15 Luglio, 2014

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Poteri istruttori di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 – Incarico da parte del giudice tributario alla Guardia di finanza di redigere una relazione atta a fornire ulteriori elementi conoscitivi ai fini istruttori – Legittimità – Natura del processo tributario – È quella di “impugnazione-merito” e non di “impugnazione-annullamento”.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Natura del processo tributario – È un giudizio a cognizione piena tendente all’accertamento sostanziale del rapporto controverso – Dovere del giudice di operare una motivata valutazione sostitutiva della dichiarazione del contribuente e dell’accertamento dell’Ufficio finanziario – Consegue – Esercizio dei poteri istruttori di cui all’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 per acquisire aliunde gli elementi valutativi per la decisione di merito sulla legittimità e congruità della pretesa impositiva – Legittimità.

Imposte e tasse – Accertamento – Avviso di accertamento – Motivazione per relationem a un atto non sottoscritto emesso da un organo della pubblica Amministrazione – Validità – Sussiste – Mancanza di sottoscrizione dell’atto tributario – Irrilevanza, qualora l’atto sia inequivocabilmente ascrivibile all’organo titolare del potere di emetterlo.

Imposte e tasse – Accertamento – Accertamenti e verbali dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) – Hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari – Possono essere posti a fondamento dei provvedimenti volti al recupero dei dazi doganali sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni – Onere di provare le condizioni di applicabilità del regime agevolativo – Incombe sul contribuente.

Imposte e tasse – Accertamento – Accertamenti e verbali dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) – Possono essere posti a fondamento dei provvedimenti volti al recupero dei dazi doganali – Motivazione per relationem a tali accertamenti e verbali – Legittimità – Indicazione dei tratti essenziali degli atti richiamati – Sufficienza.

L’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, prevede espressamente che le Commissioni tributarie, qualora debbano acquisire elementi di particolare complessità, oltre a disporre consulenza tecnica, possano richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, fermo però restando che tali poteri possono concretarsi non in un totale e non consentito esonero della parte dall’onere della prova su di essa incombente, bensì nell’acquisizione di elementi integrativi, rispetto a quelli già forniti dalle parti, ai fini della risoluzione della controversia, nella finalizzazione del giudizio in questione alla valutazione e alla quantificazione della pretesa tributaria addotta dall’Ufficio finanziario, anche a prescindere dagli accertamenti da esso espletati, poiché l’esercizio di tali poteri consente il più efficace funzionamento del processo tributario, il quale non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento, ma tra quelli di impugnazione-merito, non essendo diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato bensì alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento operato dall’Ufficio finanziario.

Il processo tributario è a cognizione piena e tende all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, con la conseguenza che solo quando l’atto di accertamento sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e precludere l’esame del merito del rapporto tributario il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, mentre in caso contrario ad un esito meramente demolitorio di siffatto giudizio osta il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice di avvalersi dei propri poteri valutativi ed estimativi ai fini della decisione e, in forza dei poteri istruttori attribuiti dall’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di acquisire aliunde i relativi elementi, prescindendo dagli accertamenti dell’Ufficio finanziario e sostituendo la propria valutazione a quella da esso operata, in modo da pervenire ad una valutazione di merito in ordine alla legittimità ed alla congruità della pretesa azionata dall’Ufficio medesimo.

La validità degli atti amministrativi, e segnatamente di quelli tributari, non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile quanto dal fatto che, al di là di tali elementi formali, l’atto sia inequivocabilmente ascrivibile, alla stregua di elementi desumibili aliunde e anche dal contesto dell’atto stesso, all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, di talché il fatto che un rapporto dell’Amministrazione doganale sia privo della sottoscrizione del suo estensore appare assolutamente irrilevante e ininfluente sulla validità dell’atto impositivo che nella propria motivazione abbia fatto riferimento a detto rapporto.

In tema di tributi doganali, gli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), ai sensi del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 25 maggio 1999, n. 1073/1999, quando vi sia motivo di dubitare dell’autenticità della documentazione relativa all’origine e/o alla provenienza della mercé importata, per la loro formazione e per il valore di atti pubblici ad essi attribuibile hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari, con la conseguenza che essi ben possono essere posti a fondamento dei provvedimenti volti al recupero dei dazi doganali sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando perciò al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo.

I verbali ispettivi degli organi esecutivi dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), redatti ai sensi del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Unione europea del 25 maggio 1999, n. 1073/1999, ben possono essere posti a fondamento degli atti impositivi emessi dall’Autorità doganale ancorché non siano materialmente allegati agli atti medesimi, purché essi, in conformità all’art. 11, comma 5-bis, del D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, richiamando i predetti verbali per relationem, ne riportino i tratti essenziali ai fini dell’esercizio del diritto di difesa.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Cirillo, rel. Valitutti), 13 marzo 2013, sent. n. 6238, ric. Delfanti Import-Export s.r.l. c. Agenzia delle dogane]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. Con sentenza n. 89/22/09, depositata il 23.7.09, la Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna rigettava l’appello proposto dalla Delfanti Import-Export s.r.l. avverso la decisione di primo grado, con la quale era stato rigettato il ricorso proposto dalla contribuente nei confronti dell’avviso di rettifica dell’accertamento definitivo, emesso dalla Dogana di Piacenza, e relativo a dichiarazioni di importazione di aglio, dichiaratamente di origine bulgara, ma in realtà di provenienza cinese.

2. La CTR – confermando la decisione di prime cure – riteneva, invero, non ricorrenti, nella specie, gli estremi per l’applicabilità dell’esimente comunitaria della buona fede, ai sensi dell’art. 220, lett. b) del Regolamento CE n. 2913/92 (CDC), nonché non sussistenti le dedotte violazioni dell’art. 7 della L. n. 212 del 2000 – in relazione alla motivazione degli atti impositivi, operata con rinvio per relationem ad un atto (la relazione dell’OLAF) non allegato agli stessi – e dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, con riferimento alla relazione tecnica della Guardia di Finanza disposta dal giudice di appello.

3. Per la cassazione della sentenza n. 89/22/09 ha proposto ricorso la Delfanti Import-Export s.r.l. affidato ad otto motivi, ai quali l’Amministrazione ha replicato con controricorso. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.

[-protetto-]

MOTIVI DELLA DECISIONE – 1. Con i primi sei motivi di ricorso – che, per la loro stretta connessione, vanno esaminati congiuntamente – la Delfanti Import-Export s.r.l. denuncia la violazione degli artt. 220 del Regolamento CE n. 2913/92 (Codice Doganale Comunitario), 249 del Trattato della UE, 7 del Protocollo n. 6 allegato all’Accordo tra Comunità Europea e Bulgaria n. 908/94 del 19.12.94, 9 del Regolamento CE n. 1073/99, 7 della L. n. 212 del 2000, e 11 del D.Lgs. n. 374 del 1990, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., nonché l’omessa o insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, in relazione all’art. 360, n. 5, c.p.c.

1.1. Il giudice di appello avrebbe, anzitutto, ritenuto del tutto erroneamente sussistenti i presupposti per l’imposizione daziaria, illegittimamente equiparando una dichiarazione di “omessa registrazione” dei certificati di origine nei registri interni della Dogana Bulgara, resa all’OLAF dalle autorità doganali della Bulgaria, ad una dichiarazione di “falsificazione materiale” di tali documenti. Osserva, invero, la Delfanti che l’omessa registrazione dei certificati di origine nei registri delle Dogane costituirebbe una mera irregolarità interna, che non potrebbe, quindi, incidere in alcun modo sulla validità ed efficacia dei documenti in parola nei rapporti con i terzi, sì da escludere – per questo solo fatto – la genuinità dei certificati medesimi.

