Circolare 24 marzo 2015, n. 12/E, dell’Agenzia delle entrate
INDICE:
1. PREMESSA
2. DEPOSITI IVA – DEFINIZIONE
3. BENI CHE POSSONO ESSERE IMMESSI IN DEPOSITO IVA
4. SOGGETTI ABILITATI ALLA GESTIONE DEI DEPOSITI
4.1 Depositi per i quali non è prevista autorizzazione
4.2 Depositi IVA per i quali è richiesta un’autorizzazione
5. OPERAZIONI AGEVOLATE
5.1 Operazioni che presuppongono una contestuale introduzione fisica dei beni nei depositi
5.1.1 Acquisti intracomunitari di beni eseguiti mediante introduzione nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. a)]
5.1.2 Immissione in libera pratica di beni destinati ad essere introdotti nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. b)]
5.1.3 Cessioni nei confronti di operatori comunitari di beni mediante introduzione nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. c)]
5.1.4 Cessioni dei beni di cui alla Tab. A-bis destinati ad essere introdotti nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. d)]
5.2 Operazioni eseguite su beni che già si trovano nei depositi
5.2.1 Cessioni di beni custoditi in deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. e)]
5.2.2 Prestazioni di servizi rese su beni custoditi nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. h)]
5.2.3 Trasferimento dei beni in altro deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. i)]
6. INTRODUZIONE DEI BENI IN DEPOSITO
7. MODALITÀ DI ESTRAZIONE DEI BENI DAL DEPOSITO IVA E DEBITORE DELL’IMPOSTA
7. 1 Cessioni intracomunitarie
7.2 Cessioni all’esportazione
7.3 Utilizzazione o commercializzazione in Italia
8. CONSIGNMENT STOCK
9. BASE IMPONIBILE
10. IL SOGGETTO DEPOSITARIO
11. CONTROLLO SULLA GESTIONE DEI DEPOSITI
12. IRREGOLARE INTRODUZIONE DEI BENI IN DEPOSITO – CORTE DI GIUSTIZIA CAUSA C-272/13 DEL 17 LUGLIO 2014
12.1 Introduzione virtuale
12.2 Aspetti sanzionatori.
“1. PREMESSA
Dal punto di vista fiscale, i depositi IVA agevolano gli scambi di beni in ambito intracomunitario, rendendo possibile trasferire la merce da un Paese membro all’altro evitando di assoggettare ad imposta i singoli passaggi.
In particolare il sistema del deposito IVA consente che, per determinate operazioni effettuate mediante l’introduzione dei beni nel deposito, l’IVA, ove dovuta, sia assolta dall’acquirente finale solo al momento dell’estrazione dei beni dal deposito.
La disciplina dei depositi IVA è regolata dall’articolo 50- bis, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, introdotto dalla legge 18 febbraio 1997, n. 28, in linea con i principi comunitari contenuti negli artt. 154 e ss. della direttiva 2006/112/CE ed ha lo scopo di evitare che ai beni comunitari venga riservato un trattamento fiscale meno favorevole rispetto a quello previsto per i beni provenienti da Paesi terzi, che possono essere introdotti in depositi appositamente costituiti ai fini doganali senza pagamento dell’imposta fino al momento della loro importazione. La predetta disciplina, finalizzata a semplificare e rendere più agevole i rapporti commerciali nell’ambito comunitario, risolve in particolare le questioni connesse alla applicazione dell’IVA in caso di stoccaggio in Italia di merci da parte di soggetti identificati in altro Stato membro, nonché in alcune ipotesi di “transazioni a catena”. Infatti, per le transazioni e le prestazioni che vengono effettuate mentre i beni permangono nel deposito IVA, l’assolvimento dell’imposta è differito al momento in cui i beni vengono estratti per l’immissione in consumo.
Il quadro normativo relativo ai depositi IVA è completato dall’art. 34, comma 44, del DL n. 179 del 2012, il quale, limitatamente alle prestazioni di servizi di cui all’art. 50-bis, comma 4, lett. h), del D.L. n. 331 del 1993, prevede l’applicazione del regime del deposito IVA, e quindi il differimento del pagamento del tributo al momento dell’estrazione delle merci, anche nell’ipotesi in cui le stesse vengano prese in consegna dal depositario e custodite in spazi limitrofi al deposito, senza la necessaria introduzione fisica dei predetti beni nel deposito stesso.
La presente circolare intende riepilogare le questioni interpretative relative alla disciplina dei depositi IVA, anche alla luce delle problematiche trattate in sede di interpello nonché del pronunciamento della Corte di Giustizia Ue, con la sentenza 17 luglio 2014, in causa C-272/13, rinviando, ove necessario, alla disciplina doganale e alla relativa prassi (in particolare, circolare n. 16/D del 20 ottobre 2014[1], circolare n. 16/D del 28 aprile 2006[2], nota del 4 settembre 2011, n. 127293, nota n. 113881/RU del 5 ottobre 2011, nota n. 84420/RU del 07 novembre 2011, nota del 1° febbraio 2012, n. 148047/RU dell’Agenzia delle Dogane) in considerazione delle strette connessioni che intercorrono tra la regolamentazione dei depositi IVA e quella dei depositi doganali.
2. DEPOSITI IVA – DEFINIZIONE
I depositi IVA sono luoghi fisici situati nel territorio dello Stato italiano all’interno dei quali la merce viene introdotta, staziona, e poi viene estratta.
Dal punto di vista fiscale, i depositi IVA, come anticipato in premessa, consentono che, per determinate operazioni, l’IVA, ove dovuta, sia assolta dall’acquirente finale solo al momento dell’estrazione dei beni, con il meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge).
Assumono la qualifica di depositi IVA, tra l’altro, come sarà più ampiamente descritto al paragrafo 4, i seguenti depositi già autorizzati dall’autorità doganale: i magazzini generali, i depositi franchi e i punti franchi gestiti dalle imprese munite di autorizzazione; i depositi fiscali per i prodotti soggetti ad accisa; i depositi doganali, compresi i depositi per la custodia e la lavorazione delle lane di cui al DM 28 novembre 1934.
3. BENI CHE POSSONO ESSERE IMMESSI IN DEPOSITO IVA
L’art. 50-bis, comma 1, del D.L. n. 331 del 1993 prevede che possono essere introdotti e custoditi nei depositi IVA beni nazionali e comunitari, non destinati alla vendita al minuto durante la loro giacenza in detti locali.
Possono essere introdotti in deposito IVA anche beni provenienti da Paesi terzi purché preventivamente immessi in libera pratica; è indispensabile, infatti, che i beni provenienti da territori extracomunitari abbiano perso lo status di “merce non comunitaria” e acquisito quello di “merce comunitaria”, così da poter liberamente circolare sul territorio degli Stati membri.
Sono esclusi, invece, dalla specifica disciplina dei depositi IVA i beni esistenti in Italia in regime di ammissione temporanea ovvero introdotti in recinti o magazzini di temporanea custodia in attesa di ricevere una destinazione doganale, nonché quelli importati a scarico di un regime di perfezionamento attivo con la modalità dell’esportazione anticipata [art. 115, punto 1 lett. b) del Regolamento (CEE) n. 2913/92, cfr. circ. n. 16/D del 28/04/2006].
L’immissione in libera pratica di beni destinati ad essere introdotti in un deposito IVA non costituisce un’importazione in sospensione di imposta, ma un’importazione per cui l’IVA è differita al momento in cui tali merci saranno estratte dal deposito stesso per essere commercializzate in Italia e sarà assolta dai soggetti passivi, con il meccanismo dell’inversione contabile (c.d. reverse charge).
In tale contesto, l’articolo 7 del D.L. n. 70 del 2011, convertito dalla legge n. 106 del medesimo anno, ha modificato il comma 4, lettera b), del citato art. 50-bis del D.L. n. 331. In base alle cennate modifiche, l’introduzione nei depositi di beni immessi in libera pratica è subordinata alla prestazione di idonea garanzia commisurata all’imposta. La prestazione della garanzia non è dovuta da particolari categorie di soggetti che riscuotono la fiducia dell’Amministrazione doganale, quali i soggetti titolari di esonero da tale obbligo di cui all’art. 90 del TULD in ragione della loro notoria solvibilità e quelli titolari di certificazione attestante il possesso dello status di Operatore Economico Autorizzato. In proposito si rinvia alle note dell’Agenzia delle Dogane del 7 settembre 2011, n. 84920/RU, 5 ottobre 2011, n. 113881/RU, 4 novembre 2011, n. 127293/RU, 1 febbraio 2012, n. 148047/RU.
L’introduzione dei beni nei depositi IVA avviene, in linea generale, sulla scorta di documenti amministrativi, commerciali o di trasporto, contenenti i dati identificativi dei beni e del soggetto proprietario degli stessi, per conto del quale avviene l’operazione di introduzione e, per i beni immessi in libera pratica in Italia, sulla base del documento doganale di importazione (art. 4 D.M. 20 ottobre 1997 n. 419).
In linea generale, attesa l’ampia portata della disposizione, non assumono alcuna rilevanza la natura, la qualità o la quantità dei beni né i motivi della loro introduzione nei depositi.
Tuttavia, occorre precisare che tale criterio generale vale nel caso in cui l’introduzione nel deposito IVA riguarda beni oggetto di acquisto intracomunitario [art. 50-bis, comma 4, lett. a)] ovvero beni importati [art. 50-bis, comma 4, lett. b] ovvero ceduti ad un soggetto passivo di altro Stato membro [art. 50-bis, comma 4, lett. c)]. Al contrario, se l’introduzione dei beni nel deposito IVA è finalizzata alla cessione nei confronti di acquirenti nazionali o extracomunitari, la concessione del beneficio è limitata soltanto a determinate categorie merceologiche espressamente elencate nella Tab. A-bis, allegata al predetto D.L. n. 331 del 1993 (art. 50-bis, comma 4, lett. d), conforme all’allegato V della direttiva 2006/112/CE. Trattasi, in particolare, di beni generalmente scambiati nelle borse merci, come i metalli non ferrosi, le derrate alimentari, le lane, etc.
Un limite di carattere generale all’utilizzo del deposito IVA è costituito dal fatto che l’estrazione dei beni è consentita esclusivamente ai soggetti d’imposta e non anche ai privati consumatori, per cui i beni, durante la loro giacenza nel deposito, non possono formare oggetto di vendita al dettaglio.
