8 Novembre, 2016

SOMMARIO: 1. OSSERVAZIONI GENERALI – 2. SOGGETTI PROVENIENTI DA PAESI WHITE LIST; 2.1 Il criterio del valore normale; 2.2 La determinazione del valore normale e i suoi effetti; 2.3 L’acquisizione della residenza fiscale in Italia – 3. TRASFERIMENTI DA STATI NON WHITE LIST.

1. OSSERVAZIONI GENERALI

1. “Trasferimento della residenza nel territorio dello Stato” è il titolo del nuovo art. 166-bis del TUIR (introdotto dall’art. 12 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147) il cui primo comma reca la disciplina della valutazione (come criterio generale, applicazione del valore normale) dei beni che entrano per la prima volta nella potestà impositiva italiana a seguito del trasferimento della residenza in Italia delle imprese commerciali.
Anche l’art. 166, per il trasferimento in senso contrario, cioè dall’Italia all’estero, parla di “Trasferimento della residenza”. Esiste però una notevole differenza dei presupposti per perdere la residenza fiscale in Italia (di cui si occupa l’art. 166) e per acquisire le residenza in Italia (art. 166-bis). Ciò vale sia per le persone fisiche sia per le società. Per entrambi i tipi di soggetti sono previsti tre elementi costitutivi della residenza fiscale. Essi sono però alternativi per cui basta la presenza di uno solo per far acquisire al soggetto la residenza fiscale in Italia (per le società: sede legale o sede dell’amministrazione o oggetto principale dell’attività).
Per la perdita della residenza fiscale occorre invece che vengano trasferiti all’estero tutti i tre elementi alternativi costitutivi della residenza. Nel caso della società, quindi, la sede legale, la sede dell’amministrazione e l’oggetto principale. Se uno di tali elementi rimane in Italia la società continua ad essere residente in Italia (almeno in base alla legislazione nazionale).
L’acquisizione della residenza fiscale in Italia (a seguito di un trasferimento della stessa dall’estero) di cui si occupa l’art. 166-bis può avvenire, invece, in base a uno solo dei predetti elementi (ad esempio, solo la sede legale o solo la sede dell’amministrazione) con la possibile conseguenza che il soggetto rimane ancora residente nel suo Paese di origine (almeno in base alla legislazione nazionale di quel Paese), dando luogo così ad una doppia residenza, problema che può essere risolto solo nell’ambito di un trattato contro le doppie imposizioni con l’attribuzione della residenza fiscale, ai fini del trattato, ad uno solo dei due Stati.

2. Il ritardo con cui il legislatore italiano ha introdotto per la prima volta una disciplina normativa (1) di valorizzazione d’ingresso dei beni nel caso di trasferimento della residenza dall’estero verso l’Italia (in confronto alla disciplina per il trasferimento della residenza dall’Italia all’estero, avvenuta per la prima volta già nel lontano 1995) (2) è facilmente spiegabile: perché nel caso del trasferimento all’estero il fisco rischia di perdere materia imponibile mentre nel primo acquisisce materia imponibile per il futuro. L’altro motivo sta probabilmente in un minore “interesse” alla materia da parte della giurisprudenza comunitaria per l’acquisizione della residenza fiscale nello Stato di destinazione, con conseguente minore “pressione” e minore “monitoraggio” da parte degli organi della Comunità sul trattamento fiscale adottato dallo Stato di arrivo.

