23 Aprile, 2014

 

Procedimento – Conciliazione giudiziale – Possibilità di assegnare un termine non superiore a sessanta giorni per la formazione di una proposta – Ritenuta applicabilità alla sola conciliazione proposta dalle parti e non anche a quella proposta d’ufficio – Questione di legittimità costituzionale dell’art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento all’art. 3 Cost., per asserita irragionevolezza – Omesso tentativo di dare una lettura costituzionalmente conforme della norma impugnata – Inammissibilità della questione – Consegue.

 

 È inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48, quarto comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. nella parte in cui non prevede né consente che la Commissione tributaria, avendo esperito d’ufficio il tentativo di conciliazione, possa o debba assegnare alle parti un termine per l’esame e per l’eventuale accettazione della proposta, in quanto tale questione risulta viziata da una non compiuta sperimentazione del tentativo di lettura costituzionalmente conforme della norma impugnata atteso che l’art. 34, terzo comma, primo periodo, dello stesso decreto legislativo, nel prevedere che all’udienza pubblica «la Commissione può disporre il differimento della discussione a udienza fissa, su istanza della parte interessata, quando la sua difesa tempestiva, scritta o orale, è resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altre parti», potrebbe indurre a ritenere che la Commissione, in presenza della seria prospettazione delle parti dell’esigenza di rinvio ad un’altra udienza per esaminare la proposta di conciliazione esperita d’ufficio, possa acconsentire alla richiesta, in linea con le norme del processo ordinario di cognizione che regolano la scansione procedimentale delle udienze, norme alle quali fa rinvio, nel limite della compatibilità, il secondo comma dell’art. 1 del medesimo D.Lgs. n. 546/1992, disciplinante il processo tributario.

[Corte Costituzionale (Pres. Gallo, rel. Coraggio), 29 maggio 2013, sent. n. 110, in G.U. n. 23 del 5.6.2013]

 

 RITENUTO IN FATTO – 1. La Commissione tributaria provinciale di Milano, con ordinanza del 7 febbraio 2012 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 48, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui non prevede, né consente, che la Commissione tributaria, avendo esperito d’ufficio il tentativo di conciliazione, possa o debba assegnare alle parti un termine per l’esame e per l’eventuale accettazione della proposta, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, asserendo la lesione del principio di ragionevolezza.

 2. Espone il giudice a quo che, all’udienza pubblica fissata per la trattazione della controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di rettifica e liquidazione, ai fini dell’imposta di registro, del valore di un ramo di azienda compravenduto, le parti avevano chiesto un termine per l’adeguato esame della proposta di conciliazione fatta d’ufficio, ai sensi del comma 2 dello stesso art. 48 del d.lgs. n. 546 del 1992.

 3. Assume il rimettente, tuttavia, che l’art. 48, comma 4, prevede la concessione di un termine alle parti solo nel caso in cui la proposta di conciliazione provenga da una di esse, non anche quando provenga dall’ufficio.

 Ciò contrasterebbe con l’art. 3 Cost., per difetto di ragionevolezza: l’impossibilità di rinviare la trattazione della causa ad altra udienza vanificherebbe qualsiasi tentativo di conciliazione esperito o che potrebbe essere esperito dalla Commissione tributaria.

 Ad avviso del rimettente, inoltre, non può essere data una interpretazione diversa della norma che possa consentire di superare i dubbi di costituzionalità, cosicché – in punto di rilevanza – secondo la Commissione tributaria solo se la norma fosse ritenuta illegittima potrebbe accogliersi l’istanza di rinvio.

 4. È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

 La difesa dello Stato, in primo luogo, ha eccepito l’inammissibilità della questione, evidenziando un possibile errore nell’individuazione della norma impugnata, atteso che la proposta conciliativa effettuata dalla Commissione tributaria dovrebbe essere ricondotta all’art. 48, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 e non all’art. 48, comma 4.