La ragione principale della disposizione va ricercata nella necessità di evitare che uno strumento operativo, quale si configura il deposito IVA, possa essere utilizzato come mezzo per eludere l’imposta rinviandone il pagamento, in linea di principio dovuto per ogni singolo stadio di commercializzazione, al momento dell’estrazione dei beni dal deposito.
In tale ottica, conformemente a quanto previsto dall’articolo 155 della direttiva 2006/112/CE, è preclusa agli operatori economici che svolgono esclusivamente attività di vendita al minuto la possibilità di fruire del beneficio del deposito IVA.
I soggetti che svolgono attività promiscua di vendita di merci al minuto ed all’ingrosso, i quali, ai sensi dell’art. 36 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, sono tenuti alla separazione delle due attività, possono utilizzare il deposito IVA limitatamente alle merci afferenti il commercio all’ingrosso purché, naturalmente, rispettino il prescritto obbligo della separazione contabile. Il soggetto interessato, che decida di destinare parte dei beni che ha introdotto in deposito alla vendita al minuto nello Stato, deve obbligatoriamente procedere alla preventiva estrazione degli stessi, con l’osservanza delle disposizioni contenute nel comma 6 dell’art. 50-bis in commento. Nella fattispecie descritta, peraltro, non assume rilevanza la circostanza che i beni custoditi in deposito risultino già confezionati per la vendita al minuto, potendo anche sotto tale forma costituire oggetto di commercializzazione all’ingrosso da parte dell’esercente.
Salvo quanto di seguito specificato con riferimento ai beni oggetto delle prestazioni di servizi di cui art. 50-bis, comma 4, lett. h), le merci, per essere considerate introdotte nel deposito IVA, devono entrarvi materialmente, essendo il deposito IVA un vero e proprio luogo fisico, in cui devono essere assolte in ogni caso le funzioni di stoccaggio e custodia, che giustificano economicamente e giuridicamente il contratto di deposito.
A tal fine qualsiasi spazio delimitato chiaramente, di cui si ha la disponibilità giuridica, e che rispetti i requisiti richiesti dalla normativa citata, può essere deputato a deposito IVA. Ciò che assume rilievo, infatti, è la condizione che siano facilmente individuabili i beni sottoposti al particolare regime, senza possibilità di confusione, anche se non sono presenti recinzioni fisiche come cancellate o simili.
4. SOGGETTI ABILITATI ALLA GESTIONE DEI DEPOSITI
Ai fini dell’abilitazione a gestire i depositi IVA, l’art. 50-bis, del D.L. n. 331 del 1993, individua due distinte fattispecie:
4.1 Depositi per i quali non è prevista autorizzazione. Una prima categoria, per la quale non si rende necessaria un’apposita autorizzazione, si ricollega a situazioni già valutate positivamente e quindi autorizzate dall’Amministrazione doganale.
A tal fine è previsto che sono abilitate a gestire i depositi IVA, negli stessi luoghi in cui operano in regime doganale:
• le imprese esercenti magazzini generali, già munite di autorizzazione doganale;
• le imprese esercenti depositi franchi;
• le imprese operanti in punti franchi.
Inoltre, possono essere utilizzati come depositi IVA:
• i depositi fiscali per i prodotti in essi custoditi, che istituzionalmente si trovano in regime di sospensione da accise (ad esempio prodotti petroliferi, bevande alcoliche);
• i depositi doganali, ivi compresi quelli per la custodia e la lavorazione delle lane di cui al D.M. del 28 novembre 1934, relativamente ai beni nazionali o comunitari che in base alle disposizioni doganali possono essere ivi introdotti conformemente alla normativa vigente in materia.
Tuttavia, l’estensione della funzione di un deposito doganale o accise anche come deposito IVA è un’agevolazione che non può prescindere dal rispetto delle caratteristiche strutturali e normative proprie dei depositi stessi. Ad esempio, nei depositi accise utilizzati anche come depositi IVA potranno essere custodite solo merci soggette ad accisa (cfr. circolare 16/D del 28 aprile 2006).
In particolare, possono operare come depositi IVA i depositi doganali di tipo: A, C e D.
Non possono, invece, operare come deposito IVA:
- i depositi di tipo B (depositi pubblici sotto la responsabilità dei depositanti), in quanto le particolari procedure applicabili per il vincolo ed il controllo delle merci assoggettate al regime prescindono dall’istituzione di un’apposita contabilità e manca la figura del depositario;
- i depositi di tipo F, posto che trattasi di deposito pubblico gestito dall’autorità doganale, sotto la responsabilità della stessa.
Con specifico riferimento ai depositi di tipo E, per i quali il deposito doganale è caratterizzato dal vincolo delle merci non comunitarie al regime di deposito, ma non alla delimitazione di appositi locali, aree, etc. in cui introdurre o da cui estrarre le merci, nel caso gli stessi siano utilizzati anche come depositi IVA, è necessario che dalla contabilità di magazzino risulti in qualsiasi momento la collocazione della merce vincolata al regime (cfr. nota delle Dogane n. 84920/RU del 7 settembre 2011).
Per quanto concerne la custodia delle merci nei depositi doganali, laddove siano contemporaneamente presenti merci sottoposte a tale regime e merci in regime di deposito IVA, occorre prevedere dei sistemi che consentano un’agevole individuazione delle merci soggette ai diversi regimi. A tal proposito, con risoluzione n. 440 del 12 novembre 2008[3] dell’Agenzia delle Entrate, è stato precisato che, qualora un deposito doganale funga anche da deposito IVA, le merci in esso custodite possono essere conservate nei medesimi spazi del magazzino senza necessità di essere spostate in aree distinte, purché si adottino accorgimenti tali da poter correttamente individuare le merci sottoposte ai differenti regimi.
L’eventuale revoca dell’autorizzazione doganale all’utilizzo dei locali come deposito doganale o fiscale (accise) comporta l’automatica cessazione anche della funzione di deposito IVA.
Non è ammissibile che un deposito doganale venga, in via di fatto, utilizzato esclusivamente come deposito IVA: in presenza di tali circostanze, infatti, viene meno la condizione economica essenziale per la sussistenza del deposito doganale (custodia merci “non comunitarie”) e pertanto dovrà essere revocata l’autorizzazione alla gestione del deposito stesso (cfr. circ. n. 16/D del 28/04/2006).
A seguito dell’entrata in vigore del comma 2-bis, aggiunto all’articolo 50-bis dal D.L. 2 ottobre 2006, n. 262, convertito dalla L. 24 novembre 2006, n. 286, i titolari di depositi fiscali per i prodotti soggetti ad accisa e di depositi doganali, che in precedenza erano automaticamente autorizzati ad operare come depositi IVA, hanno l’obbligo di trasmettere un’apposita comunicazione in via preventiva all’Ufficio doganale che esercita la vigilanza sul relativo impianto. La stessa comunicazione deve essere indirizzata anche alla Direzione regionale delle Entrate territorialmente competente in relazione al luogo di dislocazione del deposito.
L’Ufficio doganale, infatti, deve verificare tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dalla legge e deve far eventualmente adeguare la garanzia prestata all’atto della autorizzazione alla gestione del deposito doganale o fiscale in relazione alla movimentazione complessiva delle merci.
Si fa rinvio, per quanto riguarda l’utilizzo di tali depositi come depositi IVA, alle istruzioni già dettate con circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 1/E del 19 gennaio 2007[4]. In particolare, tale circolare ha chiarito che per le società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative o enti con capitale o fondo di dotazione non inferiore a 516.456,90 euro, pur sussistendo l’obbligo di comunicazione in discorso, non è previsto un ulteriore adeguamento della garanzia.
4.2 Depositi IVA per i quali è richiesta un’autorizzazione. L’art. 50-bis prevede una seconda categoria di depositi, la cui gestione può essere affidata anche ad operatori economici diversi da quelli che gestiscono i depositi di cui al precedente punto 4.1, sono operatori “che riscuotono la fiducia dell’Amministrazione finanziaria”, in quanto a norma dell’art. 2, comma 1, del decreto n. 419 del 1997:
a. non siano sottoposti a procedimento penale per reati finanziari;
b. non abbiano riportato condanne per reati finanziari;
c. non abbiano commesso violazioni gravi e ripetute, per loro natura o entità, alle disposizioni che disciplinano l’imposta sul valore aggiunto;
d. non siano sottoposti a procedure fallimentari, di concordato preventivo, di amministrazione controllata, né si trovino in stato di liquidazione.
I requisiti di cui alle lettere a), b) e c), nell’ipotesi di società ed enti, devono sussistere in capo ai legali rappresentanti degli stessi.
Per conseguire l’autorizzazione è necessario presentare apposita domanda alla Direzione Regionale delle entrate territorialmente competente in relazione al luogo di dislocazione del deposito ovvero a quella provinciale di Trento e Bolzano.
L’istanza deve essere corredata da una dichiarazione, resa ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000, sostitutiva delle certificazioni previste dall’art. 2, comma 4, del predetto decreto n. 419 del 1997 (iscrizione alla Camera di Commercio, carichi pendenti, provvedimenti risultanti dal casellario giudiziale, assenza di fallimento e di procedure concorsuali, assenza di misure di prevenzione ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575).
Si ricorda che in base alle modifiche legislative apportate dalla legge 12 novembre 2011 n. 183 “Legge di stabilità 2012” (in particolare l’art. 15), a fare data dal 1° gennaio 2012, è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni e ai gestori di pubblici servizi, di accettare e, quindi, di richiedere certificati in ordine a stati, qualità personali e fatti, e che le certificazioni rilasciate dalla pubblica amministrazione sono valide e utilizzabili solo nei rapporti tra i privati mentre nei rapporti con gli organi della pubblica amministrazione e i con i gestori dei pubblici servizi i certificati sono sempre sostituiti dalle dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 del Decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000 n. 445 (art. 40 del DPR n. 445 del 2000).
L’utente, pertanto, è obbligato alla presentazione di dichiarazioni sostitutive (facoltative prima della modifica normativa del 2012), e risponde a titolo di responsabilità penale in caso di dichiarazioni non veritiere, mentre la pubblica amministrazione ha l’obbligo di revocare i benefici eventualmente concessi, in caso di dichiarazioni mendaci (cfr. artt. 74 e 76 del DPR n. 445 del 2000).