Ed, a tal proposito, rileva la contribuente che sia il rapporto preliminare dell’OLAF in data 13.8.04, che quello successivo, OF/2002/0564, non sarebbero dotati – poiché non conclusivi dell’indagine condotta dal suddetto organismo comunitario – di un’efficacia probatoria tale da elidere quella ascrivibile ai certificati di origine EUR 1, presentati per l’importazione. Il secondo di detti rapporti sarebbe, poi, addirittura giuridicamente inesistente, essendo privo della sottoscrizione dell’estensore, e comunque di esso il giudice di appello non avrebbe dovuto tenere alcun conto, non essendo stato allegato agli atti impositivi, in violazione del disposto dell’art. 7 della L. n. 212 del 2000, e dell’art. 11 del D.Lgs. n. 374 del 1990.

L’autorità doganale avrebbe, dipoi, violato il disposto dell’art. 7 del Protocollo n. 6 allegato all’Accordo Comunità tra la Comunità Europea e la Bulgaria, adottato con Decisione n. 94/908/CECA/CE/Euratom del 19.12.94, non avendo l’autorità doganale italiana inviato alcuna richiesta di collaborazione, come previsto dal predetto Accordo, alla Dogana bulgara, ai fini della verifica sull’autenticità dei certificati di origine in discussione.

1.2. Ad ogni buon conto, quand’anche – in via di mera ipotesi – la falsità di tali certificati di origine della merce fosse stata acclarata in giudizio, la CTR non avrebbe, comunque, dovuto escludere – a parere della ricorrente – la sussistenza, nella specie, dell’esimente comunitaria della buona fede, pur sussistendo tutti i presupposti all’uopo richiesti dall’art. 220 del Regolamento CE 2913/92 (CDC). Assume – difatti – la Delfanti che, in assenza di una comunicazione ufficiale dell’Unione Europea, in merito a sospetti di contraffazione dei certificati di origine dell’aglio importato dalla Bulgaria, alcun sospetto circa la diversa provenienza di tale merce poteva mai ingenerarsi nella società importatrice, posto che la medesima si era rivolta a soggetti, esportatori ed intermediari, di nota affidabilità nel settore. Sicché la medesima avrebbe – a ragione – confidato nell’origine della merce dichiarata dall’esportatore, nonché certificata e controllata, sia dall’autorità del Paese di esportazione che da quella del Paese di importazione.

Per di più, ad avviso della ricorrente, ad indurla in errore sulla provenienza dell’aglio importato avrebbe contribuito lo stesso comportamento dell’autorità doganale dei due Paesi suindicati, che avrebbero omesso per lungo tempo qualsiasi controllo sulla merce che la Delfanti aveva importato, in tempi diversi, dalla Bulgaria.

1.3. L’esclusione dell’esimente della buona fede sarebbe, infine, avvenuta – a parere della ricorrente – sulla base di un percorso motivazionale del tutto incongruo che, dopo avere posto a carico dell’importatore il relativo onere della prova, avrebbe – dipoi – del tutto pretermesso la circostanza, dedotta in giudizio dalla contribuente, secondo la quale nell’anno 2002 (cui si riferisce la revisione impugnata) le informazioni in ordine alla contraffazione dell’origine dei prodotti erano del tutto scarse e lacunose. Tanto vero che, solo nell’anno 2005, l’Unione Europea aveva portato ufficialmente a conoscenza degli importatori di aglio l’esistenza di condotte truffaldine – in precedenza ignote – poste in essere con riferimento all’origine di tale prodotto, mediante pubblicazione, in data 12.8.05, di un apposito avviso nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea.

2. Premesso quanto precede, rileva la Corte che l’esatta risoluzione delle questioni proposte, con i motivi in esame, dalla Delfanti Import-Export s.r.l., richiede una sintetica ricognizione della vicenda, così come si è svolta in sede amministrativa e giurisdizionale.

2.1 A tal fine, va rilevato che – come si desume dagli atti del presente giudizio – nell’anno 2002, la Delfanti Import-Export s.r.l. importava nel territorio dell’Unione Europea ingenti quantitativi di aglio, dichiarandone in Dogana l’origine preferenziale bulgara. Le autorità doganali, quindi, sulla scorta dei certificati di origine della merce (modello EUR 1), apparentemente emessi dall’autorità doganale bulgara, ed in conformità alle agevolazioni tariffarie previste dall’Accordo tra la Comunità Europea e la Bulgaria, ed adottato dalla Comunità medesima con Decisione n. 94/908/CECA/CE/Euratom del 19.12.94, concedevano alla società importatrice il beneficio del totale abbattimento daziario.

Tuttavia, dopo aver concesso lo svincolo delle merci, la Dogana di Piacenza, alla quale la merce era stata presentata per l’importazione, procedeva d’ufficio alla revisione dell’accertamento definitivo delle dichiarazioni doganali, in precedenza operato dalla stessa Dogana, ai sensi dell’art. 78 CDC. L’iniziativa dell’Ufficio conseguiva a segnalazione, protocollo D10230 in data 13.8.04, pervenuta dall’Ufficio Europeo per la lotta antifrode (OLAF), con la quale si rendevano noti all’autorità doganale i primi risultati di un’indagine effettuata dall’OLAF medesimo nel corso di una missione comunitaria, svoltasi in Bulgaria dal 26 aprile al 5 maggio 2004. Nel rapporto preliminare – essendo le indagini ancora in corso – contenuto nella predetta segnalazione, si evidenziava la falsità dei certificati EUR 1, presentati dalla Delfanti Import-Export s.r.l. alla Dogana di Piacenza, ai fini dell’importazione di aglio nel territorio dell’Unione Europea. Ed infatti, sulla base delle informazioni raccolte dalla stessa autorità bulgara – in applicazione dell’art. 7 del Protocollo n. 6, sull’assistenza reciproca nel settore doganale, allegato al predetto Accordo tra la Comunità Europea e la Bulgaria – l’OLAF evidenziava che i menzionati certificati di origine, apparentemente rilasciati dalla Dogana di Sofia Aeroporto, non risultavano “registrati” da detta Dogana (“not registered at the customs of Sofia Airport”), e che i certificati fitosanitari allegati risultavano anch’essi falsi.

2.2. L’Agenzia delle Dogane – sulla base di tali elementi – emetteva, quindi, nove avvisi di accertamento suppletivi e di rettifica – impugnati dalla contribuente, con esito negativo, sia in prime che in seconde cure – con i quali operava il recupero a posteriori, ai sensi dell’art. 78 CDC, dei dazi doganali dovuti e dei relativi interessi, per l’ingente somma di Euro 3.619.626,10.

In data successiva all’emissione degli atti impositivi suindicati, perveniva, poi, all’autorità doganale un successivo, e più dettagliato, rapporto dell’OLAF, OF/2002/0564, con il quale l’Ufficio riceveva la conferma del disconoscimento dei certificati da parte della pretesa autorità emittente, e veniva, altresì, messo a conoscenza delle modalità del meccanismo di frode approntato, nel caso concreto, per eludere l’applicazione dei dazi gravanti sull’aglio importato dalla Cina. Ed infatti – come si desume anche dalla stessa sentenza impugnata – i contenitori carichi di aglio proveniente dalla Cina, giunti via mare nel porto di Varna (Bulgaria), venivano trasbordati dai contenitori originari in altri, per i quali venivano compilate dichiarazioni di riesportazione in Italia, così da fare apparire che la merce proveniva direttamente dalla Bulgaria ed evitare l’applicazione degli onerosi dazi gravanti sull’aglio di origine cinese.

2.3. Tutto ciò premesso, va rilevato che la difesa della Delfanti Import-Export s.r.l. si fonda, sul punto – fin dal primo grado di giudizio, e siffatte argomentazioni sono state ribadite anche nel presente giudizio di legittimità – su due essenziali argomentazioni di natura sostanziale: a) la carenza dei presupposti della pretesa impositiva, atteso che la nota preliminare dell’OLAF si limita ad attestare l’omessa registrazione dei certificati EUR 1 da parte della Dogana di Sofia, e non anche la loro autenticità; b) l’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 220, comma 2 CDC, atteso che, anche in ipotesi di falsità dei suddetti certificati di origine, ricorrerebbero comunque i presupposti del divieto di contabilizzazione a posteriori, previsti dalla succitata disposizione comunitaria.

