22 Luglio, 2016

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SOMMARIO: 1. La fine della tassatività degli “atti impugnabili”? – 2. Ruolo ed interesse a ricorrere – 3. La conoscenza attraverso l’estratto di ruolo di un atto impositivo – 4. Impugnazione del ruolo – impugnazione dell’estratto di ruolo – 5. Qualche considerazioni pratica.

1. La fine della tassatività degli “atti impugnabili”?

È mia opinione che il principio della tassatività degli atti impugnabili nel processo tributario, scolpito nel testo originario dell’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, sia sostanzialmente venuto meno a seguito della riforma dell’art. 2 del medesimo decreto compiuta dalla legge 28 dicembre 2001, n. 448. Riforma che ha cancellato il principio secondo cui il giudice tributario aveva giurisdizione solo in ordine ad un elenco tassativo di imposte, che il fisco accertava e riscuoteva attraverso gli atti – a loro volta – tassativamente indicati nel citato art. 19.
Oggi infatti «appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale» (art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992), dunque tutte le controversie «aventi ad oggetto tributi» e non solo quelle relative «agli atti di cui all’art. 19 relativi a tributi».
Rimane ovviamente ferma l’esigenza che la controversia abbia come specifico oggetto “tributi” e non atti che non abbiano (ancora) dato luogo a un interesse di natura tributaria; tale interesse, ad esempio, non sussiste in ordine ad un sopralluogo o una richiesta di dati bancari, che ancora non abbiano sollevato una problematica “avente ad oggetto tributi” né ad una qualche pretesa tributaria. Se la mia abitazione viene perquisita il mio interesse a contestare questa perquisizione ha fondamento nella tutela del diritto all’inviolabilità del domicilio; e solo se la perquisizione condurrà all’acquisizione di elementi cui l’Amministrazione finanziaria colleghi una pretesa tributaria sorgerà un interesse di natura (appunto) tributaria a contestare l’operato degli accertatori. Questa mia tesi trova – almeno parziale – conforto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha prima dilatato il significato degli atti enunciati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 fino a comprendervi, ad esempio, le “fatture” con cui il concessionario del servizio raccolta rifiuti richiede la TIA, e infine ammesso l’impugnabilità di atti che solo con molta buona volontà possono essere fatti rientrare nell’anzidetto art. 19.
Le Sezioni Unite, con la sentenza 18 febbraio 2014, n. 3773 (1), sono pervenute a un’interpretazione talmente estensiva del dettato dell’art. 19, da comprendervi anche “atti atipici”, con buona pace dell’originario comma terzo del medesimo articolo che recita(va) «gli atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente».
Si legge infatti in tale sentenza (relativa all’impugnabilità da parte del creditore di imposta della comunicazione con cui l’Agenzia delle entrate nega la sussistenza del diritto patrimoniale che il creditore del creditore intende pignorare): «Dalle considerazioni che precedono discende che il dettato dell’art. 19 del d.lgs. n. 546, mentre, per un verso, rafforza la tesi suddetta, secondo cui per aversi controversia tributaria, rimessa alla giurisdizione delle commissioni tributarie, occorre l’esercizio del potere impositivo mediante un atto proveniente da un soggetto investito di detta potestas, d’altro canto, però, non può evidentemente condurre, in ragione della mancanza di tale atto nell’elenco ivi indicato, a precludere l’accesso del cittadino alla tutela giurisdizionale ogni qual volta esista un atto che si riveli comunque idoneo, in ragione del suo contenuto, a far sorgere l’interesse ad agire ex art. 100 cod. proc. civ., come avverrebbe qualora, da un lato, il giudice ordinario correttamente negasse la propria giurisdizione in favore di quello tributario e, dall’altro, quest’ultimo dichiarasse il ricorso improponibile per la non riconducibilità dell’atto stesso all’elenco dell’art. 19».