Con effetto dal 1° gennaio 2012, le modifiche normative in discorso comportano per gli Uffici il divieto di accettare i certificati presentati in allegato all’istanza di autorizzazione (di cui al citato art. 2, comma 4, del D.M. n. 419 del 1997) e l’obbligo di richiedere le relative dichiarazioni sostitutive ai sensi del D.P.R. n. 445 del 2000. In caso di società o di enti richiedenti tali dichiarazioni saranno rilasciate dal legale rappresentante.
Per quanto concerne la certificazione antimafia si fa presente che, ai sensi dell’art. 99, comma 2-bis, del D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, le amministrazioni sono tenute ad acquisirla d’ufficio tramite le prefetture (1).
Nell’ambito della consueta attività istruttoria volta al rilascio del provvedimento autorizzatorio, la Direzione Regionale competente provvederà al controllo di tali dichiarazioni sostitutive, ai sensi dell’art. 71 del D.P.R. n. 445 del 2000.
L’autorizzazione viene rilasciata dalla Direzione Regionale delle entrate territorialmente competente in relazione al luogo di dislocazione del deposito, ovvero da quella provinciale di Trento e Bolzano, previo accertamento della sussistenza dei requisiti previsti dalla legge, ivi compresa l’idoneità dei locali. La determinazione deve essere adottata entro 180 giorni dalla data in cui l’istanza è pervenuta e deve essere comunicata sia all’interessato che alla Direzione Provinciale competente in relazione al domicilio fiscale di questi (art. 2, comma 6, del D.M. 20 ottobre 1997 n. 419).
Ai fini dell’autorizzazione a gestire un deposito IVA, è necessario che i locali in cui tale deposito è situato siano idonei all’attività di custodia delle merci che in questi ultimi si dovrà svolgere (es.: ampiezza degli ambienti in relazione alla tipologia delle merci da introdurre). La suddetta idoneità dovrà sussistere anche a seguito di un eventuale ampliamento o mutamento dell’attività iniziale in relazione alla quale era stata ottenuta l’autorizzazione. La verifica dell’idoneità dei locali assume, peraltro, particolare rilievo in relazione ai depositi destinati a custodire merci in conto terzi (art. 2, comma 3, del D.M. 20 ottobre 1997 n. 419).
I soggetti che soddisfano le condizioni sopra evidenziate, possono essere autorizzati a gestire le seguenti tipologie di depositi:
1) per la custodia di beni in conto proprio;
2) per la custodia di beni in conto terzi, nel qual caso l’autorizzazione può essere concessa soltanto alle società per azioni, società in accomandita per azioni, società a responsabilità limitata, società cooperative ed enti, il cui capitale sociale o fondo di dotazione non sia inferiore ad 516.456,90 euro.
Al fine di facilitare l’attività istruttoria si consiglia di allegare all’istanza la seguente documentazione:
• autocertificazione relativa al titolo di detenzione dei locali;
• indicazione degli estremi catastali del locale;
• individuazione, qualora i locali vengano utilizzati ad uso promiscuo, dello spazio riservato a deposito IVA, che, nel caso si tratti di un locale unico, può essere delimitato anche mediante una semplice traccia al suolo;
• autocertificazione relativa all’abitabilità o alla destinazione d’uso del locale.
3) per la custodia di beni, oggetto del particolare contratto di “consignment stock”. Trattasi dei depositi in cui il cessionario, per esigenze di disponibilità immediata, custodisce beni a lui esclusivamente destinati. Tale deposito è caratterizzato dalla circostanza che i beni provenienti da altro Stato membro, pur se introdotti nel territorio dello Stato, restano di proprietà del fornitore comunitario fino al momento in cui il depositario-cessionario li estrae dal deposito per utilizzarli nell’esercizio della propria attività.
Il venir meno, in capo all’interessato, delle condizioni richieste per il rilascio dell’autorizzazione comporta la sua revoca che è disposta dalla Direzione Regionale o dalla Direzione provinciale delle entrate, territorialmente competente.
E’ altresì data facoltà alle stesse Direzioni Regionali e Provinciali delle Entrate di emettere provvedimento di revoca nei casi in cui, a seguito di ispezioni o verifiche, vengano riscontrate irregolarità nella gestione del deposito. In tal caso, devono essere valutate la natura e la gravità dell’infrazione commessa nonché la personalità del contribuente.
Avverso il provvedimento di revoca e di diniego è ammesso ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale, da presentarsi entro 60 giorni dalla notifica, ai sensi dell’art. 29 del D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Codice del processo amministrativo). E’ altresì ammesso, in via alternativa, il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da presentarsi entro 120 giorni dalla data della notifica dell’atto di revoca, ai sensi dell’art. 8 e seguenti del D.P.R. 24 novembre 1971 n. 1199.
La revoca determina l’estrazione dei beni, salvo che i medesimi vengano trasferiti ad altro deposito (art. 50-bis, comma 2, D.L. n. 331 del 1993).
5. OPERAZIONI AGEVOLATE
Il comma 4 dell’art. 50-bis del D.L. n. 331 del 1993 elenca le operazioni che possono beneficiare del particolare regime che rinvia il pagamento dell’imposta all’atto dell’estrazione.
In particolare, le operazioni in questione possono essere distinte in due gruppi:
• operazioni che presuppongono una contestuale introduzione fisica dei beni nei depositi [lett. da a) a d), dell’articolo citato];
• operazioni eseguite su beni che già si trovano nei depositi [lett. da e) a i)], fatta eccezione per quanto ulteriormente specificato con riferimento alla lett. h) nel successivo paragrafo 5.2.2.
5.1 Operazioni che presuppongono una contestuale introduzione fisica dei beni nei depositi. Rientrano in tale categoria:
1) gli acquisti intracomunitari di beni eseguiti mediante introduzione in un deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. a)];
2) le operazioni di immissione in libera pratica di beni non comunitari destinati ad essere introdotti in un deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. b)];
3) le cessioni di beni, nei confronti di soggetti identificati in altro Stato membro della Comunità europea, eseguite mediante introduzione in un deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. c)];
4) le cessioni dei beni elencati nella tabella A-bis allegata al D.L. n. 331/1993, eseguite mediante introduzione in un deposito IVA, effettuate nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nella lettera c) [art. 50 bis, comma 4, lett. d)].
5.1.1 Acquisti intracomunitari di beni eseguiti mediante introduzione nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. a)]. Nella fattispecie rientrano i beni provenienti da altro Stato membro, costituenti acquisti intracomunitari di cui all’art. 38, commi 2 e 3 del D.L. n. 331 del 1993, ivi compresi i trasferimenti di beni da parte di soggetti comunitari per finalità rientranti nell’esercizio dell’impresa.
In tali casi, ai sensi degli artt. 46 e seguenti del D.L. n. 331 del 1993, è necessario in particolare integrare la fattura di acquisto senza applicazione dell’IVA richiamando l’introduzione del bene nel deposito IVA o eventualmente l’articolo 50-bis, registrare la fattura nel registro degli acquisti e compilare il Mod. INTRA-2.
Al momento dell’estrazione dal deposito il bene sarà assoggettato al trattamento fiscale proprio della relativa operazione di uscita (cessione interna, comunitaria o cessione all’esportazione) ai sensi del comma 6 dello stesso articolo 50-bis.
Diversa è la disciplina nell’ipotesi del deposito da consignment stock. In tal caso, infatti, l’introduzione del bene nel territorio dello Stato non comporta un acquisto intracomunitario, in quanto una delle peculiarità di tale contratto, come precisato nel paragrafo precedente è rappresentata dalla circostanza che i beni introdotti nel territorio dello Stato e custoditi nel deposito restano di proprietà del fornitore comunitario. L’acquisto intracomunitario si realizza soltanto all’atto dell’estrazione dei beni da parte dello stesso cessionario/depositario il quale, in relazione a tale momento e sulla base della fattura emessa dal cedente comunitario, è tenuto all’assolvimento degli obblighi previsti dagli artt. 46 e seguenti del D.L. n. 331 del 1993 (integrazione e registrazione della fattura, etc.), ivi compresa la compilazione dell’elenco riepilogativo degli acquisti intracomunitari (cfr. ris. n. 44/E del 10 aprile 2000[5]).
5.1.2 Immissione in libera pratica di beni destinati ad essere introdotti nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. b)]. Secondo la previsione normativa, l’immissione in libera pratica di beni destinati ad essere introdotti in un deposito IVA costituisce un’immissione in libera pratica senza pagamento dell’IVA all’importazione, il cui ammontare resta tuttavia garantito secondo quanto previsto dal comma 4, lett. b) dell’art. 50-bis fino alla estrazione dei beni dal deposito, con le modalità stabilite dal successivo comma 6.
L’introduzione fisica dei beni nel deposito deve essere comprovata con la presentazione in Dogana di un documento sottoscritto dal depositario, dal quale risulti la presa in carico dei beni nel registro previsto dall’art. 50-bis, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993. La mancata esibizione di detto documento comporta la riscossione da parte della Dogana dell’importo dell’IVA dovuta (cfr. circolare n.
145/E del 10 giugno 1998[1]).
Sulla questione circa l’irregolare utilizzo del regime di deposito IVA per mancata introduzione della merce nel medesimo nel caso di immissione in libera pratica, nonché sull’applicazione della sanzione relativa, si è espressa la Corte di Giustizia nella sentenza del 17 luglio 2014, C-272/13, i cui principi sono esaminati nel paragrafo 12 della presente circolare.
All’atto dell’estrazione, il bene sarà assoggettato al trattamento fiscale della relativa operazione di uscita: cessione interna, comunitaria o cessione all’esportazione (cfr. nota 7 settembre 2011, n. 84920/RU, nota 5 ottobre 2011, n. 113881/RU, nota 4 novembre 2011, n. 127293/RU, nota 1° febbraio 2012, n. 148047/RU dell’Agenzia delle Dogane).
Non possono fruire del particolare regime del deposito IVA i beni in regime di ammissione temporanea e perfezionamento attivo, in quanto tali operazioni, sotto il profilo doganale, non costituiscono operazioni di immissione in libera pratica.
5.1.3 Cessioni nei confronti di operatori comunitari di beni mediante introduzione nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. c)]. La fattispecie attiene al caso in cui il destinatario della cessione è un soggetto passivo d’imposta in altro Stato membro.