3. Esaminando la disciplina introdotta dall’art. 166-bis si possono fare le seguenti considerazioni preliminari:
a) a differenza della disciplina dell’art. 166 che regola, oltre al trasferimento della sede, il trasferimento di beni anche non connessi con il trasferimento della sede (ad esempio, beni di una stabile organizzazione o la stessa stabile organizzazione), la disciplina dell’art. 166-bis sulla valorizzazione dei beni in entrata si applica solo nel caso di trasferimento/acquisizione della residenza fiscale (e non anche al semplice trasferimento di un bene dall’estero all’Italia, cioè senza che il soggetto a cui appartiene tale bene acquisisca la residenza).
Ciò si ricava dal testo letterale della norma che recita (primo comma dell’art. 166-bis): «I soggetti che esercitano imprese commerciali provenienti da stati o territori inclusi … che, trasferendosi nel territorio dello Stato, acquisiscono la residenza ai fini delle imposte sui redditi assumono quale valore fiscale delle attività e della passività il valore normale»;
b) La nuova disciplina di valorizzazione d’ingresso si applica, quindi, solo in caso di acquisizione della residenza in Italia a seguito di un trasferimento dall’estero della stessa e ai seguenti beni del soggetto trasferitosi in Italia:
• beni che si trovano nello Stato di provenienza del soggetto, che dopo il trasferimento in Italia possono rappresentare o meno una stabile organizzazione rimasta nello Stato di provenienza. Quindi non è necessario che i beni entrino fisicamente nel territorio italiano, basta che entrino nel regime fiscale del reddito d’impresa in Italia (per effetto dell’acquisizione della residenza del soggetto);
• beni isolati o costituenti una stabile organizzazione situati in uno Stato terzo rispetto allo Stato di provenienza e rispetto all’Italia.
Si può concludere, quindi, che la disciplina si applica ai beni posseduti dal soggetto ovunque essi si trovino (ad esclusione dell’Italia, come si vedrà oltre) e a prescindere dall’ingresso fisico degli stessi in Italia.
L’evento rilevante è che tali beni entrino nella sfera del reddito d’impresa italiano, ma solo se ciò avviene per effetto del trasferimento della residenza del soggetto dall’estero verso l’Italia;
c) Di conseguenza, la nuova disciplina dell’art. 166-bis non dovrebbe applicarsi:
• ai beni (isolati o come elementi costitutivi di una stabile organizzazione) che si trovano già in Italia (o comunque già soggetti alla potestà impositiva italiana, come per esempio la partecipazione in una società italiana) prima dell’acquisizione della residenza fiscale in Italia. Tali beni, infatti, hanno già una “storia fiscale italiana” che continua anche dopo il trasferimento del soggetto titolare in Italia;
• ai beni che entrano sì per la prima volta nel regime fiscale italiano, però il soggetto titolare di tali beni non trasferisce la sua residenza in Italia (ad esempio, una società estera conferisce una partecipazione estera a una società italiana o trasferisce beni ad una stabile organizzazione italiana);
• ai beni che entrano sì per la prima volta (direttamente) nel regime fiscale italiano per effetto di un’operazione di riorganizzazione intracomunitaria o internazionale (ad esempio, una società italiana incorpora una società estera i cui beni, dopo la fusione, sono posseduti direttamente dalla società incorporante italiana oppure una società estera viene scissa parzialmente o totalmente a favore di una società italiana). Mentre per le operazioni straordinarie “in uscita” (per le quali l’ipotesi di realizzo delle plusvalenze è identica a quella del trasferimento della sede all’estero – vale a dire per i beni non confluiti in una stabile organizzazione) è condivisibile il riconoscimento, fatto dal legislatore delegato con l’art. 11 del D.Lgs. n. 147/2015, del tax deferral previsto per il trasferimento della sede anche alle operazioni straordinarie indicate, per le operazioni straordinarie “in entrata” la situazione è, invece, ben diversa e ciò anche se (per esempio nel caso di una fusione per incorporazione di una società estera in una società italiana) dopo la fusione il bene della società fusa non confluisce in una stabile organizzazione all’estero (della società italiana incorporante) ed “entra” nella sfera impositiva italiana. Ma soprattutto, nell’operazione straordinaria “in entrata” descritta prima manca il requisito dell’acquisizione della residenza fiscale italiana del soggetto estero cui appartengono i beni (sono solo i beni che direttamente entrano per la prima volta nel regime del reddito d’impresa italiano). Si può quindi concludere che a differenza di quanto avviene per l’art. 166, la cui disciplina si applica anche alle operazioni straordinarie in uscita, la disciplina dell’art. 166-bis non è applicabile invece alle stesse operazioni straordinarie “in entrata” (3);