Ed ancora le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con le ordinanze 19 giugno 2015, nn. 12759 e 12760 (2) – deliberate nella stessa udienza in cui è stata deliberata la sentenza n. 19704/2015 (3) – hanno affermato che è impugnabile avanti alla giustizia tributaria la nota con cui il Ministero delle finanze comunichi al contribuente di avere respinto la sua istanza di attivazione della procedura amichevole ex art. 6 della Convenzione europea sull’arbitrato (n. 90/436/CEE del 23 luglio 1990), al fine di dirimere la doppia imposizione che possa discendere dai rapporti fra società appartenenti allo stesso gruppo di cui una fiscalmente residente in un altro Paese dell’Unione europea (4). Ed anche qui mi sembra sfumi ogni riferimento al “famoso” art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992.
Forse fin maggiore è la dilatazione (anzi il sostanziale superamento) dell’art. 19 nella finora pacifica giurisprudenza della Quinta Sezione della Corte di Cassazione (5) secondo cui le determinazioni, in senso negativo, del Direttore regionale dell’Agenzia delle entrate sull’istanza del contribuente volta a ottenere le disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi dell’art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non costituiscono atto di diniego di agevolazione fiscale (6). Perciò non rientrano nelle categorie enunciate dall’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; e il contribuente che non le impugni non perde il diritto di contestare la pretesa tributaria. Tuttavia l’atto in questione può essere impugnato avanti alla giurisdizione tributaria in quanto a seguito dell’ampiamento di tale giurisdizione operato dalla legge n. 448/2001, è sufficiente a sorreggere tale impugnazione il mero interesse a invocare il controllo giurisdizionale (art. 100 c.p.c.) (7).
Mi sembra che nella più recente giurisprudenza tributaria la Suprema Corte abbia cioè preso atto del legittimo interesse del contribuente ad espungere dall’ordinamento atti che non incidono direttamente sul suo patrimonio, ma che potrebbero concorrere a determinare un suo pregiudizio.
Le determinazioni, in senso negativo, del Direttore regionale delle entrate sull’istanza volta ad ottenere la disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi del già citato art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973 (oggi art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente), non determinano un immediato pregiudizio. Tanto che si è dubitato dell’esistenza di un interesse attuale a impugnarle.
Si è detto che, in fondo, il contribuente può disattendere l’opinione del Direttore regionale e porre ugualmente in essere l’operazione economica “sospetta”. E se ne è dedotto che solo se l’Agenzia contesterà l’abuso di diritto con un avviso di accertamento verrà in essere una lesione attuale e diretta al patrimonio del contribuente; e quindi sorgerà effettivo e attuale interesse a promuovere un giudizio (8).
Queste argomentazioni, come si vede non peregrine, sono state però respinte e si è ritenuto prevalente il diritto dell’operatore economico ad “ottenere chiarezza” attraverso una sentenza del giudice tributario.
Anche la nota con cui il Ministero delle finanze comunica al contribuente di avere respinto la sua istanza di attivazione della procedura amichevole, ex art. 6 della menzionata Convenzione europea sull’arbitrato, non arreca un diretto pregiudizio al contribuente, che perde solo la possibilità di giovarsi dell’eventuale accordo fra le Amministrazioni dei due Stati e che comunque conserva il pieno diritto di difesa in sede processuale. Ma anche qui la tesi della non impugnabilità dell’atto, sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, è stata respinta dalla Suprema Corte.
Si deve però anche prendere atto dell’indicazione in controtendenza che sembrerebbe contenuta nell’art. 6, primo comma, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, in materia di «Revisione della disciplina degli interpelli e del contenzioso tributario», il quale prevede che «le risposte alle istanze di interpello di cui all’articolo 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212, recante lo Statuto dei diritti del contribuente, non sono impugnabili, salvo le risposte alle istanze presentate ai sensi del comma 2 del medesimo articolo 11, avverso le quali può essere proposto ricorso [solo] unitamente all’atto impositivo» (e quindi parrebbe coinvolgere anche gli interpelli previsti dall’art. 10-bis della stessa legge sull’abuso di diritto, posto che quest’ultima disposizione rinvia espressamente al successivo art. 11). Si tratterebbe di una norma indubbiamente significativa che riflette le aspirazioni e gli orientamenti dell’Agenzia delle entrate; anche se appare lecito dubitare che sia conforme alla legge delega (9) che aveva come obbiettivo «il rafforzamento della tutela giurisdizionale del contribuente» (art. 10) e dunque sembra dovesse perseguire «una maggiore omogeneità della disciplina degli interpelli, anche ai fini della tutela giurisdizionale» (art. 6, sesto comma), se mai ampliando e non restringendo le ipotesi in cui è consentito il ricorso giurisdizionale.