La predetta operazione si perfeziona con l’introduzione della merce in deposito effettuata dal cedente. Benché effettuata senza applicazione dell’imposta, l’operazione non costituisce una cessione intracomunitaria, bensì un’operazione interna, con conseguente assolvimento, da parte del cedente, degli obblighi previsti dal Titolo II del D.P.R. n. 633 del 1972.
Si richiama l’attenzione sulla circostanza che, per tali operazioni, il cedente non deve compilare l’elenco Intrastat relativo alle cessioni intracomunitarie.
Per quanto concerne gli adempimenti cui è tenuto l’acquirente, si sottolinea che questi, per acquistare beni introdotti nel deposito IVA non è tenuto alla identificazione diretta in Italia né deve nominare un rappresentante fiscale nel territorio dello Stato. Come ribadito dalla risoluzione n. 440/E del 12 novembre 2008[2], infatti, “l’obbligo di avvalersi del rappresentante fiscale, ancorché già nominato per altre operazioni, non sussiste nelle ipotesi in cui sia per le cessioni che per le prestazioni, l’operazione venga posta in essere direttamente tra l’operatore comunitario e quello nazionale”.
Tale principio, già enunciato dall’Amministrazione Finanziaria con la risoluzione n. 66 del 4 marzo 2002[3], richiamando la circolare n. 13 del 23 febbraio 1994[4], per le operazioni direttamente qualificabili come acquisti o cessioni intracomunitarie, è, infatti, applicabile anche nel caso in esame in cui la cessione non dà luogo ad uno scambio intracomunitario, non essendovi l’invio del bene nell’altro Stato, ma è eseguita mediante l’introduzione nel deposito Iva, direttamente tra un soggetto stabilito in un Paese comunitario ed ivi identificato ai fini IVA ed i fornitori nazionali. Quest’ultimi, pertanto, emetteranno fattura contenente l’indicazione che trattasi di cessione “non soggetta ad IVA in quanto beni introdotti in deposito IVA”, direttamente nei confronti del cessionario comunitario.
Inoltre, la medesima agevolazione si rende applicabile nel caso in cui l’acquirente identificato ai fini IVA in altro Stato membro sia invece stabilito in un Paese terzo e anche se il medesimo abbia un rappresentante fiscale nel territorio dello Stato che non interviene nell’acquisto.
5.1.4 Cessioni dei beni di cui alla Tab. A-bis destinati ad essere introdotti nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. d)]. La ratio della norma è quella di consentire la non applicazione dell’imposta alle cessioni effettuate tra due soggetti d’imposta nazionali, ovvero tra un soggetto nazionale e un soggetto extracomunitario, che abbiano per oggetto beni che normalmente sono trattati in borse merci. Su tali beni sono ordinariamente operate numerose transazioni in tempi brevi mediante il passaggio dei relativi titoli, senza che vi sia la relativa movimentazione fisica.
5.2 Operazioni eseguite su beni che già si trovano nei depositi. Rientrano in tale categoria:
1) le cessioni di beni custoditi in un deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. e)];
2) le cessioni intracomunitarie di beni estratti da un deposito IVA con spedizione in un altro Stato membro della Comunità europea, salvo che si tratti di cessioni intracomunitarie soggette ad imposta nel territorio dello Stato [art. 50 bis, comma 4, lett. f)];
3) le cessioni di beni estratti da un deposito IVA con trasporto o spedizione fuori del territorio della Comunità europea [art. 50 bis, comma 4, lett. g)];
4) le prestazioni di servizi, comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali, relative a beni custoditi in un deposito IVA, anche se materialmente eseguite non nel deposito stesso ma nei locali limitrofi sempreché, in tal caso, le suddette operazioni siano di durata non superiore a sessanta giorni, per le quali si rinvia al successivo par. 5.2.2 [art. 50 bis, comma 4, lett. h)];
5) il trasferimento dei beni in altro deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. i)].
Le operazioni indicate ai numeri 1, 4 e 5, (rispettivamente, le cessioni di beni custoditi in un deposito IVA, le prestazioni di servizi relative a beni custoditi in un deposito IVA anche se materialmente eseguite non nel deposito stesso ma nei locali limitrofi e il trasferimento dei beni in altro deposito IVA), non possono essere qualificate come “non imponibili”, per cui i relativi corrispettivi devono essere esclusi dalla formazione del “plafond” e dalla costituzione dello “status” di esportatore agevolato.
Tali operazioni danno diritto alla detrazione dell’imposta assolta “a monte” per gli acquisti e/o importazioni di beni e servizi, ai sensi dell’art. 19 e seguenti del D.P.R. n. 633 del 1972, come chiarito al paragrafo 3.1.1 della circolare n. 328/E del 24 dicembre 1997[5], che può essere esercitata a partire dal momento in cui il bene è stato acquistato e, al più tardi con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello dell’acquisto, mentre la riscossione dell’imposta è rinviata all’uscita degli stessi beni dal deposito.
Ai fini dell’applicazione del particolare regime relativo ai depositi IVA occorre ricordare che con risoluzione n. 21 del 15 marzo 2010[6], è stato precisato che non tutte le operazioni afferenti beni che si trovano all’interno nei depositi possono essere effettuate senza pagamento dell’imposta, ma solo quelle che hanno ad oggetto beni che vi sono stati introdotti in base ad uno dei presupposti di cui al comma 4, dell’art. 50-bis [cioè in base alle lett. da a) a d)].
5.2.1 Cessioni di beni custoditi in deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. e)]. Le transazioni aventi ad oggetto beni in giacenza nel deposito sono effettuate in sospensione dell’imposta, a nulla rilevando la circostanza che i cedenti e i cessionari siano residenti o meno in Italia, sempreché, ovviamente, trattasi di operatori economici.
Tuttavia, la circostanza che la transazione intervenga tra soggetti residenti o non residenti assume rilievo ai fini della individuazione del soggetto tenuto ad assolvere gli obblighi di fatturazione (cfr. paragrafo 7).
In particolare:
– se il cedente è un soggetto d’imposta nazionale, questi è tenuto in ogni caso ad emettere fattura senza applicazione dell’imposta;
– se il cedente è un soggetto non residente, gli adempimenti contabili relativi all’operazione devono essere effettuati dal cessionario nazionale, ai sensi dell’art. 17, secondo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972, senza applicazione dell’imposta (cfr. ris. n. 89 del 25 agosto 2010[7]);
– se il cedente ed il cessionario sono entrambi soggetti non residenti, non identificati ai fini IVA nel territorio dello Stato o con stabile organizzazione in Italia che non interviene materialmente nell’operazione, questi non sono tenuti agli obblighi di fatturazione, ma solo all’obbligo di consegnare o inviare in ogni caso al depositario un documento commerciale che attesti l’avvenuta transazione.
Il gestore del deposito deve, comunque, essere sempre informato delle transazioni avvenute all’interno dello stesso a motivo della propria responsabilità civile e fiscale, come sarà precisato al paragrafo 10.
La disposizione in commento [art. 50-bis, comma 4, lett. e) del D.L. n. 331 del 1993] non può essere applicata ai depositi in conto proprio, dal momento che negli stessi si trovano esclusivamente merci di proprietà del gestore ed è, pertanto, esclusa la possibilità di cessioni dei beni a terzi.
5.2.2. Prestazioni di servizi rese su beni custoditi nel deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. h)]. In virtù del regime di territorialità relativo alle prestazioni di servizi, attuato con il d.lgs. n. 18 del 2010, sono territorialmente rilevanti solo le prestazioni di servizi rese a soggetti passivi d’imposta stabiliti nello Stato (art. 7-ter, comma 1, lett. a del D.P.R. n. 633 del 1972), ad eccezione di particolari ipotesi che non risultano rilevanti in questa sede.
Ne consegue che il particolare regime proprio dei depositi riguarda solo tali prestazioni, poichè quelle rese a soggetto passivo non stabilito sono da considerarsi fuori campo di applicazione del tributo in Italia e seguono il regime giuridico previsto dalla legislazione tributaria del Paese di stabilimento.
Beneficiano, quindi, del regime agevolativo le prestazioni di servizi di qualsiasi genere, territorialmente rilevanti nello Stato, ivi comprese quelle di custodia, materialmente eseguite nei depositi IVA sui beni ivi giacenti. Tra queste assumono particolare rilievo le prestazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali che sono tipiche operazioni dirette alla trasformazione o conservazione dei beni.
Tutte le predette prestazioni, per espressa previsione del comma 4, lett. h) dell’art. 50-bis in commento, possono essere svolte, sia pure per un periodo non superiore a sessanta giorni, anche in locali “limitrofi” al deposito IVA. Il termine “limitrofi” va inteso nel senso di individuare locali che, pur non costituendo direttamente parte integrante del deposito, sono a questo funzionalmente e logisticamente collegati in un rapporto di contiguità e comunque rientrano nel plesso aziendale del depositario, qualunque sia il titolo di detenzione degli immobili stessi con esclusione, in ogni caso, di locali gestiti da soggetto diverso dal depositario.
Non rientrano tra le prestazioni agevolate quelle di trasporto per l’introduzione dei beni nei depositi IVA o per la loro estrazione, in quanto detti servizi sono resi su beni che non si trovano nel deposito, fatti salvi i casi in cui il trasposto sia accessorio (ai sensi dell’articolo 12 D.P.R. n. 633 del 1972) ad operazioni agevolate.
Con particolare riferimento alle ipotesi di beni immessi in libera pratica, le spese di trasporto sono da assoggettare ad imposta se non comprese nel valore del bene determinato in dogana ai sensi dell’art. 69, primo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972.
Le prestazioni di servizi rientranti nell’ambito dell’agevolazione, al momento dell’estrazione dei beni per l’immissione in consumo, rileveranno per la determinazione della base imponibile poichè occorrerà tener conto, oltre che del corrispettivo della cessione dei beni anche di quelli afferenti ogni lavorazione, custodia e altri eventuali servizi prestati nel predetto deposito, se territorialmente rilevanti, come sarà specificato al paragrafo 9.
Si rammenta che per effetto della modifica dell’articolo 21 del DPR n. 633 del 1972, operata a seguito della Direttiva 2010/45/UE, in caso di operazioni non soggette, non imponibili, esenti o comunque senza distinta indicazione dell’IVA a causa anche di regimi particolari, il richiamo alla specifica norma comunitaria o nazionale non è più obbligatorio ma solo facoltativo, mentre deve essere indicato il titolo di non applicazione dell’imposta.
