1. La giurisdizione tributaria stenta ad identificare i propri confini. A seguito del nuovo testo dell’art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, come sostituito dall’art. 12, secondo comma, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, modificato dall’art. 3-bis, primo comma, lett. a), del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248), non vi è più l’elencazione dei tributi sottoponibili al giudizio delle Commissioni tributarie, ma l’oggetto della giurisdizione tributaria è costituito dai tributi di ogni genere e specie comunque denominati; ne è derivata, e ancora talvolta sussiste, una sorta di disorientamento o horror vacui (1), al quale tentano di porre argine le Supreme Corti, riempiendo di contenuto il termine “antico” di tributo, riproposto alla ribalta giuridica da una norma certamente processuale e, per l’effetto, incidente dal 1° gennaio 2002 sulla giurisdizione tributaria.
La Commissione tributaria provinciale laziale ha dato un responso negativo sulla sussistenza di un potere giurisdizionale in tema di contributi previdenziali evasi, in base al sintetico richiamo a un precedente della Corte di Cassazione (2). Si deve riconoscere che il “testo” riportato in motivazione della sentenza è perfettamente aderente al “testo” della Suprema Corte di Cassazione. Ad un primo richiamo al principio dello “stare decisis” nulla si potrebbe obiettare (3). Qualora, invece, si volesse approfondire la questione e riesaminare, in particolare, se il principio richiamato sia coerente anche con un successivo variato/sostituito contesto normativo la soluzione potrebbe essere difforme e il richiamo giurisprudenziale non essere condivisibile.
2. La soluzione adottata non può sorprendere in quanto l’introduzione del tributo, in sostituzione di una crescente elencazione di imposte, tasse e contributi, nel primo comma dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, ha suscitato fin dall’inizio perplessità di vario titolo, tendenti principalmente ad affermare l’invarianza contenutistica della nuova disposizione rispetto alla precedente elencazione. Ci si è chiesti innanzi tutto se la nuova norma non fosse in contrasto con la disposizione che vieta la creazione di nuovi giudici speciali. La risposta negativa è sembrata coerente con la giurisprudenza della stessa Corte Costituzionale, che in precedenza aveva affermato, nel momento del passaggio dai precedenti tributi a quelli successivi alla riforma del 1992/1993, che non vi era stata alcuna creazione di un nuovo giudice, essendo rimasto uguale l’oggetto del processo, ovvero il prelievo tributario indipendentemente dalla sua denominazione..
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L’avere posto l’accento sull’irrilevanza del nomen ha, quindi, portato la Suprema Corte a riaffermare tale principio, proprio lì dove il nomen del prelievo, lontano dalle classiche ripartizioni quali imposte, tasse o tributi, portava a dubitare sulla natura del prelievo, strettamente in connessione con la problematica della giurisdizione. La Corte di Cassazione, sollecitata dal disposto del novellato art. 111 Cost., si è posta il problema di dovere ricercare e riconoscere una tutela giudiziaria, ai sensi dell’art. 24 Cost., di fronte a una pretesa fondata su di una disposizione normativa, con riferimento all’art. 23 Cost., in relazione a prelievi coagulati intorno al principio della coattività. Sono stati così identificati progressivamente, nell’ambito delle più generali prestazioni imposte, talune fattispecie inquadrabili quali tributi, in relazione a talune caratteristiche comuni.
3. Alcune prime sentenze della Suprema Corte hanno escluso la natura tributaria di particolari prelevi, dopo averne sondato le caratteristiche.
