SOMMARIO: 1. Premessa – 2. La problematica degli sconti infragruppo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione – 3. “Remise”, “sconti d’uso” e analisi di comparabilità – 4. La funzione degli sconti nelle politiche di prezzo dei gruppi multinazionali – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Nel corso dell’ultimo decennio, a fronte di una maggiore attenzione dell’Amministrazione finanziaria nei confronti delle transazioni internazionali poste in essere da società facenti parte di gruppi multinazionali, al fine di accertare la corretta quantificazione dei prezzi di trasferimento, si è registrato un considerevole incremento delle controversie in materia, in applicazione delle disposizioni di cui all’art. 110, settimo comma, del TUIR (1).
Nonostante l’aumento dei procedimenti avviati in quest’ambito dall’Amministrazione medesima (2) e, successivamente passati al vaglio dei giudici di merito e di legittimità, non esiste ad oggi, come testimoniano le copiose sentenze emesse, un orientamento giurisprudenziale consolidato, in grado di guidare l’interprete nella ricostruzione delle transazioni inter-company (3).
Il principio avallato e riconosciuto, a tal riguardo, si basa sulla convinzione che il valore normale deve essere determinato attraverso i metodi indicati a livello internazionale (nelle c.d. Guidelines dell’OCSE), tenendo, comunque, conto che la normativa fiscale nazionale, contenuta nel TUIR, impone di utilizzare il parametro del valore normale per individuare il prezzo di libera concorrenza.
Detto valore, per espresso rinvio dell’art. 110, settimo comma (4), del TUIR, è normativamente individuato nelle disposizioni recate dall’art. 9 (5), terzo comma, dello stesso decreto, per effetto del quale rileva il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o i servizi sono stati acquistati o prestati, e in mancanza nel tempo e nel luogo più prossimi (6).
In sostanza, in base alla legge tributaria occorre fare riferimento, ove è possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso (7).
La disposizione in materia di transfer pricing, in questa prospettiva, permette di evitare, sebbene non introdotta con queste finalità (8), arbitraggi fiscali e di contrastare eventuali fenomeni elusivi, quali la migrazione del reddito d’impresa da un Paese ad un altro a più bassa fiscalità, proprio attraverso valutazioni discrezionali nella formazione dei prezzi di trasferimento infragruppo, in modo da ridurre al massimo il carico fiscale del gruppo stesso (c.d. “tax planning”).
La disposizione in commento, dunque, non vieta di vendere dei beni ad altre società del gruppo ad un prezzo inferiore a quello che sarebbe il loro “valore normale” (necessità che, ad esempio, si può appalesare quando si vuole aggredire un nuovo mercato estero attraverso la vendita di beni ad un prezzo competitivo rispetto a quello della concorrenza), ma si limita a prevedere che, se ciò accade, nella determinazione del reddito imponibile, l’impresa deve valutare le vendite così poste in essere in base al loro “valore normale” (9).
Nell’analisi frammentaria, talvolta eccessiva, degli orientamenti giurisprudenziali in materia, tuttavia, una tematica dibattuta è quella relativa all’attribuzione della natura di “sconti d’uso” (10) agli sconti infragruppo, ovverosia le riduzioni percentuali del prezzo praticate nelle transazioni intercorse con società considerate nell’ambito applicativo dell’art. 110, settimo comma, del TUIR.
Suddetta tematica, infatti, rilevante ai fini della configurazione del valore normale, merita un particolare approfondimento anche perché, in relazione ad essa, non è stata fornita, neppure in via interpretativa, alcuna precisazione.
I paragrafi successivi forniscono, pertanto, una breve analisi delle principali pronunce della Corte di Cassazione in materia.
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2. La problematica degli sconti infragruppo nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Con la sentenza n. 24005/2013 (11), la Corte di Cassazione è intervenuta sul tema del transfer pricing affrontando, incidentalmente, la questione dei metodi per la determinazione dei prezzi di trasferimento (12).
In seguito ad una verifica nei confronti di un soggetto appartenente a un gruppo multinazionale, in particolare, veniva rettificata la dichiarazione dei redditi mediante la contestazione della violazione di omessa dichiarazione di componenti positivi di reddito derivanti da cessioni di beni (soda e bicarbonato di sodio) nei confronti della controllante estera (casa madre).
Tale violazione nasceva, per l’appunto, dalla accertata cessione di beni ad un corrispettivo inferiore al valore normale, determinato in base al combinato disposto di cui all’art. 9, terzo comma, e 110, settimo comma, del TUIR.
La società impugnava la rettifica, presentando ricorso alla competente Commissione tributaria provinciale, che, unitamente ai giudici di seconde cure, ne accoglieva la relativa tesi basata sul fatto che per la determinazione del valore normale delle transazioni de quibus occorreva, invece, fare riferimento ai listini applicati nel Paese di destinazione della merce e non, come asserito dai verificatori, in quello d’origine.
L’Amministrazione finanziaria proponeva ricorso in cassazione rappresentando, in sintesi, l’errata interpretazione delle disposizioni sul transfer pricing.
I giudici di legittimità ne accoglievano il ricorso fornendo, al riguardo, chiarimenti in merito alla corretta applicazione.
Per i giudici, infatti, la ratio della disposizione di cui all’art. 9, terzo comma, del TUIR, è “del tutto evidente” in quanto la predetta norma costituisce, di fatto, una deroga al generale principio in base al quale il reddito viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti tra le parti della singola transazione commerciale.
L’art. 9, terzo comma, del TUIR, in particolare, prevede che (come sopra specificato) il valore normale deve essere individuato in riferimento al prezzo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, facendo, ove possibile, riferimento ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi medesimi.
In quest’ottica, nelle more dell’interpretazione della Suprema Corte, è nella seconda parte del terzo comma dell’art. 9 che deve essere individuato il criterio prioritario per addivenire alla corretta individuazione del valore normale nelle transazioni tra parti correlate.
Infatti, «… la lettura unitaria e complessiva delle due parti dell’articolo 9, comma 3, nella connessione dei due enunciati normativi ivi esposti, non può che evidenziare come per prezzo o corrispettivo praticato nelle vendite operate in regime di “libera concorrenza”, nel “tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati”, non può che intendersi il prezzo o corrispettivo relativo a vendite effettuate nel mercato del cedente.
Il riferimento ai listini, tariffe e mercuriali del fornitore dei beni o dei servizi, contenuto nella seconda parte della stessa disposizione, non avrebbe, altrimenti, alcun significato logico.
Come pure del tutto significativo, in tal senso, è il riferimento normativo agli “sconti d’uso”, per tali dovendo indubbiamente intendersi quelli usualmente praticati nei propri listini, sul mercato nazionale, dall’impresa venditrice nelle operazioni commerciali con soggetti estranei al proprio gruppo economico, e non, quindi, le riduzioni percentuali di prezzo – agevolmente riconducibili a manovre elusive – operate nei soli rapporti infragruppo (c.d. “remise”)».
La pratica di applicare riduzioni di prezzo (o sconti) in favore di soggetti appartenenti al medesimo gruppo è, difatti, non di rado riscontrabile nelle politiche di prezzo dei gruppi multinazionali.
È frequente, infatti, che società appartenenti ad un gruppo vendano i propri prodotti o prestino i propri servizi, sia nei confronti di soggetti esteri, appartenenti al medesimo (gruppo), sia nei confronti di clienti esterni allo stesso. In linea teorica, dunque, ove le condizioni in base alle quali queste operazioni hanno luogo risultino omogenee, il prezzo applicato non può che essere il medesimo, in virtù del principio del valore normale.
Tuttavia, non è inusuale che le vendite effettuate in favore di consociate estere presentino differenze rispetto a quelle effettuate in favore di entità indipendenti.
Qualora tali differenze risultino economicamente rilevanti, nel rispetto del principio del valore normale, le medesime dovranno riflettersi sui prezzi rispettivamente praticati. In tale prospettiva, lo “sconto” può rappresentare uno strumento per “valorizzare” tali differenze.
Ai fini della corretta determinazione dei prezzi di trasferimento, tuttavia, si appalesa l’esigenza di bilanciare, da un lato, la necessità di garantire che a situazioni differenti corrisponda un diverso trattamento economico (nel rispetto, sempre, del principio del valore normale), e, dall’altro lato, di evitare l’erosione di base imponibile per il tramite di indebite riduzioni dei prezzi di vendita praticati infragruppo.
Al riguardo, la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella sentenza in esame appare rigorosa, ritenendo le riduzioni percentuali di prezzo in favore di soggetti collegati «agevolmente riconducibili a manovre elusive operate nei soli rapporti infragruppo», ed escludendone, dunque, la legittimità come strumento per la valorizzazione delle transazioni ai fini del transfer pricing (13).
