16 Febbraio, 2016

 

 

SOMMARIO: 1. Il problema della frode carosello: le due facce della medaglia – 2. I contributi della dottrina e l’esigenza di salvaguardare la libera circolazione di merci e servizi e l’imprenditoria ad essa preposta – 3. I preziosi arresti giurisprudenziali comunitari e nazionali e le anime ora antielusive, ma più spesso garantiste, che li hanno guidati – 4. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 26854/2014 – 5. Considerazioni finali sui concetti di buona fede, diligenza e collaborazione.

 

 

1. Il problema della frode carosello: le due facce della medaglia

La frode carosello concretamente minaccia, soprattutto in alcuni settori (1), tanto la neutralità dell’IVA e la libera concorrenza quanto la sopravvivenza di alcune imprese, chiamate a rispondere dell’evasione perpetrata dai propri contraenti. Un recente e corposo intervento della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione (2) offre lo spunto per tentare di fare il punto sul tema summenzionato, caratterizzato nell’ultimo decennio da numerosissimi interventi che hanno interessato le riviste specializzate, le aule giudiziarie e la vita delle imprese. Premetto che l’approccio al problema dischiude due finalità e delinea le facce di una sola medaglia: la lotta all’evasione fiscale e la tutela del diritto alla detrazione dell’IVA da parte dell’imprenditore onesto. Il tema sarà ripreso nel prosieguo di questo scritto.

Le ricerche in dottrina e in giurisprudenza, tradizionalmente, sono di grande ausilio alle parti in causa e al giudice, sebbene quest’ultimo sia soggetto solo alla legge. Le ricerche, normalmente, vanno indirizzate prima compulsando la dottrina, anche allo scopo di individuare le esigenze della comunità imprenditoriale, che agisce correttamente, al fine di poter operare sul mercato senza che l’IVA, da imposta neutrale, si trasformi in un ostacolo alla libera circolazione dei beni; successivamente occorre accertare quali di questi impulsi siano stati condivisi dalla giurisprudenza, in primo luogo da quella della Corte di Giustizia, cui compete istituzionalmente interpretare le norme sull’IVA promulgate dall’Unione europea, e in secondo luogo dalla Corte di Cassazione e dai giudici di merito, vincolati alle interpretazioni comunitarie nei limiti in cui le norme comunitarie siano state recepite nella legislazione nazionale.

I risultati della ricerca saranno esposti citando brani di autori e di sentenze (tralasciando quelle di merito per brevità e per la loro minore autorevolezza in un palcoscenico dove numerosissimi sono stati gli interventi delle due Corti sopra indicate), così da riportare, nel modo più fedele possibile, il pensiero ivi esposto.

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2. I contributi della dottrina e l’esigenza di salvaguardare la libera circolazione di merci e servizi e l’imprenditoria ad essa preposta

La dottrina, la cui rassegna è qui necessariamente selettiva, è scesa in campo osservando la condotta delle Agenzie delle entrate nei confronti del fenomeno, tristemente diffuso in Italia come in altri Paesi dell’Unione europea, delle frodi IVA.

In questi anni si è assistito alla contestazione da parte della Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate del diritto alla detrazione dell’IVA in tutti, ma proprio in tutti, i casi in cui l’operatore si è trovato ad acquistare dei beni all’interno di una catena fraudolenta” (3). L’obiettivo della Guardia di finanza non può essere raggiunto “se non attraverso l’individuazione di elementi fattuali che possano incidere la corazza della buona fede del soggetto coinvolto nella frode” (4); “la buona fede parrebbe essere vista quindi come un impiccio, una <corazza> appunto, che l’amministrazione dovrebbe cercare di smantellare” (5). E ciò in quanto l’Amministrazione finanziaria qualifica ogni operazione che si ponga all’interno della catena come soggettivamente inesistente (6).

La suesposta ricerca fa supporre che l’Amministrazione finanziaria, quando individua una cartiera o altro soggetto operativo partecipante attivo alla frode IVA, cerca caparbiamente di individuare elementi di sospetto per accertare le imposte evase a carico di tutti i soggetti che si pongono a monte o a valle, nel primo come nel secondo stadio di commercializzazione.