 In secondo luogo, ha rilevato come la questione sia non fondata, atteso che la norma si sottrae alla censura formulata in ragione di una interpretazione costituzionalmente orientata della stessa. Difatti, la possibilità di assegnare un termine alle parti per esaminare la proposta conciliativa della Commissione sarebbe desumibile dalle finalità deflative dell’istituto medesimo, conformi ai principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e al principio di ragionevolezza.

 

[-protetto-]

 

CONSIDERATO IN DIRITTO – 1. La Commissione tributaria provinciale di Milano sospetta di illegittimità costituzionale l’articolo 48, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), che prevede: «qualora una delle parti abbia proposto la conciliazione e la stessa non abbia luogo nel corso della prima udienza, la commissione può assegnare un termine non superiore a sessanta giorni, per la formazione di una proposta ai sensi del comma 5».

 Premette il giudice a quo di aver esperito, alla prima udienza, il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 48, comma 2, del citato decreto legislativo, e che entrambe le parti avevano chiesto un termine per esaminare la proposta; sennonché, a suo avviso, l’istanza non avrebbe potuto trovare accoglimento in ragione del contenuto della disposizione impugnata: difatti il comma 4 in questione ammette il rinvio dell’udienza solo per la conciliazione proposta dalle parti e non per quella proposta d’ufficio.

 Secondo il rimettente, tale mancata previsione sarebbe priva di ragionevolezza e violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto vanificherebbe di fatto il tentativo di conciliazione esperito dalla Commissione tributaria.

 2. La questione è inammissibile.

  3. Preliminare, anche rispetto all’eccezione di aberratio ictus proposta dalla difesa dello Stato, è la verifica dell’adeguatezza della valutazione del rimettente circa l’interpretazione del complesso normativo in questione.

 Tale valutazione si fonda sul presupposto che il comma 2 dell’articolo 48, nel prevedere che il tentativo di conciliazione d’ufficio debba essere effettuato ­ come quello avanzato dalle parti ­ non oltre la prima udienza, esiga che la possibilità di un rinvio della causa ad altra udienza sia espressamente disciplinata anche in questo caso, analogamente a quanto fa il successivo comma 4 per il tentativo di conciliazione di parte.

 4. Osserva tuttavia la Corte che la previsione del rinvio in quest’ultima ipotesi trova la ragione d’essere nella sua specificità: l’accordo fra le parti si realizza qui al di fuori del processo e quindi richiede una disciplina procedimentale, quale è, appunto, quella dettata dal quinto comma dello stesso articolo.

 Del resto, la peculiarità di questa fattispecie è evidenziata anche dalla Corte di cassazione, che la definisce come «conciliazione aderita», distinguendola dall’altra qualificata come «giudiziale» (ex multis, sentenza n. 4626 del 2007(1) [rectius 2008, n.d.r.]).

 Quanto a quest’ultima, essa, esaurendosi interamente nel processo, trova già la sua disciplina sia nelle regole proprie del processo tributario che in quelle dell’ordinamento processuale generale.

 È dunque alla stregua di tali regole che il rimettente avrebbe dovuto verificare la possibilità di una interpretazione del comma 2, più volte citato, tale da non comportare la preclusione lamentata.

 Si ritiene, peraltro, che a questo proposito non sia senza rilievo l’art. 34, comma 3, primo periodo, dello stesso decreto legislativo.

 Tale disposizione, nel prevedere che all’udienza pubblica «la Commissione può disporre il differimento della discussione a udienza fissa, su istanza della parte interessata, quando la sua difesa tempestiva, scritta o orale, è resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altre parti», potrebbe indurre a ritenere che la Commissione, in presenza della seria prospettazione delle parti dell’esigenza di rinvio ad altra udienza, per esaminare la proposta di conciliazione esperita d’ufficio, possa acconsentire alla richiesta.

 Ciò, fra l’altro, sarebbe in piena aderenza al principio della ragionevole durata del processo affermato dall’art. 111 Cost., attesa la possibilità di una rapida e semplificata chiusura del giudizio con il verbale di conciliazione.