Tali sconti, se applicati solo nelle transazioni con parti correlate e non con i soggetti estranei al gruppo, sarebbero illegittimi, in quanto funzionali allo spostamento di materia imponibile fuori dall’Italia a beneficio di altri Paesi, in violazione della normativa sui prezzi di trasferimento.
Tale interpretazione, nella sostanza, trova la sua ragion d’essere in una lettura formalistica dell’art. 9, terzo comma, parte seconda, del TUIR, in base alla quale le c.d. “remise”, non costituiscono gli “sconti d’uso” contemplati dalla norma, in quanto sono considerati tali unicamente quelli usualmente praticati dal “soggetto” sui propri “listini” o sulle proprie “tariffe” (se esistenti) per le operazioni concluse «in condizioni di libera concorrenza», vale a dire per le operazioni economiche concluse con soggetti estranei al gruppo, e non quelli applicati solo in operazioni infragruppo (14).
Questo è, del resto, anche il principio che emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 7343/2011 (15) (c.d. “caso Nylstar”) (16).
La controversia traeva origine, nello specifico, da una verifica condotta in capo ad una società italiana, appartenente ad un gruppo multinazionale operante nel settore dei prodotti chimici e delle fibre naturali, alla quale era stata contestata l’applicazione di sconti (le c.d. “remise”) in misura variabile del 2%, 3% e 4% alle imprese del gruppo domiciliate all’estero (17), in quanto tali sconti non erano previsti contrattualmente e, soprattutto, non sarebbero stati applicati alla generalità dei soggetti con cui operava la società, ma solo alle consociate estere.
Mentre la Commissione tributaria provinciale aveva confermato l’operato dell’Amministrazione finanziaria e, quindi, sancito l’illegittimità degli sconti per violazione della normativa sul transfer pricing, i giudici della Commissione tributaria regionale della Lombardia avevano accolto il ricorso in appello della società, ritenendo legittimi tali sconti (18).
L’Amministrazione finanziaria era, pertanto, ricorsa per cassazione, ribadendo la violazione della normativa sui prezzi di trasferimento (art. 76 del TUIR all’epoca dei fatti, attualmente art. 110).
I giudici di legittimità, condividendo le tesi dell’Ufficio fiscale, avevano affermato che il valore normale da attribuire alle transazioni infragruppo può senz’altro tenere conto degli sconti, ma solo se gli stessi sono praticati anche a soggetti estranei al gruppo di appartenenza, «essendo evidente che siffatta pratica (capace, di per sé sola, di determinare l’anticipato “spostamento” all’estero del corrispondente reddito prodotto in Italia)», ove limitata alle società dello stesso gruppo economico, «non rappresenta affatto il “prezzo o corrispettivo mediamente praticato” dal soggetto “in condizioni di libera concorrenza”, e, quindi, non è idonea a fissare quel “valore normale” che il legislatore prescrive di considerare perché da esso ritenuto l’unico rappresentativo del “prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie”».
In realtà, la società ricorrente, stante quanto si evince dalla sentenza, si era difesa evidenziando, tra l’altro, che la concessione delle c.d. “remise” alle sole società del gruppo era giustificata dai maggiori volumi di scambi rispetto ai soggetti indipendenti, nonché dalla circostanza che, a quello stadio di commercializzazione, l’operatività societaria era circoscritta alle sole società del gruppo, e, pertanto, le transazioni oggetto di verifica non erano paragonabili rispetto a quelle intrattenute con soggetti indipendenti.
Le c.d. “remise” avevano pertanto come obiettivo, nell’ambito della politica di prezzo del gruppo, quello di «remunerare i rischi e i costi connessi alla commercializzazione e alle incertezze del mercato che le società produttrici scaricavano sui rivenditori» dove, nel caso di specie, il ruolo di produttrice veniva assunto, per l’appunto, dalla “Nylstar” e quello di rivenditore dalle “acquirenti estere” del gruppo.
In sostanza, dalla lettura delle argomentazioni difensive riportate nel corpo della sentenza, sembrerebbe che gli sconti non fossero stati praticati a soggetti indipendenti, solo perché quelle specifiche transazioni (con quel volume di scambi e a quello stadio di commercializzazione) erano eseguite con le sole società del gruppo. Di conseguenza, gli stessi sconti sarebbero stati applicati anche a transazioni con soggetti estranei al gruppo in presenza delle medesime condizioni economiche (ad esempio, quantità acquistate).
Tale aspetto, peraltro, non sembra essere stato adeguatamente valorizzato dalla Suprema Corte.
Se così non fosse, infatti, si dovrebbe concludere che la Corte abbia voluto sancire la generale e assoluta illegittimità, in base alla normativa sul transfer pricing, degli sconti concessi alle società del gruppo non residenti per chi commercializza esclusivamente all’interno del gruppo medesimo (e, pertanto, non pone in essere transazioni comparabili con soggetti indipendenti), anche se dalla lettura della sentenza non emergono elementi che possano fare ipotizzare un’effettiva e specifica volontà in tal senso, volontà che non troverebbe, peraltro, alcun supporto normativo.
A ben vedere, dunque, secondo l’interpretazione della Suprema Corte, il terzo comma dell’art. 9 del TUIR consente (o impone) di tenere conto degli “sconti d’uso”, nella determinazione del valore normale, sia nel caso di applicazione del metodo del confronto interno (in questa ipotesi, gli “sconti d’uso” saranno quelli praticati sui listini o sulle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi), che nel caso di confronto esterno (in questa ipotesi gli “sconti d’uso” saranno quelli praticabili sulle mercuriali, sui listini delle camere di commercio e sulle tariffe professionali).
In entrambe le ipotesi, peraltro, bisognerà fare riferimento, ai prezzi riferibili a: 1) beni o servizi della stessa specie o similari; 2) in condizioni di libera concorrenza; 3) al medesimo stadio di commercializzazione; 4) nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi.
Le conclusioni cui giunge la Suprema Corte con le sentenze in commento (limitatamente alla fattispecie del transfer pricing) appaiono generalmente condivisibili, ma nei limiti in cui (nel caso oggetto di giudizio) la concessione degli sconti, esclusivamente in favore delle proprie consociate, non sia giustificata in base ad elementi idonei.
In realtà, dalla lettura della sentenza “Nylstar”, sembrerebbe che la società accertata si sia difesa sostenendo che la mancata applicazione degli sconti a soggetti indipendenti era giustificata dal fatto che quelle specifiche transazioni, a quello stadio di commercializzazione, non erano eseguite affatto con soggetti terzi, ma avevano luogo solo con le sole società del gruppo. Inoltre, anche il volume degli scambi intercorsi con soggetti terzi non era paragonabile con quello avvenuto con soggetti correlati.
Tali aspetti, tuttavia, non sembrano essere stati tenuti in considerazione dalla Suprema Corte nello stabilire l’illegittimità delle “remise”.
Nel corso del contenzioso, dunque, non sembra che siano state adeguatamente valorizzate le specifiche caratteristiche delle transazioni esaminate (approccio, peraltro, suggerito dall’OCSE nelle Linee Guida sui prezzi di trasferimento) (19), nonché le “condizioni economiche” delle medesime (20), condizioni che rappresentano uno dei cinque “fattori di comparabilità” (21) (22).
3. “Remise”, “sconti d’uso” e analisi di comparabilità
L’applicazione di sconti, con il fine di tutelare il valore, anche di medio o lungo periodo, di una azienda è, del resto, nell’ambito del mercato di riferimento, uno strumento razionale e validamente giustificabile (23).
Ciò non avvalora, sotto il profilo del transfer pricing, la legittima applicazione di qualsiasi sconto ma conferma come un’analisi economica sulla corretta determinazione dei prezzi di trasferimento possa risultare incompleta e, in taluni casi, fuorviante in mancanza di una “analisi di comparabilità” che tenga conto di tutti i fattori, ivi incluse le condizioni economiche in cui si svolge la transazione.
Se infatti, da un lato, si ritiene apprezzabile la posizione della Suprema Corte dove afferma che è possibile parlare di “sconti d’uso”, ai sensi del terzo comma dell’art. 9 del TUIR, soltanto nel caso in cui gli stessi vengano praticati nella “generalità” delle transazioni (vale a dire in quelle con soggetti appartenenti al medesimo gruppo e in quelle poste in essere con soggetti terzi indipendenti e non, diversamente, in una soltanto di queste due categorie), dall’altro, non è possibile affermare che, per il solo fatto che gli sconti non siano stati applicati a soggetti terzi indipendenti, i medesimi non possano essere considerati d’uso o, comunque, legittimi sotto il profilo del transfer pricing.