d) dopo avere identificato alcuni casi in cui il primo comma dell’art. 166-bis letteralmente non può trovare applicazione dal punto di vista oggettivo oppure così come quei casi in cui l’art. 166-bis non può trovare applicazione per mancanza del requisito soggettivo (persona fisica non imprenditore che trasferendo la sua residenza in Italia “porta con sé” beni esteri che possano dar luogo nel futuro a una plusvalenza tassabile in Italia), è necessario interrogarsi sul trattamento fiscale di tali beni (“esclusi” dalla disciplina dell’art. 166-bis) al loro ingresso nella potestà impositiva italiana.
Si applica, in tali casi, la tesi ministeriale del passato (4) in base alla quale veniva considerato il costo storico nell’ipotesi di trasferimenti in continuità giuridica (per le società) e in assenza di una exit tax nel Paese di partenza o il valore normale nel caso della discontinuità giuridica o anche in continuità giuridica ma con l’applicazione dell’exit tax nel Paese di partenza?
Essendo il principio scelto dal legislatore (quello del valore normale) di validità generale non si vede perché tale principio non dovrebbe valere anche per il trasferimento della residenza fiscale in Italia di una persona fisica non imprenditore (5). Diverso è il caso in cui la fattispecie non rientra oggettivamente nell’art. 166-bis (perché manca il trasferimento della residenza dall’estero all’Italia), ma il bene entra comunque nella potestà impositiva italiana (6) oppure quando il “valore d’ingresso” è già disciplinato da altre norme. Questo, per esempio, è il caso della fusione di una società estera in una società italiana dove l’art. 172, secondo comma, del TUIR, precisa che «i beni ricevuti sono valutati fiscalmente in base all’ultimo valore fiscalmente riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi». Visto che l’art. 172 viene richiamato in toto dall’art. 179 sulle operazioni straordinarie, i beni ricevuti dalla società italiana a seguito della fusione per incorporazione di una società estera non hanno un valore fiscale ai fini delle imposte sui redditi italiani per cui è lecito presumere che il legislatore abbia voluto riferirsi ai valori fiscali dei beni nello Stato dell’incorporata. Se questa interpretazione è giusta, la norma prevederebbe un regime di continuità dei valori (per cui sarebbe comunque preclusa l’applicazione del valore normale di cui all’art. 166-bis);
e) un’altra differenza rispetto alla disciplina dell’art. 166 [tax deferral nel caso del trasferimento della sede (residenza) dall’Italia all’estero] è la seguente: mentre nel caso del trasferimento della sede all’estero il tax deferral parrebbe operare solo se il trasferimento avviene in continuità giuridica della società (7), per il trasferimento della sede dall’estero all’Italia, la disciplina di cui all’art. 166-bis si applica sia nel caso della continuità giuridica sia nel caso della discontinuità con conseguente neo-costituzione della società italiana. Tale aspetto avrà rilevanza invece per il momento dell’acquisizione della residenza fiscale della società in Italia (8);
f) esiste poi un problema comune – purtroppo non risolto dal legislatore delegato (anche se la delega riguardava anche questo aspetto) – al trasferimento della residenza in entrambi i sensi (in uscita e in entrata): quello dell’acquisto e della perdita della residenza fiscale non sulla base di un evento puntuale ma sulla base di un elemento temporale (parte maggiore o minore del periodo d’imposta). Non essendo stata modificata la disciplina della residenza, essa comporta per l’acquisizione della residenza gli stessi problemi – anche se con effetti speculari – come nel caso del trasferimento della sede all’estero (perdita della residenza), efficacemente descritti dall’Assonime (9);
g) L’art. 166-bis prevede, come principio, la valorizzazione al valore normale, distinguendo però tra soggetti provenienti da Stati inclusi nella white list (di cui al D.Lgs. 1° aprile 1996, n. 239) e soggetti provenienti da Stati diversi. Nel primo caso (primo comma) il valore normale è la regola generale mentre nel secondo caso (secondo comma) tale regola è subordinata ad un accordo preventivo (in tal senso) di cui al nuovo art. 31-ter del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. In mancanza di un simile accordo, il valore normale deve comunque essere determinato ma il valore da applicare in concreto è – per le attività – il minore tra il costo d’acquisto, il valore di bilancio e il valore normale e – per le passività – il maggiore tra questi valori.