Una pronuncia della terza sezione civile della Corte di Cassazione (4), chiamata a risolvere il problema della natura del pedaggio autostradale, costituente il presupposto di un’azione di condanna al risarcimento dei danni subiti da un utente, preliminarmente ha dovuto riconoscere che sulla natura del pedaggio autostradale, nonostante il tempo trascorso dall’avvento della prima autostrada a pagamento non vi era una uniformità di indirizzi. Melius re perpensa, il Collegio ha ritenuto di dovere privilegiare la soluzione “contrattuale”. Ha così affermato che il corrispettivo di un servizio pubblico speciale (qual è certamente quello autostradale) è usualmente qualificato come tassa quando il servizio, prevalentemente, si concreta nel compimento di un’attività identica, ripetuta e frazionabile in singole prestazioni determinate (a ciascuna delle quali è usualmente collegato un risultato) e regolate dalla legge; mentre al prezzo pubblico corrisponde, in genere, la messa a disposizione di un bene o di un’opera, già compiutamente realizzati per fini di interesse generale, dove l’attività dell’amministrazione si è preventivamente dispiegata (direttamente o indirettamente) nella realizzazione del bene o dell’opera, il cui uso è, poi, consentito ai privati, previo pagamento di una somma di denaro, anche in funzione del recupero totale o parziale del costo dell’opera. Secondo la Suprema Corte, nel caso delle autostrade a pedaggio, appare prevalente il secondo ordine di elementi caratterizzati: per un verso, la prestazione dell’amministrazione o del concessionario consiste nella infrazionabile messa a disposizione dell’autostrada in condizioni da potere essere percorsa con sicurezza (per quanto compete al gestore); per altro verso, il risultato, costituito da una più rapida. e meno affaticante percorrenza, è conseguito grazie alla diretta attività degli utenti. La Suprema Corte ha, quindi, concluso che, nel caso di un pagamento di un pedaggio autostradale, si è in presenza di un prezzo pubblico, quale corrispettivo della prestazione della controparte, e non di una tassa: dunque di un contratto.
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Successivamente la stessa Corte di Cassazione (5) per una particolare questione in tema di “canoni di rotta”, regolamentati dal D.L. 30 dicembre 1988, n. 547 (non convertito in legge) e dal D.L. 4 marzo 1989, n. 77 (convertito, con modificazioni, dalla legge 5 maggio 1989, n. 160), dopo aver riconosciuto la natura di prestazione pecuniaria a tale canone, ne ha negato la natura tributaria e, quindi, ha escluso nella specie la giurisdizione del giudice tributario. In particolare ha motivato la propria scelta sulla sola base del termine “tariffa”, utilizzato nella Convenzione internazionale di cooperazione per la sicurezza della navigazione aerea, firmata a Bruxelles il 13 dicembre 1960. Alla luce dalla nuova stesura dell’art. 2 anche questa decisione potrebbe essere rivisitata, salvo voler attribuire particolare valenza sostanziale alle espressioni contenute nelle Convenzioni internazionali.
4. La Corte Costituzionale più recentemente ha avuto modo di ricordare con la sentenza n. 141 del 2009 (6) che, posto che la legge 28 dicembre 2001, n. 448, ha abbandonato il criterio della enumerazione tassativa dei prelievi oggetto delle controversie attribuite alla cognizione delle Commissioni tributarie e ha esteso tale giurisdizione a tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie, per valutare la natura di un prelievo occorre «interpretarne la disciplina sostanziale alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per qualificare come tributarie alcune entrate: criteri che consistono nella doverosità della prestazione, in mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti, e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione a un presupposto economicamente rilevante».
Successivamente la stessa Corte Costituzionale è stata chiamata ad esaminare una particolare fattispecie ove sia il nomen del prelievo sia la sua struttura, pur collegandosi nel tempo, era stata variata da un susseguirsi di norme non agevolmente collegabili. Con la sentenza n. 238 del 2009 (7), la Consulta ha concluso per la non fondatezza della questione avente ad oggetto l’art. 2, secondo comma, secondo periodo, del D.Lgs. n. 546/1992, come modificato dall’art. 3-bis, primo comma, lett. b), del D.L. 30 settembre 2005, n. 203 (convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248), censurato nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alla debenza del canone per lo smaltimento dei rifiuti urbani e, quindi, della tariffa di igiene ambientale (TIA) di cui all’art. 49 del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. Il considerato in diritto si apre con un’ampia premessa sulla evoluzione della normativa, che ha visto il succedersi di innumerevoli testi legislativi. È stato quindi necessario procedere a un autonomo e analitico esame delle caratteristiche del prelievo, ricordando nuovamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris; che il termine “tariffa” ha valore semantico neutro, non contrapponendosi necessariamente a termini quali tassa e tributo; che la possibilità per il Comune di procedere alla riscossione mediante ruolo è solo facoltativa e, comunque, tale modalità è consentita anche per le entrate extratributarie. La Corte Costituzionale, nella specie, ha ritenuto decisiva, per valutare la natura della TIA, la constatazione delle forti analogie esistenti tra la stessa e la TARSU, analogie che concernono: a) i soggetti obbligati e il fatto generatore dell’obbligo del pagamento (legato in entrambi i casi non all’effettiva produzione di rifiuti e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento ma esclusivamente all’utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti); b) la «comune struttura autoritativa [e non sinallagmatica] dei prelievi», desumibile dal fatto che i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti debbono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono sulla base di una disciplina regolamentare dagli stessi fissata, e dal fatto che i soggetti tenuti al pagamento non possono sottrarsi adducendo di non volersi avvalere di tali servizi; c) i criteri di commisurazione dei due prelievi; d) il fatto che entrambi i prelievi hanno la funzione di coprire il costo dei servizi relativi ai rifiuti non solo interni ma anche esterni, ossia «di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività, e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente»; e) il fatto che entrambi i prelievi sono estranei all’ambito di applicazione dell’IVA. La Corte Costituzionale ha concluso che le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali della TIA rendono evidente che la stessa è una “mera variante” della TARSU e conserva la qualifica di tributo propria di quest’ultima, con la conseguenza che le controversie ad essa attinenti debbono esse attribuite alla cognizione delle commissioni tributarie (8).