Con questa condotta, basata sull’assioma del “sapeva o non poteva non sapere”, con la prova negativa asseritamente a carico del contribuente, l’operatore onesto corre “il rischio di coinvolgimento, che può manifestarsi, almeno a livello indiziario: di conseguenza, deve assumere tutte le misure che consentano di dimostrare, alla bisogna, la propria buona fede” (7). “Un siffatto atteggiamento non può che indurre l’Amministrazione a non scagionare mai nessuno. Si tratta proprio di quello che costantemente accade, con conseguente assoggettamento anche dei contribuenti onesti, a pretese che in molte occasioni mettono a rischio la loro sopravvivenza” (8). “Come potrà programmare i propri affari quell’imprenditore che sappia che la detrazione dell’IVA sui propri acquisti gli potrebbe essere negata, con effetti che potrebbero anche determinare il fallimento della sua impresa, sol perché l’amministrazione, sulla base di valutazioni ex post, sostenga che non avrebbe potuto non sapere che l’acquisto si iscriveva in una catena fraudolenta?” (9).

Si giunge pertanto all’assurdo di “un contesto in cui si addossa al singolo un <generale dovere di diligenza fiscale, consistente nell’obbligo di accertarsi, facendo ricorso a tutte le misure che possono essere ragionevolmente pretese>, della liceità della catena produttiva nell’ambito della quale si colloca l’operazione che egli pone in essere … Alle manchevolezze dell’amministrazione finanziaria, che non arrivi a colpire tempestivamente gli organizzatori delle frodi dovrebbe supplire quindi <il contribuente-investigatore>, che avrebbe addirittura l’onere di <interrompere la catena di operazioni illegali, ove sia possibile anche solo percepirne la scaturigine fraudolenta. … Il soggetto privato, quindi, secondo tale impostazione aberrante … non risponderebbe più delle sole proprie azioni od omissioni, ma anche … del comportamento illecito altrui, ravvisandosi l’unico incertissimo limite alla sua responsabilità … in quello che dall’operatore, dal lato dei controlli della liceità delle operazioni effettuate, si possa <ragionevolmente pretendere>” (10).

Contro tale impostazione si è osservato che “le aziende, nate per produrre cioccolatini o pantaloni, … non possono trasformarsi in investigatori del Fisco sui comportamenti dei loro fornitori. La diligenza aziendale nell’esame del fornitore non può essere quella di una pattuglia della Guardia di Finanza, perché l’azienda sta comprando merci, è interessata alla loro qualità, ai tempi di consegna, alle modalità di pagamento. … C’è anche da chiedersi cosa debba fare il cliente in caso di <sospetto>. Non comprare? Pagare l’IVA e non detrarsela, ipotizzando che il fornitore o il fornitore del fornitore possa essere un missing trader?” (11). “Il cliente è un soggetto che deve fare impresa, comprare, trasformare, vendere merci, non fare il poliziotto del Fisco, rischiando di sentirsi dire dopo dieci anni: non potevi non sapere. Sono questi atteggiamenti a togliere la voglia di fare impresa, deprimendo il PIL, l’occupazione e la crescita” (12).

Se si vuole attribuire all’imprenditore il compito di contribuire e di vegliare sulla liceità del mercato in cui egli opera, deve risultare “con chiarezza dalla legge quello che si deve o non si deve fare per evitare che le attività fraudolente (degli altri) dilaghino”. Diversamente si privilegiano indeterminati “doveri di solidarietà a scapito del principio di legalità” (13).

Si invocano infondatamente “doveri di collaborazione”, in quanto la legge 27 luglio 2000, n. 212, all’art. 10, li ha posti a sostegno della correttezza del rapporto intercorrente fra ciascun contribuente e l’Amministrazione finanziaria, ma non di quella che deve accompagnare il rapporto fra contraenti di quel contribuente e la medesima Amministrazione.

