui il giudice non persegue valori superiori al processo contingente ed è pertanto irrilevante, sul piano generale, che questo si concluda con una statuizione di merito o di rito.
Per quanto riguarda il percorso argomentativo, nel rito tributario l’art. 36 vuole un succinto riepilogo dei motivi allegati dalle parti e, accanto a questi, i concetti giuridici applicati per dare senso alla decisione. A differenza di quanto avviene nel processo civile, in cui le parti in conflitto hanno ampio spazio per intervenire sull’oggetto del contendere, anche a processo avviato, il processo tributario è strutturato secondo regole del tutto diverse, la materia del contendere è irriducibilmente circoscritta al provvedimento impositivo impugnato e ai motivi di impugnazione.
Chiare a questo proposito le parole della sentenza della Corte di Cassazione n. 5072/2015 (3): «la motivazione dell’avviso di accertamento ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an (e il quantum) della pretesa tributaria al fine di approntare un’idonea difesa. Il che comporta che l’oggetto della contesa è delimitato in via assoluta proprio dall’atto impugnato e l’amministrazione non può addurre altri profili rispetto a quelli che hanno formato la motivazione dell’atto impositivo impugnato».
Le ragioni poste a base dell’atto impositivo, unitamente ai motivi di ricorso, segnano dunque i confini del processo, a nulla valendo che nel corso del giudizio l’Ufficio finanziario possa allegare ragioni diverse o modificare la motivazione dell’atto (4). Il giudice questo dovrà verificare, senza alcun potere di qualificare diversamente la fattispecie sottoposta al suo esame (5).
Trattandosi di indicazioni che attengono alla individuazione del thema decidendum, e dunque alle ragioni che devono essere poste a fondamento del dispositivo finale, questi confini dovranno essere puntualmente enunciati nella sentenza (6). La mancata indicazione di questi dati, a cui dovesse seguire una omissione di pronuncia o un difetto di motivazione in ordine ad alcuno di essi, renderebbe nulla la sentenza stessa, chiaro risultando che tale omissione non è rimasta circoscritta all’ambito delle formalità avendo negativamente inciso sulla corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Altrettanto deve dirsi delle sentenze di appello che non illustrano le critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e le considerazioni che hanno indotto la Commissione a disattenderle (7).
Se questo è il concetto di motivazione, è chiaro che parti e passaggi non strettamente funzionali a questo obiettivo sono del tutto inutili, così come altre indicazioni aggiuntive, alternative o a sorpresa.
Questo tipo di motivazioni aggiuntive sono in genere suggerite dal desiderio del giudice di fornire ulteriori indicazioni circa la questione oggetto di giudizio, oppure perché egli avverte la necessità di allegare argomenti rafforzativi, sospettando che quanto detto non sia sufficiente a dare conto della scelta effettuata.
Mentre nel primo caso le affermazioni così concepite, gli obiter dicta, sono affermazioni prive di qualsiasi effetto giuridico, non determinando alcuna influenza sul dispositivo della decisione (8), così non è nella seconda ipotesi, quando cioè la necessità delle medesime nasce dal desiderio di completare la motivazione con l’aggiunta di altre considerazioni.
Questo genere di argomentazioni dimostra, per singolare paradosso, che a giudizio dello stesso estensore della sentenza il ragionamento base presenta delle aporie logiche o giuridiche che egli tenta in qualche modo di sanare. Aporie che sarebbe stato evidentemente più naturale eliminare rivisitando l’intera argomentazione, così controllando se la soluzione individuata segue un percorso che contiene errori di impostazione, come tali da correggere.
Queste argomentazioni rafforzative fanno comunque parte, a tutti gli effetti, della sentenza costituendone un elemento strutturale. Non possono dunque essere trascurate, come ad esempio avviene per gli obiter dicta, che non hanno effetti sul dispositivo della sentenza.
Nessun problema esse creano quando si inseriscono all’interno dei presupposti logico giuridici dell’argomentazione principale. Se questa non riceve poi alcun vantaggio, essendo da sola in grado di giustificare la pronuncia adottata, la motivazione aggiuntiva può considerarsi giuridicamente irrilevante ai fini della censurabilità della decisione.
Il problema insorge se l’argomento rafforzativo nasconde, consapevolmente o meno, una vera e propria ratio decidendi del tutto autonoma rispetto all’oggetto del contendere come sopra determinato.
Una tale soluzione, frutto di un processo deliberativo unilaterale e non condiviso dalle parti, lede irrimediabilmente il contraddittorio e il diritto di difesa, e crea una ingiustificata discontinuità fra lo svolgersi del processo e la sentenza, spezzando senza rimedio il principio di prevedibilità della decisione, quello di indipendenza del giudice e della sua soggezione soltanto alla legge (9).
