3 Gennaio, 2017

SOMMARIO: 1. Nozione di incremento patrimoniale – 2. Gli incrementi patrimoniali nel soppresso art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 e la giurisprudenza formatasi al riguardo – 3. Gli incrementi patrimoniali nel vigente art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 – 4. Le prove eccepibili dal contribuente.

1. Nozione di incremento patrimoniale

L’accertamento sintetico si fonda sul presupposto della necessaria equivalenza tra spese sostenute e ammontare di reddito dichiarato, con la conseguenza che l’eventuale ammontare di spese che non trova corrispondenza con il reddito dichiarato costituisce reddito imponibile da assoggettare a tassazione, sempre che il reddito complessivo accertabile ecceda di almeno un quinto quello dichiarato.
L’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo novellato dall’art. 22, primo comma, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), e in vigore dal 31 maggio 2010 statuisce che l’Ufficio finanziario può sempre determinare sinteticamente il reddito complessivo del contribuente sulla base “delle spese di qualsiasi genere sostenute” nel corso del periodo di imposta (1).
Tra le spese di qualsiasi genere vi rientrano ovviamente non soltanto le spese per beni di consumo, ma anche le spese per investimenti o incrementi patrimoniali, i quali nella precedente formulazione dell’art. 38 erano espressamente menzionati e appositamente regolamentati.
Infatti se l’accertamento sintetico si fonda su una presunzione legale di coerenza del reddito complessivo con quello desumibile dalla valorizzazione della spesa, giungendo a ricostruire il fatto ignoto, cioè il reddito, sulla base della certezza della spesa effettuata, ne consegue che qualsiasi spesa – sia essa in beni di investimento, volti a modificare la consistenza o la qualità dei beni patrimoniali, e sia di utilizzo nell’acquisto di beni di consumo – deve essere presa in considerazione per essere ragguagliata con il reddito dichiarato.
In proposito è stato giustamente rilevato che il reddito complessivo accertato in maniera sintetica è determinato attraverso un procedimento logico “a ritroso” che parte dall’impiego della ricchezza e non già dal fatto economico che l’ha generato, come nell’accertamento induttivo (2).
Con la nuova formulazione dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973, pertanto, gli incrementi patrimoniali che l’Ufficio finanziario deve prendere in considerazione sono soltanto quelli conseguiti attraverso una “spesa … sostenuta” cioè che sia avvenuta a seguito di un effettivo materiale esborso di denaro da parte del contribuente (3).
Più precisamente il termine “sostenimento” manifesta la scelta legislativa di escludere tutte le disponibilità economiche derivanti da atti gratuiti di liberalità di qualsiasi genere, e di collegare invece la spesa ad un ben preciso movimento finanziario (4).
Dal tenore letterale contenuto nell’espressione normativa “spesa sostenuta” se ne deduce logicamente che non possono essere assunti a indici di maggiore capacità contributiva gli incrementi patrimoniali conseguiti in assenza di un reale ed effettivo esborso di denaro: in tale evenienza la mancata corresponsione del pagamento del prezzo da parte del soggetto acquirente il bene patrimoniale dimostra l’assenza di qualsiasi disponibilità economica connessa all’incremento patrimoniale conseguito.
Ciò avviene in tutti gli atti di liberalità nei quali l’incremento patrimoniale si consegue a titolo gratuito, ma anche nei contratti nei quali la causa gratuita viene dissimulata.
Infatti solitamente può accadere che, in un contratto stipulato tra le parti, il versamento degli importi di denaro menzionati materialmente non avvenga, avendo il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, una causa gratuita anziché quella onerosa apparente: in tale caso non essendosi verificato tra le parti alcun trasferimento di denaro, non può attribuirsi al soggetto acquirente e beneficiario dell’incremento patrimoniale alcuna reale disponibilità economica (5).
Parimenti l’acquisto di un bene produttivo (nella specie una farmacia) non già con la corresponsione di una somma di denaro, bensì mediante l’accollo dei relativi debiti gravanti sul bene acquistato, non è configurabile come incremento patrimoniale conseguito a seguito di una attuale e materiale erogazione di spesa da parte del contribuente e conseguentemente non può essere considerato quale attuale espressione di capacità economica del contribuente.