L’uso di applicare sconti potrebbe, in questa prospettiva, essere subordinato al manifestarsi di talune condizioni di carattere, ad esempio, quantitativo (c.d. “sconti quantità”, senz’altro ricorrenti nella pratica commerciale), qualitativo o addirittura funzionale allo stadio di commercializzazione del prodotto. Diversamente non può escludersi, senza debita analisi, che, al manifestarsi delle medesime condizioni (in termini di stadio di commercializzazione e di volumi di vendite), i medesimi sconti non siano applicabili anche in favore di acquirenti terzi (24).
Ulteriore “cono d’ombra” dell’approccio della Corte di Cassazione è quello relativo all’indagine delle funzioni svolte e dei rischi assunti dalle parti, nonché dello stadio di commercializzazione in cui hanno luogo le operazioni, frequentemente poste in essere, all’interno di un gruppo, ad un livello di mercato differente rispetto a quelle in essere nei confronti di soggetti terzi (25). Esiste, a tal riguardo, una differenza sostanziale tra le due operazioni dovuta allo stadio di commercializzazione nell’ambito del quale le transazioni hanno luogo, differenza di per sé idonea, da sola, a giustificare uno scostamento dei prezzi praticati inter-company, rispetto a quelli praticati al di fuori del proprio gruppo di appartenenza.
Secondo le Linee Guida OCSE, infatti, il livello di commercializzazione (ad esempio, il dettaglio o l’ingrosso, sebbene ogni settore economico possa essere caratterizzato da più stadi di commercializzazione) rappresenta uno dei fattori peculiari nella determinazione della comparabilità di due o più transazioni.
I prezzi praticati ad un “determinato” stadio di commercializzazione non possono, per ovvie ragioni, essere i medesimi praticati ad un differente livello, anche nei casi di perfetta identità nel prodotto ceduto, dal momento che ciò, secondo i principi generali in materia di transfer pricing, implica differenze nella remunerazione ai vari stadi.
In altre parole, ad ogni stadio di commercializzazione, corrisponde un differente prezzo, espressione dei differenti oneri sostenuti ma anche dei differenti rischi e delle differenti funzioni.
Per tale ragione, il confronto tra il prezzo, in valore assoluto, di un bene venduto ad un dettagliante non può essere ritenuto comparabile con il prezzo praticato per lo stesso bene ad un grossista.
Da ultimo, non è possibile escludere che, anche in presenza di acquirenti terzi operanti al medesimo stadio di commercializzazione, potrebbero, comunque, sussistere differenze nei profili funzionali o nelle strategie di impresa tali da giustificare scostamenti nei prezzi praticati.
L’analisi della congruità degli sconti praticati in favore di consociate (rectius, dei prezzi di vendita praticati) al principio del valore normale dovrebbe essere svolta, di fatto, prima ancora che alla luce della qualificabilità dei medesimi come “sconti d’uso”, attraverso un’indagine che tenga in considerazione il “ruolo” che tali componenti assumono nella catena del valore di un gruppo, individuando se le riduzioni di prezzo sono effettivamente protese a remunerare funzioni o rischi ulteriori, o comunque diversi, rispetto a quelli assunti dai terzi acquirenti o sono, diversamente, dovute ad una effettiva differenza nello stadio di commercializzazione in cui le operazioni “confrontate” hanno luogo.
In tal senso, fondandosi la posizione della Suprema Corte, essenzialmente, sull’assimilabilità delle c.d. “remise” agli “sconti d’uso”, si perde di vista, a parere di chi scrive, il nodo focale della problematica: la comparabilità tra le transazioni poste in essere all’interno di un gruppo con quelle verso soggetti terzi indipendenti ai fini dell’applicazione del metodo del confronto del prezzo (26).
Solo accertata la comparabilità tra le transazioni (o la possibilità di effettuare aggiustamenti ragionevolmente accurati al fine di eliminare gli effetti connessi ad eventuali differenze), o esclusa l’esistenza di differenze idonee ad influenzare, in modo sostanziale, il prezzo o il margine (27), è possibile formulare un giudizio compiuto sulla effettiva applicabilità delle c.d. “remise”, in qualità di “sconti d’uso”, nelle operazioni infragruppo (28).
4. La funzione degli sconti nelle politiche di prezzo dei gruppi multinazionali
La pratica di accertare riduzioni di prezzo nelle vendite è, peraltro, oggetto di analisi all’interno delle Linee Guida OCSE (anche se con particolare riferimento alla remunerazione prevista per i soggetti che svolgono attività di distribuzione) (29), nell’ambito delle quali è esplicitato che «an independent distributor in such a case [ovvero nel caso di svolgimento di attività promozionali e di marketing che generano un beneficio futuro in capo ad altro soggetto del gruppo quale il fornitore del bene] might obtain an additional return from the owner of the trademark, perhaps through a decrease in the purchase price of the product or a reduction in royalty rate» (30).
L’applicazione di sconti, in tale circostanza, è riconosciuta in presenza di un distributore (facente parte di un gruppo) che, nell’espletamento della sua ordinaria attività commerciale, si trova a svolgere anche un’attività promozionale, sostenendo, conseguentemente e in modo diretto, i costi dello sviluppo del mercato in misura superiore agli investimenti di un distributore “indipendente”.
In assenza di obbligazioni contrattuali idonee a prevedere un ristoro dei costi sostenuti per tali attività, deve dunque essere riconosciuta al distributore una remunerazione aggiuntiva sotto forma di riduzione del prezzo di fornitura (31), nell’interpretazione dell’OCSE, al fine di “condividerne” i benefici potenziali, in termini di accresciuto valore dei marchi o delle maggiori vendite,
La proposta di modifica del capitolo VI delle Linee Guida OCSE, inoltre, amplia le casistiche al verificarsi delle quali deve essere riconosciuta una qualche forma di compartecipazione ai benefici derivanti dallo sviluppo del c.d. “marketing intangible locale”, sostituendo il riferimento al «sostenimento di spese promozionali di carattere straordinario» con quello più esteso del «sostenimento di rischi e di costi e dello svolgimento di funzioni superiori a quello rinvenibile in distributori indipendenti» (32).
È stata, peraltro, prevista, nell’ambito della proposta di modifica, l’estensione dell’elenco delle forme di remunerazione aggiuntiva che possono essere riconosciute al distributore, contemplando, oltre all’applicazione delle riduzioni del prezzo anche altre fattispecie circoscrivibili alla compartecipazione al maggior profitto generato dall’attività di marketing locale (c.d. metodo del “residual profit split”) o la riduzione delle royalties per lo sfruttamento del marchio.
La problematica degli sconti, e più in generale delle politiche di prezzo dei gruppi multinazionali, è stata anche affrontata dall’Agenzia delle entrate, a seguito dell’incontro con la stampa specializzata, nel corso di Telefisco 2013 (33).
In particolare, il quesito sottoposto all’attenzione dell’Amministrazione finanziaria riguardava il riconoscimento da parte di una società italiana di una legittima politica di prezzi di trasferimento basata sugli sconti e protesa a garantire alle proprie controllate estere, incaricate dello svolgimento di un’attività distributiva (cui si affiancava una “imprescindibile funzione di promotion”), una remunerazione minima per tali attività (34).
Il quesito, a ben vedere, verte su di un tema particolarmente rilevante per i gruppi (italiani) che promuovono i propri prodotti e il proprio marchio sui mercati esteri attraverso società controllate, ivi localizzate.
Tali realtà, infatti, svolgono un ruolo di prim’ordine finalizzato alla commercializzazione dei prodotti nei confronti dei consumatori finali, ma anche diretto alla promozione del marchio di cui la controllante italiana è titolare, contribuendo non solo ad un complessivo incremento delle vendite nel mercato/nazione di riferimento ma anche alla conoscenza del marchio nel Paese.
La problematica assume, inoltre, maggiore rilevanza se si considera il carattere “bilaterale” (o, sovente, “multilaterale”) della stessa derivante dal fatto che le Amministrazioni finanziarie dei Paesi coinvolti potrebbero adottare in merito posizioni confliggenti che darebbero luogo a fattispecie di doppia imposizione (35).