In questi casi, se l’argomento rafforzativo si avvale di un sillogismo giuridico autonomo e diverso rispetto a quello base, lo stesso rappresenta una doppia motivazione della decisione, con tutte le correlate conseguenze sul piano della impugnazione. Quando una sentenza è infatti sostenuta da una pluralità di ragioni, distinte e autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di queste rende inammissibile per difetto d’interesse la censura delle altre poiché questa omissione determina il passaggio in giudicato di tale autonoma motivazione.
Diverso è evidentemente il caso in cui questo genere di argomentazione trae origine dai motivi del ricorso e il giudice, invece di dichiararli assorbiti, argomenta la sua posizione anche in relazione ad essi, con ciò rafforzando la coerenza della motivazione.
Da ultimo deve dirsi del modo in cui la motivazione può essere controllata dalla Corte di Cassazione alla luce della nuova formulazione del n. 5 dell’art. 360 c.p.c. introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134), laddove ha soppresso la fattispecie della «omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio» per sostituirla con quella di «omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».
Chiamata a decidere se tale disposizione fosse o meno applicabile anche al ricorso avverso le sentenze delle Commissioni regionali, in quanto l’art. 54 del D.L. n. 83/2012 sopra menzionato dispone che «le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano al processo tributario di cui al decreto legislativo 31 dicembre 1992 n. 546», le Sezioni Unite n. 8053/2014 (10) ne hanno statuito la piena applicabilità. Ciò in quanto, si legge, il giudizio di legittimità in materia tributaria non ha connotazioni di specialità ed è dunque soggetto alle regole generali. In questo senso, prosegue la Corte, «è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione».
Nei fatti la nuova previsione dell’art. 360 c.p.c. introduce nell’ordinamento un vizio specifico di impugnazione: l’omesso esame di dati materiali, già acquisiti al processo, potenzialmente idonei a determinare un diverso esito del giudizio (11).
Questo non significa, evidentemente, che la motivazione così come sopra delineata non sia più controllabile da parte del giudice di legittimità. La motivazione è infatti un obbligo che la nostra Costituzione impone con la norma sul giusto processo: «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». Le norme di rito che prevedono e regolamentano le caratteristiche di questa motivazione rientrano poi nell’ambito della previsione di cui al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. Resta soltanto da stabilire se in questa previsione vi possa rientrare l’insufficienza e la contraddittorietà della stessa. In buona sostanza, se sia o meno possibile identificare le ragioni di una decisione da una motivazione che contiene passaggi argomentativi insufficienti e contraddittori.
Secondo le Sezioni Unite (12) ciò sarebbe possibile: non è «più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione».
Ma la questione non è per nulla chiusa in quanto il confine fra l’insufficienza e l’apparente motivazione con quello della mancanza di motivazione è un confine molto labile.
Un dato è comunque certo. La motivazione della sentenza deve indicare gli elementi da cui il giudice ha tratto il proprio convincimento. Questo deve fare senza contrasti argomentativi ed enunciazioni criptiche incomprensibili e inconcludenti che, come tali, impediscono di comprendere le ragioni della decisione (13).
Se questo non avviene, se «il giudice di merito omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro approfondita disamina logico giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento» (14), ci si troverà sempre di fronte ad un difetto assoluto di motivazione o di mera apparenza della medesima.
Come tale denunciabile in cassazione.

Avv. Bruno Aiudi

(1) Secondo Cass., sez. III, 27 luglio 2006, n. 17145, in Mass. foro it., 2006, 2037, la sentenza «non richiede l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio posti a base della decisione o di quelli non ritenuti significativi, essendo sufficiente al fine di soddisfare l’esigenza di un’adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un riferimento logico e coerente a quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie vagliate nel loro complesso, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo, in modo da evidenziare l’iter seguito per pervenire alle assunte conclusioni, disattendendo anche per implicito quelle logicamente incompatibili con la decisione adottata».
(2) Cfr. Cass., sez. trib., 27 maggio 2011, n. 11710, in Boll. Trib. On-line, secondo cui non adempie il dovere di motivazione il giudice che si limiti a richiamare principi giurisprudenziali asseritamene acquisiti, senza tuttavia formulare alcuna specifica valutazione sui fatti rilevanti di causa e, dunque, senza ricostruire la fattispecie concreta ai fini della sussunzione in quella astratta; in una situazione di tale tipo, infatti, il sillogismo che distingue il giudizio finisce per essere monco della premessa minore e, di conseguenza, privo della conclusione razionale.