Infatti l’accollo di un debito non è un modo di estinzione delle obbligazioni diverso dall’adempimento, ma è soltanto una modificazione soggettiva del rapporto obbligatorio nel lato passivo che non comporta alcuna erogazione di spesa, la quale invece si verificherà soltanto nel momento in cui il contribuente andrà a porre in essere i singoli atti di estinzione dell’obbligazione accollata (6).
E quindi soltanto allora, con la materiale erogazione dell’esborso di denaro si potrà verificare da parte dell’Ufficio finanziario la congruità della spesa sostenuta con i redditi dichiarati dal contribuente.
Viceversa gli incrementi patrimoniali conseguiti non già mediante accollo di obbligazioni, bensì mediante compensazione – che è un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento – sono idonei a rilevare una corrispondente capacità economica e pertanto sono comparabili con i redditi dichiarati dal contribuente (7).

2. Gli incrementi patrimoniali nel soppresso art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 e la giurisprudenza formatasi al riguardo

Il soppresso art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 espressamente statuiva che «la spesa per incrementi patrimoniali» si presumeva essere sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti in quote costanti nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro anni precedenti.
Questa disposizione normativa non figura più nel nuovo testo dell’art. 38, ma è stata riportata nel D.M. 24 dicembre 2012 che regolamenta il contenuto induttivo degli elementi di capacità contributiva, e precisamente nella Tabella A sotto la voce “Investimenti”, ove si legge che l’incremento patrimoniale è costituito dall’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno, meno l’ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti all’acquisto del bene produttivo dell’incremento patrimoniale.
Sempre nel soppresso art. 38 si statuiva che il contribuente aveva facoltà di dimostrare – e quindi allo stesso incombeva l’onere della prova, qualora non risultasse all’Ufficio finanziario – che il maggiore reddito accertato sinteticamente era costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta d’imposta. Ed aggiungeva che «l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione» (art. 38, sesto comma, del D.P.R. n. 600/1973).
In vigenza della normativa regolata dal soppresso art. 38 la giurisprudenza ha avuto occasione di pronunciarsi.
Con un primo orientamento la Corte di Cassazione (8) ha affermato che in base a tale norma non era sufficiente la prova della sola disponibilità del possesso di redditi esenti o di redditi già assoggettati a ritenuta di imposta, ma occorreva anche la prova che la spesa per incrementi patrimoniali fosse stata sostenuta proprio con l’utilizzo di redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta.
Pertanto il contribuente doveva fornire la prova del nesso eziologico esistente tra il possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta e la spesa sostenuta per gli incrementi patrimoniali.
Dello stesso tenore la sentenza della Corte di Cassazione n. 4138/2013 (9) secondo la quale senza la prova del nesso eziologico tra possesso di redditi e spesa per incrementi patrimoniali, quest’ultima continuerebbe a produrre i suoi effetti presuntivi a danno del contribuente, non avendo lo stesso superato la presunzione iuris tantum (la stessa si presume) posta a suo svantaggio dalla norma.
In contrapposizione al nesso eziologico evidenziato nelle dette pronunce si osservava da un lato che la prova richiesta dalla norma doveva vertere esclusivamente:
a) sulla circostanza di fatto che il maggiore reddito accertato era “costituito” da redditi esenti o soggetti a ritenuta di imposta,
b) sulla “entità” di detti redditi e
c) sulla “durata del loro possesso”.
Nessun riferimento nella norma quindi sulla eventuale circostanza di fatto della corrispondenza specifica tra gli incrementi patrimoniali e la spesa sostenuta: pertanto in buona sostanza la prova che doveva fornire il contribuente doveva essere circostanziata soltanto in relazione all’esistenza e alla natura di eventuali disponibilità economiche (10).
Dall’altro lato si obiettava che il dovere dimostrare il nesso eziologico sopra evidenziato, per molti contribuenti non operatori economici – (e in quanto tali non obbligati ad adempimenti contabili) – avrebbe costituito un notevole aggravio della prova liberatoria richiesta, per la semplice ragione che in assenza di una puntuale documentazione contabile, alla quale non si era tenuti, difficilmente o in maniera impossibile poteva fornirsi la prova dello stretto nesso di connessione intercorrente tra il possesso di redditi esenti o soggetti a ritenuta e la conseguente spesa sostenuta (11).