 Si aggiunga che la disposizione, lungi dall’essere un’eccezione, appare in linea con le norme del processo ordinario di cognizione che regolano la scansione procedimentale delle udienze, in presenza del tentativo di conciliazione, norme alle quali fa rinvio, nel limite della compatibilità, il comma 2 dell’art. 1 del d.lgs. n. 546 del 1992, disciplinando il processo tributario.

 Difatti, l’art. 183, terzo comma, del codice di procedura civile sancisce che, all’udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione, il giudice istruttore fissi una nuova udienza se deve esperire il tentativo di conciliazione di cui all’art. 185 dello stesso codice.

 In termini ancor più generali, si consideri che le norme processuali attribuiscono al giudice poteri che attengono alla conduzione del processo, e di cui lo stesso deve fare buon governo anche nel gestirne la scansione temporale, in un corretto equilibrio tra i diversi interessi costituzionalmente protetti.

 5. Nella specie, il rimettente si è limitato ad affermare che la lettera della legge non consente alcuna interpretazione adeguatrice. La questione, quindi, risulta viziata da una non compiuta sperimentazione del tentativo di dare una lettura costituzionalmente conforme della norma impugnata (in tema, ordinanze n. 212(2), n. 103(3) e n. 101(4) del 2011).

 Ciò anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo: l’istituto della conciliazione giudiziale, infatti, offre la possibilità di una risoluzione conveniente e rapida delle controversie nel processo, analoga a quella realizzata in sede extragiudiziaria dalla Alternative Dispute Resolution – ADR, anche in ragione della non obbligatorietà di quest’ultima (sentenza n. 272 del 2013).

PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE – dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 48, comma 4, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Milano con l’ordinanza in epigrafe.

 

 

 (1) Cass. 22 febbraio 2008, n. 4826, in Boll. Trib. On-line.

 (2) Corte Cost. 13 luglio 2011, n. 212, in Boll. Trib. On-line.

 (3) Corte Cost. 24 marzo 2011, n. 103, in Boll. Trib. On-line.

 (4) Corte Cost. 24 marzo 2011, n. 101, in Boll. Trib. On-line.

 

La Commissione può rinviare le parti ad un’altra udienza se il giudice propone la conciliazione giudiziale

 

 

Dispone l’art. 48 (Conciliazione giudiziale) del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, al quarto comma, che «Qualora una delle parti abbia proposto la conciliazione e la stessa non abbia luogo nel corso della prima udienza, la commissione può assegnare un termine non superiore a sessanta giorni, per la formazione di una proposta ai sensi del comma 5». Agli occhi della Commissione tributaria milanese rimettente, ligia al mai sepolto brocardo ubi lex voluit dixit, ubi tacuit noluit, è parso implicito quanto evidente che una siffatta possibilità dovesse essere recisamente esclusa allorché la conciliazione venga proposta (non da una delle parti, ma) dallo stesso giudice. Con buona pace – absit iniuria verbis – per le ragioni del buon senso, nonché, profilo acutamente colto dall’Avvocatura generale dello Stato intervenuta, per quelle, non meno sacrosante, di speditezza del rito. Ma dura lex sed lex: per cui, a fronte di un tenore letterale apparentemente tassativo (e tale perché suscettibile solo di una lettura restrittiva), i giudici milanesi non hanno intravisto altra soluzione che non fosse quella di adire l’unico organo giudiziario in grado di caducare la disposizione legislativa contraria al paradigma della ragionevolezza fissato all’art. 3 Cost. asseritamente violato.