5. Una volta consolidati i paletti necessari per riconoscere la natura tributaria di un prelievo (9) e, quindi, la sua incidenza sulla giurisdizione, è opportuno ricordare due ordinanze della Corte di Cassazione, che hanno affermato la natura tributaria di due particolari prelievi dotati di coattività. Queste due decisioni rivestono particolare importanza in primo luogo per il lucido percorso decisionale; in secondo luogo in quanto giungono alla conclusione circa la natura tributaria dei due prelievi “comunque denominati” e nella specie denominati il primo “contrassegno” e il secondo “contributo”; in terzo luogo in quanto danno un ulteriore “contenuto” alla giurisdizione tributaria, erodendo, come giudice speciale, spazio al giudice ordinario. Non ultimo, infine, va considerato il progressivo prevalere del termine “tributo” sulle altre terminologie (imposte, tasse, contributi, ecc.), derivate dalla scienza delle finanze (10).
In particolare nell’ordinanza n. 1780 del 26 gennaio 2011 (11), la Corte di Cassazione ha espresso le seguenti considerazioni, correttamente partendo dall’esatta identificazione del “contrassegno” e richiamando la definizione data dalla Corte di Giustizia nella sentenza 8 novembre 2007, resa nella causa C-20/05 (12): il contrassegno costituisce una “specificazione tecnica” ai sensi dell’art. 1, punto 3), della Direttiva 98/34/CE del 22 giugno 1998, poiché rientra nelle prescrizioni applicabili ai prodotti considerati per quanto riguarda la marcatura e l’etichettatura. Si tratta di una funzione eminentemente pubblica a vantaggio della collettività e non del richiedente, che ne sopporta il costo. Il fine pubblico spiega l’obbligatorietà ex lege del contrassegno e la sanzione penale per l’ipotesi della mancata apposizione del medesimo sul prodotto[art. 171, primo comma, lett. c), della legge 22 aprile 1941, n. 633, come modificata dall’art. 26 del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 68]. Il costo è posto a carico del richiedente, al di fuori di uno schema sinallagmatico e assume i connotati di una imposta di scopo, destinata a finanziare la spesa per l’esercizio della specifica attività di controllo affidata alla SIAE. Sussistono di conseguenza le condizioni per attribuire al “contrassegno” SIAE natura tributaria ovvero: «doverosità della prestazione e collegamento di questa alla pubblica spesa con riferimento a un presupposto economicamente rilevante». Il presupposto, nella specie, è costituito dalla legittima utilizzazione a fini di lucro e commercializzazione dei supporti, che recano la fissazione delle opere dell’ingegno di carattere creativo. La spesa pubblica è quella necessaria per l’esercizio dell’attività di controllo sul commercio dei supporti in questione, in funzione di tutela della pubblica fede e come mezzo per combattere la pirateria nella riproduzione e utilizzazione delle opere dell’ingegno: tale attività è svolta per legge e in regime di monopolio dalla SIAE, la quale trae (anche) dalla riscossione della prestazione pecuniaria collegata al contrassegno i mezzi finanziari necessari per la tutela del consumatore e il contrasto alla pirateria. La natura tributaria del contrassegno, restando comunque irrilevante il nomen iuris attribuito dal legislatore alla prestazione patrimoniale imposta, comporta, alla luce della nuova formulazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992, l’attribuzione delle controversie relative alla giurisdizione del giudice tributario.