Si ricorda, infine, che è fatto obbligo di riepilogo nei modelli Intrastat, secondo le istruzioni già fornite con le circolari n. 36 del 21 giugno 2010[8] e n. 43 del 6 agosto 2010[9], delle prestazioni di servizio rese o ricevute nei confronti di committenti comunitari.
Per le prestazioni in esame assume particolare rilevanza la questione se i beni che ne sono interessati debbano comunque essere materialmente introdotti, in deposito, atteso che, a prescindere dal luogo in cui la prestazione può essere eseguita, il beneficio della non applicazione dell’imposta è riservato ai beni che si trovano “in deposito”.
Tale aspetto è disciplinato dall’art. 16, comma 5-bis, del DL 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio del 2009, n. 2 che costituisce la norma interpretativa dell’art. 50 bis, comma 4, lett. h), ai sensi del quale sono effettuate senza pagamento dell’imposta sul valore aggiunto “le prestazioni di servizi, comprese le operazioni di perfezionamento e le manipolazioni usuali, relative a beni custoditi in un deposito IVA, anche se materialmente eseguite non nel deposito stesso, ma nei locali limitrofi sempreché, in tal caso,
le suddette operazioni siano di durata non superiore a sessanta giorni”.
L’articolo 16, comma 5 bis, nella versione precedente a quella attualmente in vigore, stabiliva che la lettera h) del comma 4 dell’articolo 50-bis, si interpretava nel senso che le prestazioni di servizi ivi indicate, relative a beni consegnati al depositario, costituiscono ad ogni effetto introduzione nel deposito IVA senza tempi minimi di giacenza né obbligo di scarico dal mezzo di trasporto.
Successivamente, l’art. 34, comma 44, del DL n. 179 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla Legge n. 221 del 17 dicembre del medesimo anno, è intervenuto sul contenuto dell’art. 16, comma 5-bis, inserendo dopo le parole “né obbligo di scarico del mezzo di trasporto” i seguenti periodi “L’introduzione si intende realizzata anche negli spazi limitrofi al deposito IVA, senza che sia necessaria la preventiva introduzione della merce nel deposito. Si devono ritenere assolte le funzioni di stoccaggio e di custodia, e la condizione posta agli articoli 1766 e seguenti del codice civile che disciplinano il contratto di deposito. All’estrazione della merce dal deposito IVA per la sua immissione in consumo nel territorio dello Stato, qualora risultino correttamente poste in essere le norme dettate al comma 6 del citato articolo 50-bis del decreto-legge n. 331 del 1993, l’imposta sul valore aggiunto si deve ritenere definitivamente assolta”.
La modifica in commento estende il regime del deposito IVA, e quindi il differimento del pagamento del tributo al momento dell’estrazione dei beni dal deposito, anche nell’ipotesi in cui le merci vengano prese in consegna dal depositario e custodite in spazi limitrofi al deposito stesso, al fine, ovviamente, di subire le prestazioni di servizio di cui all’art. 50-bis, comma 4, lett. h), del D.L. n. 331 del 1993 senza la necessaria introduzione fisica dei predetti beni nel deposito stesso. Resta inteso che non è necessario che i beni in questione una volta terminate le lavorazioni siano introdotti fisicamente nel deposito, in quanto gli stessi possono essere estratti “contabilmente” mediante annotazione nel registro che evidenzia le movimentazione dei beni in deposito, di cui all’art. 50-bis, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993.
Qualora risultino soddisfatte tali condizioni, si ritengono assolte, in virtù dell’interpretazione fornita dalla novella in commento, le funzioni di stoccaggio e di custodia da parte del depositario e si ritiene perfezionata la condizione stabilita dalla normativa civilistica che regola il contratto di deposito (artt. 1766 e seguenti del codice civile).
Ai fini della presa in consegna dei beni da parte del depositario, risulta comunque necessaria l’annotazione nel registro che evidenzia le movimentazioni dei beni in deposito, di cui all’art. 50-bis, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993.
Va peraltro evidenziato che l’articolo 16, comma 5-bis, anche nella versione risultante a seguito delle modifiche apportate nel 2012 dalla novella, riguarda solo la fattispecie di cui all’art. 50-bis, comma 4, lett. h), del DL n. 331 cioè le prestazioni di servizi effettuate su beni in regime di deposito. Attraverso la modifica normativa, pertanto, non è stato introdotto nell’ordinamento un principio generale secondo cui i beni possono considerarsi in regime di deposito a prescindere dalla loro materiale introduzione nei luoghi fisici a ciò appositamente deputati.
La norma in esame dispone, infatti, per i soli beni che devono subire delle lavorazioni (ad esempio, il perfezionamento o le manipolazioni usuali), che non è necessaria la loro introduzione fisica nel deposito, posto che tali lavorazioni possono essere svolte anche in locali ad esso limitrofi e senza obbligo di scarico dal mezzo di trasporto. Resta invece fermo l’obbligo di introdurre materialmente in deposito i beni che non devono subire lavorazioni.
Pertanto la nuova interpretazione autentica del predetto articolo 16, comma 5-bis, non si estende alle operazioni, previste dal citato articolo 50-bis, comma 4, lettere a), b), c), d), e) f), g), i), del DL n. 331 del 1993.
5.2.3 Trasferimento dei beni in altro deposito IVA [art. 50 bis, comma 4, lett. i)]. Il semplice trasferimento dei beni da un deposito IVA ad un altro non costituisce momento di estrazione dal deposito, anche qualora il trasferimento avvenga in dipendenza della revoca di autorizzazione a gestire l’impianto nei confronti del depositario. Il mero spostamento fisico dei beni, infatti, non concretizza una cessione e, pertanto, non è rilevante agli effetti dell’imposta che, invece, dovrà essere applicata qualora, contestualmente al trasferimento dei beni da un deposito IVA ad un altro, vi sia un passaggio di proprietà degli stessi.
Nel caso in cui contestualmente al trasferimento dei beni da un deposito IVA ad un altro intervenga anche un passaggio di proprietà degli stessi, sia che si tratti di cessioni di cui alla lettera d) [vale a dire beni indicati nella tabella A-bis ceduti a soggetti diversi da quelli identificati ai fini IVA in altri Stati Membri dell’Unione Europea] che di cessioni di cui alla lettera c) [beni di qualunque tipologia ceduti a soggetti comunitari], il soggetto passivo cedente che estrae i beni dovrà ricorrere alla procedura di reverse charge di cui ai all’art. 17, secondo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972 (cfr. art. 50-bis, comma 6, del D.L. n. 331 del 1993). Tuttavia, la successiva cessione dei predetti beni, con immissione in deposito, gode del regime di sospensione dell’IVA, di cui all’art. 50-bis, comma 4, lett. c) e d), del citato Decreto Legge.
Il beneficio della non applicazione dell’imposta si estende anche alle prestazioni di trasporto dei beni da un deposito all’altro.
Ai fini del trasferimento dei beni, per superare la presunzione di cessione e di acquisto di cui al D.P.R. n. 441 del 10 novembre 1997, può farsi utile riferimento al documento di trasporto di cui al D.P.R. 14 agosto 1996, n. 472, con l’indicazione della causale, fermo restando la necessità di presa in carico dei beni presso il deposito in cui gli stessi sono materialmente introdotti.
Come precisato con risoluzione del 15 marzo 2010 n. 21, già richiamata al par. 5.2, si ricorda che la normativa in esame non può essere applicata nel caso di beni che transitano da un deposito accise, utilizzato anche come deposito IVA, ad un deposito IVA, qualora gli stessi (nel caso specifico si trattava di tabacchi lavorati) siano introdotti in deposito accise in virtù di operazioni diverse da quelle previste dal comma 4 del medesimo art. 50-bis.
6. INTRODUZIONE DEI BENI IN DEPOSITO
In ragione della funzione svolta dall’istituto del deposito IVA le agevolazioni in esame si rendono applicabili se i beni sono materialmente introdotti nel deposito, non essendo sufficiente la mera presa in carico documentale degli stessi nell’apposito registro detenuto dal depositario di cui al comma 3 dell’art. 50-bis del D.L. n. 331 del 1993 e all’art. 3 del D.M. 20 ottobre 1997, n. 419, fatta eccezione per quanto già chiarito sub paragrafo 5.2.2 per i beni oggetto di lavorazione.
Ciò in quanto, in base alla formulazione della norma, è dato desumere che il deposito deve comunque assolvere le funzioni di stoccaggio o custodia dei beni, anche se non è obbligatorio il materiale scarico dei beni dal mezzo di trasporto (che potrebbe essere costituito anche da un container).
Peraltro, tale principio è stato considerato legittimo dalla Corte di Giustizia Ue nella sentenza del 17 luglio 2014 in causa C-272/13, come meglio illustrato nel successivo paragrafo 12 della presente circolare.
Nei casi d’immissione in libera pratica, l’attestazione da rilasciare in dogana, che prova la destinazione dei beni in un deposito IVA, di cui all’art. 4, comma 1, ultima parte del D.M. n. 419 del 1997, deve fare esplicito riferimento anche al rispetto delle suddette condizioni.
L’assenza o la simulazione del contratto di deposito impediscono l’applicazione delle disposizioni agevolative di cui all’art. 50-bis del D.L. n. 331 del 1993.
Si fa altresì presente che, al fine di legittimare il non assoggettamento al tributo delle operazioni di cui alle lettere c) [cessioni di beni nei confronti di soggetti identificati in altro Stato Membro della Comunità Europea] e d) [cessione di beni elencati nella Tabella A-bis effettuate nei confronti di soggetti diversi da quelli indicati nella lettera c)], di cui al comma 4, dell’art. 50-bis del D.L. n. 331 del 1993, il cedente, che introduce i beni nell’interesse del cessionario, è tenuto a munirsi di idonea prova attestante l’avvenuta introduzione, quale ad esempio copia del documento di trasporto recante l’attestazione resa dal gestore in ordine all’introduzione materiale dei beni ed alla loro presa in carico.
7. MODALITÀ DI ESTRAZIONE DEI BENI DAL DEPOSITO IVA E DEBITORE DELL’IMPOSTA
Possono procedere all’estrazione dei beni dal deposito solo i soggetti passivi d’imposta, identificati in Italia, direttamente o tramite rappresentante fiscale o i soggetti stabiliti in Italia per il tramite di una stabile organizzazione.