E per l’appunto veniva altresì evidenziato che la necessità di una puntuale documentazione contabile – vera probatio diabolica – richiesta, dopo alcuni anni dall’avvenuto incremento patrimoniale, al contribuente, che peraltro per legge non era tenuto a tenere alcuna contabilità, poneva lo stesso in una condizione di inferiorità, con evidente violazione del dettato costituzionale contenuto nell’art. 111 Cost., ove si statuisce espressamente che «ogni processo [e quindi anche quello tributario] si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» (12).
E non è neppure da trascurare al riguardo la considerazione che qualora la norma procedimentale ostacolasse la possibilità della prova contraria o la rendesse diabolica, essa stessa rischia di tramutarsi in una norma sostanziale con la conseguente trasformazione del presupposto del tributo IRPEF da reddito prodotto a reddito speso o consumato (13).
A questo orientamento giurisprudenziale, che si può definire rigorista, si contrappose un altro orientamento nettamente contrario. Infatti con la sentenza della Suprema Corte n. 6396/2014 (14) si affermava che il testo della norma non imponeva affatto una dimostrazione dettagliata dell’impiego della somma con la quale si era proceduto all’incremento patrimoniale. E ciò in quanto la norma richiedeva al contribuente di vincere la presunzione – semplice o legale che fosse – che il reddito dichiarato non era sufficiente per realizzare gli incrementi patrimoniali: il che significa che nessuna altra prova doveva dare il contribuente circa l’effettiva destinazione dei redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta agli incrementi patrimoniali, se non la dimostrazione dell’esistenza di tali redditi.
Una diversa interpretazione determinerebbe una sorta di trasfigurazione del presupposto impositivo, il quale sarebbe correlato non più all’esistenza di un reddito, bensì all’esistenza di una spesa realizzata con redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo d’imposta.
Infatti se l’Ufficio finanziario desumeva dagli incrementi patrimoniali effettuati un maggiore reddito rispetto a quello dichiarato, il contribuente doveva dimostrare soltanto l’esistenza di redditi sufficienti a realizzare gli incrementi patrimoniali.
A questi due orientamenti giurisprudenziali se ne contrapponeva un terzo, che superando le due posizioni estreme sinora manifestatesi, era più aderente alla lettera del disposto normativo contenuto nel soppresso art. 38 del più volte citato D.P.R. n. 600/1973.
Infatti la Suprema Corte nella sentenza n. 8995/2014 (15), muovendo dal dettato legislativo, in virtù del quale l’entità dei redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta e la durata del loro possesso dovevano risultare da idonea documentazione, affermava che la detta disposizione normativa chiedeva qualcosa in più della mera prova della disponibilità da parte del contribuente di redditi esenti o soggetti a ritenuta a titolo di imposta: essa invero, pur non prevedendo esplicitamente la prova che i detti ulteriori redditi erano stati utilizzati per sostenere le spese contestate, chiedeva tuttavia una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò fosse accaduto o fosse potuto accadere.
In tale senso andava letto lo specifico riferimento alla prova risultante da idonea documentazione della entità dei redditi e della durata del loro possesso: previsione questa che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi di tipo quantitativo e temporale sia la disponibilità di tali redditi e sia la riferibilità della maggiore capacità contributiva in capo al contribuente proprio in riferimento a tali ulteriori redditi.
In tale modo si veniva ad escludere anche la possibilità che i redditi posseduti fossero stati utilizzati per finalità non rilevanti per l’accertamento sintetico, quali, ad esempio, un ulteriore investimento finanziario: nel qual caso infatti il possesso dei predetti redditi non risulterebbe a giustificare la spesa sostenuta.
Si osservava altresì nella predetta sentenza che la prova documentale richiesta non era particolarmente gravosa, potendo essa essere fornita con la produzione di estratti dei conti correnti bancari, i quali sono idonei a dimostrare la durata del possesso dei redditi in esame e quindi non il loro semplice transito nella disponibilità del contribuente (16).

3. Gli incrementi patrimoniali nel vigente art. 38 del D.P.R. n. 600/1973

Il vigente testo dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 non fa menzione alcuna della spesa per incrementi patrimoniali, ma invece usa l’espressione «spese di qualunque genere sostenute»: formulazione letterale questa che è comprensiva ovviamente sia delle spese per beni di consumo e sia delle spese per incrementi patrimoniali, stante che queste ultime spese integrano pur sempre una presunzione di maggiore reddito.