Diverso percorso argomentativo è stato invece colto per l’ordinanza n. 1782 del 2011 (13). Anche in questo caso la Suprema Corte ha iniziato affermando che anche se l’art. 14 del D.Lgs. Lgt. 23 novembre 1944, n. 382, denomina “contributo”, la prestazione dovuta dagli iscritti nell’albo per le spese del funzionamento del Consiglio (Nazionale Forense), tale denominazione è irrilevante al fine di determinare (o escludere) la natura tributaria della prestazione. Questa, infatti, ha le stesse caratteristiche e scopi della “tassa” (così denominata, secondo un linguaggio tipico del diritto tributario) prevista dall’art. 7 del medesimo decreto. Tale norma, al secondo comma, prevede che «il Consiglio (dell’Ordine) può, entro i limiti strettamente necessari a coprire le spese dell’ordine o collegio, stabilite una tassa annuale, una tassa per l’iscrizione nel registro dei praticanti e per l’iscrizione nell’albo, nonché una tassa per il rilascio di certificati e dei pareri per la liquidazione degli onorari». Il sistema normativo riconosce all’ente “Consiglio” una potestà impositiva rispetto a una prestazione che l’iscritto deve assolvere obbligatoriamente, non avendo alcuna possibilità di scegliere se versare o meno la tassa (annuale e/o di iscrizione nell’albo), al pagamento della quale è condizionata la propria appartenenza all’ordine. Siffatta “tassa” si configura come una “quota associativa” rispetto a un ente ad appartenenza necessaria, in quanto l’iscrizione all’albo è conditio sine qua non per il legittimo esercizio della professione. Sussiste in tal modo uno degli elementi che caratterizzano il “tributo”: la doverosità della prestazione. Chi intenda esercitare una delle professioni per le quali è prevista l’iscrizione ad uno specifico albo deve provvedere a iscriversi sopportandone il relativo costo, il cui importo non è commisurato al costo del servizio reso o al valore della prestazione erogata, bensì alle spese necessarie al funzionamento dell’ente, al di fuori di un rapporto sinallagmatico con l’iscritto. Ecco, quindi, sussistere anche il secondo elemento perché sia riconoscibile la «natura tributaria» della prestazione: il collegamento della prestazione imposta alla spesa pubblica riferita a un presupposto economicamente rilevante. Il presupposto, nella specie, è costituito dal legittimo esercizio della professione, per il quale è condizione l’iscrizione in un determinato albo. La spesa pubblica è quella relativa alla provvista dei mezzi finanziari necessari all’ente delegato dall’ordinamento al controllo dell’albo specifico nell’esercizio della funzione pubblica di tutela dei cittadini potenziali fruitori delle prestazioni professionali degli iscritti circa la legittimazione di questi ultimi alle predette prestazioni.
6. La questione della giurisdizione ha raggiunto il proprio apice proprio a seguito della prevalenza del ruolo nella riscossione di una variegata tipologia di crediti sia erariali che di altri enti pubblici e privati, legittimati a richiedere i servigi dell’unico ente riscossore. Nella stessa cartella di pagamento si possono ora rinvenire più creditori a vario titolo, con la necessità di identificare il giudice competente per l’opposizione alla distinta singola pretesa esattoriale. Da qui la ricorrente eccezione di carenza di giurisdizione del giudice adito da parte del convenuto e la necessità di risolvere la relativa questione pregiudiziale nei giudizi in opposizione a una cartella di pagamento contenente anche contributi INPS.
Nella specie la Commissione tributaria di Latina ha dichiarato la propria carenza di giurisdizione relativa ai contributi previdenziali, mercé il richiamo esplicito al precedente, senza ulteriori approfondimenti.
Questi sarebbero stati necessari e la soluzione difforme solo che fosse stata effettuata una lettura completa della sentenza della Corte di Cassazione n. 7399 del 2007, richiamata. Dalla lettura del fatto generatore della controversia, sottoposta al giudizio della Suprema Corte, emerge che questa era stata incardinata dinanzi al giudice tributario, in relazione a una cartella di pagamento notificata il 13 aprile 1999 e quindi verosimilmente entro il 12 giugno 1999. Fino al 1° gennaio 2002 l’art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992 prevedeva solo alcuni altri tributi e, quindi, correttamente è stata confermata la carenza di giurisdizione della Commissione tributaria provinciale adita nel 1999.