2. SOGGETTI PROVENIENTI DA PAESI WHITE LIST

2.1 Il criterio del valore normale

Il nuovo art. 166-bis prevede al primo comma come criterio generale – le eccezioni sono contenute nel secondo comma – il valore normale ai sensi dell’art. 9 del TUIR per la valutazione fiscale dei beni entrati per la prima volta nella sfera del reddito d’impresa a seguito del trasferimento della residenza in Italia. Ciò vale indipendentemente dal fatto che il Paese di provenienza del soggetto (o un altro Paese in cui si trovano certi beni) abbia applicato o meno una exit tax al momento del trasferimento della residenza da quel Paese. Non rileva se all’estero è stata applicata una exit tax con concessione o meno della sospensione dell’imposta; come non rilevano i valori che lo Stato estero ha preso a base dell’eventuale exit tax. Ininfluente ancora – per i Paesi di provenienza per i quali si applica il regime del valore normale – è il livello di tassazione al quale la persona fisica o società era soggetta nello Stato estero e quindi anche se la società estera era considerata una CFC non black list. Ciò si ricava proprio dal riferimento all’elenco degli Stati e territori che consentono un adeguato scambio di informazioni [tale elenco è aggiornato con scadenza semestrale come viene previsto dall’art. 10, secondo comma, lett. b), del D.Lgs. n. 147/2015]. Per questi Paesi il livello di tassazione non ha alcuna rilevanza.
Se consideriamo (i) la posizione dell’Amministrazione finanziaria italiana nel passato (caratterizzata soprattutto dalla preoccupazione di un salto d’imposta) (10), (ii) le scelte di qualche Paese estero a tale riguardo e (iii) l’orientamento della Commissione europea (11) e della Corte di Giustizia europea (12) possiamo qualificare la scelta del legislatore italiano come scelta giusta e coerente e, nello stesso tempo, anche coraggiosa. Giusta e coerente, perché rispetta la ripartizione della materia imponibile tra gli Stati (sancito proprio dalla Corte di Giustizia europea nel senso di una corretta ripartizione dei diritti impositivi tra gli Stati membri, ripartizione che è legata ad una componente temporale, cioè la residenza fiscale sul territorio nazionale durante il periodo in cui le plusvalenze sono maturate). L’Italia tasserà quindi solo le plusvalenze che si formeranno a partire dall’ingresso del bene nella sua potestà impositiva. La valorizzazione del bene al valore normale al momento del suo ingresso nella sfera fiscale italiana esclude proprio quello che tanti temevano: la cosiddetta “importazione delle perdite”.
È coraggiosa perché eleva tale valutazione a un principio che vale – salvo le eccezioni di cui al secondo comma – nei confronti dei soggetti residenti in qualsiasi parte del mondo (UE, SEE, altri Stati) che trasferiscono la loro residenza in Italia (13). È coraggiosa anche perché non ha seguito i consigli di coloro che avevano lanciato una “crociata” contro il “salto d’imposta” (se all’estero non si paga l’exit tax). L’Italia non ha il ruolo di un “fisco mondiale”, per cui deve essere più forte il principio della tassazione delle sole plusvalenze che maturano durante la residenza fiscale in Italia che uno strano senso di “giustizia fiscale” di volere tassare anche quello che era di competenza di un altro Stato (ma che quest’ultimo non ha tassato).
Ma il beneficio di “partire” in Italia con il valore normale (magari senza avere pagato all’estero le imposte su tale valore) è proprio un “(tax) free lunch” definitivo, in Italia o in generale (14)?
Se ripercorriamo l’elenco dei beni ai quali, in caso di acquisizione della residenza in Italia, si applica la disciplina del valore normale dobbiamo esaminare i possibili sviluppi futuri nella tassazione di tali beni all’estero e in Italia, per potere rispondere alla domanda del “free lunch”.
Prendiamo il seguente esempio: la società estera dello Stato A, che trasferisce la residenza fiscale in Italia, possiede una stabile organizzazione nello Stato estero B. Lo Stato A, al momento del trasferimento della residenza, per esempio, tassa (al valore normale) la plusvalenza relativa a tale stabile organizzazione (in forma di exit tax o in altre forme), subito o dopo la sospensione per un certo tempo (15). In Italia tale stabile organizzazione (che la società trasferitasi in Italia “porta con sé”) entra nella sfera impositiva italiana al valore normale (che consideriamo identico a quello determinato dal fisco dello Stato A). Lo Stato B invece continua con la tassazione corrente dell’utile in base ai valori fiscali riconosciuti (valori di libro). Tralasciando il problema nascente in Italia per gli utili correnti della stabile organizzazione – le differenze nella determinazione dell’utile del periodo e quindi delle imposte che possono eventualmente essere recuperate nel tempo in base al riporto in avanti e indietro delle eccedenze di imposte (16) – si esamina il problema di una futura cessione della stabile organizzazione nello Stato B della società, ormai diventata italiana. Nel Paese B la plusvalenza, calcolata sui valori fiscali storici potrebbe essere anche di molto più alta di quella determinata dalla legge italiana (che tiene conto del valore normale d’ingresso come “costo fiscalmente riconosciuto”).
Quindi, dal punto di vista italiano il valore normale si è tradotto in un vero beneficio per la società. Però la società paga un’imposta (sulla plusvalenza della stabile organizzazione) allo Stato estero B, pagando con ciò praticamente il “ticket” della valutazione al valore normale, effettuata in Italia. Per lo Stato italiano (e anche per il contribuente) nulla cambierebbe se avesse applicato al momento dell’ingresso in Italia della società estera il valore fiscale storico della stabile organizzazione estera: salvo le differenze nella determinazione dell’imponibile, in tal caso sarebbe nata anche in Italia una plusvalenza più alta relativa a tale stabile organizzazione nello Stato B, ma dall’imposta italiana così determinata si sarebbe potuto dedurre l’imposta dello Stato B come credito d’imposta.
Altro esempio: la società estera (dello Stato A), trasferendosi in Italia “lascia” nel suo Paese di provenienza una stabile organizzazione. Lo Stato A non prevede alcun realizzo perché tutti i beni prima appartenenti alla società, dopo il suo trasferimento, si trovano ancora in una stabile organizzazione in quel Paese.
In Italia, al momento della costituzione della residenza fiscale in Italia, la stabile organizzazione nello Stato A della (ormai) società italiana viene assunta, ai fini fiscali italiani, al valore normale. Anche in questo caso, pur potendo in Italia rivalutare (senza onere fiscale) i beni della stabile organizzazione del Paese A, tale beneficio può essere annullato nel futuro, con un pagamento d’imposta, però non allo Stato italiano, ma allo Stato estero.
Gli effetti si verificano su due fronti:
– sull’utile corrente della stabile organizzazione (prendendo a base, all’estero, i valori fiscali storici, in Italia i valori rivalutati): in sostanza non vi sarà alcun effetto positivo dalla rivalutazione perché all’estero si paga comunque l’imposta su un utile che non tiene conto di tale “rivalutazione”;
– sulla plusvalenza in caso di cessione futura della stabile organizzazione: in tal caso la plusvalenza determinata dal Paese estero sulla base dei valori fiscali storici della stabile organizzazione sarà superiore a quella determinata sulla base dei valori italiani. Anche in tale caso la rivalutazione fatta in Italia serve solo ai fini della determinazione della plusvalenza in base alla legge italiana, ma all’estero nella determinazione della plusvalenza, da tassare, non si tiene conto di tale rivalutazione. Con ciò la rivalutazione viene tassata in capo al soggetto, anche se le imposte vanno a favore dell’altro Stato (estero). Per cui: “There is no free lunch” (salvo l’eventuale utilizzo dell’eccedenza dell’imposta estera rispetto all’imposta italiana nell’ambito del sesto comma dell’art. 165 del TUIR).