In un’ottica di dilatazione degli atti impugnabili si colloca infine la citata sentenza n. 19704/2015 che afferma l’autonoma impugnabilità del ruolo ancorché l’art. 19 ne preveda l’impugnabilità solo in una con la conseguente cartella di pagamento notificata. Invero, se il ruolo fosse un atto meramente interno che nulla aggiunge alla posizione delle parti non si vede come mai l’art. 19 ne preveda l’impugnabilità, e non mancano sentenze che hanno – anche in precedenza – tratto da tale letterale enunciazione la conseguenza dell’impugnabilità del ruolo (10).
La pronuncia delle Sezioni Unite giunge all’affermazione della (autonoma) impugnabilità escludendo che per consentire tale impugnazione sia necessaria la notifica del ruolo stesso (che in base all’art. 19 dovrà avvenire in una con la notifica della conseguente cartella di pagamento).
Viene così ribadita la tesi secondo cui per l’impugnabilità dell’atto impositivo non è necessario che esso sia stato ritualmente notificato e il contribuente ben può impugnare un atto asserendo che di esso non ha mai avuto legale conoscenza, contestando l’asserzione dell’Amministrazione finanziaria secondo cui esso è invece divenuto definitivo (tanto che si è chiesta l’iscrizione a ruolo delle somme accertate) e, dunque, è stato regolarmente notificato ed è decorso il termine per impugnare. Ciò in quanto la notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l’atto abbia raggiunto lo scopo (11).
Resta da stabilire se attraverso l’estratto di ruolo il contribuente pervenga ad una piena conoscenza dell’atto equiparabile alla sua notificazione tale da far decorrere il termine perentorio di 60 giorni per l’impugnazione (12). Ed in proposito la sentenza delle Sezioni Unite puntualmente chiarisce che solo con la formale notificazione dell’atto iniziano a decorrere i termini per l’impugnazione, mentre le altre forme di conoscenza consentono il ricorso ma non determinano l’operatività del termine decadenziale di 60 giorni per l’esercizio del diritto ad impugnare.

2. Ruolo ed interesse a ricorrere

Ove si dia per scontato che è venuto meno il principio della tassatività degli atti impugnabili avanti alla giustizia tributaria (o che comunque il ruolo è autonomamente impugnabile), è doveroso domandarsi se e quando chi voglia impugnare un ruolo abbia l’interesse ad agire di cui all’art. 100 c.p.c. («per proporre una domanda o per contraddire alla stessa è necessario avervi interesse»). E una parte della giurisprudenza affermava che l’interesse ad impugnare il ruolo non è “in re ipsa”, non discende automaticamente dall’iscrizione a ruolo, ma richiede la sussistenza di un qualche ulteriore elemento; quale la notifica del ruolo al contribuente, oppure l’utilizzazione del ruolo al fine della promozione di un’istanza di fallimento o per l’insinuazione al passivo fallimentare (13), oppure il diniego o la revoca di un beneficio fiscale; oppure il «rifiuto di adempimento di un credito vantato nei confronti della P.A.; diniego di un mutuo per effetto della notizia dell’esistenza di carichi iscritti a ruolo) per effetto della diretta consapevolezza che alla P.A. in generale è dato di avere della pretesa fiscale soltanto iscritta a ruolo ma non ancora notificata al destinatario» [utilizzo l’esemplificazione enunciata nell’ordinanza della Corte di Cassazione 11 luglio 2014, n. 16055 (14), che ha rimesso alle Sezioni Unite la questione dell’impugnabilità del ruolo].