«Appare insostenibile che il contribuente, quale soggetto “lontano dalla prova” e del tutto extraneus ad un rapporto a cui generalmente non ha preso, né poteva prendere parte, debba provare la regolarità dell’acquisto che ha fatto il proprio fornitore. Poiché <nessuna prestazione personale può essere imposta se non dalla legge> (art. 23 Cost.), non può ritenersi colpevole l’imprenditore che non svolga indagini sul rapporto intercorso tra il proprio fornitore e il fornitore di quest’ultimo. Tale indagine è concretamente e facilmente esperibile dall’Amministrazione finanziaria, che ne ha i mezzi» (14) e il compito. In sostanza il nostro ordinamento giuridico sarebbe permeato dal principio in forza del quale l’esercizio di un diritto non può essere condizionato al compimento di un facere non contemplato dalla legge.

3. I preziosi arresti giurisprudenziali comunitari e nazionali e le anime ora antielusive, ma più spesso garantiste, che li hanno guidati

3.1 La giurisprudenza, dopo un’iniziale posizione meno garantista, ha prestato ascolto agli impulsi della dottrina, non solo italiana, e della Commissione dell’Unione europea e, pur ripetendo alcuni degli obiter dicta del passato (come quello del “sapeva o non poteva non sapere”), ultimamente è giunta ad affermazioni che, pur mantenendo alta la guardia contro le evasioni fiscali, vengono incontro alle esigenze dell’imprenditore onesto e soprattutto alla necessità di non creare ingiustificati ostacoli alla libera circolazione delle merci.

Ha affermato infatti la Corte Giustizia (15) che il diritto alla detrazione, “principio fondamentale del sistema comune dell’Iva” (punto 37), deve essere riconosciuto “senza limitazioni” (punto 38) in modo da garantire la neutralità dell’imposizione IVA per tutte le attività economiche (punto 39). “Spetta all’amministrazione fiscale dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva a monte nella catena di fornitura” (punto 49) (16). «L’amministrazione fiscale non può esigere in maniera generale che il soggetto passivo, il quale intenda esercitare il diritto alla detrazione dell’IVA – al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni a livello degli operatori a monte – verifichi che l’emittente della fattura corredata ai beni servizi a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio di tale diritto abbia le qualità di soggetto passivo, che disponga dei beni di cui trattasi e che sia in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA (punto 61) e ciò in quanto “spetta … alle autorità fiscali effettuare i controlli necessari presso i soggetti passivi al fine di rilevare irregolarità o evasioni in materia di Iva» (punto 62).

Si tratta in fondo di concetti in parte già noti. Infatti è stato affermato che la Direttiva preclude che “ad un soggetto passivo venga negato il diritto di detrarre l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti, per il fatto che, tenuto conto di frodi o di irregolarità che sono stati commessi dall’emittente della fattura riguardante tale cessione, quest’ultima è considerata come realmente non effettuata da detto emittente, salvo che sia dimostrato alla luce di elementi oggettivi e senza che si debba esigere dal soggetto passivo verifiche a cui non è tenuto, che tale soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva nel quadro di una frode” (17).

Già vigente il precedente orientamento più severo era stato sentenziato che le presunzioni, che dimostrerebbero che l’acquirente non poteva non sapere che l’IVA su un’operazione precedente o successiva non era o non sarebbe stata versata, “non possono essere formulate in maniera tale da rendere … eccessivamente difficile per il soggetto passivo superarle fornendo la prova contraria”, giacché altrimenti si instaurerebbe “un sistema di responsabilità oggettiva, che andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario” (18). Con riferimento al “principio di certezza del diritto”, inoltre, si era affermato che “è necessario … che i soggetti passivi abbiano conoscenza dei loro obblighi fiscali prima di concludere un’operazione” (19).

3.2 Anche la nostra Suprema Corte ha abbandonato una posizione di intransigenza. Essa infatti (20) preliminarmente ha riespresso la “consapevolezza che spetti all’amministrazione l’onere di provare le circostanze che giustifichino la contestazione della detrazione d’imposta operata dal contribuente e che legittimino il sospetto che le operazioni poste in essere siano inesistenti (Cass. nn. 27341 del 2005, 15295 del 2008, 9108 del 2012)”. E ha aggiunto: “Né manca la consapevolezza che la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa e che, in ragione di ciò, spetti all’Amministrazione, che ritenga alcune fatture relative ad operazioni inesistenti, l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere (così specificatamente Cass. n. 9108 del 2012)”.