La risposta fornita, a tal riguardo, rinviando ai generali principi di comparabilità descritti dalle Linee Guida OCSE, sulla base dei quali è sempre necessario tenere in considerazione tutti e cinque i “fattori di comparabilità” (36), riconosce la possibilità di applicare sconti al fine di remunerare le attività ulteriori svolte dalla consociata estera (37). Anche in tal senso, dunque, sembra opportuno che, una qualsivoglia valutazione sulla congruità degli sconti infragruppo al principio del valore normale, sia espressa sulla base di un’accurata analisi economica finalizzata a ponderare l’adeguatezza degli stessi al caso concreto.
5. Osservazioni conclusive
L’approccio adottato in tema di sconti infragruppo appare, sulla base delle considerazioni sopra esposte, esemplificativo della rilevanza che, oggigiorno, viene data al fenomeno del transfer pricing e agli aspetti tecnici legati alla valutazione della congruità con il principio del valore normale dei prezzi applicati nelle transazioni infragruppo.
Non sempre, infatti, vengono presi in esame tutti gli elementi idonei ad incidere su tali prezzi, limitando l’analisi ad aspetti più formalistici e mai sostanziali o economici, quali il mercato di riferimento in cui operano le società del gruppo, le funzioni svolte e i rischi sostenuti dalle parti della transazione, nonché le caratteristiche dei beni venduti in termini qualitativi e quantitativi.
Sulla base dei principi OCSE, infatti, la valutazione della rispondenza al principio del valore normale non può assolutamente prescindere dalla c.d. “comparability analysis”, considerando le caratteristiche della transazione, quali i beni e i servizi scambiati, le funzioni e i rischi delle parti in causa, gli accordi tra le parti, le condizioni economiche e le strategie; un’analisi complessa perché complessa è la realtà in cui operano gli imprenditori, nell’ambito della quale la dinamica dei prezzi può essere influenzata da molteplici fattori (per assurdo, una vendita sottocosto infragruppo può acquisire un significato economicamente apprezzabile qualora sia necessaria per penetrare in un nuovo mercato o conquistare un nuovo cliente o per sfruttare una opportunità commerciale) (38).
L’auspicio è, quindi, di assistere in futuro ad un’analisi in materia più sensibile alle indicazioni offerte a livello internazionale dall’OCSE e più attenta ai fatti e alle circostanze del caso.
Dott. Marco Mazzetti di Pietralata
Dott. Gianmaria Leoni
Dott. Luca Lazzarini
(1) La norma in esame dispone testualmente che «i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, che direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del comma 2, se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali procedure amichevoli previste dalle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La presente disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti». Per ulteriori approfondimenti in materia di transfer pricing, cfr. P. Valente, Manuale del transfer pricing, Milano, 2012; A. Musselli – A.C. Musselli, Transfer pricing, Milano, 2012; E. Della Valle, Il transfer price nel sistema di imposizione sul reddito, in Riv. dir. trib., 2009, 133 ss.; F. Balzani, Il transfer pricing, in AA.VV., Corso di diritto tributario internazionale, Padova, 2005; L. Carpentieri – R. Lupi – D. Stevanato, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003, 254 ss.; L. Tosi, Transfer pricing: disciplina interna e regime convenzionale, in il fisco, 2001, 2184 ss.; R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., 2000, 421 ss.; D. Irollo, Di transfer pricing “interno’’, tra tenuta delle presunzioni e (presunti) rimedi antielusivi, in Boll. Trib., 1999, 1746; C. Garbarino, Transfer price, in Dig. disc. priv., sez. comm., Torino, 1999, 1 ss.; C. Rotondaro, The application of transfer pricing rules and the definition of associated enterprises, in ITPJ, 1999, 259; A. Pozzo, Sui presupposti per l’applicazione della normativa “transfer pricing, in Dir. prat. trib., 1997, 664 ss.; ID., L’applicazione della normativa sul transfer pricing contenuta nell’originaria formulazione dell’art. 76, comma 5, in Dir. prat. trib., 2000, 34 ss.; S. Corda, Normativa sul transfer pricing di beni: problemi aperti, in Boll. Trib., 1991, 505; F. Adami, La disciplina fiscale dei prezzi di trasferimento, Milano, 1989; G. Maisto, Il transfer price nel diritto tributario italiano e comparato, Padova, 1985; P. Adonnino, La nozione di «valore normale», in AA.VV., Il reddito di impresa nel nuovo Testo unico, Padova, 1988, 272 ss.; S.M. Carbone, Presupposti soggettivi e profili contrattuali della disciplina del «prezzo dei trasferimenti internazionali di ricchezza» nei recenti sviluppi dell’ordinamento italiano, in Dir. prat. trib., 1981, 421 ss.; A. Fantozzi, La determinazione del reddito imponibile nei rapporti fra società italiane e collegate all’estero, in Riv. not., 1979, 790 ss.; e G.P. Sacchetti, Sui presupposti per ricondurre a valore normale costi e ricavi nelle relazioni fra imprese residenti e non residenti, in Dir. prat. trib., 1977, 546 ss. Cfr., inoltre, Linee Guida OCSE, Transfer Pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administration, luglio 2010.
(2) Le Linee Guida OCSE stabiliscono, a tal riguardo, che il principio del prezzo di libera concorrenza (arm’s length) deve essere usato per determinare i prezzi di trasferimento fra imprese facenti parte dello stesso gruppo. Al riguardo, l’art. 9 del modello di Convenzione OCSE prevede che allorché «due imprese (associate) nelle loro relazioni commerciali o finanziarie, sono vincolate da condizioni accettate o imposte diverse da quelle che sarebbero state convenute tra imprese indipendenti, gli utili che, in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che, a causa di dette condizioni, non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza». Da ciò discende che il principio del prezzo di libera concorrenza deve essere applicato mediante una comparazione fra le transazioni effettuate tra imprese associate e le transazioni effettuate tra imprese indipendenti, basate sulle “caratteristiche economicamente rilevanti”. La comparabilità è raggiunta laddove: i) non esistono differenze fra le transazioni in essere tra imprese associate e quelle fra società indipendenti; ii) eventuali differenze non alterano la comparabilità in esame; iii) per eliminare gli effetti delle eventuali differenze possono essere apportati degli accurati aggiustamenti quantitativi.
(3) Testimonianza di ciò sono, ad esempio, le sentenze relative all’applicazione del criterio del valore normale alle transazioni infragruppo con soggetti residenti (c.d. “transfer pricinginterno”) e alla estensione dell’ambito applicativo della disposizione in commento all’IRAP. Con riferimento, in particolare, alla tematica del c.d. “transfer pricing interno”, si rileva come, sebbene il settimo comma dell’art. 110 del TUIR si renda applicabile alle transazioni infragruppo “transnazionali”, la Suprema Corte ha recentemente affermato che, in virtù del generale principio del divieto di abuso del diritto, la congruità dei corrispettivi praticati in transazioni tra società appartenenti allo stesso gruppo, residenti in Italia, può essere, comunque, sindacata dall’Amministrazione finanziaria. A tal riguardo, cfr.Cass., sez. trib., 5 luglio 2013, n. 16859; e Cass., sez. trib., 24 luglio 2013, n. 17955; entrambe in Boll. Trib. On-line. Tale orientamento, peraltro, è stato oggetto di dibattito dottrinale, in quanto fondato su un «mix di istituti (valore normale, elusione, abuso del diritto e inerenza “quantitativa”) aventi diversi presupposti e finalità, nell’evidente tentativo di superare la difficoltà derivante dall’assenza di un’esplicita regolamentazione normativa del fenomeno, prevista, invece, con riguardo alle analoghe operazioniposte in essere in ambito transnazionale» (cfr., su tutti, G. Ferranti, Il «transfer pricing interno» secondo la Corte di cassazione tra elusione ed inerenza, in Corr. trib., 2013, 33; P. Turis, Valore normale e transfer pricing domestico, in il fisco, 2013, 4803; E. Della Valle – R. Tombolesi, «Transfer price interno» tra corrispettivo e valore normale, in Riv. giur. trib., 2013, 957; e P. Valente – I. Caraccioli – S. Mattia, Transfer pricing interno, in il fisco, 2013, 7386). Quanto all’IRAP, si riteneva che la disciplina in commento, in seguito alle modifiche introdotte, a partire dal 1° gennaio 2008, dall’art. 1, comma 50, lett. g), della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Finanziaria 2008), nei criteri di determinazione della base imponibile rilevante (stante l’abrogazione dell’art. 11-bis del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446), non si rendesse applicabile (cfr., sul punto, A. Castoldi – M. Mazzetti di Pietralata, L’introduzione di un onere di documentazione in materia di transfer pricing, in Boll. Trib., 2010, 18; D. Avolio – M. Mantovani – B. Santacroce, La rettifica del «transfer pricing» rileva ai fini IRAP e IVA?, in Corr. trib., 2012, 1677; e anche G. Albano, Rettifiche di transfer price con paletti sull’IRAP, in Il Sole 24 Ore del 25 febbraio 2013). Ciò malgrado, il legislatore, attraverso la legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Legge di stabilità 2014), ha previsto, ai commi 281 e segg. dell’art. 1, l’estensione della normativa de qua anche ai fini IRAP, con riguardo ai periodi d’imposta successivi a quelli in corso al 31 dicembre 2007. Sul tema cfr. D. Avolio – B. Santacroce, È dovuta l’IRAP per le rettifiche in materia di prezzi di trasferimento … o forse no?, in Corr. trib., 2014, 340; e P. Valente – R. Rizzardi – S. Mattia, Legge di stabilità 2014: Irap e applicazione della disciplina del transfer pricing. I chiarimenti del Legislatore, in il fisco, 2014, 335.