Il suo richiamo, quale precedente autorevole, non è condivisibile invece per una controversia instaurata con ricorso del 10 luglio 2013, e cioè nell’ormai pacifica sussistenza di altra differente disposizione regolatrice della giurisdizione delle Commissioni tributarie.
La Commissione tributaria, dopo aver preso atto della più ampia giurisdizione attribuita dopo il 1° gennaio 2002, avrebbe dovuto chiedersi se il contributo previdenziale controverso potesse rientrare nel novero dei tributi, secondo i contenuti identificati e consolidati dalla giurisprudenza (14). Avrebbe dovuto pertanto ricercare se la particolare prestazione imposta avesse le caratteristiche di un prelievo in base a legge e che questo fosse destinato a un servizio riconosciuto e dichiarato con finalità pubbliche e quindi generali. La soluzione sarebbe stata positiva in quanto la previdenza è espressamente prevista dalla carta costituzionale e l’identificazione del soggetto passivo del tributo era da tempo oggetto di specifica normazione.
A sostegno di una tale soluzione non sarebbe poi mancata la giurisprudenza più recente della Corte di Cassazione che, sia pure in sede penale, ma non per questo meno significativa, è tornata ad affermare la natura tributaria dei contributi previdenziali, con la sentenza dell’11 luglio 2013, n. 29755 (15). Il giudizio trae origine dall’accertato omesso versamento all’INPS delle ritenute previdenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. La Corte afferma, in primo luogo, che lo stato di dissesto dell’imprenditore – il quale prosegua ciononostante nell’attività d’impresa senza adempiere all’obbligo previdenziale e neppure a quello retributivo – non elimina il carattere di illiceità penale dell’omesso versamento dei contributi. Ha, quindi, precisato significativamente che «i contributi non costituiscono parte integrante del salario ma un tributo, in quanto tale da pagare comunque ed in ogni caso, indipendentemente dalle vicende finanziarie dell’azienda». La doverosità del pagamento viene rimarcata in quanto «ciò trova la sua ratio nelle finalità, costituzionalmente garantite, cui risultano preordinati i versamenti contributivi e anzitutto la necessità che siano assicurati i benefici assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori» (16).
La citata sentenza n. 29755 del 2013 si rifà a dei principi espressi in altre numerose pronunce, alcune anteriori altre posteriori (17).
In tutte le sentenze appena richiamate viene esplicitato il motivo per cui il giudice abbia dichiarato essere un “tributo” il contributo previdenziale, del quale era stato omesso il versamento. Viene, inoltre, evidenziata la piena costituzionalità del prelievo, in quanto i versamenti sono preordinati, dalla legge, ad assicurare «i benefici assistenziali e previdenziali a favore dei lavoratori».
Oltre all’espressa qualificazione quale tributo del contributo previdenziale gli elementi per giungere a una tale qualificazione sono anch’essi riportati e sono gli stessi già evidenziati dalle Supreme Corti quali qualificanti la prestazione tributaria. La non contestabile natura tributaria del contributo previdenziale attrae le relative controversie alla giurisdizione tributaria, superando le precedenti disposizioni contenute nel codice di procedura civile (18).
La naturale conseguenza è la non condivisibile affermazione del giudice tributario della propria carenza di giurisdizione nelle controversie sulla debenza del contributo previdenziale.
Prof. Avv. Francesco d’Ayala Valva
(1) L’horror vacui nel diritto, anche tributario, viene affrontato dalla giurisprudenza con un’interpretazione estensiva del precetto normativo; l’analogia, nel diritto tributario, trova poi un limite nell’identificazione del presupposto. Alcuni recenti ma significativi arresti della Corte di Cassazione, esaltando l’abuso del diritto, superano il limite formale del richiamo a una specifica norma per accogliere i più ampi principi costituzionali, contenuti negli artt. 3 e 53 Cost., quali contenitori esaustivi del dovere tributario.
(2) Cfr. Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7399, in Boll. Trib. On-line.
(3) F. Modugno, L’interpretazione giuridica, Padova, 2009, 291, parlando dell’interpretazione giudiziaria della norma afferma che il giudice si pronuncia quale «organo dello stato competente» a pronunciare la formulazione del quid iuris nella decisione.
