17 Ottobre, 2016

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Le rigorose conclusioni raggiunte dai Massimi Giudici sulla questione del trattamento ai fini ICI di fabbricati adibiti e utilizzati da privati (nella fattispecie, una Congregazione e un Istituto religiosi) come scuole paritarie dietro versamento di retta da parte degli iscritti, pur riguardando un tributo ormai da anni abolito (1), assumono ancora particolare interesse e rilevanza per la pressoché totale trasposizione delle disposizioni sulle ipotesi di esenzione in materia di ICI (2) nella disciplina applicativa del prelievo subentrato, l’IMU, tuttora in vigore.
La controversia riguardava l’applicazione o meno del vecchio tributo su due scuole paritarie per un numero notevole di annualità (2004-2009); i gestori delle scuole avevano contestato l’atto impositivo, deducendo, a contrariis, il diritto all’esenzione ex art. 7, primo comma, lett. i), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, sulla base della destinazione del fabbricato allo svolgimento di esclusive attività didattiche, in piena conformità, quindi, al dettato della norma esonerativa; i giudici tributari di primo grado hanno accolto il ricorso dell’Istituto S. Spirito delle Salesiane di Don Bosco (e respinto quello della Congregazione delle Suore Mantellate a dimostrazione dei forti contrasti interpretativi anche a livello di Corti territoriali), dichiarando infondata e illegittima la pretesa impositiva del Comune toscano e alla stessa conclusione sono pervenuti i giudici d’appello; di qui i ricorsi al giudizio di legittimità della Corte di Cassazione, risolti nel senso sopra esposto, con annullamento dei responsi impugnati e rinvio ad altre Sezioni della Commissione tributaria regionale per il riesame delle controversie alla luce dei principi enunciati dalle annotate sentenze.
Come, peraltro, è stato puntualmente rilevato nella motivazione della sentenza n. 14226/2015, le pronunce dei giudici d’appello hanno risolto in maniera identica per tutti gli anni in contestazione la questione di fondo dell’applicabilità alla fattispecie dell’ipotesi agevolativa disposta dal punto i) dell’art. 7, primo comma, della normativa ICI, per entrambi gli enti religiosi, senza tenere debito conto delle numerose modifiche introdotte dal legislatore al testo originario della norma in parola; in effetti, tale norma ha subito negli anni vari ritocchi e modifiche, a testimonianza della complessità e rilevanza degli ambiti di applicabilità dell’esenzione de qua: un iter tormentato, insomma, che ha inciso sulla portata dell’esenzione stessa.
Le sentenze in commento hanno operato un’attenta e puntigliosa analisi delle modifiche intervenute negli anni nella formulazione del testo della norma relativa all’esenzione in discussione, pervenendo al rigoroso e clamoroso responso (3), che ha ribaltato completamente le conclusioni delle Commissioni di merito: l’esonero richiesto non può essere riconosciuto e gli enti religiosi devono corrispondere l’ICI sugli immobili destinati a scuole paritarie.
Per giungere a tale conclusione, il Supremo Collegio ha richiamato alcuni propri precedenti specifici (4), con i quali è stato negato carattere interpretativo al particolare disposto dell’art. 7, comma 2-bis, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, così formulato: «L’esenzione disposta dall’art. 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse»; un disposto del genere, sicuramente rivolto ad eliminare le già numerose controversie insorte sulla portata della norma esonerativa in questione, creò subito proteste e polemiche da parte degli enti locali impositori, sia con riferimento alla presunta efficacia interpretativa e retroagente della “novella” che nella prospettiva della sua applicazione a venire.
La ferma presa di posizione della Suprema Corte sia sulla non-retroattività della disposizione legislativa qui richiamata che sulla natura commerciale delle scuole paritarie (5), spesso in decisa contrapposizione con la diversa opinione di numerose Commissioni tributarie di merito, rivela nella sostanza una situazione di contrasto fra Magistratura e Parlamento, già emersa – sempre sul tema dell’applicazione dell’ipotesi di esenzione in esame – con la trasmissione alla Corte Costituzionale, da parte della Corte di Cassazione, della questione di conformità ai principi costituzionali della facoltà riconosciuta ai Comuni dall’art. 59 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, in tema di requisiti soggettivi per il riconoscimento dell’esonero dall’ICI di immobili utilizzati, ma non anche posseduti da enti non commerciali.
Situazione anomala e abnorme, certamente non attenuata dal successivo intervento legislativo sul contenuto dell’art. 7, primo comma, lett. i), del D.Lgs. n. 504/1992, con il quale, salomonicamente, è stata operata, ai fini agevolativi, la distinzione fra le varie parti dell’immobile adibite ad attività commerciale (tassabili) e le parti restanti, esenti (ai sensi dell’art. 91-bis della legge 24 marzo 2012, n. 27).
Il “nodo” vero e sostanziale dell’intera, complessa questione rimane comunque quello della corretta qualificazione dell’attività didattica svolta dalle scuole paritarie: è veramente, per tutte, di natura commerciale? La retta pagata dagli iscritti è già in partenza e in maniera scontata e accettata, insufficiente a coprire il costo complessivo dell’attività svolta, come per gli asili, le scuole materne pubbliche e tanti servizi egualmente pubblici, forniti ai cittadini utenti. Molte scuole paritarie, con particolare riferimento a quelle gestite dagli Istituti e dalle Congregazioni religiose, non perseguono finalità commerciali, non cercano il profitto economico; le rette richieste assumono la funzione di contribuzioni parziali, rivolte a selezionare il numero e la qualità degli aderenti; le finalità reali di queste scuole sono di ben altra natura. Eppure anche su tale specifico profilo i Supremi Giudici si sono espressi richiamando propri precedenti in materia commerciale per dimostrare come anche l’imprenditore possa operare in perdita senza il venir meno della propria qualifica di soggetto che esercità un’attività commerciale, atteso che «per integrare il fine di lucro è sufficiente l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio; né ad escludere tale finalità è sufficiente la qualità di congregazione religiosa dell’ente».
È ragionevole, e auspicabile in definitiva, prevedere un nuovo intervento legislativo sulla complessa e tormentata materia in discussione.