Così come per l’introduzione, anche per l’estrazione dei beni dal deposito si fa riferimento, in via generale, ai documenti amministrativi, commerciali o di trasporto, contenenti i dati identificativi dei beni e del soggetto che provvede all’estrazione; per le cessioni all’esportazione, l’estrazione avviene in base alla dichiarazione doganale.
Il soggetto che procede all’estrazione dovrà comunicare al gestore del deposito IVA i dati relativi alla liquidazione dell’imposta, secondo quanto previsto dall’ultimo periodo del comma 6 dell’art. 50-bis, come modificato dall’art. 7 del D.L. n. 70 del 2011, anche ai fini dello svincolo della garanzia eventualmente prestata all’atto dell’introduzione (note dell’Agenzia delle Dogane del 7 settembre 2011 n. 84920/Ru e del 5 ottobre 2011 n. 113881/Ru).
Il gestore del deposito dovrà conservare, oltre ai documenti relativi all’introduzione ed estrazione dei beni, anche quelli relativi alla liquidazione dell’imposta all’atto dell’estrazione (art. 50-bis, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993, come modificato dall’art. 7, del D.L. n. 70 del 2011).
L’estrazione dei beni dai depositi IVA può avvenire per dar corso a cessioni intracomunitarie o all’esportazioni, nonché per utilizzare o commercializzare i beni in Italia. Si illustrano di seguito nel dettaglio le diverse ipotesi.
7.1 Cessioni intracomunitarie. Se il bene estratto è oggetto di una transazione comunitaria, il cedente è tenuto ad emettere fattura non imponibile ai sensi dell’art. 41 del D.L. n. 331 del 1993 e ad adempiere ai conseguenti obblighi contabili, nonché a compilare e presentare il Modello Intra-1bis.
Qualora il cedente sia un soggetto non residente, non identificato ai fini IVA nel territorio dello Stato, i relativi adempimenti possono essere assolti dallo stesso depositario come “rappresentante fiscale leggero” (vedi paragrafo 10).
7.2 Cessioni all’esportazione. Se il bene estratto è oggetto di una cessione all’esportazione, la fattura va emessa in regime di non imponibilità IVA a norma dell’art. 8, primo comma, lettere a) o b), del D.P.R. n. 633 del 1972, a seconda che l’invio o il trasporto fuori dal territorio comunitario sia effettuato a cura o a nome del cedente ovvero a cura o a nome del cessionario non residente.
Qualora il cedente sia un soggetto non residente, non identificato ai fini IVA nel territorio dello Stato, i relativi adempimenti, possono essere assolti dal depositario, come “rappresentante fiscale leggero” (vedi paragrafo 10).
Nel caso in cui i beni introdotti in deposito siano estratti per essere restituiti al fornitore in quanto non conformi, ad esempio, agli standard qualitativi concordati, la relativa estrazione con trasporto o spedizione al di fuori della Comunità non può rientrare tra “le cessioni di beni estratti da un deposito IVA con trasporto o spedizione fuori del territorio della Comunità europea” di cui all’art. 50-bis, comma 4, lett. g) del D.L. n. 331 del 1993.
Ordinariamente, infatti, la restituzione di merci non conformi agli standard qualitativi pattuiti dà luogo ad una risoluzione, totale o parziale, del contratto con effetti ex tunc e non ad un nuovo contratto di rivendita al fornitore.
Conseguentemente, tale restituzione non realizza una ipotesi per la quale deve essere emessa autofattura, la movimentazione del bene deve, però, essere annotata nei registri del depositario.
7.3 Utilizzazione o commercializzazione in Italia. Se il bene viene estratto per essere utilizzato o commercializzato nel territorio dello Stato, l’operazione comporta l’assolvimento dell’imposta da parte del soggetto proprietario dei beni che procede in proprio o tramite terzi all’estrazione secondo le modalità stabilite dall’art. 17, secondo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972 mediante reverse charge (50-bis, comma 6, del D.L. n. 331 del 1993).
Pertanto, al fine di assolvere il tributo, il cessionario deve integrare il documento relativo all’acquisto del bene, effettuato prima di procedere all’estrazione (ovvero, in mancanza del medesimo, emettere autofattura). In particolare, l’operatore che procede all’estrazione integra il documento di acquisto che è stato emesso nei suoi confronti senza addebito di IVA, provvedendo a determinare la base imponibile ed applicare la relativa imposta.
Il documento da integrare potrà essere afferente un acquisto intracomunitario o un acquisto di beni di cui alla tabella A-bis con introduzione dei beni in deposito, ovvero un acquisto di beni durante la loro giacenza nel deposito.
Il documento integrato deve essere annotato nel registro di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 633 del 1972, e nel registro del precedente art. 23, al fine di evidenziare il debito d’imposta dell’acquirente nei confronti dell’Erario.
Tuttavia, gli adempimenti di integrazione e registrazione risultano diversi a seconda del documento che è stato integrato:
• in presenza di acquisto intracomunitario, essendo la fattura di acquisto già stata annotata nei registri previsti dagli artt. 23 e 25, al momento dell’estrazione occorrerà operare delle variazioni da annotare in entrambi i registri. Dette variazioni possono riguardare soltanto l’IVA (es. se il bene viene estratto da un deposito senza aver subito lavorazioni) ovvero anche la base imponibile laddove questa sia variata a seguito di prestazioni di servizi eseguiti all’interno del deposito, compresa la stessa prestazione di deposito;
• in presenza di acquisto di beni di cui alla Tab. A-bis, essendo la fattura di acquisto già stata annotata dal cessionario nel registro di cui all’art. 25, l’importo dell’operazione, comprensivo dell’eventuale integrazione, va riportato per il suo intero ammontare (imponibile ed IVA) nel registro dell’art. 23 e contestualmente dovrà essere operata la variazione del documento già registrato nel registro di cui all’art. 25 (solo IVA o anche base imponibile).
Analoghe procedure devono essere seguite nell’ipotesi di acquisto di beni giacenti nel deposito IVA. In particolare, se il cessionario ha emesso un’autofattura si applica la procedura del primo punto elenco; se il cessionario è in possesso di un documento fiscale rilasciatogli dal cedente, soggetto d’imposta nazionale o comunitario, si applica la procedura del secondo punto elenco.
Per i beni immessi in libera pratica con introduzione in deposito, la regolarizzazione della loro estrazione deve avvenire mediante la procedura di reverse charge, ai sensi dell’art. 17, secondo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972. In tal caso, tenuto conto che il rapporto civilistico con il cedente estero ha formato oggetto di un’operazione doganale di immissione in libera pratica dei beni, l’autofattura non deve contenere i dati identificativi del cedente, è a tal fine sufficiente fare riferimento al documento doganale (risoluzione n. 198 del 21 dicembre 2000[1]).
Infine, è possibile che il bene introdotto nel deposito sia stato acquistato sulla scorta di un documento non avente rilevanza fiscale (come, ad esempio, nell’ipotesi di cessione di beni giacenti in deposito, realizzatasi tra soggetti non residenti, non identificati ai fini IVA nel territorio dello Stato). In tale eventualità, l’operazione di estrazione deve essere rilevata con la procedura di reverse charge, ai sensi dell’art. 17, secondo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972, in cui va riportata la base imponibile dell’operazione (corrispettivo dell’acquisto ed eventuali servizi eseguiti sul bene durante la permanenza in deposito, se territorialmente rilevanti).
Se l’estrazione avviene da parte un soggetto non residente, questi dovrà nominare un rappresentante fiscale c.d. “pesante” ovvero, se stabilito in un Paese comunitario, identificarsi direttamente (art. 35-ter del D.P.R. n. 633 del 1972) e quindi provvedere ad assolvere l’imposta con le modalità ora illustrate.
Per quanto concerne le modalità di fatturazione dei beni estratti dal deposito e destinati alla commercializzazione in Italia, con riferimento alle operazioni avvenute nello stesso giorno, al punto 6 della circolare n. 43 del 6 agosto 2010[2] è stato chiarito che “nei casi in cui nello stesso giorno si considerino effettuate nei confronti del medesimo soggetto cessioni di beni e prestazioni di servizio di diversa natura, è possibile emettere un’unica fattura (per le operazioni attive) ovvero un’unica autofattura (per le operazioni passive), ai sensi dell’art. 21, comma 3, del D.P.R. n. 633 del 1972. Le operazioni in questione saranno distintamente indicate nel predetto documento contabile e saranno riportate, secondo la loro natura, distintamente negli elenchi riepilogativi delle cessioni/acquisti di beni o servizi”.
Pertanto, si ritiene che, in applicazione del medesimo principio di semplificazione, le operazioni di acquisto all’interno del deposito e di successiva estrazione dei beni, se effettuate nello stessa giornata, possano essere ricomprese nel medesimo documento contabile, tramite emissione di un’unica autofattura riepilogativa giornaliera.
8. CONSIGNMENT STOCK
In ordine ai beni provenienti da altri Stati comunitari in dipendenza di contratti di consignment stock e custoditi in deposito IVA, si osserva (come anticipato nel paragrafo 5.1.1) che il momento di effettuazione dell’acquisto intracomunitario si perfeziona, a differenza di quanto avviene per i beni oggetto di altre tipologie di contratti, solo all’atto della loro estrazione.
Il contratto di consignment stock presenta inoltre le seguenti caratteristiche:
• i beni introdotti nel deposito IVA restano di proprietà del fornitore estero fino al momento del prelievo degli stessi da parte del cessionario anche se il predetto fornitore ne perde, comunque, la disponibilità materiale;
• il cessionario dei beni deve essere esclusivamente il gestore del deposito il quale li acquista per esigenze della propria impresa e non per una successiva commercializzazione;
• il rischio di perdita dei beni durante la giacenza in deposito è a carico del fornitore e il prezzo degli stessi si determina all’atto del prelievo.
Poiché l’atto di estrazione coincide con il momento di effettuazione dell’acquisto intracomunitario, l’operatore nazionale è tenuto ad integrare la fattura emessa nei suoi confronti dal soggetto identificato in altro Stato membro e ad annotarla secondo le modalità ed i termini previsti dagli artt. 46 e seguenti del D.L. n. 331 del 1993, provvedendo anche alla compilazione del Mod. INTRA-2bis.
Inoltre l’arrivo dei beni in Italia non necessita dell’annotazione nel registro di cui all’art. 50, comma 5, del D.L. n. 331 del 1993, in quanto è sufficiente l’annotazione nei registri del deposito.