La decisione di seconde cure che ha disatteso entrambe le argomentazioni suesposte sarebbe, pertanto, ad avviso della ricorrente, del tutto illegittima.

3. Tali argomentazioni difensive della società ricorrente sono, peraltro, del tutto prive di fondamento, sotto entrambi i profili suindicati, e vanno, di conseguenza, disattese.

3.1. Ed invero, per quanto concerne l’autenticità dei certificati EUR 1, apparentemente rilasciati dalla Dogana bulgara, del tutto irrilevante ai fini probatori si paleserebbe, a parere della Delfanti Import-Export s.r.l., il rapporto preliminare trasmesso dall’OLAF alla Dogana di Piacenza, in data 13.8.04. E ciò per una duplice ragione: sia perché detto atto non si concreterebbe in una relazione finale, contenente le conclusioni dell’indagine in ordine alla pretesa falsità dei certificati EUR 1, ma soltanto una trasmissione, all’autorità doganale italiana, di informazioni acquisite dalle autorità bulgare; sia perché esso si limiterebbe a riferire dell’omessa “registrazione” di detti certificati nei registri della Dogana di Sofia, ma non anche della loro eventuale falsità materiale.

3.1.1. Orbene, per quanto concerne la natura ed il contenuto del rapporto in discussione, va osservato che, in tema di tributi doganali, gli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF (Commissione per la lotta antifrode), ai sensi del Reg. n. 1073/99, quando vi sia motivo di dubitare dell’autenticità della documentazione relativa all’origine e/o alla provenienza della merce importata, per la loro formazione e per il valore di atti pubblici ad essi attribuibile, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari. Ne consegue che gli stessi ben possono essere posti a fondamento – come è accaduto nel caso di specie – degli avvisi di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento – come del tutto correttamente ha statuito, nel caso concreto, il giudice di appello – fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo (Cass. 4997/09(1), 23985/08(2)). Va considerato, infatti, che, non solo l’art. 9, comma 1, riconosce efficacia probatoria privilegiata ai fatti accaduti in presenza degli ispettori, e l’art. 9, comma 2, stabilisce l’equipollenza della relazione redatta al termine delle indagini a quella redatta agli ispettori amministrativi dello Stato membro, ma l’art. 9, comma 3 e l’art. 10, comma 1, prevedendo la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di “ogni documento utile” acquisito e la comunicazione di “qualsiasi informazione” ottenuta nel corso delle indagini, inducono a ritenere l’utilizzabilità anche di altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’organismo antifrode, e quindi anche dei verbali delle operazioni di missione (cfr. Cass. 13496/12(3), 5400/12(4), 4022/12(5), 14036/12(6)). Alla stregua di tali rilievi, dunque, non può neppure ritenersi necessario, ai fini del rifiuto, da parte della Dogana competente, del beneficio dell’esenzione daziaria o dell’applicazione di tariffe preferenziali, che venga annullato il certificato di origine da parte delle autorità del Paese emittente, atteso che l’adozione delle misure recuperatorie, ai sensi dell’art. 78 CDC e 11 D.Lgs. n. 374 del 1990, è legittimata dalle risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi comunitari (Cass. 5400/12, 14032/12(7)).

3.1.2. Ed è indubitabile che tali verbali ispettivi dell’OLAF ben possano essere posti a fondamento degli atti impositivi emessi dall’autorità doganale, ancorché non siano materialmente allegati all’atto, purché questo – in conformità all’art. 11, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 374 del 1990 – richiamando il suindicato verbale per relationem, ne riporti – di ciò, nel caso di specie, da atto la sentenza di secondo grado – i tratti essenziali, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa (Cass. 23985/08).

3.1.3. Da tutto quanto precede discende, pertanto, che gli atti impositivi in discussione sono da considerarsi – come esattamente ritenuto anche dalla CTR – adeguatamente motivati sulla base delle informazioni, acquisite dall’OLAF presso le autorità doganali di Sofia, e dei verbali della missione ivi esperita da detto organismo comunitario. Invero, il richiamo all’ulteriore rapporto dell’OLAF, OF 2002/564, avvenuto solo in sede giurisdizionale, come rilevato dalla CTR, a fronte del carattere esaustivo delle risultanze dei menzionati accertamenti preliminari degli organi ispettivi, riveste il valore di una mera aggiunta ad abundantiam, non rilevante ai fini della motivazione degli atti impositivi (Cass. 12394/02(8)).

3.1.4. Quanto alla circostanza per la quale la dichiarazione delle autorità bulgare non equivarrebbe ad affermazione di falsità dei certificati EUR 1, per essersi detta autorità limitata ad affermarne l’omessa “registrazione”, non può revocarsi in dubbio che detta dichiarazione abbia – come affermato dal giudice di appello – un significato univoco, essendo equivalente ad un’asserzione della Dogana bulgara di non essere a legale conoscenza di detti documenti: id est, che gli stessi, in quanto neppure conosciuti da detta autorità, non possono essere stati dalla medesima rilasciati all’esportatore.

È di tutta evidenza, infatti, che la registrazione dei certificati EUR 1, da parte della Dogana di partenza costituisce un adempimento che perfeziona la procedura per il rilascio della certificazione di origine del prodotto da esportare. La registrazione dei certificati emessi dalle autorità doganali costituisce, invero, secondo la Corte di Lussemburgo, una prassi indispensabile negli scambi internazionali, al fine di consentire di verificare in modo certo che una determinata merce, in uscita dallo Stato produttore, sia munita dell’attestazione di origine ufficiale, da parte dell’autorità doganale competente (C. Giust. CE n. 204/08(9)).

L’attestazione, da parte dell’autorità doganale di Sofia, circa la mancata registrazione di certificati di origine all’esportazione come quelli esibiti dalla Delfanti alla Dogana di Piacenza, trasmessa dall’OLAF all’Ufficio accertatore, è – pertanto – di per sé idonea a supportare, in sede amministrativa, gli accertamenti in revisione e rettifica notificati dall’Agenzia delle Dogane alla Delfanti Import-export s.r.l.

3.2. Sul piano del processo, poi, la pretesa daziaria esercitata dall’Amministrazione è stata correttamente ritenuta fondata, dai giudici di merito, anche sulla scorta del secondo rapporto, OF 2002/564, ancorché non allegato agli avvisi di accertamento, poiché pervenuto all’Amministrazione doganale solo dopo la loro emissione, e dal quale sono emersi ulteriori elementi circa l’origine cinese, e non bulgara, dell’aglio importato.

3.2.1. Ed invero, va osservato – in proposito – che il processo tributario è a cognizione piena e tende all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, con la conseguenza che solo quando l’atto di accertamento sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e precludere l’esame del merito del rapporto tributario – come nel caso, che si è ritenuto di escludere nella specie, in cui vi sia difetto assoluto o totale carenza di motivazione – il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione. In caso contrario, ad un esito meramente demolitorio di siffatto giudizio osta il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice di avvalersi dei propri poteri valutativi ed estimativi ai fini della decisione e, in forza dei poteri istruttori attribuiti dall’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, di acquisire “aliunde” i relativi elementi, prescindendo dagli accertamenti dell’Ufficio e sostituendo la propria valutazione a quella operata dallo stesso, in modo da pervenire ad una valutazione di merito in ordine alla legittimità ed alla congruità della pretesa azionata dall’Ufficio stesso (cfr. Cass. 21446/09(10), 11935/12(11)).

Da quanto precede deve, di conseguenza, inferirsi che legittimamente la CTR – pur dando atto del fatto che il successivo rapporto OF 2002/564 è stato solo menzionato negli avvisi di accertamento – ne ha tenuto, nondimeno conto ai fini della valutazione della fondatezza e congruità, pure a prescindere dagli accertamenti operati dall’Ufficio.