La recente sentenza delle Sezioni Unite n. 19704/2015, più volte citata, afferma invece più che condivisibilmente che le possibili conseguenze negative della “iscrizione” nel ruolo determinano automaticamente l’interesse del contribuente a non essere iscritto nel ruolo stesso e quindi ad impugnarlo anche prima che si realizzi l’effetto lesivo. In quanto tali effetti derivano dalla circostanza che il ruolo non è un mero “indice interno” dell’Amministrazione finanziaria bensì la cristallizzazione di pretese patrimoniali (nel nostro caso tributarie) che debbono essere obbligatoriamente riscosse. Tanto che il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, puntualizza che il ruolo è «l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario» (art. 10). Ed ancora, che «con la sottoscrizione il ruolo diviene esecutivo» (art. 12). E secondo l’art. 49, «per la riscossione delle somme non pagate il concessionario procede ad espropriazione forzata sulla base del ruolo, che costituisce titolo esecutivo, fatto salvo il diritto del debitore di dimostrare, con apposita documentazione rilasciata ai sensi del comma 1-bis, l’avvenuto pagamento delle somme dovute ovvero lo sgravio totale riconosciuto dall’ente creditore; il concessionario può altresì promuovere azioni cautelari e conservative, nonché ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore» (15).
La legge del resto ha consentito l’estinzione di debiti tributari semplicemente iscritti nei ruoli (quelli affidati in riscossione fino al 31 ottobre 2013) a mezzo del pagamento della sola somma capitale iscritta, con esclusione degli interessi per ritardata iscrizione a ruolo nonché degli interessi di mora (art. 1, comma 618, della legge 27 dicembre 2013, n. 147), e tale disposizione ha ulteriormente posto in evidenza l’interesse alla conoscenza dei dati riportati del ruolo, anche indipendentemente dalla notificazione che l’ente concessionario ne abbia fatto.
In buona sostanza, mi pare si possano applicare all’iscrizione a ruolo considerazioni simili a quelle che sono comunemente accettate in riferimento alla segnalazione alla “centrale rischi” della Banca d’Italia, e secondo cui «il discredito che deriva da [una illegittima] siffatta segnalazione [alla centrale dei rischi] è tale da ingenerare una presunzione di scarso affidamento dell’impresa e da connotare come rischiosi gli affidamenti già concessi; con inevitabile perturbazione dei suoi rapporti economici, e una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 cod. civ., costituita dalla diminuzione o dalla privazione di un valore del soggetto e [conseguentemente] del suo patrimonio alla quale il risarcimento deve essere commisurato» (16).
È vero che gli atti esecutivi del ruolo devono essere proceduti dalla notifica della cartella di pagamento (atto questo che tutti riconoscono come impugnabile) ma tale emissione costituisce un puntuale dovere dell’agente della riscossione che non gode di alcuna discrezionalità nella emissione della cartella stessa. E l’emissione della cartella è il primo atto di una procedura di riscossione particolarmente incisiva e poco garantita, basterà ricordare il pignoramento fiscale dei crediti verso terzi ex art. 2, sesto comma, del D.L. 3 ottobre 2006, n. 262 (convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286), che, riscrivendo integralmente l’art. 72-bis del D.P.R. n. 602/1973 (ora rubricato «Pignoramento dei crediti verso terzi»), stabilisce che l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi (quindi anche verso le banche) può contenere, in luogo della citazione prevista dalle disposizioni sul processo civile, l’ordine al terzo di pagare direttamente il credito al concessionario fino a concorrenza del credito per cui si procede.

3. La conoscenza attraverso l’estratto di ruolo di un atto impositivo

Tutta la problematica innanzi affrontata può apparire di scarso rilievo nella gran parte delle controversie in cui si discute della impugnabilità del ruolo, in quanto il contribuente contesta un atto impositivo conosciuto attraverso il ruolo (a sua volta riflesso nell’estratto di ruolo) e dunque propriamente contesta non il ruolo bensì l’atto che nel ruolo si riflette; ciò in quanto il ruolo deve contenere (art. 12 del D.P.R. n. 602/1973) «il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento».