Indi, con la citata sentenza n. 23560/2012, al formulato principio di diritto ha aggiunto: “Né il diritto alla detrazione può essere negato con la motivazione che il soggetto passivo non si è assicurato che l’emittente della fattura correlata ai beni a titolo dei quali viene chiesto l’esercizio del diritto alla detrazione avesse la qualità di soggetto passivo, che disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che avesse soddisfatto i propri oneri di pagamento dell’IVA, o con la motivazione che il suddetto soggetto passivo non dispone, oltre che detta fattura, di altri documenti idonei a dimostrare la sussistenza delle circostanze menzionate”. L’affermazione è di particolare rilevanza sottendendo il principio che di norma, e quindi in assenza di “elementi-sentinella di evasione” da parte del proprio contraente, nessuna attività investigativa condiziona il diritto di detrazione IVA dell’imprenditore che abbia posto in essere un’ordinaria operazione commerciale.

4. La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 26854/2014

Un particolare approfondimento merita la recente sentenza della Suprema Corte 18 dicembre 2014, n. 26854 (prima citata), con cui gli Ermellini hanno voluto passare in rassegna le proprie precedenti pronunce e quelle più rilevanti della Corte europea, per poi fissare il principio di diritto a cui dovrà adeguarsi la Commissione regionale cui la causa è stata rimessa.

Le prime affermazioni contenute nella sentenza non richiedono chiosa in quanto generalmente condivise. Mi riferisco alla premessa secondo cui “il diritto alla detrazione dell’IVA disciplinato dall’art. 19 Dpr n. 633/1972 non può prescindere … dalla fattura che è considerata documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa, come si evince dall’art. 21”.

Mi riferisco ancora all’affermazione secondo cui gli artt. 19 e 26 del D.P.R. n. 633/1972 “legittimano la detrazione IVA – da parte del cessionario – solo in relazione ad <effettive> operazioni commerciali (<beni o servizi acquistati nell’esercizio dell’attività economica>)” (21). Non c’è dubbio infatti che, nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, fermo l’onere della prova a carico dell’Amministrazione (ovvero che “l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è stata mai posta in essere”), non si innesta il meccanismo <rivalsa-detrazione> che presuppone l’effettivo passaggio delle merce e costituisce il presupposto giuridico e materiale dell’IVA, né si pone il tema della “buona fede” o della inscientia da parte del cedente come del cessionario.

Ugualmente scontata mi pare l’affermazione, mancando qualsiasi supporto normativo del contrario, secondo cui non è onere del contribuente, che ha emesso la fattura o esercitato il diritto alla detrazione dell’IVA sulla fattura ricevuta, di indicare “gli elementi probatori attestanti la effettiva corrispondenza alla realtà dei dati indicati in fattura, trascritti nei registri obbligatori”, gravando sull’Amministrazione l’onere della prova.

Del pari è pacifico, in regime di prova libera e non tipica, che l’Amministrazione possa assolvere l’onere probatorio anche ricorrendo alla prova logica o per presunzioni semplici, purché aventi i requisiti qualitativi di cui all’art. 2727 c.c., oltre che alla prova certa o diretta. Desta qualche perplessità la classificazione, operata dalla Suprema Corte invero incidenter tantum, tra “gli elementi probatori che … dimostrino in modo certo e diretto la inesattezza delle indicazioni che danno diritto alla detrazione … [dei] verbali relativi ad ispezioni eseguite presso altri contribuenti”, trattandosi, salvo il rinvenimento di documenti certamente ascrivibili al contribuente e da questi non disconosciuti, di prove atipiche con efficacia probatoria diretta solo nei confronti dei sottoscrittori del verbale medesimo nei limiti previsti dall’art. 2700 c.c.