(4) Cass., sez. III, 13 gennaio 2003, n. 298, in Boll. Trib. On-line.
(5) Cass., sez. un., 29 ottobre 2004, n. 20959, in Boll. Trib. On-line.
(6) Corte Cost. 8 maggio 2009, n. 141, in Boll. Trib., 2009, 987, con nota di E. Righi, È (ancora) un tributo il “canone” comunale sulla pubblicità.
(7) Corte Cost. 24 luglio 2009, n. 238, in Boll. Trib., 2009, 1235, con nota di E. Righi, Tariffa di igiene ambientale: anche la Corte Costituzionale ne afferma la natura di tributo.
(8) F. d’Ayala Valva, Nuove tariffe, prestazioni imposte e giurisdizione tributaria, in Giur. merito, 2004, 1266.
(9) E. de Mita, Diritto tributario (giurisprudenza costituzionale), in Enc. dir., Annali dal 2007, Milano, III, 2010, 268.
(10) G.A. Micheli, Diritto tributario e diritto finanziario, in Enc. dir., XIII, 1119; G. Falsitta, Osservazioni sulla nascita e lo sviluppo scientifico del diritto tributario in Italia, in L’evoluzione dell’ordinamento tributario italiano, atti del convegno: I settanta anni di “Diritto e pratica tributaria” (Genova 2-3 luglio 1999), Padova, 2000, 77; P. Boria, Il sistema tributario, Torino, 2008, 107.
(11) Cass., sez. un., 26 gennaio 2011, ord. n. 1780, in Boll. Trib. On-line.
(12) In Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. Cass., sez. un., 26 gennaio 2011, ord. n. 1782, in Boll. Trib., 2011, 693.
(14) F. d’Ayala Valva, L’evasione previdenziale verso il giudice tributario e il garante del contribuente, in Boll. Trib., 2011, 1589.
(15) In Boll. Trib. On-line.
(16) Lo stesso principio è stato riaffermato da Corte Cost. 21 maggio 2014, n. 139, in Boll. Trib. On-line, ove si legge che il mancato pagamento dell’obbligo di versamento dei contributi previdenziali determina il rischio di pregiudizio del lavoro e dei lavoratori, la cui tutela è assicurata da un complesso di disposizioni costituzionali contenute nei principi fondamentali e nella parte I della Costituzione.
(17) Ved. Cass., sez. III, 25 ottobre 1999, n. 11962, in Mass. Foro it., 1999; Cass., sez. III pen., 25 maggio 2011, n. 20845, in Riv. dir. trib., 2011, II, 293 ss., con nota di F. d’Ayala Valva, Anche il contributo previdenziale è un tributo. Conseguenze e prospettive; Cass., sez. III pen., 27 luglio 2011, n. 29975, in Rep. Foro it., 2012, Reato in genere [5530], n. 46; Cass., sez. III pen., 8 marzo 2013, n. 10938, in Boll. Trib. On-line, e anche in Riv. dir. trib., 2011, II, 293 ss., con nota di F. d’Ayala Valva, Anche il contributo previdenziale è un tributo. Conseguenze e prospettive, cit. Segue anche Cass., sez. III pen., 13 settembre 2013, n. 37528, in Boll. Trib. On-line, resa in altro contesto, ma contenente il medesimo pensiero sul punto della qualificazione tributaria del contributo previdenziale.
(18) F. d’Ayala Valva, La dignitosa sopravvivenza della competenza del tribunale civile in materia di imposte e tasse e l’irruzione della giurisdizione tributaria in alcune controversie previdenziali, in Riv. dir. sicurezza sociale, 2012, 85; contra C. Cester – R. Vianello, Controversie contributive e giurisdizione, ibidem, 70.
Procedimento – Commissioni – Giurisdizione delle Commissioni – Controversie aventi ad oggetto contributi previdenziali obbligatori – Appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario.
Procedimento – Commissioni – Giurisdizione delle Commissioni – Pretesa impositiva azionata mediante cartella di pagamento – Individuazione del giudice avente giurisdizione – È quello competente a decidere del rapporto cui la cartella di pagamento è funzionale.
Procedimento – Commissioni – Competenza territoriale – Impugnazione di una cartella di pagamento – È competente la Commissione della circoscrizione in cui ha sede l’Ufficio finanziario o l’ente titolare del potere impositivo.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non di quello tributario la controversia avente ad oggetto diritti ed obblighi attinenti ad un rapporto previdenziale obbligatorio, anche se scaturente dall’impugnazione della relativa cartella di pagamento.