Il legislatore nulla dispone specificamente per le spese aventi ad oggetto incrementi patrimoniali ed anzi, in particolare:
a) non viene ripetuta la norma che presumeva che la spesa per incrementi patrimoniali si riteneva essere stata sostenuta con redditi formatisi nell’anno cui fa riferimento l’accertamento sintetico e nei quattro anni precedenti;
b) viene ribadito che i redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte devono essere calcolati ai fini della spesa sostenuta anche per l’incremento patrimoniale: ma non statuisce più che «l’entità di detti redditi e la durata del loro possesso deve risultare da idonea documentazione».
Pertanto alle spese per incrementi patrimoniali si applicano le norme contenute nel vigente art. 38, quarto comma, ovvero le stesse disposte per le spese di qualsiasi genere sostenute, le quali statuiscono che il contribuente può fornire la prova che il finanziamento delle spese sostenute (anche per incrementi patrimoniali) sia avvenuto con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta – così come era disposto nel soppresso art. 38 – ma anche con redditi «comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile» nonché con redditi «diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta».
Con lo statuire che «i redditi comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile» vanno calcolati nella quantificazione del reddito accertato in via sintetica, il legislatore ha accolto quanto la giurisprudenza di merito (17) aveva già riconosciuto in tema di oneri figurativi, i quali, costituendo una componente aggiuntiva di liquidità rispetto al reddito dichiarato, danno luogo ad una maggiore capacità di spesa rispetto a quella evidenziata dal reddito disponibile risultante dalla dichiarazione dei redditi del contribuente.
Per oneri figurativi devono intendersi tutte quelle voci negative del conto economico delle imprese (e in parte anche dei professionisti) che costituiscono il cosiddetto autofinanziamento da costi, quali gli ammortamenti, gli accantonamenti per il TFR dei dipendenti, le plusvalenze rateizzabili, e simili.
In tutti questi casi il reddito imponibile risente di costi dedotti per competenza, l’importo dei quali però rimane nella disponibilità economica del contribuente imprenditore o libero professionista: disponibilità finanziaria questa maggiore di quella risultante dal reddito disponibile dichiarato e che in tal modo può essere in grado di neutralizzare il maggiore reddito accertato sinteticamente.
Infatti gli oneri figurativi sono componenti di natura tipicamente non finanziari, nel senso che a fronte degli stessi, non vi è in contropartita una uscita monetaria dalle casse aziendali, con la conseguenza che essi sono in grado di influenzare negativamente l’ammontare del reddito imponibile del contribuente, senza però intaccarne al tempo stesso la capacità di spesa del contribuente.
Invero proprio nel reddito di impresa si assiste ad una netta scissione tra reddito soggetto a tassazione determinato secondo la competenza economica e reddito disponibile: il primo può risultare anche di molto inferiore al reddito in effetti disponibile da parte del contribuente per l’effetto della detrazione di oneri figurativi, e cioè di quegli elementi negativi del reddito di impresa o di lavoro autonomo, ai quali non corrisponde alcuna uscita finanziaria (18).
Il vigente art. 38 statuisce inoltre che vanno comparati ai fini della loro congruenza con la spesa sostenuta (anche per incrementi patrimoniali) oltre i redditi conseguiti nello stesso anno, anche «i redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta», cioè i redditi conseguiti in altri anni, l’ammontare dei quali però giustifica l’avere sostenuto le spese prese a fondamento dell’accertamento sintetico.
Ciò si configura meglio non tanto con le spese per beni di consumo quanto piuttosto con le spese per incrementi patrimoniali – spese di solito di ammontare elevato – che vengono per lo più sostenute con redditi diversi da quelli conseguiti nell’anno in cui è avvenuto il contestato incremento patrimoniale.