Una certa preoccupazione sorge nel leggere l’ulteriore affermazione proferita nella citata sentenza. Vi si legge, infatti, che nelle operazioni caratterizzate dalla “simulazione relativa ex latere soggettivo del rapporto contrattuale, … la difformità tra la situazione apparente e quella reale … si traduce sul piano fiscale nella inesistenza <soggettiva> dell’operazione fiscalmente rilevante, con la conseguenza che, quanto alla operazione apparente … [come] quanto alla operazione <reale>, condotta con il terzo-interponente, alcun diritto alla detrazione IVA potrà evidentemente essere esercitato dal cessionario”. L’affermazione fa pensare ad una sorta di “responsabilità oggettiva”, che però viene smentita nelle successive parole della Corte di Cassazione: “una volta fornita la prova dell’interposizione fittizia nell’operazione commerciale effettivamente posta in essere da cessionario/committente con un diverso soggetto – cedente/prestatore – che non figura nella fatturazione, … l’Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare … [anche] la connivenza nella frode da parte del cessionario, non necessariamente, però, con prova certa ed incontrovertibile, bensì con presunzioni semplici, purché dotate del requisito di gravità, precisione e concordanza, consistenti nella esposizione di elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto sull’inesistenza sostanziale del contraente” (22).

Affronterò più avanti la consistenza di tali elementi obiettivi e le modalità della loro apprensione, in parte anche con le parole del Giudice di legittimità. Per ora mi sembra di scorgere la contrapposizione fra due esigenze difficilmente contestualmente soddisfabili, che emergono anche in altri passi della sentenza: la volontà garantista e quella antielusiva.

Circa i rispettivi onera probandi – prosegue la Corte di Cassazione – una volta che l’Amministrazione finanziaria abbia provato che il fatturante è una cartiera, che esso evade sistematicamente l’IVA e, nei limiti sopra esposti, la conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario, quest’ultimo ha l’onere della prova contraria, “dimostrando che, dagli elementi conoscitivi acquisiti o rilevabili nel corso delle trattative e dell’operazione condotta con il soggetto-cedente, non erano emerse circostanze anomale tali da indurre in sospetto e quindi escludere l’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale dell’operazione”, … “non essendo sufficiente a tale scopo la regolarità della documentazione contabile esibita e la mera dimostrazione che la merce è stata effettivamente consegnata o che sia stato effettivamente versato il corrispettivo, trattandosi di circostanze non concludenti”.

Osservo qui che, mentre si addossano all’Agenzia delle entrate prove positive, ovvero dell’esistenza di fatti o di condotte, il contribuente è onerato di una probatio negativa, ontologicamente diabolica (o indubbiamente più difficile a darsi di quella positiva), con l’avvertenza che essa non può consistere solo nella dimostrazione dell’effettività della traditio e della solutio, ovvero dei due elementi che costituiscono oggetto del contratto di compravendita ed obblighi dei contraenti. Occorre però avvertire che tali dimostrazioni non sono né escluse né giudicate irrilevanti, bensì “insufficienti”, talché esse possono concorrere con altri elementi alla formazione del libero convincimento del giudice ai sensi dell’art. 116, comma primo, c.p.c.

Nel riaffermare l’onere della pars publica di dimostrare non solo l’interposizione fittizia, ma anche l’assenza della <buona fede> del soggetto passivo, intendendosi quale stato di <ignoranza incolpevole> in ordine agli accordi fraudolenti volti all’evasione dell’IVA intercorsi tra il soggetto cedente/commissionario, che ha emesso la fattura, ed i soggetti intervenuti nelle operazioni precedenti o successive, la Cassazione usa termini che certamente presentano qualche oscurità ermeneutica per gli operatori commerciali e forse anche per alcuni operatori del diritto.

Si riversa sul contribuente – così si esprime la Cassazione (nella citata sentenza come in quelle del 14 dicembre 2012, n. 23074, e del 13 marzo 2013, n. 6229) – l’onere di provare di … non essere stato in grado di abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all’operazione”. A ciò si aggiunga che, per negare il diritto alla detrazione IVA, sarebbe sufficiente “il sospetto fondato su circostanze obiettive dell’illecito fiscale commesso da terzi nel quale viene ad inserirsi l’operazione economica che la cessionaria intende realizzare”. Orbene appare poco comprensibile che un operatore economico, per esercitare il diritto di detrarre l’IVA assolta su un effettivo acquisto, debba preoccuparsi di non abbandonare uno stato d’ignoranza; inoltre l’espressione “fondato sospetto su circostanze obiettive” appare minata da una qualche contraddizione terminologica, dato che il sospetto è una supposizione o indizio più o meno fondato sull’esistenza di qualcosa o di qualcuno che genera dubbi o vaghe congetture (Gabrielli) o anche un’inclinazione più o meno motivata e consapevole a individuare in una persona la responsabilità di un male e più particolarmente la colpevolezza di un reato, che se fondato su elementi obiettivi non è più sospetto ma probabile previsione (Devoto-Oli) (23).