2.2 La determinazione del valore normale e i suoi effetti

La norma (art. 166-bis, primo comma) fa riferimento al valore normale da determinarsi ai sensi dell’art. 9 del TUIR.
Nel caso inverso (trasferimento all’estero) il decreto attuativo lascia intendere che, per la determinazione della plusvalenza, l’art. 9 deve essere interpretato secondo il principio dell’arm’s length descritto dettagliatamente nel Rapporto OCSE 2010 sul transfer price.
Già con riferimento alla valutazione dei componenti di reddito di cui all’art. 110, settimo comma, del TUIR, l’applicazione “tel quel” del Rapporto OCSE presenta notevoli problemi di incompatibilità sia con la norma stessa del settimo comma che con la definizione di valore normale ai sensi dell’art. 9. L’applicazione del principio at arm’s length, come è definito, con i diversi metodi, dal Rapporto OCSE 2010, si presenta ancora più critico nel caso in esame perché non esiste alcuna cessione o alcun trasferimento di beni, e perché si dovrebbe far riferimento alle condizioni che «si sarebbero verificate tra imprese indipendenti in transazioni comparabili e in circostanze comparabili», etc. Quindi bisognerebbe andare alla ricerca di altre società che hanno trasferito la residenza in Italia?
Il valore normale determinato dalla società diventata italiana sarà oggetto di verifica da parte del fisco. Per evitare il rischio di una contestazione da parte del fisco non rimane che ricorrere al ruling di cui all’art. 31-ter del D.P.R. n. 600/1973 creandosi così la stessa situazione come nel caso di un trasferimento da un Paese non white list.
Una volta stabilito il valore normale esso deve valere come costo fiscale a tutti i fini tributari (ammortamenti, svalutazioni, plusvalenze, tutti gli altri casi in cui la base imponibile è costituita dalla differenza tra elemento positivo di reddito e relativo costo fiscale).
Il valore normale, inteso come “costo fiscale” per il futuro, vale a prescindere dall’iscrizione del bene in bilancio dello stesso e a prescindere dall’iscrizione in bilancio del maggior valore risultante; quindi si avrà il classico doppio binario per cui dovrebbe essere precisato che gli ammortamenti, le svalutazioni e le perdite sui maggior valori (rispetto a quelli di bilancio) sono deducibili anche senza imputazione al conto economico degli stessi, attraverso semplici variazioni in diminuzione in dichiarazione dei redditi. E tutto ciò deve valere sia nel caso in cui il trasferimento della sede avviene in continuità giuridica o in discontinuità.