 La vicenda fa riflettere e addirittura sospettare che, sottesa alla decisione di rimettere gli atti al giudice delle leggi, ci fosse una intenzione provocatoria. In primo luogo perché la prassi delle udienze di trattazione, a quanto consta allo scrivente, va in tutt’altra direzione, nel senso cioè che le parti, una volta che siano stimolate e magari incalzate dai componenti il collegio, difficilmente rinunciano all’idea di una composizione bonaria, ma anzi sposano (talvolta con entusiasmo) il suggerimento. Così cogliendo l’occasione – l’ultima – per evitare l’alea del giudizio, prendere tempo per strappare “qualcosina” alla controparte e risparmiare sulle spese. Dire – in questi casi di ipotesi decisionale dove più sono i promotori della pausa di riflessione – chi ne sia l’ideatore, è obiettivamente difficile. È vero che regista nell’ombra è comunque il giudice, ma unicamente nel ruolo neutrale assegnatogli dalla legge (tant’è vero che non può sindacare il documento compositivo eventualmente raggiunto dai litiganti sotto il profilo dei contenuti, che non gli appartengono, dovendosi attenere al riscontro dei requisiti di legittimità) (1).

 Anche perché – ed è qui, ritengo, la chiave del discorso – a tutti (ma proprio a tutti: al giudice come alle parti, alle casse pubbliche come agli ideali di giustizia) conviene che si addivenga alla stipulazione di quell’atto (anche) con funzione deflattiva che è la conciliazione, capace di amputare drasticamente i tempi di definizione della lite (2). Questo, è il caso di dire con una voluta ripetizione, il legislatore non sa più come dirlo.

 E, al limite, non va guardato con scandalo lo stesso escamotage processuale alla stregua del quale le proposte dell’organo giudicante, già prima facie elaborate dai contendenti in udienza in una disamina orale, diventano proprie alle parti, che se ne riservano un vaglio più compiuto. Verbalizzazione che non distorce i fatti nella loro intima essenza (ma solo, a tutto concedere, nella loro dinamica storica) né tanto meno li fa scivolare nel falso in atto pubblico.

 Ebbene, anche quanti non guardano con favore all’abitudine della Consulta di “bacchettare” i giudici rimettenti rimproverandoli di non avere verificato la possibilità di una lettura costituzionalmente orientata, devono ammettere che nella circostanza la forzatura dell’organo remittente è stata evidente (3).

 Senza dire che a favore dell’odierno verdetto non mancano gli argomenti letterali, in primis quelli illustrati dalla sentenza massimata.

 A cominciare dalla differenza tra conciliazione dentro e fuori il processo, rispettivamente quella (commi 2 e 3) raggiunta davanti al giudice (cui spetta a pieno titolo la qualifica di “giudiziale”) e quella (commi 4 e 5) raggiunta in separata sede (cosiddetta “aderita”) (4) e solo più tardi sottoposta al giudice per la sua vidimazione: differenza che impone necessariamente, dal punto di vista organizzativo, un diverso trattamento giuridico (5).

 Per proseguire con il rispecchiamento nelle regole del processo, «sia quelle proprie del processo tributario sia quelle dell’ordinamento processuale generale». Richiami utili, tanto quelli a) alla legislazione speciale, come quello all’art. 34, terzo comma, primo periodo, del D.Lgs. n. 546/1992, che secondo la Corte bene (anche se un po’ “stiracchiato”) si presta all’uopo (6); quanto quelli b) al processo civile, dove – entro una cornice che esalta «i poteri del giudice che attengono alla conduzione del processo e di cui esso giudice deve fare buon governo anche nel gestirne la scansione temporale» – spicca «l’art. 183, terzo comma, del codice di procedura civile [il quale] sancisce che, all’udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione, il giudice istruttore fissi una nuova udienza se deve esperire il tentativo di conciliazione di cui all’art. 185 dello stesso codice» (7).

Avv. Valdo Azzoni

 

(1) Cfr. Corte Cost. 24 ottobre 2000, n. 433, in Boll. Trib., 2000, 1770, con nota redazionale favorevole, stando alla quale la verifica di legalità dell’accordo conciliativo da parte del giudice è “meramente estrinseca” e ciò «proprio in ragione della riconosciuta sua natura negoziale». Infatti, «una volta che l’accordo abbia avuto luogo, il giudice si troverà di fronte ad un assetto negoziale paritariamente formato e avente natura novativa rispetto alle pretese originarie di ciascuna».