Dunque in tali ipotesi l’estratto di ruolo è solo il mezzo attraverso cui il contribuente ha avuto (rectius, sostiene di aver avuto) conoscenza del ruolo e conseguentemente dell’atto impositivo.
Appare opportuno chiarire che, come appare ovvio, l’acquisizione dell’estratto del ruolo non comporta alcuna “riapertura di termini” in ordine all’impugnazione dell’atto impositivo che sul ruolo si è riflesso. Dunque – se come dovrebbe sempre accadere – l’atto impositivo è stato regolarmente notificato, e non è stato tempestivamente impugnato dal contribuente, l’esito sarà fatalmente una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività. Solo nel caso in cui l’agente della riscossione non provi la regolare notifica dell’atto impositivo si aprirà la via alla contestazione dell’atto; così come accade in ogni caso in cui il contribuente, avuta aliunde notizia dell’atto impositivo, l’impugni.
Queste puntualizzazioni riguardano una parte consistente del contenzioso in cui è stata sollevata la questione della impugnabilità dell’estratto di ruolo, ma non tutte le ipotesi configurabili.
L’art. 2 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 462, prevede infatti che «le somme che, a seguito dei controlli automatici, ovvero dei controlli eseguiti dagli uffici, effettuati ai sensi degli articoli 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre [recte: 26 ottobre, n.d.r.] 1972, n. 633, risultano dovute a titolo d’imposta, ritenute, contributi e premi o di minori crediti già utilizzati, nonché di interessi e di sanzioni per ritardato o omesso versamento, sono iscritte direttamente nei ruoli a titolo definitivo».
E mi pare si debba constatare che in questo caso l’atto impositivo è l’iscrizione a ruolo, che emana da una decisione dell’ente impositore; mentre la cartella ha una funzione meramente esecutiva, costituendo la sua emissione un obbligo per l’agente della riscossione, che non ha alcuna interferenza nella determinazione del dovuto.
Del resto l’art. 12 del D.P.R. n. 602/1973 prevede espressamente che ove non sussiste un pregresso atto impositivo il ruolo debba contenere «la motivazione, anche sintetica, della pretesa». E se, in violazione della normativa vigente, il ruolo non enuncia la “causa petendi” vi sarà un’ovvia nullità dell’iscrizione a ruolo; e il solo dubbio è costituito dall’individuazione dell’organo giudiziario competente a dichiarare la nullità. Propenderei ad affermare la giurisdizione del giudice ordinario quale “giudice generale”, in quanto a ruolo ben possono essere iscritti debiti non rientranti nella competenza del “giudice speciale” tributario.
Mentre ove vi sia – magari per un errore dell’Amministrazione finanziaria – un’iscrizione a ruolo priva del supporto di un atto impositivo, o sulla base di un atto impositivo dichiarato nullo dal giudice, la giurisdizione sarà determinata in base alla qualifica del credito erroneamente iscritto a ruolo.

4. Impugnazione del ruolo – impugnazione dell’estratto di ruolo

La sentenza n. 19704/2015 contiene un’importante puntualizzazione in ordine al significato dei termini “ruolo” ed “estratto di ruolo”. Come già esposto, sottolinea che il ruolo è un atto amministrativo impositivo (fiscale, contributivo o di riscossione di altre entrate allorché sia previsto come strumento di riscossione coattiva delle stesse) e ne trae la conseguenza che il ruolo è autonomamente impugnabile da parte del contribuente.
È poi un dato di fatto che nei casi che hanno dato luogo al contenzioso in cui si inserisce la pronuncia delle Sezioni Unite il contribuente è venuto a sapere di essere “iscritto a ruolo” attraverso un documento rilasciato dall’agente della riscossione a richiesta del privato, cioè dall’“estratto di ruolo”.
Tale documento non ha di per sé, come esattamente sottolineano le Sezioni Unite, una funzione impositiva ancorché la recente sentenza della Terza Sezione Civile 29 maggio 2015, n. 11142 (17), abbia sottolineato che l’estratto di ruolo è (o dovrebbe essere) la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella di pagamento, contenente tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l’ammontare della pretesa creditoria; e ne deduce che esso costituisce idonea prova della entità e della natura del credito portato dalla cartella di pagamento ivi indicata, anche ai fini della verifica della natura tributaria o meno del credito annotato, e quindi della verifica della giurisdizione del giudice adito (18).