Data l’autorevolezza della pronuncia e il riconoscimento che l’interpretazione delle norme, insita nella funzione nomofilattica della Suprema Corte, ha indiscutibilmente finalità di effettivo ed utile chiarimento, deve darsi alle citate locuzioni un ambito di applicazione “passiva”, nel senso che, prescindendo da ipotesi di partecipatio fraudis, nessuna attivazione sia richiesta al cessionario per conservare la sua buona fede e in specie l’inscientia fraudis e quindi che “la diligenza dell’imprenditore onesto e mediamente esperto” faccia sorgere l’obbligo di una condotta commissiva solo quando cadano sotto la sua percezione “fondati sospetti” di evasione in cui si inseriscano le trattative negoziali in corso.

Per essere più espliciti e per fare tesoro delle parole della Corte di Giustizia (24) tese ad assicurare il principio di certezza del diritto, secondo le quali “è necessario … che i soggetti passivi abbiano conoscenza dei loro obblighi fiscali prima di concludere un’operazione” e che nessuna verifica può essere loro richiesta sulla disponibilità dei beni da acquistare in capo al cedente o sul soddisfacimento dei suoi “obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva”, il diritto alla detrazione dell’IVA sugli acquisti non può essere negato al cessionario ove non giungano a sua conoscenza anomalie nelle trattative e nella conclusione del contratto. Il cessionario, invece, nel caso in cui percepisca tali anomalie e se esse sono indice non solo di possibile ma di probabile evasione fiscale (25), dovrà astenersi dalla conclusione del negozio o acquisire la prova della regolarità fiscale dell’operazione.

Secondo l’ultima preziosa affermazione degli Ermellini, posta proprio in chiusura della sentenza, costituiscono anomalie “la offerta da parte della cedente di prezzi inferiori a quelli correnti di mercato, o di condizioni anomale rispetto a quelle comunemente praticate (richieste di pagamento o di bonifici a terzi), il trasporto della merce effettuato da altra società o per conto di altra società”, mentre l’inesistenza di idonea capacità aziendale della cedente, pure menzionata in sentenza, non può – a mio avviso – richiedere accessi e verifiche in loco non costituendo, in mancanza di specifiche esigenze, né diritti, né doveri del cliente.

Poco prima di quest’ultima affermazione la Suprema Corte, nella sentenza n. 26854/2014, ha fissato la massima che così si può sintetizzare: “a) grava sull’Amministrazione finanziaria … la prova, anche presuntiva ex art. 2727 c.c., … dell’interposizione fittizia del soggetto cedente, [quindi] della frode fiscale realizzata a monte dell’operazione nonché la prova della conoscenza o conoscibilità da parte del cessionario della frode commessa dal cedente o da altri soggetti; b) grava, invece, sul contribuente che intende esercitare il diritto alla detrazione – od al rimborso – ex art. 19 Dpr n. 633/72, la prova dell’effettiva corrispondenza – anche soggettiva – della operazione documentata in fattura con quella in concreto realizzata, ovvero la prova dell’incolpevole affidamento sulla regolarità fiscale dell’operazione ingenerato dalla condotta del cedente, avuto riguardo alle modalità in cui si sono svolti i contatti commerciali, ed agli elementi informativi acquisiti o comunque disponibili nel corso delle trattative e al momento della conclusione dell’operazione”.