3.2.2. Né rileva, a giudizio della Corte, il fatto che il predetto rapporto fosse privo della sottoscrizione del suo estensore. Secondo un indirizzo, ormai ampiamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, invero, la validità degli atti amministrativi, e segnatamente di quelli tributari, non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro, o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che, al di là di questi elementi formali, esso sia inequivocabilmente ascrivibile – alla stregua di elementi desumibili aliunde, ed anche dal contesto dell’atto stesso – all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo (cfr., ex plurimis, Cass. 4923/07(12), 4757/09(13), 13375/09(14), 11458/12(15), 13461/12).

Ebbene, nel caso concreto, la CTR ha dato adeguatamente conto degli elementi – indicati dall’Ufficio e non contestati dalla contribuente – che, a suo parere, facevano deporre per l’autenticità del rapporto in questione (numero di protocollo, carta intestata, modalità di trasmissione), a prescindere dal difetto di sottoscrizione, e tale accertamento si traduce in un apprezzamento di fatto insindacabile nel presente giudizio di legittimità (Cass. 4923/07).

3.3. Alla luce degli elementi di valutazione che precedono, la decisione di secondo grado, in punto accertamento della falsità dei certificato EUR 1, allegati alla dichiarazione di importazione dalla società Delfanti, non merita, dunque, le censure mosse al riguardo dalla ricorrente.

4. Per quanto attiene, poi, alla seconda argomentazione difensiva operata della Delfanti s.r.l. sul piano sostanziale, e concernente il mancato riconoscimento dell’esimente comunitaria della buona fede ex art. 220 CDC, osserva la Corte che il ricorso si palesa infondato anche sotto il profilo in esame.

4.1. A tal riguardo va considerato, infatti, che le autorità doganali, in presenza di un’introduzione irregolare di merce, in trattamento doganale preferenziale, debbono rinunciare alla contabilizzazione a posteriori di tali dazi all’importazione, ai sensi dell’art. 220 n. 2, lett. b) CDC, nel momento in cui tre requisiti cumulativi sono presenti:

a) in primo luogo, occorre che i dazi in questione non siano stati riscossi a causa di un errore delle medesime autorità competenti;

b) è necessario, inoltre, che l’errore di cui si tratta sia stato di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore che versi in buona fede;

c) si richiede, infine, che l’importatore abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana (C. Giust. UE n. 173/07(16), C. Giust. UE n. 409/11(17)).

Se ne deve necessariamente inferire – come anche questa Corte ha più volte avuto modo di affermare – che lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art. 220, comma 2, lett. b) CDC, ai fini dell’esenzione dalla contabilizzazione a posteriori, non ha valenza esimente in re ipsa, ma solo in quanto sia riconducibile ad una delle situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato anche l’errore incolpevole, ossia non rilevabile dal debitore di buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza. E tuttavia, tale errore, per assumere rilievo scriminante, deve essere in ogni caso imputabile a “comportamento attivo” delle autorità doganali, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dello stesso operatore o di altri soggetti (cfr. Cass. 15297/08(18), 13680/09(19), 7837/10(20), 7674/12(21); in tal senso, v. pure C. Giust. CE, n. 348/89(22), causa Mecanarte). L’errore attivo, purché non ragionevolmente rilevabile dal debitore, si verifica, in particolare, quando esso non venga ad essere determinato da una situazione inesatta riferita dall’esportatore, essendo del tutto evidente che, in siffatta ipotesi, l’errore è indotto dalla dichiarazione del terzo e non può, pertanto, essere imputato a comportamento attivo della stessa autorità doganale (cfr. Cass. 13483/12(23), 7674/12, C. Giust. UE, 8.11.2012 n. 438(24), secondo la quale l’onere della prova che il certificato di origine si basa su una situazione fattuale riferita in maniera esatta dall’esportatore grava sul debitore).

4.2. Inoltre, poiché l’esimente comunitaria in esame presuppone la genuinità delle certificazioni poste a fondamento della richiesta di esenzione, ossia la loro correttezza formale e sostanziale, spetta, in ogni caso, all’importatore che voglia fruire di detta esenzione, dimostrare l’esistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dall’art. 220 CDC, mentre all’autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di allegare e dimostrare l’irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato che risulti inesatto autorizza il recupero dell’imposta a posteriori (Cass. 15297/08, 13680/09, 15547/10(25), 1583/12(26), C. Giust. UE, 438/12).

4.3. Ebbene, nel caso concreto, gli organi comunitari, come dianzi detto, hanno raccolto informazioni dalle autorità bulgare in forza del Protocollo n. 6 allegato alla Decisione n. 94/908, recettiva del menzionato accordo tra la Comunità Europea e la Bulgaria, ed effettuando in tale Paese una missione della durata di alcuni mesi – per il che, anche sotto tale profilo il ricorso della Delfanti, laddove ipotizza la violazione di detto Protocollo, si manifesta totalmente infondato – pervenendo alla conclusione della falsità di detti certificati, in quanto sconosciuti all’autorità bulgara che li avrebbe emessi. Ebbene, a fronte dell’accertata falsità del certificato di origine della merce (EUR 1), resta del tutto irrilevante che il dichiarante abbia agito in buona fede ed in modo diligente, ignorando un’irregolarità che abbia comportato la mancata riscossione dei dazi che il medesimo avrebbe dovuto altrimenti pagare. È chiaro, infatti, che la Comunità Europea non può essere tenuta a sopportare le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini rientranti nel rischio dell’attività commerciale, e contro i quali gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (C. Giust. CE, 17.7.97, causa C-97/95(27), Cass. 1583/12, 13483/12, 15758/12(28)).

4.4. Ne discende che la buona fede dell’importatore – quand’anche ritenuta sussistente – non lo esime comunque da responsabilità per l’adempimento dell’obbligazione doganale, essendo egli il dichiarante della merce importata, quand’anche scortata da certificati inesatti o falsificati a sua insaputa (Cass. 14509/08(29), 15758/12).

E ciò, in special modo laddove il debitore di imposta – per la sua qualità di soggetto esercente regolarmente l’attività di importatore, come nel caso di specie, la Delfanti che, per sua stessa ammissione, opera da oltre quarant’anni nel settore della produzione e del commercio di prodotti ortofrutticoli (pp. 1 e 6 del ricorso) – abbia proceduto all’irregolare introduzione di merce in ambito comunitario, sapendo o dovendo, secondo ragione, sapere che essa era irregolare. Con la conseguenza che tale soggetto – nel caso di specie, la società ricorrente – viene ad assumere in concreto la qualità di debitore per la relativa obbligazione doganale, ai sensi dell’art. 203, comma 3 CDC (Cass. 11181/10(30)).

4.5. Per tutte le ragioni che precedono, dunque, i primi sei motivi di ricorso non possono che essere rigettati.

5. Con il settimo motivo di ricorso, la Delfanti Import-Export s.r.l. denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.

5.1. L’impugnata sentenza, infatti, – oltre ai denunciati vizi sul piano della valutazione dei profili sostanziali della vicenda – si presenterebbe erronea anche sotto un profilo di natura processuale.

Il giudice di appello avrebbe, invero, errato nel ritenere legittima l’arbitraria integrazione istruttoria compiuta dalla Commissione di primo grado, con l’incaricare la Guardia di Finanza di Piacenza di redigere una relazione “atta a fornire ai fini istruttori ulteriori elementi conoscitivi”, ai sensi dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546 del 1992.

In tal modo – a parere della ricorrente – il giudice di appello avrebbe, invero, finito con l’avallare la lesione del principio di imparzialità del giudice e di quello del rispetto dell’onere probatorio nel processo tributario, avendo disposto un’integrazione istruttoria destinata – in buona sostanza – a supplire alle carenze motivazionali e probatorie degli avvisi di accertamento. Di qui, il denunciato, ulteriore, motivo di illegittimità da cui sarebbe affetta – ad avviso della società Delfanti l’impugnata sentenza.