Conseguentemente la sentenza delle Sezioni Unite esclude che l’estratto di ruolo costituisca un atto di per sé impugnabile, ma afferma che esso costituisce solo un mezzo di conoscenza dell’atto impugnabile (ruolo, cartella o avviso di accertamento che sia), dunque le incompletezze dell’estratto, che eventualmente non corrisponda ai requisiti indicati dalla precitata sentenza n. 11142/2015, non possono formare oggetto di specifica censura.

5. Qualche considerazioni pratica

Viene fatto di domandarsi quale debba essere la gestione giudiziaria di un ricorso con cui il contribuente impugni il ruolo affermando di averne avuto conoscenza solo attraverso l’estratto di ruolo.
In primo luogo a me pare ovvio che – ove l’estratto di ruolo indichi altresì l’atto impositivo che avrebbe dato luogo all’iscrizione a ruolo – il contribuente debba impugnare anche tale atto, o quanto meno contestare che esso fosse idoneo a giustificare l’iscrizione a ruolo (ad esempio, perché l’efficacia sia stata sospesa da un atto giudiziario).
A sua volta l’Amministrazione finanziaria può limitarsi a sostenere l’infondatezza del ricorso, e in questo caso il giudice deve ritenere che l’estratto di ruolo rifletta esattamente il ruolo e contenga una compiuta enunciazione dei dati relativi all’atto impositivo. E giudicare di conseguenza.
Può invece accadere che l’Amministrazione diligentemente produca una copia completa della parte di ruolo coinvolta nella controversia; e assieme depositi l’atto impositivo con la relativa relata di notifica. A questo punto il contribuente che ha impugnato il ruolo formulando il ricorso in base ai dati in suo possesso potrà integrare i motivi di impugnazione ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. n. 546/1992 che gli accorda tale facoltà in caso di deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Commissione tributaria.
Il giudice dovrà allora procedere a una completa valutazione della vicenda, ed è – si ribadisce – ad esempio ovvio che se viene prodotto un atto impositivo regolarmente notificato e non sospeso il contribuente verrà a soccombere.
Ma se l’Amministrazione finanziaria non integra la documentazione il giudizio avverrà in base a quanto emerge dall’estratto di ruolo.
Per proseguire nell’esempio sopra formulato, se il contribuente contesta l’avvenuta notifica dell’atto impositivo e l’Amministrazione non produce la relata di notifica, il giudice non potrà fare altro che ritenere che la notifica non è regolarmente avvenuta e accogliere il ricorso e non può certo decidere la causa in base a quanto scritto nel ruolo che genericamente affermi l’avvenuta notifica dell’atto. Infatti, la relata di notifica è atto posseduto (o che dovrebbe essere posseduto) dall’Amministrazione e quindi la relativa prova grava su di essa sia in base al principio della vicinanza della prova sia in base al principio della leale collaborazione processuale.
Né l’Amministrazione può giustificare la mancata produzione di un documento la cui formazione sia remota nel tempo, invocando la previsione dell’art. 26, quinto comma, del D.P.R. n. 602/1973, ai cui sensi «il concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento e ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione». In quanto a mio avviso la norma in questione ha una mera portata organizzativa ed esime il concessionario da responsabilità nei confronti del contribuente che chieda copia del documento; invece nel caso ipotizzato il contribuente non chiede affatto di avere copia del documento. È l’Amministrazione che ha interesse a produrlo e perciò ha l’onere di conservarlo fin quando vi è la possibilità che si riveli utile in un contenzioso.

Prof. Mario Cicala
Presidente della Sezione Tributaria
della Corte di Cassazione

(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) Cass., sez. un., 2 ottobre 2015, n. 19704, pubbl. in questo stesso fascicolo a pag. 1565 con nota di CARNIMEO.