2.3 L’acquisizione della residenza fiscale in Italia

Per descrivere i problemi connessi al momento dell’acquisizione della residenza, l’analisi viene limitata alle società che, come è noto, si considerano fiscalmente residenti in Italia (ai sensi dell’art. 73 del TUIR) se per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Il problema nasce proprio per effetto dell’elemento temporale, cioè l’acquisizione della residenza (o la perdita della stessa) non è collegato ad un evento puntuale ma alla permanenza – per la parte maggiore (o la minore) del periodo d’imposta – dei criteri di collegamento con il territorio indicati nell’art. 73 citato.
Tale particolarità – come si è detto, non modificata dal Decreto delegato – crea dei problemi sostanziali e applicativi maggiori nel caso del trasferimento della residenza dall’Italia all’estero (17) ma anche nel caso in esame (trasferimento dall’estero in Italia), dal punto di vista civilistico il trasferimento della sede in Italia individua un evento puntuale mentre per l’acquisto della residenza ci vuole la permanenza di uno dei criteri di collegamento con il territorio dello Stato per la parte maggiore del periodo d’imposta (che per le società corrisponde all’esercizio sociale). La risoluzione n. 9/E/2006 (18) contiene a tale proposito delle importanti precisazioni. A prescindere dai criteri di valutazione in essa indicati (che ora sono superati dall’art. 166-bis) la citata risoluzione ha precisato che se il trasferimento (dall’estero) avviene in continuità giuridica il periodo d’imposta della società non si interrompe e la società diventa residente in quel periodo d’imposta solo se per la maggior parte dello stesso ha avuto in Italia la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale. Di conseguenza è importante stabilire il momento dal quale il trasferimento ha efficacia in Italia (cioè il momento dal quale si calcolano i giorni per la verifica del requisito temporale). Secondo l’Agenzia delle entrate la data di efficacia fiscale è quella della cancellazione della società dall’ordinamento di provenienza (19) e non quella di iscrizione nel Registro delle Imprese italiano. Quindi, visto che nel caso oggetto della risoluzione il trasferimento della sede si è perfezionato (con la cancellazione nello Stato di provenienza) prima che sia decorsa la maggior parte del periodo d’imposta la società veniva considerata residente per l’intero periodo d’imposta, con la conseguenza che concorre alla formazione del reddito imponibile anche il reddito prodotto nel Paese di provenienza dall’inizio del periodo d’imposta. Se invece fosse decorso un numero di giorni superiori alla metà del periodo d’imposta la società non sarebbe residente fiscalmente in Italia per tale periodo (quindi non deve assoggettare a tassazione i redditi esteri).
Nel caso invece di discontinuità giuridica, la società viene costituita ex novo in Italia e il periodo d’imposta si interrompe iniziando un nuovo periodo d’imposta per il quale la società viene considerata residente da subito, come una società neocostituita.

3. TRASFERIMENTI DA STATI NON WHITE LIST

Si tratta di Stati che non rientrano nell’elenco di cui al D.Lgs. n. 239/1996, da aggiornare con cadenza semestrale, cioè Stati che non consentono un adeguato scambio di informazioni (indipendentemente dal livello di tassazione). In questo caso rimane come criterio generale quello del valore normale, ma esso non può essere applicato automaticamente dal contribuente ma solo a seguito di un accordo di ruling internazionale ai sensi del nuovo art. 31-ter del D.P.R. n. 600/1973. Visto che i valori alternativi – costo di acquisto, valore di bilancio – dovrebbero risultare dalla documentazione da fornire dal contribuente (anche se l’Amministrazione finanziaria, a causa dell’impossibilità dello scambio di informazioni probabilmente non ha la possibilità di verificare tali valori, né come si sono formati – il ruling può riguardare soltanto la determinazione del valore normale. Tale valore, quindi, deve essere comunque determinato – dal contribuente, in assenza di un accordo – e precisamente come termine di paragone e quindi la necessità di determinare il valore normale si ha sia nel caso di trasferimento da Paesi white list che da Paesi non white list (20).
Il mancato scambio di informazioni può avere un effetto negativo anche sul riconoscimento in Italia delle future vicissitudini fiscali in quel Paese (per esempio per la stabile organizzazione che potrebbe ivi rimanere dopo il trasferimento della sede). Se nell’ambito del ruling non si raggiunge l’accordo sul valore normale (da applicare in concreto) la norma precisa che la valorizzazione d’ingresso viene fatta, per le attività, in misura pari al minore tra il costo d’acquisto, il valore di bilancio e il valore normale e per le passività, in misura pari al maggiore tra questi.
È pienamente condivisibile la critica che la dottrina (21) muove a questa scelta del legislatore: il criterio del valore normale doveva essere applicato a prescindere dallo Stato di provenienza e senza necessità di ruling.
Per altri aspetti valgono invece le stesse regole come descritte nel caso del trasferimento da un Paese white list.
Il terzo comma dell’art. 166-bis prevede che con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate siano stabilite le modalità di segnalazione dei valori delle attività e delle passività oggetto di trasferimento. Tale provvedimento dovrebbe affrontare anche altri argomenti che necessitano di un chiarimento ufficiale.
La disciplina dell’art. 166-bis si applica a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 147/2015. In caso di trasferimento in continuità giuridica si deve aver riguardo, quindi, all’esercizio sociale della società estera in corso alla data dell’entrata in vigore del decreto legislativo.