5.2. La censura è infondata.

5.2.1. Va osservato, infatti che già nella vigenza del D.P.R. n. 636 del 1972, la Consulta aveva escluso che l’acquisizione di ufficio da parte del giudice tributario degli elementi conoscitivi tecnici, per il tramite di uffici statali, concretasse una violazione del principio di uguaglianza o del diritto di difesa, non potendo negarsi che l’apporto di tali uffici sia tale da assicurare perizia ed imparzialità. L’affidamento di un incarico, a soggetti pubblici estranei alla controversia è, difatti, certamente idoneo ad assicurare il rispetto delle garanzie proprie del processo (cfr. C. Cost. 560/89(31), 108/90(32)). L’attuale art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992 peraltro prevede espressamente che le Commissioni tributarie, qualora debbano acquisire elementi di particolare complessità, oltre a disporre consulenza tecnica, possano “richiedere apposite relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di Finanza”. Tali poteri, possono – tuttavia – concretarsi, non in un totale e non consentito, esonero della parte dall’onere della prova sulla stessa incombente, bensì nell’acquisizione di elementi integrativi – rispetto a quelli già forniti dalle parti – ai fini della risoluzione della controversia, nella vista finalizzazione del giudizio in parola alla valutazione ed alla quantificazione della pretesa tributaria dell’Ufficio, anche a prescindere dagli accertamenti da esso espletati (Cass. 1136/06(33), 24464/06(34), 18976/07(35)).

5.2.2. Ed è certamente significativo – al riguardo – il fatto che, pur essendo stato abrogato il comma 3, art. 7, D.Lgs. n. 546 del 1992 – che prevedeva il potere del giudice di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia – il comma 2 della stessa disposizione, che disciplina il potere di acquisire le relazioni degli organi tecnici o della Guardia di Finanza, sia rimasto in vigore, a salvaguardia della possibilità di consentire una necessaria integrazione degli elementi di prova allegati dalle parti. D’altro canto, è di tutta evidenza che il potere di ordinare ai contendenti in giudizio di produrre uno o più documenti, che si ritengono necessari per la risoluzione della controversia, è cosa ben diversa dalla possibilità per il giudice – a soli fini integrativi del materiale probatorio già versato in atti, ed esclusivamente quando occorra “acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità” – di disporre relazioni o consulenze tecniche. L’esercizio del primo dei poteri suindicati è – per vero – tale da invadere il campo riservato ai poteri dispositivi e di allegazione della parti (C. Cost. 109/07(36)), laddove il secondo è decisamente compatibile con la terzietà e l’imparzialità che costituisce l’essenza stessa del ruolo del giudice. Ed anzi, l’esercizio di tale potere consente il più efficace funzionamento del processo tributario, il quale non è annoverabile tra quelli di “impugnazione-annullamento”, ma tra i processi di “impugnazione- merito”, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, bensì alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’Ufficio (tra le tante, Cass. 15825/06(37), 13034/12(38)).

5.2.3. Nel caso concreto, la stessa ricorrente riferisce che l’acquisizione della relazione della Guardia di Finanza, era stata disposta dal giudice di primo grado per acquisire “ai fini istruttori ulteriori elementi conoscitivi”. Sicché – come correttamente ritenuto dalla CTR – è da escludere che tale iniziativa possa collidere con l’obbligo di terzietà del giudice e con il rispetto del principio dell’onere della prova, che – al pari di ogni altro tipo di giudizio – connotano anche il processo tributario.

Ne discende che anche la censura in esame deve essere rigettata.

6. Con l’ottavo motivo di ricorso, la Delfanti Import-Export s.r.l. denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 11, comma 5, del D.Lgs. n. 374 del 1990, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c.

6.1. La sentenza di seconde cure sarebbe, invero, illegittima – ad avviso della ricorrente – anche nella parte in cui ha ritenuto ammissibile la rettifica dell’importo dei diritti doganali dovuti dalla contribuente, operata dall’Agenzia delle Dogane nel corso dell’udienza di trattazione nel primo grado di giudizio. Siffatta integrazione di contro, consistendo in un aumento della pretesa impositiva, avrebbe dovuto – a parere della Delfanti – costituire oggetto di un nuovo avviso di accertamento in rettifica, ai sensi dell’art. 11, comma 5, del D.Lgs. n. 374 del 1990.

6.2. Il motivo è infondato.

6.2.1. Ed invero, va rilevato che in materia di diritti doganali, la mancanza del procedimento amministrativo di revisione, di cui all’art. 11 del D.Lgs. n. 374 del 1990, non determina di per sé la caducazione della pretesa impositiva, se motivata nell’“an” e nel “quantum”, atteso che – anche alla luce della giurisprudenza comunitaria (C. Giust. 11.1.01, C-1/99 Kofisa(39)) – non è rinvenibile nell’ordinamento il diritto soggettivo dell’operatore ad un previo procedimento amministrativo e al compiuto svolgimento delle sue fasi, una volta che gli sia riservato – a fronte di una maggiore pretesa tributaria, rispetto a quella azionata – di adire l’autorità giudiziaria per far valere in quella sede le proprie ragioni a garanzia della tutela immediata della sfera dei propri diritti (Cass. 19193/06(40), 10280/08(41), 4996/09(42)).

6.2.2. Per di più, nel caso concreto – come rilevato dal giudice di appello – non si trattava neppure di azionare una pretesa fiscale integrativa da parte dell’Amministrazione doganale, ma soltanto di correggere un errore materiale nell’indicazione dell’importo dovuto, senza che fosse in alcun modo innovata la natura del tributo azionato, né i suoi presupposti normativi. E tale correzione era avvenuta in udienza, con la vista, essenziale, garanzia giurisdizionale, nel contraddittorio delle parti. Sicché alcuna violazione, tale da incidere sulla legittimità dell’impugnata sentenza, può ritenersi sia avvenuta nel caso concreto, neppure sotto il profilo in esame.

7. Per tutti i motivi esposti, pertanto, il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese del presente giudizio vanno poste a carico della ricorrente, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M. – La corte suprema di cassazione rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 18.000,00, oltre alle spese prenotate a debito.

(1) Cass. 2 marzo 2009, n. 4997, in Boll. Trib. On-line.

(2) Cass. 24 settembre 2008, n. 23985, in Boll. Trib. On-line.

(3) Cass. 27 luglio 2012, n. 13496, in Boll. Trib. On-line.

(4) Cass. 4 aprile 2012, n. 5400, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cass. 14 marzo 2012, n. 4022, in Boll. Trib. On-line.

(6) Cass. 3 agosto 2012, n. 14036, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cass. 3 agosto 2012, n. 14032, in Boll. Trib. On-line.

(8) Cass. 22 agosto 2002, n. 12394, in Boll. Trib., 2004, 1026.

(9) Corte Giust. UE 9 luglio 2009, causa C-204/08, in Boll. Trib. On-line.

(10) Cass. 9 ottobre 2009, n. 21446, in Boll. Trib. On-line.

(11) Cass. 13 luglio 2012, n. 11935, in Boll. Trib. On-line.

(12) Cass. 2 marzo 2007, n. 4923, in Boll. Trib. On-line.

(13) Cass. 27 febbraio 2009, n. 4757, in Boll. Trib. On-line.

(14) Cass. 10 giugno 2009, n. 13375, in Boll. Trib. On-line.

(15) Cass. 6 luglio 2012, n. 11458, in Boll. Trib. On-line.

(16) Corte Giust. UE 10 luglio 2008, causa C-173/07, in Boll. Trib. On-line.

(17) Corte Giust. UE 11 luglio 2013, causa C-409/11, in Boll. Trib. On-line.

(18) Cass. 10 giugno 2008, n. 15297, in Boll. Trib. On-line.

(19) Cass. 12 giugno 2009, n. 13680, in Boll. Trib. On-line.

(20) Cass. 31 marzo 2010, n. 7837, in Boll. Trib. On-line.

(21) Cass. 16 maggio 2012, n. 7674, in Boll. Trib. On-line.

(22) Corte Giust. CEE 27 giugno 1991, causa C-348/89, in Boll. Trib. On-line.

(23) Cass. 27 luglio 2012, n. 13483, in Boll. Trib. On-line.