(4) Il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, in materia di interpello e di contenzioso tributario, ha aggiunto nell’art. 39 del citato D.Lgs. n. 546/1992, un comma 1-ter secondo cui «il processo tributario è altresì sospeso, su richiesta conforme delle parti, nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi delle Convenzioni internazionali per evitare le doppie imposizioni stipulate dall’Italia ovvero nel caso in cui sia iniziata una procedura amichevole ai sensi della Convenzione relativa all’eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili di imprese associate n. 90/463/CEE del 23 luglio 1990». E ciò mi pare sottolinei il rilievo della decisione ministeriale.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 5 ottobre 2012, n. 17010, in Boll. Trib., 2013, 211.
(6) La sentenza supera in parte le valutazioni della sentenza 15 aprile 2011, n. 8663 (in Boll. Trib., 2011, 1249), secondo cui «le determinazioni del Direttore regionale delle Entrate sulla istanza del contribuente volta ad ottenere il potere di disapplicazione di una norma antielusiva ai sensi dell’art. 37-bis 8° comma DPR n. 600 del 1973, costituiscono presupposto necessario ed imprescindibile per l’esercizio di tale potere. Le determinazioni in senso negativo costituiscono atto di diniego di agevolazione fiscale e sono soggette ad autonoma impugnazione ai sensi dell’art. 19, I comma, lett. h DLGS n. 546 del 1992. Tale atto rientra tra quelli tipici previsti come impugnabili da detta disposizione normativa, e pertanto la mancanza di impugnazione nei termini di legge decorrenti dalla comunicazione delle determinazioni al contribuente ai sensi dell’art. 1, comma 4 D.M. 19-6-1998, n. 259, rende definitiva la carenza del potere di disapplicazione della norma antielusiva in capo all’istante. Il giudizio innanzi al giudice tributario a seguito della impugnazione si estende al merito delle determinazioni impugnate».
(7) Si legge in Cass. n. 17010/2012, cit.: «4.3. La natura tassativa – e quindi soggetta ad interpretazione rigorosa – dell’elencazione degli atti contenuta nel citato art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, con il correlato onere di impugnazione a pena di cristallizzazione della pretesa in essi contenuta, non comporta, tuttavia, che l’impugnazione di atti diversi da quelli ivi specificamente indicati sia in ogni caso da ritenere inammissibile. Da tempo, infatti, la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, ha affermato il principio secondo il quale il detto “catalogo” degli atti impugnabili è suscettibile di interpretazione estensiva, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (art. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.), che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge n. 448 del 2001: ciò, ovviamente, per quanto detto sopra, con il necessario corollario della mera facoltà d’impugnazione, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento. In particolare, è stata riconosciuta la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992: sorge, infatti, in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, ex art. 100 cod. proc. civ., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico); la mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 citato non determina, in ogni caso, la non impugnabilità (e cioè la cristallizzazione) di quella pretesa, che va successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dallo stesso art. 19 (in termini, Cass. n. 21045 del 2007 – con i precedenti ivi indicati -, cui adde Cass., Sez. un., n. 10672 del 2009, nonché Cass. nn. 27385 del 2008; 4513 del 2009; 285 e 14373 del 2010; 8033, 10987 e 16100 del 2011)».
(8) Si legge sempre in Cass. n. 17010/2012, cit.: «In definitiva, la risposta all’interpello non impedisce innanzitutto alla stessa amministrazione di rivalutare – in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso – l’orientamento (negativo) precedentemente espresso, né al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva. Resta fermo, invece (come la stessa resistente espressamente riconosce), che la risposta positiva del direttore regionale impedisce all’amministrazione – a condizione, ovviamente, che i fatti accertati in sede di controllo della dichiarazione corrispondano a quelli rappresentati nell’istanza – l’applicazione della norma antielusiva oggetto d’interpello, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento, che ha diretto fondamento costituzionale e carattere generale ed immanente anche nell’ordinamento tributario, nel quale trova espresso riconoscimento, in linea generale, nell’art. 10 della legge n. 212 del 2000, nonché, specificamente in relazione agli interpelli c.d. ordinari, ma con portata da ritenere estesa alle altre tipologie di interpello previste dalla normativa, nell’art. 11, comma 2, della medesima legge n. 212 (il quale prevede la nullità di atti impositivi emanati in difformità dalla risposta all’interpello)».