5. Considerazioni finali sui concetti di buona fede, diligenza e collaborazione

Sulla scorta di quanto sopra riportato può affermarsi che la dimostrazione da parte dell’Amministrazione finanziaria del coinvolgimento diretto o indiretto dell’operatore assoggettato ad accertamento è subordinato al riconoscimento della sua buona fede, la cui prova esonererebbe da ogni profilo di responsabilità. Vertendo la buona fede su elementi soggettivi e non materiali ne consegue che grava sull’operatore un adempimento oneroso in termini di difficoltà nel raggiungimento della prova, alla luce anche del fatto che non sono stati individuati dal legislatore i parametri in base ai quali un imprenditore possa essere considerato all’oscuro della frode e che quindi possa per questo conservare il diritto alla detrazione dell’imposta addebitatagli.

La dottrina e la giurisprudenza, al di qua come al di là delle Alpi, ha spesso fatto leva sui concetti di buona fede e di diligenza.

La diligenza è, a mio modesto avviso e nella fattispecie qui esaminata, il requisito qualitativo di un’attività, rectius di una condotta, che consente di dedurre che chi l’ha posta in essere versi in uno stato di buona fede. La nozione di diligenza, a sua volta, “presuppone essere già stabilita l’estensione precisa di ciò che il debitore è tenuto a fare”, in quanto essa “si profila come criterio per valutare la conformità del comportamento del debitore a quello dovuto, come criterio alla stregua del quale poter apprezzare la violazione del limite individuato dalle norme sulla correttezza e, quindi, come tipico criterio di responsabilità” (26).

Il legislatore europeo ha individuato nel rispetto delle norme sulla diligenza professionale le modalità attraverso la quale garantire al mercato e, in particolare, ai consumatori condotte leali da parte degli imprenditori; la diligenza professionale, infatti, rappresenta la nozione attorno alla quale ruota l’intera disciplina delle pratiche commerciali ed è definita come “il normale grado di speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori” (27).

Con l’applicazione di tale statuizione si può contemperare l’esigenza, da una parte, di salvaguardare le entrate dello Stato e combattere forme odiose di evasione fiscale (28) e, dall’altra, quella di additare un’interpretazione corretta delle norme che non ostacoli la libera e rapida circolazione delle merci (che oggi già trova intoppi nella crisi economica imperante) e l’operare degli imprenditori onesti, commercianti, ma non “poliziotti del fisco” (29); ritengo che il giudice debba essere sensibile nei confronti di entrambe le esigenze, ma privilegiare, in ottemperanza all’alta funzione cui è preposto, la corretta interpretazione della legge e non la lotta a presunti evasori, compito del potere esecutivo.

D’altra parte, osservo, nessuna prestazione può essere richiesta o condizionare l’esercizio di diritti se non è imposta dalla legge (arg. ex art. 23 Cost.); né possono essere invocati gli artt. 1176 c.c. e 10, comma primo, della legge n. 212/2000, in quanto la loro portata è limitata, con riferimento al primo, alla diligenza nei rapporti fra i contraenti e non fra uno di essi e il fisco e, con riferimento al secondo, alla collaborazione fra contribuente e fisco avente per oggetto il rapporto d’imposta fra essi intercorrente, non quello fra fisco e terzo contraente. In sostanza, che piaccia o no, non esiste nel nostro ordinamento giuridico e tanto meno nel c.d. statuto dell’imprenditore un obbligo di solidarietà con la pubblica Amministrazione nella ricerca degli evasori fiscali, ma solo il dovere di non favorirne l’attività, espressione del generale divieto di agevolare anche passivamente attività illecite.

Il contribuente/imprenditore non può e non deve sostituirsi all’Amministrazione finanziaria la quale, per sua natura e in ragione del suo apparato organizzativo, dispone di strumenti di indagine adeguati e penetranti che possono permettere agevolmente di comprendere se un soggetto sia o meno in realtà una cartiera e/o rispetti i propri obblighi fiscali.

Dott. Giuseppe Verna

 

(1) Individuati dall’art. 1 del D.M. 22 dicembre 2005, ai fini dell’applicazione della responsabilità solidale ex art. 60-bis, comma terzo, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nelle cessioni di autoveicoli, motoveicoli, accessori; prodotti di telefonia e loro accessori; personal computer, componenti e loro accessori; animali vivi della specie bovina, ovina e suina e loro carni fresche.

(2) Cass., sez. trib., 18 dicembre 2014, n. 26854, in Boll. Trib., 2015, 696.