(24) In Boll. Trib. On-line.

(25) Cass. 30 giugno 2010, n. 15547, in Boll. Trib. On-line.

(26) Cass. 3 febbraio 2012, n. 1583, in Boll. Trib. On-line.

(27) In Boll. Trib. On-line.

(28) Cass. 19 luglio 2012, n. 15758, in Boll. Trib. On-line.

(29) Cass. 30 maggio 2008, n. 14509, in Boll. Trib. On-line.

(30) Cass. 7 maggio 2010, n. 11181, in Boll. Trib. On-line.

(31) Corte Cost. 20 dicembre 1989, n. 560, in Boll. Trib., 1990, 548.

(32) Corte Cost. 2 marzo 1990, n. 108, in Boll. Trib., 1990, 1109.

(33) Cass. 20 gennaio 2006, n. 1136, in Boll. Trib. On-line.

(34) Cass. 17 novembre 2006, n. 24464, in Boll. Trib. On-line.

(35) Cass. 10 settembre 2007, n. 18976, in Boll. Trib. On-line.

(36) Corte Cost. 29 marzo 2007, n. 109, in Boll. Trib., 2007, 741.

(37) Cass. 12 luglio 2006, n. 15825, in Boll. Trib. On-line.

(38) Cass. 24 luglio 2012, n. 13034, in Boll. Trib. On-line.

(39) In Boll. Trib. On-line.

(40) Cass. 6 settembre 2006, n. 19193, in Boll. Trib. On-line.

(41) Cass. 21 aprile 2008, n. 10280, in Boll. Trib. On-line.

(42) Cass. 2 marzo 2009, n. 4996, in Boll. Trib. On-line.

I poteri istruttori dei giudici tributari in ordine agli “elementi conoscitivi di particolare complessità” di cui all’art. 7, secondo comma, del D.Lgs. n. 546/1992

Nell’esperienza quotidiana, l’art. 7, secondo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, si va sempre più configurando come una di quelle norme la cui validità si misura sui fatti, cioè in base all’uso che se ne fa nel concreto delle singole situazioni (1). E invero, nel prevedere che le Commissioni tributarie, ove ritengano necessaria l’acquisizione di «elementi conoscitivi di particolare complessità», possano ordinare la consulenza tecnica d’ufficio anche rivolgendosi a organismi ed enti appartenenti o contigui all’Amministrazione finanziaria, il legislatore ha conferito al giudice tributario un potere-dovere molto delicato, da calibrare con oculatezza all’interno di una cornice processuale che oggi, dopo una travagliata temperie, vede esattamente definiti i ruoli dei protagonisti, con il giudice consegnato alla funzione, neutrale e un po’ sfingea, dell’arbitro.

Nel gioco delle parti che si instaura con l’introduzione della lite, ciascuna di esse deve alligare et probare gli elementi a proprio favore; solo in via di deroga il giudice può provvedervi in loro luogo, quando cioè alla alligatio (cioè alla formulazione) delle prove non può tener dietro la loro probatio (cioè la produzione) per colpa documentatamente non riconducibile a colui che vi è tenuto (e purché, beninteso, alla alligatio egli abbia in precedenza adempiuto). Parte dunque, quest’ultima, che deve forzatamente (e previamente) provare la propria diligenza; solo in tal caso viene sostituita dal giudice in forza di una norma, quella in discorso, che «attribuisce alle Commissioni tributarie ampi poteri istruttori d’ufficio … norma eccezionale che non può essere utilizzata come rimedio ordinario per sopperire alle lacune probatorie di parte in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo» (2) e che consente solo una «integrazione degli elementi già [ritualmente] forniti» (3). Come altrimenti è stato detto, «l’art. 7 deve cioè essere utilizzato in situazioni di “stallo” ove sussista una obiettiva condizione di incertezza in base ad elementi hinc et inde proposti, non ove il materiale probatorio in atti imponga già una specifica soluzione» (4).

La possibilità di siffatta opera surrogatoria, qualora esplicitata attraverso l’adizione, iussu iudicis, di una consulenza tecnica, è stata ribadita dalla novella del 1992 dopo che l’omologo precetto del regime pregresso (l’art. 35, terzo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, ove peraltro non era permesso al giudice tributario di disporre la consulenza tecnica d’ufficio, ma solo di richiedere «relazioni agli organi tecnici della amministrazione dello Stato») aveva ripetutamente superato il vaglio del giudice delle leggi (5).

Non è qui questione di sindacare la preparazione professionale di tali organismi (6). Il punto è tutt’altro: è che tali organismi portano, bene impressa sul frontespizio di ogni loro pronuncia, l’etichetta di appartenenza, un marchio di fabbrica che non depone, quanto meno prima facie, per la loro indipendenza di giudizio.

Torneremo subito su questo primo corno della problematica. Ora ne coinvolgiamo un altro che apparentemente – ma solo apparentemente – se ne discosta, mentre in realtà la digressione consente di completare il quadro.

La giurisprudenza non si risparmia nell’ammonire l’interprete a non dimenticare che, nel giudizio tributario, la materia del contendere sottesa – potremmo dire: la posta in gioco – travalica gli interessi dei contendenti, in quanto tocca una delle voci (i tributi e i loro accessori) cui la mano pubblica si alimenta, in massima parte, per l’approvvigionamento delle risorse utili a fronteggiare i costi della collettività. Attratto nella dimensione giurisdizionale, il confronto fra contribuente ed ente impositivo perde i connotati dell’affare strettamente privato, per colorarsi fatalmente di sfumature e risvolti d’indole pubblicistica.

Ogni tentativo di ricondurre la dialettica processuale a una faccenda soggettivamente circoscritta, per quanto suffragato da imponenti argomentazioni (non ultimo il dettato costituzionale: ved. l’art. 111 Cost., soprattutto laddove – secondo comma – si parla di processo imperniato sul “contraddittorio tra le parti”), non può evitare di cozzare contro tale evidenza.

Ad immediata dimostrazione dell’intima connessione dei due profili, è sufficiente ricordare che «il processo tributario è a cognizione piena e tende all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, con la conseguenza che solo quando l’atto di accertamento sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e precludere l’esame del merito del rapporto tributario, come nel caso in cui vi sia difetto assoluto o totale carenza di motivazione, il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, ostandovi altrimenti il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice di avvalersi dei propri poteri valutativi ed estimativi ai fini della decisione e, in forza dei poteri istruttori attribuiti dall’art. 7 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di acquisire aliunde i relativi elementi, prescindendo dagli accertamenti dell’Ufficio e sostituendo la propria valutazione a quella operata dallo stesso» (7).

L’opacità, la irriducibilità delle prospettive (tipiche di quando gli interessi protetti sono più) si stagliano vividamente in un’altra decisione, quella che, dopo avere ribadito la inidoneità del giudice a «sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova, il quale grava sull’Amministrazione finanziaria in qualità di attrice in senso stretto e si trasferisce a carico del contribuente solo quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria», ha poi stemperato la fermezza dell’assunto riconoscendo che «tuttavia, qualora la situazione probatoria sia tale da impedire la pronuncia di una sentenza ragionevolmente motivata senza l’acquisizione d’ufficio di un documento, l’esercizio di tale potereistruttorio si configura come un dovere, il cui mancato assolvimento deve essere compiutamente motivato» (8).

Non v’è chi non veda come, così facendo, si dia corpo a una ibridazione di fondo, perché il nodo da dirimere non verte tanto sulle modalità istruttorie (che sono un corollario del postulato), quanto piuttosto sulle premesse concettuali, cioè sulla natura del processo, cioè ancora sulla finalità che ad esso il sistema rimette e affida. Una volta decifrato lo scopo sostanziale da perseguire (che cosa ci si ripromette dal processo?), l’esito dell’indagine si riverbererà de plano sugli aspetti formali e procedurali.