 (2) Per Cass., sez. trib., 3 ottobre 2006, n. 21325, in Boll. Trib., 2007, 1396, con nota di F. Brighenti, Conciliazione giudiziale e disponibilità dell’obbligazione tributaria, la conciliazione ex art. 48 del D.Lgs. n. 546/1992 «costituisce un istituto deflattivo di tipo negoziale», che «attiene all’esercizio di poteri dispositivi delle parti» e si modula secondo i paradigmi tipici della fattispecie a formazione progressiva.

 (3) Il nocciolo della critica è noto, imperniato su un canone basilare dello ius conditum, cioè che la lettura sistematica non deve spingersi fino a prevalere sul referto letterale, che dunque non può essere bistrattato, ma va rispettato nella sua primaria importanza.

 (4) Cfr. ex multis Cass., sez. trib., 22 febbraio 2008 (e non 2007, come erroneamente riportato nella sentenza massimata), n. 4626, in Boll. Trib. On-line; ivi è tracciato il distinguo «tra la conciliazione giudiziale che, per il comma 2 dell’art. 48, “può avere luogo solo davanti alla commissione provinciale”, e la conciliazione per così dire “aderita” (detta anche, “abbreviata”), raggiunta dalle parti al di fuori del processo, regolata dal quinto comma della stessa norma procedurale [e in ragione della quale] l’ufficio può, sino alla data di trattazione in camera di consiglio, ovvero fino alla discussione in pubblica udienza, depositare una proposta di conciliazione alla quale l’altra parte abbia previamente aderito [la quale proposta] può essere depositata dall’Ufficio “sino alla data di trattazione in camera di consiglio, ovvero fino alla discussione in pubblica udienza”». Trattasi, prosegue la decisione, di uno «specifico potere riconosciuto all’Ufficio dal quinto comma dell’art. 48», il cui «esercizio, tenuto conto (Cass., sez. trib., 18 aprile 2007 nn. 9222 e 9223) della “finalità perseguita dalla disposizione”, può “contribuire alla deflazione del contenzioso tributario, inscrivendo il meccanismo da essa disciplinata nell’ambito degli istituti di risoluzione alternative delle controversie, che ha trovato ingresso anche nell’ambito delle liti fiscali”». La citata sentenza n. 4626/2008 precisa che la proposta di conciliazione giudiziale raggiunta dalle parti fuori del processo può essere depositata sino alla data di trattazione in camera di consiglio ovvero fino alla discussione in pubblica udienza, non dovendosi applicare il minor termine (di venti giorni liberi prima della trattazione) previsto in generale per il deposito di documenti.

 (5) Peccato che sia l’una che l’altra siano comunque esito del processo in quanto disciplinate nella stessa disposizione, rubricata sotto il titolo di Conciliazione giudiziale.

 (6) Secondo l’art. 34, terzo comma, primo periodo, del D.Lgs. n. 546/1992, «La commissione può disporre il differimento della discussione a udienza fissa, su istanza della parte interessata, quando la sua difesa tempestiva, scritta o orale, è resa particolarmente difficile a causa dei documenti prodotti o delle questioni sollevate dalle altre parti».

 (7) Dall’art. 185 c.p.c. (Tentativo di conciliazione): «Il giudice istruttore, in caso di richiesta congiunta delle parti, fissa la comparizione delle medesime al fine di interrogarle liberamente e di provocarne la conciliazione», e «ha altresì facoltà di fissare la predetta udienza di comparizione personale a norma dell’art. 117» (primo comma, primo e secondo periodo); inoltre «il tentativo di conciliazione può essere rinnovato in qualunque momento dell’istruzione» (secondo comma).

 

 

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