(3) A. Giovanardi, Le frodi iva. Profili ricostruttivi, Torino, 2013, 92, nota 42.

(4) P. Centore, Responsabilità del cessionario nella <frode carosello>, in L’iva,2005, 7.

(5) A. Giovanardi, op. cit., 92, nota 42.

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(6) N. Raggi, Fine delle operazioni inesistenti nell’Iva, in Dir. prat. trib., 2011, I, 282.

(7) P. Centore, op. cit., 9.

(8) A. Giovanardi, op. cit., 92, nota 42.

(9) A. Giovanardi, op. cit., 70, nota 4.

(10) A. Giovanardi, op. cit., 71-72.

(11) R. Lupi, Alla ricerca del “fornitore”, tra interlocutore giuridico ed esecutore materiale, in Dial. trib., 2012, 397-398.

(12) R. Lupi, Delazione fiscale, malattia senile dell’autotassazione, in Dial. trib., 2012, 273.

(13) A. Giovanardi, op. cit., 75.

(14) G. Verna, Frode carosello e partecipante ignaro, in Boll. Trib., 2012, 227.

(15) Ved. Corte Giust. UE, sez. III, 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahagében e Dàvid, in Boll. Trib., 2013, 1370.

(16) Cfr. anche Corte Giust. CE, sez. III, 6 luglio 2006, cause riunite C-439/04 e C-440/04, Kittel e Recolta Recycling, in Boll. Trib. On-line.

(17) Corte Giust. UE, sez. V, 6 febbraio 2014, causa C-33/13, Marcin Jagiello, inedita in italiano.

(18) Corte Giust. CE, sez. III, 11 maggio 2006, causa C-384/04, Technological Industries, punto 32, in Boll. Trib. On-line.

(19) Corte Giust. UE CE, sez. III, 27 settembre 2007, causa C-409/04, Teleos, punto 48, in Boll. Trib. On-line.

(20) Cass., sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23560, punto 10.1, in Boll. Trib. On-line.

(21) Ovvero da un soggetto passivo; secondo Corte Giust. UE, sez. II, 6 settembre 2012, causa C-273/11, Meksek-Gabona, punto 60, e Corte Giust. UE, sez. IV, 27 settembre 2012, causa C-587/10, VSTR, punto 61, entrambe in Boll. Trib. On-line, la qualifica di soggetto passivo del compratore non dipende dal possesso di requisiti formali, ma dall’esercizio effettivo d’impresa.

(22) La Corte richiama qui i principi espressi in via generale nella giurisprudenza comunitaria secondo cui spetta all’Amministrazione finanziaria fornire la prova, anche indiziaria, che il contribuente “sapesse o dovesse sapere” con l’uso dell’appropriata diligenza dell’evasione d’imposta o della frode perpetrata da altri soggetti.

(23) Anche l’art. 2409, comma primo, c.c., parla di “fondati sospetti”, senza però aggiungervi “su elementi obiettivi”, e comunque da quelli fa discendere solo un’azione cautelare, non espropriativa o di condanna.

(24) Ved. Corte Giust. CE causa C-409/04 del 2007, Teleos, cit.

(25) Deve ritenersi che sulla prova qualificata ex art. 2727 c.c. si innesti una ragionevole valutazione “probabilistica” e non meramente “possibilistica” (arg. da Cass, sez. trib., 23 febbraio 2010, n. 4306, in Boll. Trib. On-line, in tema di frodi carosello).

(26) G. Cottino, L‘impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955, 124.

(27) Art. 2, lett. h), della Direttiva CE 11 maggio 2005, n. 29.

(28) Ebbi a scrivere in G. Verna, Frode carosello e partecipante ignaro, cit., 227: “Tale catena, denominata comunemente frode carosello, viene abilmente utilizzata in un piano criminoso, particolarmente odioso, in quanto fondato non sull’evasione fiscale pura e semplice, anch’essa riprovevole, bensì su una fattispecie più perniciosa: il guadagno illecito mediante la sottrazione artificiosa di imposte corrisposte da altri contribuenti”.

(29) Il termine “poliziotto del fisco” è utilizzato da R. Lupi, Responsabilità delle aziende per fatto altrui, in Dial. trib., 2013, 316.

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