Siegfried Mayr

(1) Esiste invece da tanto tempo una cospicua dottrina al riguardo. Tra i contributi più recenti, a partire dalla legge delega, ved. Assonime, nota tecnica n. 9/2015; G. ALBANO, Attività fiscalmente riconosciute al valore normale nel trasferimento della residenza in Italia, in Corr. trib., n. 38/2015; Consorzio studi e ricerche gruppo Intesa San Paolo, circ. 29 luglio 2015, n. 5; L. GAIANI, Trasferimento in Italia di imprese estere e valore fiscale degli assets, in il fisco, nn. 47-48/2015; F. BRUNELLI, Il nuovo art. 166-bis TUIR sul trasferimento della residenza in Italia, Relazione al Convegno Paradigma del 13 e 14 novembre 2015; R. MICHELUTTI, Trasferimento sede a doppia via, in Il Sole 24 Ore del 5 maggio 2015; L. MIELE, Il trasferimento di imprese in Italia e la valorizzazione dei beni al valore normale, in Corr. trib., n. 21/2015; M. PIAZZA – G. D’ANGELO – M. VALSECCHI, Aspetti fiscali del trasferimento della sede in Italia, in il fisco, n. 1/2015; M. PIAZZA – G. D’ANGELO, Trasferimento di sede in Italia al valore normale, esterovestizione e voluntary disclousure, ivi, n. 23/2015; M. PELLECCHIA, Il trasferimento di residenza in Italia, in Rass. trib., n. 6/2015; A. PRAMPOLINI, Trasferimento di residenza di società e “valori in ingresso”, in Corr. trib., n. 25/2015; e C. SALLUSTIO, Il trasferimento della sede e della residenza fiscale all’estero e dall’estero in Italia. Profili sistemici, in Riv. dir. trib., n. 3/2014. Per quanto riguarda invece la prassi amministrativa si possono citare le seguenti risoluzioni più significative: ris. 17 gennaio 2006, n. 9/E, in Boll. Trib., 2006, 681; ris. 30 marzo 2007, n. 67/E, in Boll. Trib. O-line; e ris. 5 agosto 2008, n. 345/E, ivi.
(2) Con l’art. 20-bis del TUIR (poi trasfuso nell’art. 166) introdotto dal D.L. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 marzo 1995, n. 85), fu disciplinato (fiscalmente) per la prima volta il trasferimento della sede (residenza) all’estero.
(3) In questo senso anche G. ALBANO, Attività fiscalmente riconosciute al valore normale nel trasferimento della residenza in Italia, cit.; L. GAIANI, Trasferimento in Italia di imprese estere e valore fiscale degli assets, cit.; M. PIAZZA – G. D’ANGELO, Trasferimento di sede in Italia al valore normale, esterovestizione e voluntary disclousure, cit., che scrivono: «Si ritiene … che deve essere esplicitato il coordinamento tra il nuovo art. 166-bis e gli art. 178 e 179, riguardanti la disciplina fiscale italiana delle fusioni, scissioni e conferimenti d’azienda intracomunitari. Al pari di quanto già avvenuto per la exit tax, infatti il regime in commento non può ad oggi trovare applicazione in assenza di uno specifico richiamo normativo con riferimento ad altre operazioni straordinarie, diverse dal cambio di sede». In senso contrario invece R. MICHELUTTI, Trasferimento sede a doppia via, cit., che afferma: «deve ritenersi – anche se l’art. 12 dello schema di D.Lgs. tratta solo del trasferimento di sede – che il criterio del valore normale per l’ingresso di beni esteri nel circuito dei redditi d’impresa si renda applicabile anche per le operazioni di riorganizzazione transfrontaliera “in entrata”, sia quelle intra UE … sia quelle internazionali, nonché per i trasferimenti di beni dalla casa madre estera alla propria stabile organizzazione in Italia».
(4) Cfr. ris. n. 345/E/2008, cit.
(5) Ved. ris. n. 67/E/2007, cit., che riguardava però il caso di una esplicita norma di un trattato.