9. BASE IMPONIBILE
Come detto, l’estrazione dei beni dal deposito IVA può dare luogo sia ad operazioni non imponibili, quali cessioni all’esportazione, cessioni intracomunitarie, ovvero ad operazioni assoggettate ad imposta. Nell’ipotesi in cui i beni vengano estratti dal deposito come conseguenza di una cessione all’esportazione o di una cessione intracomunitaria non sussiste, come sopra detto, alcun obbligo di pagamento dell’imposta.
Laddove, invece, l’estrazione avvenga per l’utilizzazione o la commercializzazione dei beni nel territorio dello Stato, l’obbligo di assolvere il tributo fa capo allo stesso soggetto d’imposta proprietario dei beni che procede in proprio o tramite terzi all’estrazione, con le modalità esposte nei paragrafi precedenti.
In linea di principio, la base imponibile è costituita dal corrispettivo o, in assenza di corrispettivo, dal valore dell’operazione, non assoggettato all’IVA in conseguenza dell’introduzione nel deposito (cfr. circolare n. 28/E del 2011[3] e circolare n. 8/E del 2009[4]).
Qualora i beni, durante la loro giacenza, abbiano formato oggetto di una o più cessioni, la base imponibile è costituita dal corrispettivo o valore dell’ultima transazione.
Si deve in ogni caso considerare che, come già evidenziato, per effetto delle regole di territorialità dei servizi previste dall’articolo 7-ter, del DPR n. 633 del 1972, con decorrenza dal 1° gennaio 2010, le prestazioni di servizi generiche, se rese da un soggetto non stabilito in Italia, sono rilevanti nel Paese del committente. Le stesse prestazioni, all’atto dell’estrazione dei beni dal deposito, contribuiranno a formare la base imponibile su cui applicare l’imposta se territorialmente rilevanti.
Si riportano a titolo esemplificativo, le seguenti ipotesi:
1) l’estrazione è effettuata dallo stesso soggetto che aveva immesso i beni nel deposito, a seguito di acquisto (anche intracomunitario) o di importazione. La base imponibile è così costituita:
– se il bene non è stato oggetto di prestazioni di servizi di qualsiasi genere, dal corrispettivo dell’ultima transazione;
– se il bene è stato oggetto di prestazioni di servizi, dal valore dello stesso all’atto dell’introduzione aumentato del corrispettivo di tali prestazioni, se territorialmente rilevanti.
2) l’estrazione è effettuata da un soggetto diverso da quello che aveva immesso i beni nel deposito. La base imponibile è così costituita:
– se il bene è stato ceduto tal quale ad altro operatore che provvede all’estrazione, dal corrispettivo dell’ultima transazione, anche nel caso in cui detto importo risulti inferiore a quello iniziale;
– se il bene è stato ceduto, previa prestazione di servizi, ad altro operatore che provvede all’estrazione, dal corrispettivo dell’ultima transazione (comprensivo del corrispettivo della prestazione), anche nel caso in cui questo risulti inferiore a quello iniziale;
– se il bene è stato ceduto tal quale ad altro operatore che provvede all’estrazione dopo che il bene ha subito una prestazione di servizi, dal corrispettivo dell’ultima transazione, aumentato del valore della prestazione, se territorialmente rilevante.
E’ evidente che nella maggior parte dei casi, all’atto dell’estrazione, dovrà tenersi conto delle spese di custodia addebitate dal depositario senza applicazione dell’imposta. I relativi corrispettivi concorrono alla formazione della base imponibile all’atto dell’estrazione, se territorialmente rilevanti.
Nel caso la merce subisca dei cali fisici e tecnici nel periodo di stoccaggio, si ritiene che la base imponibile all’atto dell’estrazione dal deposito debba essere determinata al netto del valore del calo (ad esempio se il valore iniziale della merce è 100 e si verifica un calo fisico o tecnico di 5, il valore della base imponibile sarà 95).
La rilevanza dei cali della merce ai fini della determinazione della base imponibile IVA è coerente con quanto previsto dal regolamento recante norme per il riordino della disciplina delle presunzioni di cessioni ed di acquisto – D.P.R. n. 441 del 10 novembre 1997. Infatti, l’art. 1, comma 2, lett. a), stabilisce che la presunzione di cessione non opera se è dimostrato che i beni stessi “sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti”. Si ritiene infatti che nel concetto di beni distrutti possa essere compreso il calo della merce, calo che avviene per questioni naturali ed indipendenti dalla volontà del soggetto passivo.
Si può, quindi, ritenere che per il calcolo della base imponibile, previsto dall’art. 50-bis, comma 6, del D.L. 331 del 1993, l’istante possa riferirsi alle quantità effettivamente estratte dal deposito, a condizione che il calcolo delle stesse risulti basato su criteri oggettivi e riscontrabili.
10. IL SOGGETTO DEPOSITARIO
Il depositario si occupa, tra l’altro, della gestione contabile dei beni, per cui, anteriormente alla prima operazione di introduzione, è obbligato ad istituire, ai sensi dell’art. 50-bis, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993, un apposito registro, tenuto e conservato a norma dell’art. 39 del D.P.R. n. 633 del 1972.
Il registro deve contenere, giusta quanto previsto dal decreto n. 419 del 1997, l’indicazione:
– del numero e della specie dei colli;
– della natura, qualità e quantità dei beni;
– del corrispettivo o, in mancanza, del valore normale dei beni;
– del luogo di provenienza dei beni di volta in volta introdotti e di destinazione di quelli estratti;
– del soggetto proprietario dei beni per conto del quale l’introduzione o l’estrazione degli stessi è effettuata.
Inoltre il gestore è tenuto a conservare un esemplare dei documenti di introduzione o estrazione, nonché di quelli che attestano gli scambi eventualmente avvenuti e le prestazioni rese nel periodo della giacenza dei beni nel deposito.
Ovviamente, la contabilità può essere gestita anche con sistemi informatici.
Il gestore, oltre a rispondere in proprio per gravi e ripetute violazioni nella gestione della contabilità o nei casi di condanna per reati finanziari, risponde in solido con il soggetto d’imposta per il mancato o irregolare assolvimento dell’IVA, se dovuta, all’atto dell’estrazione dei beni, salvo che possa dimostrare la legittimità del proprio operato (cfr. 50-bis, comma 8) .
Con riferimento all’attribuzione della responsabilità al gestore nella ipotesi di mancato pagamento dell’IVA, si è espressa la Corte di Giustizia Ue nella sentenza 21 dicembre 2011, C-499/10.
In tale contesto i giudici comunitari hanno sostenuto che la circostanza che il soggetto diverso dal debitore dell’imposta abbia agito in buona fede utilizzando tutta la diligenza di un operatore avveduto, che abbia adottato tutte le misure ragionevoli in suo potere e che sia esclusa la sua partecipazione a un’evasione costituiscono elementi da prendere in considerazione per determinare la possibilità di obbligare in solido tale soggetto a versare l’IVA dovuta. Di conseguenza, sarebbe contraria ai principi comunitari (art. 21, comma 3, della direttiva 366/77/CEE, recepito nell’art. 205 della direttiva 2006/112/CE) una norma nazionale che attribuisse al gestore di un deposito diverso dal deposito doganale la responsabilità in solido per il pagamento dell’IVA dovuta per una fornitura di merci provenienti da tale deposito, effettuata a titolo oneroso dal proprietario delle stesse merci assoggettato a tale imposta, anche qualora il predetto gestore del deposito sia in buona fede o non sia possibile addebitargli alcuna colpa o negligenza.
Seguendo le indicazioni della Corte di Giustizia Ue, sarà opportuno che il depositario si munisca di prova idonea a dimostrare il regolare assolvimento dell’imposta (ad es. copia del documento contabile contenente l’esposizione dell’IVA dovuta). In particolare deve assicurarsi che la base imponibile indicata nel documento di estrazione comprenda anche i corrispettivi relativi alle prestazioni di servizio (compresa la custodia) eventualmente rese sui beni nel periodo di giacenza nel deposito (cfr art. 50 bis, comma 5), se territorialmente rilevanti.
Il depositario, oltre alle previsioni contabili e amministrative connesse con la gestione dei beni in giacenza, svolge anche le funzioni di rappresentante fiscale dei soggetti non residenti non identificati ai fini IVA in Italia per le operazioni relative ai beni in deposito.
In particolare, l’art. 50-bis, comma 7, del D.L. n. 331 del 1993, che contiene un rinvio all’art. 44, comma 3, del medesimo decreto, prevede che il gestore del deposito IVA, ai fini dell’adempimento degli obblighi tributari di un soggetto non residente che intende introdurre merci nel deposito stesso, assume la veste di rappresentante fiscale con obblighi ridotti (c.d. “rappresentante fiscale leggero”). In tale fattispecie il “rappresentante fiscale leggero” si limita all’esecuzione degli obblighi di fatturazione e di compilazione degli elenchi riepilogativi delle operazioni intracomunitarie e, comunque, di ogni operazione che non comporta il pagamento dell’imposta.
Tenuto conto che la disposizione in esame risponde all’esigenza di semplificare gli adempimenti di contribuenti non residenti in relazione ad operazioni per le quali non sorge nell’immediato un debito di imposta, è opportuno precisare che la medesima trova applicazione non solo in relazione alle “operazioni intracomunitarie” in senso stretto, ma a tutte le operazioni relative a beni che transitano nel deposito.
Infatti, il comma 7 dell’art. 50-bis dispone che “nei limiti di cui all’art. 44, comma 3, secondo periodo, i gestori dei depositi I.V.A. assumono la veste di rappresentanti fiscali ai fini dell’adempimento degli obblighi tributari afferenti le operazioni concernenti i beni introdotti negli stessi depositi qualora i soggetti non residenti, parti di operazioni di cui al comma 4, non abbiano nominato un rappresentante fiscale (…).
Pertanto, il sopra citato art. 50-bis, comma 7 fa riferimento, senza esclusioni, a tutte le operazioni relative a beni “introdotti” nei depositi di cui al comma 4 del medesimo articolo. Tra queste rientrano anche le operazioni di importazione, esportazione, nonché quelle relative a beni giacenti nel deposito stesso. Il predetto rinvio, quindi, consente di superare l’apparente limitazione dell’art. 44, commi 1 e 3, del D.L. n. 331 del 1993, ai sensi del quale si potrebbe ritenere che l’istituto della rappresentanza c.d. “leggera” sia limitato alle sole operazioni intracomunitarie. L’istituto previsto dall’art. 44, comma 3, del D.L. n. 331 del 1993, in mancanza di una preclusione espressa nella norma, può essere utilizzato anche da soggetti residenti in Paesi terzi.