E così, se il processo deve limitarsi ad accertare la prevalenza fra due posizioni (sostanziali e contenziose) contrapposte, il modello è – conclamatamente – il rito dispositivo, ergo il giudice deve attenersi agli alligata et probata partium, e non potrà mai intervenire nella fase istruttoria in funzione surrogatoria se non a favore della parte che, malgrado tutta la diligenza dispiegata, non sia riuscita a produrgli quanto di sua spettanza. Se invece il processo mira alla proclamazione della giustizia sostanziale (della cosiddetta verità storica, che è notoriamente altra rispetto a quella giudiziale), allora il modello non è più il giudizio di parti, ma il giudizio inquisitorio, ergo il compito del giudice va ben al di là della funzione surrogatoria, altro essendo l’obiettivo del giudizio. Una mediazione fra le due concezioni è quanto di più arduo esista, anche per un legislatore ordinario che, come il nostro, si ritrova una lunga tradizione di dibattiti alle spalle.

La complessità della materia non è sfuggita al massimo portavoce del nostro diritto vivente (9). Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell’art. 7, primo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, nella parte in cui non prevede, tra i poteri istruttori delle Commissioni tributarie, quello di ordinare alle parti, pur nei limiti dei fatti dedotti, di produrre documenti ritenuti necessari ai fini della decisione (cioè, in buona sostanza, sulla legittimità costituzionale dell’intero art. 7 nel tenore che sopravvive dopo la soppressione del suo terzo comma, quello per cui era «sempre data alle Commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia»), la Corte Costituzionale si è trovata a dare riscontro ad una ordinanza di remissione assai ben orchestrata (10), nella quale – non senza fondamento – si deprecava la soppressione del terzo comma e si lamentava che «l’intento del legislatore di valorizzare il principio della disponibilità della prova e della terzietà del giudice si sarebbe risolto in un sacrificio del diritto di difesa del contribuente» atteso che i poteri officiosi del giudice si rivelerebbero «spendibili solo a favore dell’Amministrazione, laddove del soppresso potere di ordinare il deposito di documenti si sarebbe normalmente giovato, per alleviare il proprio onere probatorio, il contribuente» (11).

Rispondendo altrettanto articolatamente, la Corte ha innanzi tutto dimostrato di conoscere funditus le due polarità che nella circostanza entrano in circuito, cioè: a) da un lato, l’indirizzo dottrinario e giurisprudenziale che «fondandosi sulla rilevanza e sulla natura pubblicistica dell’obbligazione tributaria nonché sulla cosiddetta presunzione di legittimità del provvedimento (amministrativo) impositivo, presupponeva che il processo tributario dovesse tendere all’accertamento della cosiddetta verità materiale e non acquietarsi, quindi, alla cosiddetta verità formale, presidiata dalla regola di giudizio discendente dal riparto dell’onere della prova»; b) dall’altro, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, sempre più marcato con l’andare del tempo, sotto la cui egida «a fronte delmancato assolvimento dell’onere probatorio da parte del soggetto onerato, il giudice tributario non è tenuto ad acquisire d’ufficio le prove, in forza dei poteri istruttori a lui attribuiti dall’art. 7, in quanto tali poteri sono meramente integrativi dell’onere probatorio principale e sono utilizzabili solo qualora sia impossibile o sommamente difficile fornire, da parte di chi vi era tenuto, le prove richieste».

Di qui un convincente insegnamento, che consente agli operatori di tenere ferma la barra verso il traguardo del giusto processo. Insegnamento secondo il quale – prima asserzione – se, per un verso, «la rilevanza pubblicistica dell’obbligazione tributaria giustifica ampiamente i penetranti poteri che la legge conferisce all’Amministrazione nel corso del procedimento destinato a concludersi con il provvedimento impositivo [cioè nella fase di amministrazione attiva, ancora precontenziosa]», nondimeno detta rilevanza «non implica affatto – né consente – che tale posizione si perpetui nella successiva fase giurisdizionale e che, in tal modo, sia contaminata l’essenza stessa del ruolo del giudice facendone una sorta di longa manus dell’Amministrazione».

La Corte aggiunge – seconda asserzione – che «non soltanto il principio dell’applicabilità al processo tributario, in quanto compatibili, delle norme del codice di procedura civile (art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 546/1992), ma anche il carattere non esaustivo della disciplina dell’istruzione contenuta nell’art. 7 impongono di ritenere che la produzione di documenti, oltre che spontanea, possa essere ordinata a norma dell’art. 210 cod. proc. civ. (e, quindi, anche nei confronti di terzi)».

Ora, a prescindere da ogni perplessità circa «il carattere non esaustivo della disciplina dell’istruzione contenuta nell’art. 7» e ammessa la potenziale trasmigrazione nel ceppo processualtributario dell’art. 210 c.p.c. (Ordine di esibizione), quello per cui «negli stessi limiti entro i quali può essere ordinata a norma dell’art. 118 l’ispezione di cose in possesso di una parte o di un terzo, il giudice istruttore, su istanza di parte, può ordinare all’altra parte di esibire in giudizio un documento o altra cosa di cui ritenga necessaria l’acquisizione al processo» (primo comma) (12), consola apprendere che il giudice delle leggi, pur potendolo serenamente fare, si è guardato bene dall’avallare l’acritica e indiscriminata applicabilità – nel cuore di un contenzioso che sempre vede sub iudice l’operato di un ente pubblico impositore – dell’art. 213 c.p.c. (Richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione), alla cui stregua «Fuori dei casi previsti negli artt. 210 e 211 [intitolato Tutela dei diritti del terzo], il giudice può richiedere d’ufficio alla pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell’amministrazione stessa, che è necessario acquisire al processo».

Opportunamente la Corte ha sì riconosciuto al giudice, «ove necessario», il «potere di chiedere informazioni o documenti ai sensi dell’art. 213 c.p.c., e cioè attivarsi in funzione di chiarificazione dei risultati probatori prodotti dai mezzi di prova dei quali si sono servite le parti». Ma ciò esclusivamente – è detto a chiare lettere – «nei confronti di pubbliche amministrazioni diverse da quella che è parte del giudizio» (13).

Tornando al caso specifico da cui ha mosso lo scritto, e messe in disparte tutte le remore intorno alla utilizzabilità di un ausilio processuale così pericolosamente borderline, pare indubbio come, nella circostanza, sia stato largamente superato l’importante diaframma che fa da (estrema e invalicabile) protezione al coefficiente di neutralità del giudice, lo stesso che segna il punto di non ritorno fra validità e invalidità dei suoi atti. Nella specie, infatti, ad essere incaricato dell’approfondimento delle questioni emerse in corso di causa è stato un ente giuridico, il corpo della Guardia di finanza, che non solo ha, per investitura istituzionale, funzioni di collaborazione con gli Uffici accertatori, ma che addirittura, nella vicenda sfociata in lite, ha condotto in prima persona tutta l’attività istruttoria, integrandone i contenuti e per ciò stesso condizionandone l’esito. In altre parole la Guardia di finanza, lungi dall’essere estranea al contraddittorio, era tutt’uno con la parte pubblica in causa, l’Agenzia delle dogane: coincideva cioè con uno dei giocatori. Ne deriva la patente illegittimità per violazione di legge dell’operato della Commissione, infortunio che la Suprema Corte non ha colto, limitandosi a una lettura formale e asettica (per ciò stesso erronea, viste le premesse) della regola.

Con ciò, e a tutto concedere, è stato infranto un paletto posto da tempo immemorabile dal giudice delle leggi, quando ebbe a statuire che l’art. 7 «nel prescrivere che la Commissione tributaria possa richiedere “relazioni ad organi tecnici dell’amministrazione dello Stato”, non prevede che il compito debba essere espletato da organi “i quali già ebbero ad occuparsi delle questioni da risolvere”, ma consente invece al giudice di affidare l’incarico a un organo amministrativo estraneo alla controversia, il che assicura il pieno rispetto delle garanzie proprie del processo» (14).