Conseguentemente con la nuova formulazione dell’art. 38 scompare definitivamente il riferimento secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali si presumeva essere sostenuta, salvo prova contraria, con redditi conseguiti con quote costanti nell’anno in cui è avvenuto l’incremento patrimoniale e nelle quattro annualità precedenti, ed è stata invece introdotta la presunzione relativa secondo la quale, tutto quanto è stato speso nel periodo di imposta sia da collegare a redditi prodotti nel medesimo periodo di imposta, salvo, per l’appunto, l’onere della prova a carico del contribuente di dimostrare che la spesa sostenuta è avvenuta con redditi conseguiti in annualità precedenti all’anno in cui si è realizzato l’incremento patrimoniale: annualità che a questo punto possono essere anche più di quattro, non avendo il legislatore più posto alcun limite al riguardo (19).
In proposito appare limitativa e non certamente aderente alla nuova normativa contenuta nel vigente art. 38 la disposizione contenuta nel D.M. 24 dicembre 2012, che nel regolamentare il contenuto induttivo degli elementi di capacità contributiva, nella Tabella A sotto la voce “Investimenti”, riporta ancora il contenuto dispositivo del soppresso art. 38, e cioè che l’incremento patrimoniale è costituito dall’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno, meno l’ammontare dei disinvestimenti effettuati nell’anno e dei disinvestimenti netti dei quattro anni precedenti all’acquisto del bene produttivo dell’incremento patrimoniale.
Quanto disposto nel predetto D.M. 24 dicembre 2012 invero non era aderente neppure al disposto del soppresso art. 38, poiché espressamente in tale articolo era riconosciuto al contribuente la facoltà di potere fornire la prova contraria che la spesa per incrementi patrimoniali era avvenuta con redditi conseguiti oltre il periodo di quattro anni dall’avvenuto incremento patrimoniale.

4. Le prove eccepibili dal contribuente

Nella previgente normativa dell’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 si statuiva che la prova, secondo la quale le spese sostenute dal contribuente erano imputabili a redditi esenti o a redditi soggetti a ritenuta a titolo di imposta, doveva risultare da idonea documentazione attestante l’entità degli stessi e la durata del loro possesso.
Nel vigente art. 38 ciò non vi figura più: esso dispone soltanto che il contribuente deve provare che «il finanziamento [delle spese sostenute] sia avvenuto:
– con redditi diversi da quelli posseduti nello stesso periodo di imposta
– con redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta
– con redditi comunque legalmente esclusi dalla formazione della base imponibile».
La norma quindi ribadisce il concetto:
a) che i redditi presi a giustificazione della spesa sostenuta devono essere posseduti dal contribuente e quindi esistere in capo allo stesso o a questi riconducibili;
b) che con detti redditi è avvenuto il finanziamento (e cioè il pagamento) delle spese sostenute (20).
Nella norma del vigente art. 38, come nel soppresso, il legislatore non statuisce che il contribuente debba fornire la prova che vi sia un nesso eziologico tra la spesa sostenuta e i redditi non computabili ai fini del sostenimento della spesa medesima, ed in particolare che la spesa per incrementi patrimoniali sia stata sostenuta proprio con l’utilizzo specifico di detti redditi ininfluenti ai fini dell’accertamento sintetico, e con ciò ovviando alle rilevate criticità già evidenziate sul piano costituzionale.
E neppure il legislatore richiede, come invece richiedeva nel soppresso art. 38, da parte del contribuente una “documentazione idonea” a giustificare che la spesa per incrementi patrimoniali poteva essere stata sostenuta con il possesso di redditi ininfluenti.
Invero, con la vigente formulazione letterale dell’art. 38, il legislatore pone a carico del contribuente l’onere di fornire la prova del possesso di determinati redditi (non influenti ai fini dell’accertamento sintetico) con i quali ha sostenuto la spesa per incrementi patrimoniali.
Ciò che muta invece con la vigente normativa è soprattutto la circostanza che il contribuente, a sostegno delle proprie eccezioni, tendenti a dimostrare il collegamento tra la spesa sostenuta e il possesso di determinati redditi che giustifichino l’avvenuta spesa, non deve fare più ricorso esclusivamente ad un’“idonea documentazione”, cioè ad una prova prettamente documentale; ma può avvalersi di qualsiasi mezzo di prova, ivi compreso quello previsto dall’art. 2729 c.c., e cioè può fare ricorso anche ad una prova fondata su presunzioni, purché ovviamente, come prescrive lo stesso art. 2729 c.c., le presunzioni – (ovverossia le circostanze di fatto) – addotte dal contribuente siano gravi, precise e concordanti nel giustificare la spesa sostenuta (21).