(3) Cfr. Cass., sez. trib., 13 marzo 2015, n. 5072, in Boll. Trib. On-line.
(4) Così Cass., sez. trib., 18 febbraio 2010, n. 3833, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 11 marzo 2010, n. 5929, in Boll. Trib., 2010, 1137: il giudice tributario deve limitarsi a verificare la legittimità dell’operato dell’Ufficio tributario senza effettuare una diversa qualificazione della fattispecie sottoposta al suo esame, pena il vizio di ultrapetizione, essendo precluso al giudicante il potere amministrativo tributario sostanziale spettante all’Amministrazione finanziaria, mediante l’accoglimento della domanda basato su ragioni diverse da quelle addotte dal contribuente sulla scorta della pretesa azionata dall’Amministrazione.
(6) Cfr. Cass., sez. trib., 12 marzo 2002, n. 3547, in Boll. Trib. On-line: ai sensi dell’art. 36 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui la sentenza deve contenere, fra l’altro, la «concisa esposizione dello svolgimento del processo» e «la succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto» – nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c. (sicuramente applicabile al rito tributario in forza del generale rinvio operato dall’art. 1, secondo comma, del citato decreto delegato), la mancata esposizione in sentenza dello svolgimento del processo e dei fatti rilevanti della causa e l’estrema concisione della motivazione in diritto determinano la nullità della sentenza, allorché rendono impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni che stanno a fondamento del dispositivo.
(7) Cfr. Cass., sez. trib., 4 giugno 2014, n. 12467, in Boll. Trib. On-line: è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del D.Lgs. n. 546/1992, nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della Commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la Commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare per relationem alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione delle ragioni poste a fondamento del dispositivo, non potendo ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame.
(8) Cfr. Cass., sez. lav., 22 ottobre 2014, n. 22380, in Mass. foro it., 2014, 836: sono inammissibili, per difetto di interesse, le censure rivolte avverso argomentazioni contenute nella motivazione della sentenza impugnata e svolte “ad abundantiam” o costituenti “obiter dicta”, poiché esse, in quanto prive di effetti giuridici, non determinano alcuna influenza sul dispositivo della decisione.
(9) In relazione a questa ipotesi di motivazione a sorpresa, altrimenti nota anche come “terza via”, così la descrive il già presidente del Tribunale di Rimini in P. CASULA, LGM, Lessico Giudiziario Minore, 2014, 278: «Questa tentazione è alla base della malattia mentale che va sotto il nome comune di paranoia, che è dunque la potenziale malattia professionale del giudice. Il discorso è solo apparentemente paradossale giacché, quando una quarantina d’anni or sono lo feci con un amico psicanalista, questi mi rispose che non avevo scoperto un bel niente perché ben prima e meglio di me vi era arrivato tale Sigmund Freud».
(10) Cfr. Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053, in Boll. Trib., 2014, 1648, con nota di A. RUSSO, Filtro al ricorso in cassazione avverso le sentenze del giudice tributario: i principi di diritto. Identico principio è stato poi ribadito da Cass., sez. un., 22 settembre 2014, n. 19881, in Boll. Trib. On-line.
(11) Ipotesi, questa, diversa dall’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., che concerne il diverso caso dell’omesso esame di una domanda o di una eccezione introdotta in causa, autonomamente apprezzabile, ritualmente e inequivocabilmente formulata; sul punto cfr. Cass., sez. trib., 5 dicembre 2014, n. 25761, in Boll. Trib. On-line, secondo cui: «Al contrario, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 cpc, nuovo n. 5, dice Cass. civ. sez. VI 8 ottobre 2014 n. 21527, presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico – principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia) e che non sia stato preso in considerazione neppure per implicito, neppure dovendo il giudice dare conto di ogni risultanza istruttoria – ovvero che esso sia, sempre esclusa ogni rilevanza della mera insufficienza motivazionale, inficiato dalla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, oppure da una motivazione apparente, oppure da un contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, oppure ancora da una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile».
(12) Cfr. Cass., sez. un., 10 luglio 2015, n. 14477, in Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. Cass., sez. trib., 5 ottobre 2007, n. 20936, in Boll. Trib. On-line: incorre nel vizio di omessa motivazione la sentenza della Commissione tributaria regionale che ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza un’approfondita disamina logico-giuridica, rendendo in tale modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento.
(14) Cfr. Cass., sez. II, 27 maggio 2010, n. 13001, in Boll. Trib. On-line.