Eugenio Righi

(1) L’imposta comunale sugli immobili (ICI) è stata abolita, in quanto sostituita dall’anno 2012 dall’anticipazione sperimentale dell’IMU (ex art. 13 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214).
(2) In materia rinviamo a E. RIGHI, Sulle esenzioni dall’IMU, in Boll. Trib., 2012, 653 ss., e ai riferimenti dottrinari e giurisprudenziali ivi citati. Le pronunce annotate precedute dall’ordinanza dello stesso Supremo Collegio 13 febbraio 2013, n. 3591, in Boll. Trib. On-line, sono state definite dalla CEI come “ideologiche” e “politiche”, aprendo così il dibattito sulla loro fondatezza sul piano strettamente giuridico. Un singolare elemento interpretativo, ad esempio, non è stato tenuto presente: nel rammentare che l’applicazione dell’ICI/IMU sugli edifici scolastici – secondo la legge (cfr. l’art. 5 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, recepito per l’IMU) – è basato sulla rendita catastale dell’immobile, determinata secondo le regole catastali, è interessante rilevare che le “scuole” sono collocate, senza alcuna distinzione, nel gruppo B della tabella delle categorie catastali, mentre la destinazione di altri immobili, come gli ospedali e le case di cura, è differenziata nella tabella a seconda che la loro attività sia senza fine di lucro o con fine di lucro da B/2 a D/4, e collegi, convitti, ricoveri, ospizi, etc., del gruppo B possono essere trasferiti nel distinto gruppo D (con rendita chiaramente più elevata) se sono utilizzati come “alberghi” o “pensioni” (“con fini di lucro”); in altri termini solo le “scuole”- per la normativa catastale – sono tutte, senza distinzione, catalogate unicamente nel gruppo B.
(3) In merito all’indirizzo assunto dalla Corte di Cassazione sulla natura non interpretativa e retroattiva della norma in esame, si veda, oltre a Cass., sez. trib., 16 giugno 2010, n. 14530, in Boll. Trib. On-line ed espressamente richiamata nel contesto delle annotate, anche Cass., sez. trib., 20 novembre 2009, n. 24500, ivi.
vembre 2009, n. 24500, ivi.
(4) Cfr. Cass., sez. trib., 26 ottobre 2005, n. 20776, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 30 maggio 2005, ord. n. 11426, in Boll. Trib. On-line, con decisione di manifesta infondatezza della questione (cfr. Corte Cost. 19 dicembre 2006, ord. n. 429, in Boll. Trib., 2007, 301).

ICI – Esenzioni – Esenzione di cui all’art. 7, primo comma, lett. i), del D.Lgs. n. 504/1992 – Immobili destinati esclusivamente ad attività didattiche, culturali o religiose – Scuole paritarie gestite da enti religiosi – Compresenza del requisito oggettivo e di quello soggettivo per beneficiare dell’esenzione – Necessità – Verifica in concreto dell’attività svolta nell’immobile – Criteri di accertamento della natura dell’attività svolta e onere della prova al riguardo – Individuazione.