In buona sostanza il contribuente dovrà fornire la prova, anche presuntiva, che il possesso di redditi non rilevanti ai fini dell’accertamento sintetico era preesistente alla spesa sostenuta; che il possesso dei predetti redditi da parte del contribuente non era stato soltanto transitorio, ma durava da qualche tempo ed era anche sufficiente per il sostenimento della spesa; che i detti redditi posseduti non erano stati utilizzati per altri investimenti finanziari: ed in genere dovrà fornire la prova di qualsiasi altra circostanza di fatto precisa, grave e concordante dalla quale potersi dedurre che la spesa per incrementi patrimoniali è avvenuta con redditi non rilevanti ai fini del contestato accertamento sintetico.
In tale modo il contraddittorio che si va ad instaurare sia nella fase amministrativa con l’Ufficio finanziario e sia nella eventuale fase processuale avanti le Commissioni tributarie avviene maggiormente nel pieno rispetto del dettato costituzionale (art. 111 Cost.) e cioè in condizioni di parità con l’Amministrazione finanziaria, avendo il contribuente la possibilità di potere dimostrare il possesso di redditi ininfluenti ai fini dell’accertamento sintetico non soltanto documentalmente, ma con qualsiasi altro mezzo di prova, e cioè anche attraverso delle presunzioni.
Queste ultime infatti costituiscono uno strumento utilizzabile dal giudice per risalire dagli elementi di fatto, di cui abbia raccolto la prova, ai fatti costitutivi della fattispecie concreta, oggetto del suo giudizio: in buona sostanza per giudicare della corrispondenza o meno della fattispecie concreta, quale è quella ricostruita in sede processuale, alla fattispecie astratta descritta dalla norma (22).
Tuttavia va anche rilevato che oggetto della prova contraria nell’accertamento sintetico non è soltanto l’aver sostenuto la spesa con il possesso di quei redditi, indicati nell’art. 38, i quali hanno consentito al contribuente di aver potuto effettuare la contestata spesa per incrementi patrimoniali; ma può la detta prova consistere anche nella non riferibilità o non riconducibilità della spesa al contribuente.
Ciò si verifica per lo più allorquando la riferibilità della spesa sia riconducibile a redditi provenienti da un nucleo familiare, e in particolare per tutte quelle spese sostenute in virtù di atti di liberalità compiuti da parte di terzi, familiari o parenti, senza la formalità dell’atto pubblico, che appunto per la carenza di detta formalità espone il contribuente a dovere fornire una prova impossibile della liberalità intervenuta, assoggettandolo ad una vera e proprio probatio diabolica.
Infatti non sempre gli atti di liberalità nell’ambito familiare assumono le forme giuridiche proprie previste dalla normativa civilistica, ricorrendo i contraenti raramente ad atti pubblici di donazione.
La problematica è stata oggetto di alcune pronunce della giurisprudenza in vigenza del soppresso art. 38, e soprattutto in riferimento alla idonea documentazione che la norma richiedeva a sostegno della circostanza relativa alla esistenza di un atto di liberalità.
Per quanto concerne l’assenza della forma scritta dell’atto di liberalità si è obiettato in dottrina la non rilevanza della detta circostanza, stante che ciò non inficia l’esistenza fattuale della liberalità, ma attiene agli aspetti civilistici e tributari estranei alla tematica dell’accertamento sintetico (23).
Il giudice tributario non deve stabilire se la donazione sia più o meno civilisticamente valida, ma soltanto se la provvista finanziaria con la quale si è proceduto alla spesa per incremento patrimoniale costituisca materia imponibile sfuggita alla tassazione.
E invero è stato correttamente osservato che l’evasione di imposta sussiste sia se la provvista provenga dal genitore mediante atto pubblico e sia se la provvista provenga in assenza della detta formalità (24).
Invero il problema della sussistenza dell’atto di liberalità connesso sia alla carenza di un atto pubblico o di una scrittura privata e sia in presenza di un atto simulato apparentemente oneroso, ma nei fatti gratuito, si trasferisce sul piano processuale e investe la prova che il contribuente deve fornire (25).