Nell’ipotesi di pretesa impositiva azionata a mezzo di cartella di pagamento, per l’individuazione del giudice munito di potere giurisdizionale deve considerarsi che tale atto costituisce uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale e non possiede alcuna autonomia, di talché la cartella di pagamento deve essere impugnata davanti al giudice competente a decidere in ordine al rapporto cui la cartella stessa è funzionale, a nulla valendo che l’atto non contenga una puntuale indicazione della fonte di credito fatta valere.
Qualora con l’impugnazione della cartella di pagamento siano contestati vizi quali la prescrizione del diritto a riscuotere, l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo e questioni riguardanti il titolo di cartelle di pagamento emesse da un Ufficio centrale risulta pacifica la competenza della Commissione tributaria provinciale nella cui circoscrizione ha sede l’Autorità emanante titolare del potere impositivo.
[Commissione trib. provinciale di Latina, sez. III (Pres. Mirabella, rel. Marra), 16 aprile 2014, sent. n. 793]
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Con atto tempestivamente notificato la sig.ra A.C. produceva ricorso avverso n. 8 cartelle di pagamento in epigrafe meglio indicate di cui una inerente a contributi INPS e le restanti sette relative ad IRAP ed IVA emesse dall’Agenzia delle Entrate di Roma.
A sostegno dell’introdotta impugnativa l’esponente deduce: prescrizione del debito relativo alle annualità 2001; violazione dell’art. 3 comma 9 della L. 335/95; difetto di motivazione.
Si è costituita in giudizio Equitalia Sud s.p.a., eccependo l’inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione relativamente alla cartella portante crediti INPS e il difetto di competenza per le restanti cartelle e richiedendone nel merito la reiezione.
MOTIVAZIONE DELLA DECISIONE – Anzitutto la Commissione deve farsi carico di esaminare l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione sollevata da Equitalia Sud s.p.a.
Ad avviso della amministrazione intimata sussisterebbe difetto di giurisdizione della Commissione tributaria adita, trattandosi di contributi iscritti al ruolo dell’Inps per i quali sussisterebbe la giurisdizione del tribunale ordinario in funzione di giudice del lavoro.
La suesposta eccezione è fondata.
Osserva, anzitutto, il Collegio che per l’individuazione del giudice munito di potere giurisdizionale, in ipotesi di pretesa azionata a mezzo di cartella esattoriale, deve considerarsi che “tale atto costituisce uno strumento in cui viene enunciata una pregressa richiesta di natura sostanziale e non possiede alcuna autonomia; pertanto la cartella esattoriale deve essere impugnata davanti al giudice competente a decidere in ordine al rapporto cui la cartella stessa è funzionale, a nulla valendo che l’atto non contenga una puntuale indicazione della fonte di credito fatta valere” (così, per tutte, Cass., Sez. un. 3001/2008 (1)).
Ne discende che … “rientra nella giurisdizione del giudice ordinario e non di quello tributario la controversia avente ad oggetto diritti ed obblighi attinenti ad un rapporto previdenziale obbligatorio” … (Cass., Sez. un., 7399/2007 (2)).
Riguardo alle altre cartelle deve essere del pari accolta l’eccezione di incompetenza di questa Commissione avuto riguardo alla sede dell’Autorità emanante (Agenzia delle entrate di Roma).
Del resto laddove siano contestati – come nel caso di specie – vizi quali la prescrizione del diritto a riscuotere, illegittimità dell’iscrizione a ruolo nonché motivi che riguardano il titolo di cartelle esattoriali emesse da un Ufficio centrale risulta pacifica la competenza della Commissione Tributaria di Roma.
In conclusione deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione, con riferimento agli importi dovuti a titolo di contributi INPS e il difetto di competenza, per le cartelle emesse dall’Ufficio territoriale di Roma.
P.Q.M. – Dichiara il difetto di giurisdizione con riferimento agli importi dovuti a titolo di contributi INPS e difetto di competenza per le cartelle emesse dall’Ufficio territoriale di Roma.
(1) Cass., sez. un., 8 febbraio 2008, n. 3001, in Boll. Trib. On-line.
(2) Cass., sez. un., 27 marzo 2007, n. 7399, in Boll. Trib. On-line.