(4) La disposizione normativa impone, quindi, di valorizzare ai soli fini fiscali le operazioni infragruppo in base al criterio del valore normale dei beni (ceduti o acquistati) o dei servizi (prestati o ricevuti), in luogo del criterio del corrispettivo pattuito, ordinariamente previsto ai fini fiscali ai sensi dell’art. 85 del TUIR.
(5) L’art. 9 del TUIR dispone, in particolare, che «per valore normale, salvo quanto stabilito nel comma 4 per i beni ivi considerati, si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati, e, in mancanza, nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi, e in mancanza, ai mercuriali e ai listini delle camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso …».
(6) Sul punto, come evidenziato da D. Stevanato, Servizi infragruppo resi da società a regime fiscale privilegiato ed indeducibilità dei costi, in Corr. trib., 2003, 699, «nel transfer pricing, una divergenza del prezzo della transazione infragruppo rispetto ai valori di mercato, non sottende alcuna simulazione o occultamento del corrispettivo, anche se la stessa, considerata la comunanza anziché il contrasto di interessi tra cliente e fornitore, cessa, proprio per questa ragione, di essere rappresentativa degli effettivi flussi di ricchezza intercorsi tra le parti, su cui far insistere la tassazione». Al riguardo cfr. anche F. Ciani, Processo tributario e processo penale: il «valore normale», in Boll. Trib., 2014, 85.
(7) A tal proposito, si evidenzia che l’attenzione dell’Amministrazione finanziaria si è concentrata prevalentemente sulle operazioni infragruppo che hanno ad oggetto lo scambio di servizi e lo sfruttamento di beni immateriali, come ad esempio, operazioni aventi ad oggetto royalties, interessi, e varie tipologie di servizi infragruppo. Per ulteriori approfondimenti sulle prestazioni di servizi infragruppo, cfr. P. Valente, Il transfer pricing nelle prestazioni di servizi infragruppo, in il fisco, 2011, 707. Sui recenti sviluppi OCSE in materia di beni intangibili, cfr. Discussion Draft: Revision of the Special Considerations for Intangibles in Chapter VI of the OECD Transfer Pricing Guidelines and Related Provisions, 6 giugno 2012, in http://www.oec.d.org/tax/transferpricing/50526258.pdf; e anche P. Valente, Transfer pricing e beni immateriali: il Discussion Draft OCSE del 6 giugno 2012, in il fisco, 2012, 5321 ss.
(8) Il principio dell’arm’s length è stato introdotto dal Modello di Convenzione contro le Doppie Imposizioni dell’OCSE che, nell’art. 9, prevede che le operazioni tra imprese dello stesso gruppo devono svolgersi alle medesime condizioni che sarebbero state applicate tra imprese indipendenti. La finalità della “Convenzione” è quella di evitare la doppia imposizione su medesimi componenti di reddito da parte di più Stati e, in tal senso, le Direttive OCSE sui prezzi di trasferimento hanno esplicitamente chiarito che «the consideration of transfer pricing should not be confused with the consideration of problems of tax fraud or tax avoidance, even though transfer pricing policies may be used for such purposes». La questione della ratio legis dell’istituto, tuttavia, è oggetto di un vivace dibattito in Italia. L’Amministrazione finanziaria si è pronunciata sul tema nell’ambito della seconda edizione del Bollettino del Ruling di standard internazionale, assumendo una netta posizione, nel senso di attribuire alla suddetta normativa la funzione di criterio di ripartizione della ricchezza imponibile di imprese operanti su scala multinazionale non limitata alla pura funzione “antielusiva” (la seconda edizione del Bollettino può essere consultata al seguente indirizzo: http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/nsilib/nsi/documentazione/ruling+internazionale). Secondo quanto affermato all’interno del Bollettino, «la ratio, sia dell’art. 110, comma 7, del TUIR che del predetto art. 9 del Modello OCSE, consiste nell’individuare un criterio generale di corretta ripartizione della base imponibile delle imprese multinazionali tra i vari Stati in cui le stesse operano, al fine di tutelare l’integrità del prelievo tributario degli Stati coinvolti nelle transazioni poste in essere ed evitare la doppia imposizione». Al riguardo, cfr. P. Valente, Transfer pricing e accordi preventivi: il Bollettino del ruling di standard internazionale del 19 marzo 2013, in il fisco, 2013, 2170 ss.; D. De Carolis, Il bollettino del ruling internazionale e il report concerning advance pricing agreements americano:
due esperienze a confronto, ibidem, 3059 ss.; G. Lagrutta – M. Mazzetti di Pietralata, Italy issues updated APA bulletin”, in Transfer Pricing International Journal, 5 maggio 2013, 26-29; e anche G.M. Committeri, Il secondo bollettino dell’agenzia delle entrate sul «ruling» internazionale, in Corr. trib., 2013, 1765. L’orientamento seguito dalla Suprema Corte, nel corso degli ultimi anni, è stato invece a tal riguardo altalenante. I giudici di legittimità hanno infatti dapprima individuato come condizione per l’applicabilità della disciplina sul transfer pricing la presenza di operazioni con Paesi a bassa fiscalità per poi, successivamente, statuire che la verifica dello spostamento all’estero del reddito prodotto in Italia deve essere effettuata in un’ottica complessiva di gruppo e che la finalità della disciplina de qua è solo, in via ancillare, la prevenzione dell’elusione. In particolare, l’orientamento secondo cui condizione per l’applicabilità della disciplina sui prezzi di trasferimento è il raggiungimento di un indebito beneficio fiscale non giustificato da sostanziali ragioni economiche è stato inaugurato dalla Suprema Corte con Cass., sez. trib., 13 ottobre 2006, n. 22023, in Boll. Trib., 2007, 575, con nota di A. Musselli, Manca la prova elusiva: un “classico” nel transfer pricing; e Cass., sez. trib., 16 maggio 2007, n. 11226, in Boll. Trib. On-line, relative al c.d. “caso Ford”. In tale occasione la Corte di Cassazione ha affermato, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 76, quinto comma (ora 110, settimo comma),
del TUIR, che trattasi di «clausola antielusiva che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto (cioè strumentalmente piegato in funzione anomala e/o eccedente la sua normale portata entro i limiti consentiti dall’ordinamento) particolarmente presenti in materia doganale per contrastare operazioni compiute al solo scopo di trarre benefici dalle agevolazioni daziarie (così Corte di Giustizia, sentenza 14 dicembre 2000 in causa C-110/1999, E.S. GmbH) ma anche immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale essendo consentito all’Amministrazione finanziaria di disconoscere ad esempio i vantaggi fiscali conseguiti da operazioni societarie (art. 10 della L. n. 408 del 1990) poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta». Ad avviso dei giudici tale principio sarebbe confermato dalla stessa OCSE, attraverso il Rapporto del 1995. Cfr., sul punto, anche Cass., sez. trib., 27 febbraio 2013, n. 4927, in Boll. Trib. On-line, e anche in Corr. trib., 2013, 1569, con nota di D. Avolio – G. D‘Agostino – B. Santacroce, La cassazione «corregge il tiro» sull’onere della prova in materia di prezzi di trasferimento; Cass., sez. trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, in Boll. Trib., 2009, 486; nonché Comm. trib. prov. di Milano, sez. XXXI, 13 marzo 2009, n. 87, in Boll. Trib. On-line. Attraverso Cass., sez. trib., 8 maggio 2013, n. 10739, in Boll. Trib. On-line, diversamente, i giudici di legittimità hanno affermato che la disciplina italiana dei prezzi di trasferimento, così come negli altri Paesi, “prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale”; “la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare”. La disciplina dei prezzi di trasferimento sarebbe, infatti, rivolta a reprimere il “fenomeno economico in sé”, come sarebbe dimostrato dal fatto che tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Sulla scorta di tale sentenza non occorre in alcun modo che l’Amministrazione finanziaria provi il carattere elusivo dell’operazione ai fini dell’accertamento di maggiori redditi o maggiori ricavi derivanti da operazioni infragruppo in sede di verifica. Sul punto, si veda anche il contributo di R. De Pirro – M. Ghiringhelli, Transfer pricing e finanziamenti infragruppo: il mercato del mutuante identifica il valore normale, in il fisco, 2013, 6139 ss.; E. Della Valle, Oggetto ed onere della prova nelle rettifiche da «transfer price», in Riv. giur. trib., 2013, 772; D. Avolio – G. D’Agostino – B. Santacroce, La Corte di cassazione esclude la natura antielusiva della normativa in materia di «transfer pricing», in Corr. trib., 2013, 32; F.M. Giuliani, Prezzi di trasferimento e ripartizione dell’onere della prova, in il fisco, 2013, 3437; e ID., Il concetto di transfer pricing, l’elusione fiscale, e l’onere della prova: un rebus in via di soluzione, in Boll. Trib., 2013, 1125.