L’assunzione della “rappresentanza limitata”, come disposto testualmente dall’art. art. 50-bis, comma 7, del D.L. n. 331 del 1993, è automatica, salvo che il soggetto non residente provveda a nominare un terzo quale proprio rappresentante, secondo le modalità previste dall’art. 1, comma 4, del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441 ovvero si sia identificato ai sensi dell’art. 35-ter del D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
Nel caso in cui il soggetto non residente disponga già di un proprio numero di Partita IVA, sarà tenuto a comunicarlo al depositario all’atto dell’introduzione dei beni nel deposito stesso.
L’assunzione della suddetta rappresentanza “limitata” può essere espletata da parte del depositario mediante la richiesta di un numero di Partita IVA unico per tutti i soggetti passivi d’imposta non residenti rappresentati (art. 50-bis, comma 7).
La rappresentanza “limitata”, applicabile per tutte le operazioni non imponibili, esenti, non soggette o comunque senza obbligo di pagamento dell’imposta, effettuate in Italia dal soggetto non residente, viene meno al compimento della prima operazione attiva o passiva che comporta il pagamento o il recupero dell’imposta, con il conseguente obbligo per l’operatore interessato di provvedere alla propria identificazione nel territorio dello Stato (nomina del rappresentante fiscale o identificazione diretta a norma dell’art. 35-ter, del D.P.R. n. 633 del 1972).
Di tale ultima circostanza i gestori dei depositi presso i quali i beni sono stati introdotti devono venire immediatamente a conoscenza per evitare un’interferenza di attività con il rappresentante fiscale o con la identificazione diretta del soggetto non residente, nominato secondo le modalità ed i termini di cui all’art. 17, terzo comma, del D.P.R. n. 633 del 1972 ed all’art. 1, comma 4, del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 441.
Come precisato nella circolare del 21 ottobre 2010, n. 53[1], par. 2, si rammenta che, “coerentemente con la finalità di monitorare tutte le operazioni intercorse con operatori economici stabiliti nei paradisi fiscali, il riferimento all’acquisto e alla cessione di beni contenuto nella normativa in commento (art. 1 del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40, convertito dalla legge 22 maggio 2010, n. 73) deve intendersi comprensivo anche delle operazioni di acquisto e di cessione effettuate con operatori economici aventi sede, residenza o domicilio in Paesi posti al di fuori del territorio della Comunità Europea e, dunque, anche alle importazioni e alle esportazioni. L’obbligo di segnalazione sussiste anche nel caso in cui l’esportazione dei beni sia preceduta dalla custodia degli stessi presso un “deposito IVA” ai sensi dell’art. 50-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, ovvero nel caso in cui l’importazione dei beni sia seguita dall’introduzione degli stessi in un “deposito IVA”.
11. CONTROLLO SULLA GESTIONE DEI DEPOSITI
Il controllo sulla gestione dei depositi IVA soggetti a preventiva autorizzazione è demandato alla competente Direzione Provinciale dell’Agenzia delle entrate ovvero, previa intesa con la suddetta Direzione, anche ai Comandi della Guardia di Finanza competenti per territorio.
Per i depositi doganali e fiscali adibiti dal contribuente anche a deposito IVA, invece, il controllo continua ad essere esercitato dai competenti Uffici territoriali dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, ferma restando, anche in questo caso, la possibilità degli Uffici locali delle entrate e dei Comandi della Guardia di Finanza di effettuare, previa intesa con i suddetti Uffici, controlli relativi alla correttezza delle operazioni afferenti i beni custoditi in deposito IVA.
12. IRREGOLARE INTRODUZIONE DEI BENI IN DEPOSITO – CORTE DI GIUSTIZIA CAUSA C-272/13 DEL 17 LUGLIO 2014
12.1 Introduzione virtuale. Nella sentenza del 17 luglio 2014, causa C-272/13, la Corte si è espressa circa i requisiti previsti dalla normativa comunitaria (art. 16, par. 1, della direttiva 77/388/Ce – Sesta direttiva – corrispondenti agli articoli 154 e 157 della direttiva 2006/112/CE), in relazione alla corretta applicazione del regime dei depositi IVA.
In particolare, l’Organo giurisdizionale si è pronunciato in merito alle ipotesi di merci introdotte nel deposito non fisicamente, ma soltanto virtualmente, vale a dire mediante la loro iscrizione nel registro di magazzino del depositario, affermando il seguente principio “ L’articolo 16, paragrafo 1, della sesta direttiva (artt. 154 e 157 della direttiva 112/2006), che consente di non applicare l’imposta all’importazione per i beni destinati ad un deposito IVA costituisce una disposizione derogatoria che come tale deve essere interpretato restrittivamente”.
Nel dare attuazione a tale disposizione nell’ordinamento interno gli Stati, per garantire l’esatta riscossione dell’IVA, possono determinare le formalità che il soggetto passivo deve adempiere al fine di potersi avvalere del beneficio; pertanto, a parere della Corte, una norma come quella introdotta nell’ordinamento nazionale, che condiziona il beneficio all’obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito IVA, è conforme alla direttiva, in quanto costituisce atto idoneo a garantire la corretta riscossione dell’imposta.
Secondo la Corte di Giustizia, la mancata osservanza di tale obbligo, qualificato come adempimento di carattere formale, comporta che l’IVA, che nel caso di specie avrebbe dovuto essere versata al momento dell’importazione, se è assolta, all’atto dell’estrazione dei beni dal deposito, mediante il meccanismo dell’inversione contabile, costituisce un pagamento tardivo dell’imposta. Secondo una giurisprudenza costante della Corte, in mancanza di un tentativo di frode, tale violazione ha carattere formale e non può rimettere in discussione il diritto alla detrazione del soggetto passivo.
Sul punto specifico la scrivente ritiene che, in ottemperanza ai principi espressi dalla Corte di Giustizia, nei casi analoghi in fatto e in diritto a quello esaminato, non si debba procedere alla richiesta dell’imposta già assolta mediante reverse charge, a condizione, da accertare caso per caso, che non sussista evasione o tentativo di evasione.
12.2 Aspetti sanzionatori. Con riferimento all’aspetto sanzionatorio, la Corte ritiene che, in assenza di frode, la violazione dell’obbligo di introduzione fisica dei beni nel deposito e l’assolvimento dell’imposta mediante reverse charge, al momento dell’estrazione contabile del bene, e non invece in dogana, concretizzi una violazione di natura formale, consistente nel tardivo versamento dell’imposta.
La sanzione consistente nella maggiorazione del 30 per cento dell’imposta, secondo la sentenza in commento, risulterebbe contraria al principio di proporzionalità, in quanto sarebbe applicata in misura fissa, senza un criterio di gradazione.
In proposito, si fa presente che la norma che sanziona i ritardi nei versamenti d’imposta è recata dall’articolo 13 del Dlgs. 18 dicembre 1997, n. 471. Il comma 1 di tale articolo stabilisce che “chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti (dell’IVA) … è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile. Per i versamenti effettuati con un ritardo non superiore a quindici giorni, la sanzione di cui al primo periodo, oltre a quanto previsto dal comma 1 dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, è ulteriormente ridotta ad un importo pari ad un quindicesimo per ciascun giorno di ritardo …”.
Ad avviso della scrivente, la norma consente una gradazione della misura della sanzione nell’ipotesi in cui il comportamento del soggetto passivo non sia considerato grave, condizione che si verifica nel caso in cui il ritardo nel pagamento non sia superiore a quindici giorni.
Inoltre, anche ai casi di tardivo o omesso versamento risulta applicabile l’istituto del ravvedimento operoso (art. 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 da ultimo modificato dall’art. 1, comma 637, della Legge di Stabilità 2015) che consente, a seguito di adeguamento spontaneo del contribuente, una ulteriore riduzione della sanzione al verificarsi di determinate condizioni. Nel caso di specie si ritiene che possa essere assunto quale dies ad quem quello in cui risulta annotata, nei registri contabili, l’autofattura emessa ai sensi del citato articolo 50 bis, comma 6, relativamente all’“estrazione” dei beni dal deposito IVA, mutuando sul punto le indicazioni fornite dalla Agenzia delle Dogane con la circolare n. 16/D del 20 ottobre 2014[2].
Si precisa, inoltre, che la competenza ad irrogare la sanzione de qua è dell’Agenzia delle Dogane poiché essa consegue al ritardato o omesso versamento dell’IVA esigibile in dogana al momento dell’effettuazione di una importazione di beni (cfr. art. 70 del DPR n. 633 del 1972)”.
NOTE:
- L’art . 99, comma 2-bis, del D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, introdotto dall’art. 6, comma 3-bis, del D.L. 9 febbraio 2012 n. 5 e modificato dall’art. 6, comma 1, del D.lgs. 15 novembre 2012, n. 218, prevede che “Fino all’attivazione della banca dati, e comunque non oltre dodici mesi dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del primo dei regolamenti di cui al comma 1, i soggetti di cui all’articolo 83, commi 1 e 2, acquisiscono d’ufficio tramite le prefetture la documentazione antimafia. A tali fini, le prefetture utilizzano il collegamento informatico al Centro elaborazione dati di cui all’articolo 8 della legge 1 aprile 1981, n. 121, al fine di verificare la sussistenza di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all’articolo 84, comma 4, e all’articolo 91, comma 6, nonché i collegamenti informatici o telematici, attivati in attuazione del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252. In ogni caso, si osservano per il rilascio della documentazione antimafia i termini di cui agli articoli 88 e 92”.
[1] In Boll. Trib. On-line.
[2] In Boll. Trib., 2010, 1244.
[3] Circ. 21 giugno 2011, n. 28/E, in Boll. Trib., 2011, 1025.
[4] Circ. 13 marzo 2009, n. 8/E, in Boll. Trib., 2009, 453.
[1] In Boll. Trib., 1998, 1132.
[2] In Boll. Trib. On-line.
[3] In Boll. Trib. On-line.
[4] In Boll. Trib., 1994, 377.
[5] In Boll. Trib., 1998, 106.
[6] In Boll. Trib. On-line.
[7] In Boll. Trib. On-line.
[8] In Boll. Trib., 2010, 983.