L’assenza di una idonea documentazione non più richiesta dalla norma a sostegno dell’atto di liberalità, intercorso in specie tra familiari, consente oggi al contribuente di potere dare prova non più documentale, ma semplicemente presuntiva dell’esistenza del detto atto di liberalità, ove le caratteristiche della gravità, precisione e concordanza sono più o meno intense a seconda dei gradi di parentela intercorrenti tra i contraenti dell’atto costitutivo di un incremento patrimoniale (26).

Dott. Bernardo Comella

(1) Nel senso che il sostenimento di una spesa (per consumi o investimenti patrimoniali) è sintomatico, fino a prova contraria, dell’esistenza di una disponibilità di natura reddituale capace di assicurare la copertura della spesa medesima ved. G. TINELLI, L’accertamento sintetico del reddito complessivo nel sistema dell’IRPEF, Padova, 1993, 207 ss.
(2) In tale senso R. LUPI, Diritto tributario. Parte generale, Milano, 2005, 189; concetto questo poi ripreso da L. FERLAZZO NATOLI – P. MONTESANO, Il contribuente vittima della probatio diabolica davanti alle presunzioni dell’accertamento sintetico, in Boll. Trib., 2012, 1720.
(3) Per ammontare della spesa sostenuta deve intendersi non già il prezzo dichiarato nell’atto, ma il valore definito ai fini dell’imposta di registro: infatti se sussiste una presunzione semplice – superabile da una prova contraria da parte del contribuente – di conformità tra il valore di mercato definitivamente accertato ai fini dell’imposta di registro e il prezzo incassato per la vendita, sul quale calcolare la plusvalenza imponibile ai fini dell’imposta sui redditi, non c’è motivo per non applicare lo stesso principio sia quando il prezzo di trasferimento di un cespite rilevi come prezzo ricevuto (ai fini della tassazione della plusvalenza del venditore), e sia quando essi rilevi come prezzo pagato ai fini della determinazione della spesa sostenuta per incrementi patrimoniali; cfr. sul punto Cass., sez. trib., 4 giugno 2014, n. 12462, in Boll. Trib., 2014, 1661, con nota critica di B. AIUDI, Equivalenza, valore e prezzo: una presunzione semplice?, che non condivide l’equivalenza prezzo-valore.
(4) Cfr. G. TINELLI, Profili evolutivi della disciplina dell’accertamento sintetico, in Raccolta di scritti Sistema impositivo e ordinamento dei tributi – Liber amicorum per Andrea Parlato, Bari, 2014, 469.
(5) In tale senso Cass., sez. trib., 10 ottobre 2014, n. 21442, in Boll. Trib. On-line, la quale pronunciandosi su un presunto versamento di denaro effettuato da un contribuente per aumento di capitale in società partecipate, versamento artatamente configurato al fine di accedere a contributi erariali, ha riconosciuto la natura simulata del detto versamento e la conseguente non rilevanza ai fini dell’accertamento sintetico.
(6) In tale senso Cass., sez. trib., 10 settembre 2014, n. 19030, in Boll. Trib. On-line.
(7) In tale senso Cass., sez. trib., 11 settembre 2009, n. 19647, in Boll. Trib. On-line, richiamata da Cass. n. 19030/2014, cit. In senso parzialmente difforme Comm. trib. reg. della Puglia, sez. IX, 25 marzo 2011, n. 60, in Boll. Trib. On-line, la quale, esaminando il caso di un contribuente che aveva sottoscritto un aumento di capitale di una società partecipata mediante corresponsione dei crediti vantati dalla stessa a titolo di finanziamento infruttifero, ha stabilito che l’aumento di capitale aveva soltanto mutato la struttura qualitativa del patrimonio personale del socio, il quale, a parità di valore, aveva trasformato un credito in una partecipazione, senza incrementare il suo patrimonio personale. In merito a detta sentenza di Comm. trib. reg. della Puglia ved. A. BORGOGLIO, Il mero accollo di debito è irrilevante ai fini dell’accertamento sintetico, in il fisco, 2014, 3683.
(8) Cfr. Cass., sez. trib., 20 marzo 2009, n. 6813, in Boll. Trib. On-line.
(9) Cfr. Cass., sez. trib., 20 febbraio 2013, n. 4138, in Boll. Trib. On-line.