L’esenzione dall’ICI prevista dall’art. 7, primo comma, lett. i), del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, per gli immobili destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di religione o di culto, è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o delle altre attività equiparate, e di un requisito soggettivo, costituito dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali di cui all’art. 87, primo comma, lett. c), del TUIR, e la sussistenza del requisito oggettivo deve essere accertata in concreto, verificando che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale, con onere della prova gravante sul contribuente, e non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato; ai fini di tale accertamento il pagamento di corrispettivi da parte degli utenti può costituire un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali, mentre non rilevano il fatto che la gestione operi in perdita e che l’ente si proponga finalità diverse dalla produzione di reddito.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Merone, rel. Botta), 8 luglio 2015, sent. nn. 14225 e 14226, ric. Comune di Livorno c. Congregazione delle Suore Mantellate Serve di Maria e Istituto S. Spirito delle Salesiane di Don Bosco]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO* – La controversia concerne l’impugnazione di un avviso ai fini ICI per gli anni dal 2004 al 2009 relativamente ad unità immobiliari per i quali l’ente religioso, reclamava l’esenzione prevista dall’art. 7, comma 1, lettera i), d.lgs. n. 504 del 1992.
La Commissione adita accoglieva il ricorso. La decisione era confermata in appello, con la sentenza in epigrafe, avverso la quale il Comune di Livorno propone ricorso per cassazione con unico motivo. Resiste l’ente religioso con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE – Con l’unico motivo, l’ente locale denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, lettera i), d.lgs. n. 504 del 1992, per aver ritenuto il giudice di merito applicabile l’esenzione per l’anno 2004, in base all’originaria formulazione della norma, per gli anni 2005 e 2006, in base alla nuova formulazione della stessa norma introdotta con il d.l. n. 203 del 2005, e per gli anni dal 2007 al 2009, in base alla ulteriore modificazione della norma disposta con il d.l. n. 223 del 2006.
Il motivo è fondato. Intanto, la formulazione originaria della norma si applica sicuramente per gli anni 2004 e 2005, essendo la riforma disposta con il d.l. n. 203 del 2005 entrata in vigore il 3 dicembre 2005, per essere poi abrogata il 4 luglio 2006, di carattere innovativo e non interpretativo: questa Corte ha stabilito che «l’art. 7, comma 2-bis, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203 (introdotto dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248), che ha esteso l’esenzione disposta dall’art. 7, comma 1, lett. i), del d.lgs. n. 504 del 1992 alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse, e l’art. 39 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha sostituito il comma 2-bis dell’art. 7 cit., estendendo l’esenzione alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale, non si applicano retroattivamente, trattandosi di disposizioni che hanno carattere innovativo e non interpretativo» (Cass. n. 14530 del 2010 (1)). Inoltre, sulla base della formulazione originaria della norma, l’esenzione «è limitata all’ipotesi in cui gli immobili siano destinati in via esclusiva allo svolgimento di una delle attività di religione o di culto indicate nell’art. 16, lett. a), della legge 20 maggio 1985, n. 222» (Cass. n. 24500 del 2009 (2); v. anche Cass. n. 14530 del 2010), nelle quali non rientra l’esercizio di attività sanitarie (Cass. n. 14530 del 2010), didattiche (Cass. n. 20776 del 2005 (3)) o ricettive (Cass. n. 4645 del 2004 (4)) salvo che non sia dimostrato specificamente che le stesse siano svolte con modalità non commerciali.
Tale prospettiva è punto di riferimento per la soluzione delle identiche questioni anche per gli anni successivi, in quanto la norma di cui all’art. 7, comma 2-bis, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203 (introdotto dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248), che ha avuto vita breve (dal 3 dicembre 2005 al 4 luglio 2006 come si è detto), era sospettata, non senza fondamento, di essere in conflitto con la normativa comunitaria sugli aiuti di Stato e con le regole sulla concorrenza: ragione per la quale essa avrebbe dovuto esser disapplicata qualora non fosse stata prontamente sostituita dall’art. 39, d.l. n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 248 del 2006, con il quale è stato stabilito che: «l’esenzione disposta dall’art. 