(9) In sede di redazione della dichiarazione dei redditi, pertanto, si renderebbe necessaria una variazione in aumento del reddito complessivo pari al maggior guadagno che si sarebbe realizzato se quegli stessi beni fossero stati venduti non al prezzo effettivamente praticato, ma ad un prezzo (superiore) pari al loro “valore normale”. Parimenti, sempre in un’ottica imprenditoriale, un gruppo multinazionale potrebbe imporre ad una società del gruppo residente in Italia di acquistare determinati beni o servizi da una società estera dello stesso gruppo ad un prezzo superiore al loro “valore normale”, al fine di aumentare le capacità di autofinanziamento della società estera e di migliorarne la solidità finanziaria (mediante un aumento del suo patrimonio netto).
(10) In prima battuta, sembra potersi affermare che gli sconti d’uso sono costituiti dai normali sconti commerciali abitualmente applicati nel particolare settore merceologico, in un dato tempo e in una data area; tuttavia l’espressione usata dal legislatore fiscale rimane di incerta interpretazione. Solo al fine di un “avvicinamento” ad una sua probabile definizione, ci si domanda se si possa tentare il ricorso ai principi generali dell’ordinamento civilistico in base ai quali viene determinata la nozione di uso quale fonte del diritto, ai sensi dell’art. 8 c.c. In particolare, configura l’uso o la consuetudine la presenza di due elementi: l’usus, o ripetizione generale, uniforme, costante, frequente e pubblica di un determinato comportamento (elemento materiale) e l’opinio iuris ac necessitatis, o consapevolezza della giuridica doverosità della condotta tenuta, attenuata però nella versione di “aspettativa di reciprocità” (elemento spirituale o soggettivo). Cfr. al riguardo P. Cppellini – R. Lugano, Testo Unico delle Imposte sui Redditi, Milano, 2013, 77; C.M. Bianca, Diritto Civile. Il contratto, Milano, 2000, 339; G. Cian – A. Trabucchi, Commentario al Codice Civile, Padova, 2007; A. Genovese, Usi negoziali e interpretativi, in Enc. giur. Treccani; e G. Gitti, Le clausole d’uso come fonti del diritto, in Riv. dir. civ., 2003, I, 115 ss.
(11) Cfr. Cass., sez. trib., 23 ottobre 2013, n. 24005, in Boll. Trib. On-line. Sul tema cfr. A. Veneruso, Transfer pricing: ai fini dell’applicazione del principio dell’arm’s length rileva il mercato del fornitore dei beni o servizi, in il fisco, 2013, 6435; A. Borgoglio, Determinazione del valore normale nel transfer pricing, ibidem, 6397; e A. Vasapolli – G. Vasapolli, Il mercato di riferimento che rileva per il valore normale del transfer pricing, in Bil. redd. imp., 2013, 7.
(12) Sul tema cfr. anche R. Cordeiro Guerra, La disciplina del transfer price nell’ordinamento italiano, in Riv. dir. trib., cit. Le indicazioni fornite dalle disposizioni contenute, a tal fine, nel TUIR sono, infatti, inadeguate a fornire criteri dirimenti per l’individuazione del prezzo inter-company congruo al valore normale. Si precisa, inoltre, che l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha fornito, a partire dal 1979, mediante il Rapporto “Transfer Pricing and Multinational Enterprises” (il c.d. “Rapporto del 1979”), precise indicazioni in merito ai criteri da adottare nell’applicazione e nella selezione dei metodi di valutazione del valore normale. Tale rapporto è stato, in seguito, più volte aggiornato fino a giungere alle attuali “Transfer pricing Guidelines for Multinational Enterprises and Tax Administrations”, pubblicate in data 22 luglio 2010 (c.d. “Linee Guida OCSE”). Le indicazioni contenute nel Rapporto del 1979 sono state, peraltro, richiamate dalla Amministrazione finanziaria italiana nella circ. 22 settembre 1980, n. 32, in Boll. Trib., 1980, 1644, la quale, ispirandosi ai criteri ivi indicati, ha enucleato una serie di metodologie applicabili per la valutazione del valore normale. In tale circostanza, l’Amministrazione medesima ha precisato che, oltre al metodo “tradizionale” del confronto del prezzo (o, nella terminologia OCSE, “CUP”), cui fa esplicito riferimento il terzo comma dell’art. 9 del TUIR – sulla base del quale il valore normale è ottenuto confrontando il prezzo praticato nelle transazioni infragruppo con quello praticato in transazioni comparabili tra imprese indipendenti esterne al gruppo (c.d. “confronto esterno”) o, alternativamente, in transazioni tra una delle società del gruppo e un soggetto terzo indipendente (c.d. “confronto interno”) – è possibile applicare ulteriori metodi, tra cui il metodo del prezzo di rivendita e il metodo del costo maggiorato, basati, sostanzialmente, sulla valutazione dei margini di profitto realizzati da una o da più delle parti della transazione. In via residuale, la circ. n. 32/1980, cit., prevede altri metodi, definiti “alternativi” sostanzialmente basati sulla valutazione dell’utile derivante dalle operazioni oggetto di esame. Per un’accurata disamina sul punto, cfr. A. Musselli – A.C. Musselli, Transfer pricing, op. cit.; P. Valente, Manuale del transfer pricing, op. cit.; ID., Transfer pricing: la rilevanza dell’analisi funzionale, in Fisc. comm. int., 2013, 24 ss.; e F. Balzani, Il transfer pricing, op. cit.
(13) Sulla natura “antielusiva” della disposizione in commento, si veda Cass., sez. trib., 13 luglio 2012, n. 11949, in Boll. Trib., 2013, 223, con nota di M. Faggion – M. Ziliotto, Transfer price, natura della norma e onere della prova: la confusione persiste, e anche in Corr. trib., 2012, 2871, con nota di D. Avolio – B. Santacroce, Oneri documentali e prova nel transfer pricing, attraverso la quale la normativa de qua ha assunto il ruolo di «clausola antielusiva, in linea con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, finalizzata ad evitare che all’interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all’imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori». Sul punto cfr. anche F. Oneglia – I. La Candia, Onere della prova nel transfer pricing, in Bil. redd. imp., 2012, 27; D. Stevanato, Il «transfer pricing» tra evasione ed elusione, in Riv. giur. trib., 2013, 303 ss.; P. Valente, «Year-end adjustments» nel transfer pricing, in il fisco, 2013, 1317; A. Vasapolli, La cassazione si pronuncia in tema di transfer pricing, inerenza e registrazioni contabili, in Bil. redd. imp., 2013, 7; D. Avolio – G. D’Agostino – B. Santacroce, La cassazione «corregge il tiro» sull’onere della prova in materia di prezzi di trasferimento, in nota a Cass. n. 4927/2013, cit.; G. Committeri – M. Marconi, Transfer pricing: al contribuente l’onere della prova anche sull’inerenza dei costi, in Fisc. comm. int., 2013, 5; e M. Faggion – M. Ziliotto, Transfer price, natura della norma e onere della prova: la confusione persiste, in nota a Cass. n. 11949/2012, cit.
(14) Medesime conclusioni sono ravvisabili anche in Cass. n. 17955/2013, cit., nella quale la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che «… gli sconti ammessi sono solo quelli per le operazioni concluse in condizioni di libera concorrenza, ovverosia per le operazioni economiche concluse con soggetti estranei al proprio gruppo economico».