Ben più di una raccomandazione, dunque. Piuttosto un dovere, dalla cui trasgressione escono incise le “garanzie proprie del processo”. E a nulla, a quel punto, serve obiettare che al contribuente è pur sempre dato il diritto di replica (15); non serve perché lo squilibrio delle posizioni è già stato, contra legem, a suo danno perpetrato, e proprio – summa iniuria – dall’Organo di garanzia.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Con una buona dose di approssimazione, si potrebbe dire che qui è dalla giustizia che nasce la legittimità della disposizione, al contrario dell’id quod plerumque accidit.

(2) Cass., sez. trib., 10 settembre 2007, n. 18976, in Boll. Trib. On-line, la quale dichiara di rifarsi a Corte Cost. 29 marzo 2007, n. 109, in Boll. Trib., 2007, 741, con nota redazionale favorevole, su cui meglio infra.

(3) Conformi Cass., sez. trib., 22 giugno 2010, n. 14960, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 26 febbraio 2009, n. 4589, ivi, che rimarca come la strada in parola sia praticabile «solo quando l’assolvimento dell’onere della prova a carico del contribuente sia impossibile o sommamente difficile» e che «tale indefettibile condizione richiede, a carico della parte, l’allegazione e l’accertamento della specifica situazione di fatto che, nel caso concreto, abbia reso impossibile o sommamente difficile l’assolvimento dell’onere della prova»; e Cass., sez. trib., 22 febbraio 2008, n. 4617, ivi, che mette l’accento sulla natura di “facoltà discrezionale” del relativo potere-dovere del giudice. Preme, a tale ultimo riguardo, ricordare come la discrezionalità di un provvedimento giurisdizionale non equivalga affatto né alla sua immotivatezza, stante il dettato dell’art. 111, sesto comma, Cost. («Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati»), né alla sua totale incensurabilità, stante il dettato dell’art. 113 («Contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa»). Particolarmente apprezzabile sul punto Cass., sez. trib., 30 dicembre 2010, n. 26392, in Boll. Trib. On-line, che ha sanzionato di inammissibilità la richiesta della difesa pubblica di acquisire gli allegati alla dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente, e ciò «sia perché si tratta di documenti già in possesso dell’Amministrazione finanziaria ed è quindi in contrasto con l’art. 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212, sia perché manca il presupposto che legittima l’esercizio del potere di ufficio, costituito dall’impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell’altra». Significativo ci sembra anche il parallelo con il rito amministrativo, a proposito del quale è stato rilevato che «anche se il thema decidendum è rigidamente prefissato dalle prospettazioni e dalle allegazioni del ricorrente, di norma è nel dominio dell’Amministrazione la possibilità di fornire la prova di certi fatti, per cui se, ai fini della decisione, occorra verificare la veridicità di fatti posti a fondamento dell’atto amministrativo impugnato, è l’organo amministrativo che l’ha emanato a subire il relativo onere probatorio e le conseguenze del mancato assolvimento di questo, spettando al giudice, che abbia disposto l’acquisizione della prova individuando la parte all’uopo onerata, di trarre il proprio convincimento dal comportamento dell’Amministrazione che non sia stata in grado di dimostrare quanto affermato» (così Corte Cost. 18 maggio 1989, n. 251, in Cons. Stato, 1989, II, 729).

(4) Cass., sez. trib., 17 novembre 2006, n. 24464, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cfr. Corte Cost. 20 dicembre 1989, n. 560, in Boll. Trib., 1990, 548. Ivi, richiamando un proprio precedente (Corte Cost. n. 251/1989, cit.), il giudice delle leggi osservava come nulla ostasse all’accesso nel giudizio tributario delle «consulenze tecniche del tipo di quelle previste nel processo civile ed in quello penale, purché sia una delle parti del processo tributario a richiederla. Previsione, questa, che pone tutte le parti in posizione di parità processuale, potendo entrambe chiedere che venga esperito quel mezzo, rimanendo però pur sempre affidato al giudice, come negli altri processi in cui esso è previsto, il potere di ammetterlo o meno». Come non si escludeva che «ove la consulenza tecnica venga ammessa su richiesta di una delle parti, entrambe possano chiedere di affiancare al consulente di ufficio quello di parte, per meglio esplicare la propria difesa tecnica».

(6) Con riferimento alla preparazione tecnica degli Uffici sollecitati, Corte Cost. n. 251/1989, cit., sostiene «non potersi negare che il loro apporto sia tale da assicurare perizia ed imparzialità».

(7) Cfr. Cass., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11935, in Boll. Trib. On-line. Vi si richiama il precedente di Cass., sez. trib., 9 ottobre 2009, n. 21446, in Boll. Trib. On-line; così la coeva Cass., sez. VI, 24 luglio 2012, ord. n. 13034, ivi, ove si legge: «Dalla natura del processo tributario, il quale non è annoverabile tra quelli di impugnazione-annullamento ma tra i processi di impugnazione-merito, in quanto non è diretto alla sola eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio, discende che, ove il giudice tributario ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali ma di carattere sostanziale, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte».

(8) Cfr. Cass., sez. trib., 18 gennaio 2006, n. 905, in Boll. Trib., 2008, 254, con nota redazionale favorevole.

(9) Cfr. Corte Cost. n. 109/2007, cit.

(10) Cfr. Comm. trib. prov. di Novara, 26 maggio 2006, ord. n. 435, in Boll. Trib., 2006, 1914.

(11) Leggiamo nell’ordinanza di remissione: «[Appare] assolutamente irrazionale un quadro normativo per il quale, in un processo di parti, sono riconosciuti al giudice gli stessi poteri istruttori anche autoritativi dell’Amministrazione finanziaria, con l’unica ed ingiustificata eccezione dell’acquisizione di documenti».

(12) Condivisibile la sentenza di Corte Cost. n. 109/2007, cit., ove afferma essere «ovvio che l’esigenza di un’istanza di parte affinché il giudice possa ordinare l’esibizione di documenti è coerente con il principio dispositivo che, anche relativamente alle prove, il legislatore vuole governi il processo tributario e vale ad escludere in radice per il giudice ogni ruolo di supplenza della parte inerte, sia essa l’Amministrazione o il contribuente».

(13) L’art. 213 c.p.c. «consente di chiedere informazioni scritte solo nel caso in cui queste riguardino propriamente atti e documenti già in possesso dell’Amministrazione, non anche nel caso in cui questi costituiscano il risultato di particolari indagini, sia pure rientranti nei poteri istituzionali di vigilanza, giacché in tale caso verrebbe delegata alla P.A. attività istruttoria che solo il giudice può compiere con le debite forme» (così Cass., sez. lav., 25 ottobre 1982, n. 5557, in Rep. foro it., 1982, Esibizione delle prove [2780], n. 4).

(14) Cfr. Corte Cost. 2 marzo 1990, ord. n. 108, in Boll. Trib., 1990, 1109.

(15) Merita menzione un passaggio di Corte Cost. 21 gennaio 2000, n. 18, in Boll. Trib., 2000, 311, con nota di B. Aiudi, Giusto processo?, di taglio favorevole. Sentenza che, nel dichiarare consono con il dettato costituzionale il divieto di prova testimoniale nel processo tributario, ha precisato che «ciò non vuol dire che il contribuente non possa, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale. Allorché ciò avvenga, il giudice tributario, ove non ritenga che l’accertamento sia adeguatamente sorretto da altri mezzi di prova, anche a prescindere dunque dalle dichiarazioni di terzi, potrà e dovrà fare uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7, rinnovando ed eventualmente integrando, secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità, l’attività istruttoria svolta dall’Ufficio». Da ultimo, sul fondamentale argomento, cfr. Cass., sez. trib., 27 marzo 2013, n. 7707, in Boll. Trib., 2013, 1346, con nota di F. Brighenti, Le dichiarazioni (scritte) di terzi nel processo tributario. Si veda altresì il passaggio di Corte Cost. n. 560/1989, cit., che qui si riproduce per comodità: «Ove la consulenza tecnica venga ammessa su richiesta di una delle parti, entrambe possono chiedere di affiancare al consulente di ufficio quello di parte, per meglio esplicare la propria difesa tecnica»