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale». Una modifica, quest’ultima, che non può essa stessa essere giudicata in linea con la disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato, come testimonia il fatto che la Commissione europea sulla concorrenza abbia in proposito aperto un’indagine, per ovviare alla quale è stato poi approvato l’art. 91-bis del d.l. n. 1 del 2012 (convertito con modificazioni dalla legge n. 62 del 2012). In base al comma 1 di tale norma, la lettera i) dell’art. 7 del D.Lgs. n. 504 del 1992 ha il seguente testo: «gli immobili utilizzati dai soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera c), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e successive modificazioni, fatta eccezione per gli immobili posseduti da partiti politici, che restano comunque assoggettati all’imposta indipendentemente dalla destinazione d’uso dell’immobile, destinati esclusivamente allo svolgimento con modalità non commerciali di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, di ricerca scientifica, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché delle attività di cui all’articolo 16, lettera a), della legge 20 maggio 1985, n. 222». Gli altri due commi della novella del 2012, si preoccupano di regolare le ipotesi di utilizzazione “mista” degli immobili in questione, introducendo il difficile concetto dell’attribuzione “proporzionale” del beneficio fiscale.
Nel quadro generale non può non restar confermato il principio già affermato da questa Corte, secondo cui: «l’esenzione prevista dall’art. 7, comma primo, lett. i), del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, è subordinata alla compresenza di un requisito oggettivo, rappresentato dallo svolgimento esclusivo nell’immobile di attività di assistenza o di altre attività equiparate, e di un requisito soggettivo, costituito dal diretto svolgimento di tali attività da parte di un ente pubblico o privato che non abbia come oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali [art. 87, comma primo, lett. c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, cui il citato art. 7 rinvia]. La sussistenza del requisito oggettivo deve essere accertata in concreto, verificando che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti, non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale» (Cass. n. 4502 del 2012 (5)). La prova della sussistenza del requisito oggettivo spetta al soggetto che pretende l’applicazione dell’esenzione: «La sussistenza del requisito oggettivo – che in base ai principi generali è onere del contribuente dimostrare – non può essere desunta esclusivamente sulla base di documenti che attestino a priori il tipo di attività cui l’immobile è destinato, occorrendo invece verificare che tale attività, pur rientrante tra quelle esenti, non sia svolta, in concreto, con le modalità di un’attività commerciale» (Cass. n. 5485 del 2008 (6); sull’onere della prova gravante sul contribuente v. anche Cass. n. 27165 del 2011 (7)).
Nel caso di specie si tratta della gestione di una scuola paritaria i cui utenti (per quanto risulta dalla stessa sentenza impugnata) pagano un corrispettivo, che erroneamente il giudice di merito ritiene irrilevante ai fini ICI, in quanto è un fatto rivelatore dell’esercizio dell’attività con modalità commerciali. Altrettanto erroneamente il giudicante attribuisce rilievo al fatto che la gestione operi in perdita (questione assolutamente priva di rilievo, in quanto anche un imprenditore può operare in perdita) e ritiene che l’esenzione spetti sempre laddove l’ente si proponga finalità diverse dalla produzione di reddito. In verità secondo l’orientamento di questa Corte, «la nozione di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., va intesa in senso oggettivo, dovendosi riconoscere il carattere imprenditoriale all’attività economica organizzata che sia ricollegabile ad un dato obiettivo inerente all’attitudine a conseguire la remunerazione dei fattori produttivi, rimanendo giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, che riguarda il movente soggettivo che induce l’imprenditore ad esercitare la sua attività e dovendo essere, invece, escluso il suddetto carattere imprenditoriale dell’attività nel caso in cui essa sia svolta in modo del tutto gratuito, dato che non può essere considerata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti. Peraltro, ai fini dell’industrialità dell’attività svolta (art. 2195, primo comma, cod. civ.), per integrare il fine di lucro è sufficiente l’idoneità, almeno tendenziale, dei ricavi a perseguire il pareggio di bilancio; né ad escludere tale finalità è sufficiente la qualità di congregazione religiosa dell’ente» (Cass. n. 16612 del 2008).
Il ricorso deve essere, pertanto, accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa ad altra Sezione della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, che provvederà anche in ordine alle spese della presente fase del giudizio.

P.Q.M. – (Omissis).

(1) Cass. 16 giugno 2010, n. 14530, in Boll. Trib. On-line.
(2) Cass. 20 novembre 2009, n. 24500, in Boll. Trib. On-line.
(3) Cass. 26 ottobre 2005, n. 20776, in Boll. Trib. On-line.
(4) Cass. 8 marzo 2004, n. 4645, in Boll. Trib., 2005, 1512.
(5) Cass. 21 marzo 2012, n. 4502, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cass. 29 febbraio 2008, n. 5485, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cass. 16 dicembre 2011, n. 27165, in Boll. Trib. On-line.