(15) Cfr. Cass., sez. trib., 31 marzo 2011, n. 7343, in Boll. Trib. On-line; sul tema, cfr. A. Musselli – A.C. Musselli, Transfer pricing, op. cit., 91 ss.; P. Turis, Transfer pricing. Disciplina del TUIR e prevenzione di fenomeni elusivi, in il fisco, 2011, 2551; M. D’Avossa, Transfer Price e onere della prova, in Rass. trib., 2012, 503; P. Valente, Manuale del transfer pricing, op. cit., 460 ss.; ID.,
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La giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di transfer pricing, in il fisco, 2012, 7062 ss.; e F. Di Cesare, Implications of Recent Supreme Court Decision on Transfer Pricing: An Update on the Arm’s Length Principle, Anti-avoidance and Burden of Proof, in ITPJ, 2011, 5. La sentenza in commento è stata, peraltro, richiamata dalla stessa Corte di legittimità in pronunce successive e, in particolare, da Cass., sez. trib., 19 ottobre 2012, n. 17953, in Boll. Trib. On-line; da Cass., sez. trib., 20 dicembre 2012, n. 23551, ivi, e anche in Bil. redd. imp., 2013, 7, con nota di A. Vasapolli, La cassazione si pronuncia in tema di transfer pricing, inerenza e registrazioni contabili, cit., nonché in Corr. trib., 2013, 771, con nota di M. Damiani, Lo spettro largo dell’inerenza e la sua valenza anche quantitativa; da Cass. n. 4927/2013, cit.; da Cass. n. 10739/2013, cit.; da Cass., sez. trib., 8 maggio 2013, n. 10742, in Boll. Trib. On-line, e anche in il fisco, 2013, 3437, con nota di F.M. Giuliani, Prezzi di trasferimento e ripartizione dell’onere della prova, cit.; da Cass., sez. VI, 20 maggio 2013, n. 12282, in Boll. Trib. On-line, e anche in il fisco, 2013, 3770, con nota di F. Dezzani – L. Dezzani, Cessione del marchio a società estera: indeducibilità delle royalties, cit.; e da Cass. n. 17955/2013, cit. In tema di sconti infragruppo si veda anche G. Palumbo, Imposizione di gruppo, sconti commerciali tra capogruppo e controllate e disciplina del transfer pricing, in il fisco, 2003, 6248.
(16) La sentenza, per inciso, ha analizzato anche la sussistenza delle valide ragioni economiche necessarie per evitare la disapplicazione della norma antielusiva (art. 37-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600) in caso di un’operazione di conferimento effettuata da un’impresa italiana in favore di una partecipata estera, affermando che in tale fattispecie le valide ragioni economiche devono sussistere in capo all’impresa italiana senza tenere conto della situazione del gruppo estero. Tale aspetto della sentenza, peraltro, non verrà approfondito in questa sede, in cui ci si limiterà ad analizzare le conclusioni cui giunge la sentenza in materia di normativa sul transfer pricing.
(17) Segnatamente in Francia, Inghilterra, Spagna e Germania.
(18) E affermando che sulle cosiddette “remise” vi sarebbero state, da parte della ricorrente, risposte che «dovevano essere valutate nel contesto macroeconomico all’interno del quale le società del gruppo operavano fra di loro»; nel caso di specie, dunque, trovava applicazione, ad avviso della Commissione adita, la «norma inerente la previsione contrattuale per gli sconti d’uso di cui all’art. 9, comma 3, del cit. TUIR» (cfr. Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XXIX, 8 marzo 2005, n. 31, in Boll. Trib. On-line). Ad avviso dei giudici di seconde cure, non poteva inoltre non tenersi in debito conto delle precarie condizioni economiche prodotte dalla crisi che aveva investito, negli ultimi anni, il settore economico in cui operava la società, anche con problematiche gravi sull’occupazione. A fronte di ciò, le perdite o il valore negativo degli asset presenti nei bilanci societari, nonché le cosiddette “remise” non potevano ritenersi una operazione elusiva scientemente programmata. In tal senso anche Comm. trib. reg. del Lazio, sez. III, 27 ottobre 2010, n. 133, in Boll. Trib. On-line, secondo cui gli estremi del comportamento elusivo sono riscontrabili solo laddove la ragione fiscale costituisca lo scopo predominante dell’operazione, tenendo in debita considerazione sia la volontà della parte e sia anche il contesto giuridico e fattuale in cui l’operazione viene posta in essere. L’Amministrazione finanziaria, ai fini della contestazione dell’operato del contribuente, deve dunque non solo prospettare il disegno elusivo a sostegno delle rettifiche, ma anche le modalità di manipolazione o di alterazione di schemi giuridici classici, dimostrandone l’irragionevolezza in una normale logica di mercato, così da dimostrare che l’operazione sia sostanzialmente volta all’ottenimento di un mero beneficio fiscale. Per contro, nelle more della citata sentenza, incomberebbe sul contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza di valide ragioni economiche, concorrenti o alternative, di reale spessore, che giustifichino l’operazione in sé.
(19) Sul punto, nella sezione D, capitoli I e III, delle Linee Guida OCSE, viene specificato come l’«application of the arm’s length principle is generally based on a comparison of the conditions in a controlled transaction with the conditions in transactions between independent enterprises. In order for such comparisons to be useful, the economically relevant characteristics of the situations being compared must be sufficiently comparable. To be comparable means that none of the differences (if any) between the situations being compared could materially affect the condition being examined …». La rilevanza dei fattori di comparabilità ai fini dell’applicazione dei metodi di determinazione del valore di mercato è stata, peraltro, ribadita da Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XXXIII, 9 maggio 2013, n. 56, in Boll. Trib., 2013, 1208, con nota di G. Colucci – G. Cannavale, Business strategy & economic circumstances: due elementi chiave per comprendere i prezzi di trasferimento.
(20) Nell’ambito del caso “Nylstar”, in realtà, detto profilo sembra essere stato valutato (anche se, forse, non debitamente motivato) dai giudici di secondo grado, avendo i medesimi rimarcato la necessità di tenere «nel debito conto la crisi che ha investito in questi ultimi anni il settore anche con problematiche gravi per l’occupazione della manodopera»; crisi che avrebbe dovuto, a parere degli stessi, giustificare la pratica degli sconti.
(21) Tra le condizioni economiche che possono influire sul prezzo infragruppo le Linee Guida OCSE includono: «the geographic location; the size of the markets; the extent of competition in the markets and the relative competitive positions of the buyers and sellers; the availability (risk thereof) of substitute goods and services; the levels of supply and demand in the market as a whole and in particular regions, if relevant; consumer purchasing power; the nature and extent of government regulation of the market; costs of production, including the costs of land, labour, and capital; transport costs; the level of the market (e.g. retail or wholesale); the date and time of transactions» (cfr. Linee Guida OCSE, par. 1.55).
(22) I “cinque fattori di comparabilità” enucleati dall’OCSE, in particolare, sono individuabili nelle caratteristiche dei beni e dei servizi scambiati, nelle funzioni svolte, nei rischi assunti e negli asset impiegati dalle parti, nei termini contrattuali adottati, nelle condizioni economiche in cui operano le controparti, e nelle strategie di impresa poste in essere.
(23) In tal senso, si è pronunciata anche la giurisprudenza belga con la sentenza della Corte di Appello di Ghent 29 aprile 1999, avente ad oggetto un rilievo mosso dall’Amministrazione finanziaria (belga), sugli sconti “quantità” e “qualità”, applicati da una società belga, operante nel settore dei prodotti caseari, ad una consociata residente nel Regno Unito (in perdita). Nel caso di specie, in particolare, la Corte ha accolto la tesi del contribuente, affermando, con riferimento agli “sconti qualità”, la loro legittimità in quanto espressione del minore livello qualitativo dei prodotti venduti alla consociata (così, del resto, come confermato da un report predisposto da un soggetto terzo indipendente) nonché rappresentativi di una “compensazione” per le perdite sofferte dalla consociata estera nell’attività di distribuzione dei prodotti acquistati. Attraverso tali sconti, inoltre, la società belga garantiva il valore del proprio avviamento. Anche gli “sconti quantità”, peraltro, sono stati ritenuti appropriati, in quanto in linea con la comune prassi commerciale. Sul tema si veda il contributo di I. Verlinden – K. Smits, Arm’s length nature of quality and quantity discounts granted within a multinational group: decision of the Ghent Court of Appeal of 29 april 1999, in ITPJ, 1999, 273 ss.; e di P.A.A. Vanhaute, Belgium in International Tax Planning, Amsterdam, 2008, 195.