(6) Secondo M. PIAZZA – G. D’ANGELO, Trasferimento di sede in Italia al valore normale, esterovestizione e voluntary disclousure, cit., anche in assenza di espressa previsione l’art. 166-bis si applica pure a trasferimenti in Italia di stabili organizzazioni estere oppure di un ramo di azienda facente capo alla stabile organizzazione.
(7) Secondo l’orientamento della Corte di Giustizia europea il trasferimento della sede non dovrebbe pregiudicare la continuità giuridica dell’ente. Per una rassegna commentata della giurisprudenza della Corte ved. Assonime, circ. n. 5/2014, cit.
(8) Cfr. ris. n. 9/E/2006, cit., commentata più avanti.
(9) Cfr. Assonime, circ. n. 5/2014, cit.
(10) Cfr. ris. n. 67/E/2007, cit.; e ris. n. 345/E/2008, cit.
(11) Ved. Comunicazione della Commissione UE 19 dicembre 2006/COM (2006) 825 e le raccomandazioni del Consiglio Ecofin 2 dicembre 2008 nelle quali viene auspicata una valutazione coordinata tra i due Stati.
(12) Cfr. Corte Giust. UE, sez. grande, 29 novembre 2011, causa C-371/10, National Grid Indus BV, in Boll. Trib. On-line, la quale anche se non trattava direttamente il problema dei valori d’ingresso, indirettamente ha fornito anche delle indicazioni per lo Stato d’arrivo a tale riguardo, sancendo il principio della corretta ripartizione dei diritti impositivi tra gli Stati membri. In questo senso anche C. SALLUSTIO, Il trasferimento della sede e della residenza fiscale all’estero e dall’estero in Italia. Profili sistemici, cit., che ritiene che in National Grid Indus BV la Corte di Giustizia europea abbia implicitamente ritenuto che la valorizzazione in entrata deve avvenire in base al valore corrente.
(13) La disciplina del tax deferral nel caso del trasferimento della residenza all’estero vale invece solo verso Paesi UE/SEE.
(14) La domanda si spiega perché siamo abituati al pagamento d’imposta – normale o a titolo sostitutivo – quando si passa dal valore di libro al valore corrente/normale. Il beneficio del valore normale generalmente ha quindi un costo in termini di oneri fiscali; invece nel caso in esame il soggetto “riceve” il valore normale senza dovere pagare per ciò (allo Stato italiano). Ma ciò è giusto nel nostro caso perché solo così si evita che lo Stato italiano tassi gli incrementi di valore maturati al di fuori della sua potestà impositiva. Ma è una rivalutazione in ogni caso “tax free”?
(15) Oppure nello stato A si applica una disciplina simile a quella contenuta nell’art. 179, terzo comma, del TUIR (national tax credit per l’imposta virtuale di competenza dello Stato estero B); ciò non risolve il problema per la società nel frattempo diventata residente in Italia e come tale subisce essa il carico fiscale che imporrà lo Stato estero B al momento della cessione della stabile organizzazione con plusvalenza.
(16) A meno che la società diventata italiana opti per la “branch exemption”.
(17) Cfr. la descrizione dettagliata in Assonime, circ. n. 5/2014, cit.
(18) Cfr. ris. n. 9/E/2006, cit.
(19) In realtà si dovrebbe avere riguardo agli effetti civilistici del trasferimento della sede (cioè dell’arrivo in Italia) che in base alla giurisprudenza vengono individuati nell’iscrizione della società nel Registro delle Imprese dello Stato di destinazione per effetto della quale la società viene assoggettata al diritto nazionale di tale Stato (Italia nel nostro caso). La ris. n. 9/E/2006, cit., che si riferisce alla cancellazione della società nello Stato di provenienza, dovrebbe essere rivisitata.
(20) In questo senso anche G. ALBANO, Attività fiscalmente riconosciute al valore normale nel trasferimento della residenza in Italia, cit.
(21) Ved. R. MICHELUTTI, Trasferimento sede a doppia via, cit.

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