(10) In tale senso P. ACCORDINO, Limiti e ambiti della prova contraria nell’accertamento sintetico, in nota a Cass., sez. trib., 19 marzo 2014, n. 6396, in Boll. Trib., 2014, 1424.
(11) Ved. in tale senso P. ACCORDINO, Notazioni in tema di accertamento sintetico del reddito complessivo netto delle persone fisiche, in Boll. Trib., 2014, 790, in nota a Comm. trib. reg. Friuli-Venezia Giulia, sez. X, 10 luglio 2013, n. 50.
(12) Nel senso che questa tipologia di accertamento non può essere gestita su larga scala a tappeto e in modo indiscriminato al fine di non trasformarsi in un sistema vessatorio cfr. L. FERLAZZO NATOLI – P. MONTESANO, Il contribuente vittima della probatio diabolica davanti alle presunzioni dell’accertamento sintetico, cit., 1721.
(13) Ved. A. FANTOZZI, L’accertamento sintetico ed i coefficienti presuntivi di reddito, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1985, I, 459; e L. PERRONE, L’accertamento sintetico del reddito complessivo IRPEF, in Dir. prat. trib., 1990, I, 25.
(14) Cfr. Cass. n. 6396/2014, in Boll. Trib., 2014, 1420, con nota di P. ACCORDINO, Limiti e ambiti della prova contraria nell’accertamento sintetico, cit.
(15) Cfr. Cass., sez. trib., 18 aprile 2014, n. 8995, in Boll. Trib. On-line.
(16) In senso conforme Cass., sez. trib., 6 agosto 2014, n. 17663, in Boll. Trib. On-line.
(17) Cfr. Comm. trib. prov. di Alessandria, sez. I, 2 aprile 2014, n. 128; e Comm. trib. prov. di Caltanissetta, sez. III, 13 ottobre 2014, n. 762; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(18) Cfr. Comm. trib. prov. di Caltanissetta n. 762/2014, cit.
(19) Nel senso che ancorare l’acquisto di beni immobili e/o terreni edificabili ad un periodo temporale così breve (quattro anni) di formazione del reddito necessario per il sostenimento della relativa spesa potrebbe configurarsi come una norma irragionevole in contrasto con l’art. 3 Cost.; sul punto ved. S. SALVATORES, L’accertamento sintetico, gli incrementi patrimoniali e il superamento della presunzione relativa temporale, in Boll. Trib., 2011, 215.
(20) In caso contrario, qualora detti redditi non esistessero o non fossero bastevoli per giustificare la spesa sostenuta, quest’ultima sarebbe imputabile, in tutto o in parte, a redditi non dichiarati.
(21) In tale senso G. TINELLI, Profili evolutivi della disciplina dell’accertamento sintetico, cit., 479.
(22) Ved. in tale senso F. CORDOPATRI, voce Presunzione, in Encicl. dir., Milano, 1986, 291.
(23) Cfr. G. TINELLI, Profili evolutivi della disciplina dell’accertamento sintetico, cit., 482.
(24) Cfr. L. FERLAZZO NATOLI – P. MONTESANO, Il contribuente vittima della probatio diabolica davanti alle presunzioni dell’accertamento sintetico, cit., 1722.
(25) In particolare di recente la Suprema Corte (cfr. Cass., sez. trib., 19 novembre 2014, n. 24586, in Boll. Trib. On-line) ha ritenuto non dimostrata l’asserita liberalità compiuta dal genitore comprovata attraverso la produzione della copia fotostatica di un assegno privo di data e del quale non era stata dimostrata la negoziazione.
(26) Già la Corte di Cassazione (cfr. Cass., sez. trib., 17 marzo 2006, n. 5991, in Boll. Trib. On-line) nel caso di un contribuente che aveva acquistato con regolare atto di compravendita da stretti congiunti quote di beni immobili nei quali risiedeva, aveva riconosciuto che detto contratto era apparentemente oneroso, trattandosi invece di un atto gratuito di donazione simulata. E in generale Cass. 21442/2014, cit., ha ribadito il principio, già affermato in precedenza, che in tema di spesa per incrementi patrimoniali è consentito al contribuente dimostrare che manca una disponibilità patrimoniale, allorquando il contratto stipulato, in ragione della sua natura simulata, ha una causa gratuita, anziché quella apparentemente onerosa.
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