(24) Cfr. sul punto A. Musselli – A.C. Musselli, Transfer pricing, op. cit.
(25) In Cass. n. 24005/2013, cit., ad esempio, non si rinviene alcun riferimento alla necessità di svolgere una indagine puntuale in merito al profilo funzionale dei soggetti coinvolti, rispettivamente, nella transazione infragruppo e nelle transazioni con soggetti terzi comparabili.
(26) Se è vero, infatti, che il metodo del confronto del prezzo fornisce la stima più diretta del valore normale relativo ad una determinata transazione, è anche vero che, per l’applicazione di tale metodo, i requisiti di comparabilità devono essere particolarmente stringenti (rispetto agli altri metodi transazionali e reddituali). Detto altrimenti, il metodo del confronto del prezzo è influenzato in misura decisamente superiore rispetto alle altre metodologie valutative da eventuali differenze di comparabilità. Per tali ragioni, le Direttive OCSE affermano che «however, the [CUP] method becomes a less reliable substitute for arm’s length transactions if not all the characteristics of these uncontrolled transactions that significantly affect the price charged between independent enterprises are comparable» (par. 1.35). Per l’applicazione di tale metodo è richiesto, nella sostanza, un grado di comparabilità delle transazioni senz’altro maggiormente elevato rispetto a quello richiesto per una fedele applicazione degli altri metodi suggeriti dall’OCSE e recepiti dalla prassi nazionale. Pertanto, sempre alla luce delle indicazioni fornite dall’OCSE, la comparabilità di due operazioni commerciali deve essere analizzata non soltanto sotto il profilo della similarità dei beni scambiati, ma anche sotto il profilo di tutti gli altri elementi di fatto che possono incidere sulla determinazione del prezzo di trasferimento. Sulla natura dell’analisi di comparabilità si veda il contributo di P. Schipani – P. Valente – A. Della Rovere, Analisi di comparabilità nel transfer pricing. Metodologie applicative, Milano, 2013.
(27) Cfr. Linee Guida OCSE, Glossario.
(28) Come affermato da G. Boccalatte – R. Lupi, Rilievi «antieconomici» sul transfer pricing, in Dial. trib., 2013, 1, in nota a Comm. trib. reg. del Piemonte, sez. V, 6 dicembre 2012, n. 61, e anche in Boll. Trib. On-line, in sede di rettifica sui prezzi di trasferimento «la corretta individuazione del quadro fattuale da analizzare … costituisce il presupposto necessario di qualsiasi analisi dei prezzi di trasferimento», non potendosi la stessa legittimamente fondarsi unicamente sulla presunzione di “antieconomicità” dell’operazione commerciale in verifica.
(29) Cfr. capitolo VI, sezione D, delle Linee Guida OCSE, rubricata «Marketing activities undertaken by enterprises not owning trademarks or trade names».
(30) Cfr. Linee Guida OCSE, par. 6.38.
(31) Cfr., sul punto, Linee Guida OCSE, par. 6.37 e 6.38, relativi ai casi in cui un distributore «bear extraordinary marketing expenditures beyond what an independent distributor with similar rights might incur for the benefit of its own distribution activities».
(32) Cfr. OCSE, Revised Discussion Draft on transfer pricing aspects of intangibles, pubblicato dall’OCSE, in data 30 luglio 2013, in http://www.oecd.org/ctp/transfer-pricing/revised-discussion-draft-intangibles.pdf (nel prosieguo il “Draft”). Dispone infatti il Draft al punto 96: «a distributor may incur marketing costs, assume risks, or perform functions that exceed those an independent distributor with similar rights might incur or perform for the benefit of its own distribution activities and that create value beyond that created by other similarly situated marketers/distributors. An independent distributor in such a case would typically requireadditional remuneration from the trademark owner. Such remuneration could take the form of higher distribution profits (resulting from a decrease in the purchase price of the product), a reduction in royalty rate, or a share of the profits associated with the enhanced value of the trademark or other marketing intangibles, in order to compensate the distributor for its functions, assets, risks, costs, and anticipated value creation». Utili esemplificazioni sono fornite, all’interno degli esempi da 5 a 10, contenuti nel Draft. Sul tema si vedano, in particolare, i contributi di S. Mayr – G. Fort, Il progetto BEPS ed i beni immateriali, in Corr. trib., 2014, 547; e L. Helderman – E. Sporken – R. Okten, The Revised OECD Discussion Draft on Transfer Pricing Aspects of Intangibles, in ITPJ, 2014, 1. Si vedano, inoltre, i commenti della business community ricevuti dall’OCSE con riferimento ai contenuti del Draft (disponibili su http://www.oecd.org/ctp/transfer-pricing/Intangibles_Comments.pdf).
(33) I quesiti e le relative risposte dell’Agenzia delle entrate sono stati pubblicati nella circ. 15 febbraio 2013, n. 1/E, in Boll. Trib., 2013, 274.
(34) Il testo del quesito è il seguente: «Tenuto conto che alcune Amministrazioni finanziarie estere presumono per le società controllate estere una percentuale di redditività costante per la remunerazione dell’attività di distribuzione, si chiede se la società italiana controllante, titolare dei marchi, possa legittimamente garantire tale minima remunerazione alle società distributrici mediante una politica di sconti volta a remunerare l’attività svolta, che non si esaurisce nella mera distribuzione ma comprende un’imprescindibile funzione di promotion (talvolta di difficile quantificazione e documentazione)».
(35) Cfr., a tal riguardo, il contributo di A. Pluviano – A. Calori, Transfer Price nella catena distributiva: la remunerazione dei «marketing intangible», in Fisc. comm. int., 2013, 4, all’interno del quale gli Autori evidenziano i rischi insiti in un approccio che non tiene in debita considerazione la funzione di promozione svolta dalla distributrice controllata estera, evidenziando come tale comportamento possa «rivelarsi fortemente controproducente nel Paese della controllata a seguito del diffondersi del concetto di “bright line test” [ovvero quell’approccio che individua una soglia quantitativa rappresentata dal livello medio di spese di advertising, marketing e promotion in percentuale del fatturato di distributori indipendenti comparabili oltre la quale la deducibilità di tali costi in capo alla controllata potrebbe essere disconosciuta o potrebbe ritenersi generato un significativo bene immateriale], secondo cui un livello di spese commerciali che ecceda quello di “comparables” sarebbe ingiustificato in capo alla filiale». La tematica del c.d. “bright line test”, sopra citato, è, peraltro, particolarmente attuale nel panorama dottrinale internazionale anche alla luce delle considerevoli problematiche di doppia imposizione emergenti dai differenti approcci adottati dalle Amministrazioni finanziarie dei vari ordinamenti. Si rinvia a tal riguardo a A.J. Casley – B. Timbadia, Marketing Intangibles: The Latest Controversy, in ITPJ, 2011, 3; A. C
span>hakravarty – R. Gupta, Ruling on Benchmarking for Advertising Expenditures: The Genom Biotech Case, ivi, 2012, 6; M.M. Levey – M. Van Herksen – S. Breckenridge – K. Taguchi – J. Dougherty – A. Russo, The Quest for Marketing Intangibles, in Asia-Pacific Tax Bulletin, 2005, 5; e S. Khurana – S. Sriram, Recent developments in marketing intangibles, in International tax review, giugno 2013. Il concetto di bright line test è efficacemente sintetizzato anche dalla Alta Corte di Delhi nella sentenza relativa al caso Maruti-Suzuki India Ltd. ved.
(36) La risposta fornita dall’Agenzia delle entrate è stata la seguente: «In linea generale, l’applicazione del principio del valore normale si basa su una comparazione tra le condizioni presenti nella transazione effettuata tra parti correlate e quelle presenti in transazioni tra imprese indipendenti. Per determinare la remunerazione a valore normale da riconoscere al distributore non si può prescindere, in generale, dall’analisi di tutti i fattori di comparabilità indicati dalle Guidelines OCSE: le caratteristiche dei beni o servizi venduti, il profilo funzionale e di rischio, le condizioni contrattuali, le circostanze economiche e le strategie di business. In base all’esito a questa analisi, si procederà alla individuazione del metodo più appropriato e, conseguentemente, alla determinazione della remunerazione spettante al distributore che tenga conto delle funzioni svolte e dei rischi assunti dal distributore nello svolgimento della sua attività commerciale e promozionale».
(37) In tal senso cfr. G. Albano, Rettifiche di transfer price con paletti sull’IRAP, in Il Sole 24 Ore, cit.
(38) Cfr. sezione D.3, capitolo I, delle Linee Guida OCSE.
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