(9) Legge 11 marzo 2014, n. 23.
(10) E prima che venisse introdotta la nuova disciplina dei termini per la riscossione delle imposte, intervenuta su sollecito della Corte Costituzionale, la giurisprudenza (Cass., sez. I, 19 luglio 1999, n. 7662, in Boll. Trib., 2001, 783) aveva giustamente ravvisato un aspetto di tale disciplina nell’art. 25 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 («Il concessionario notifica la cartella di pagamento, entro l’ultimo giorno del quarto mese successivo a quello di consegna del ruolo, al debitore iscritto a ruolo», testo in vigore dal 1° luglio 1999 e fino all’8 giugno 2001, prima della modifica operata dall’art. 1 del D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193), e dunque non vi era dubbio che la formazione del ruolo assumeva rilevanza esterna.
(11) Cfr. Cass., sez. trib., 15 gennaio 2014, n. 654, e Cass., sez. trib., 24 aprile 2015, n. 8374, entrambe in Boll. Trib. On-line.
(12) Si veda Cass. n. 8374/2015, cit., in cui si afferma che ogni considerazione circa l’esistenza e la validità della notifica dell’atto impositivo è irrilevante ove il contribuente abbia ricevuto «piena conoscenza degli avvisi depositati (ritirandone copia) …; circostanza, questa, che ha importanza esclusiva e dirimente ai fini dell’efficacia degli avvisi nei confronti della contribuente (indipendente dalla inesistenza o nullità della procedura notificatoria). L’acquisizione della piena conoscenza degli atti specificamente indirizzati alla destinataria mediante ritiro dalla casa comunale della copia ivi depositata dal notificatore implica che da quel momento si è venuta a manifestare con pieno effetto nei confronti della contribuente la volontà autoritativa dell’ufficio, tanto che da quel momento decorre anche il termine per l’impugnazione. Con riferimento a casi simili a quello di specie, questa Corte ha più volte affermato (con orientamento che qui si ribadisce) che “la notificazione dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria costituisce una condizione integrativa dell’efficacia della decisione assunta dall’Ufficio finanziario, ma non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento dell’atto. Ne consegue che l’inesistenza della notificazione non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocamente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso all’ufficio per adottare e notificare il provvedimento amministrativo tributario, nel qual caso grava sull’ufficio stesso l’onere di provare la piena conoscenza dell’atto da parte del contribuente e la sua acquisizione entro il predetto termine di decadenza” (Corte di cassazione n. 4760 del 2009 e n. 13852 del 2010; in senso analogo, n. 654 del 2014)».
(13) Si vedano da ultimo Cass., sez. VI, 9 dicembre 2014, ord. n. 25863, articolazione prima, e Cass., sez. trib., 15 maggio 2015, n. 9943; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(14) In Boll. Trib. On-line e di prossima pubblicazione in questa stessa Rivista con nota di CARNIMEO.
(15) Ovviamente il testo dell’art. 49 riportato tra virgolette è quello in vigore prima delle recenti modificazioni introdotte dall’art. 1 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 159, con decorrenza dal 22 ottobre 2015.
(16) Così Cass., sez. I, 24 maggio 2010, n. 12626, in Danno e resp., 2011, 285.
(17) In Boll. Trib. On-line.
(18) Si riporta la parte essenziale della motivazione: «Vi è poi da dire che l’affermazione della corte d’appello si pone in contrasto con le norme che disciplinano la funzione e il contenuto dell’estratto di ruolo: il ruolo costituisce il titolo esecutivo, ex art. 49 del d.p.r. n. 602 del 1973 ai sensi del quale “Per la riscossione delle somme non pagate il concessionario procede ad espropriazione forzata sulla base del ruolo, che costituisce titolo esecutivo”. La cartella esattoriale non è altro che la stampa del ruolo in unico originale notificata alla parte e, al contrario di quanto affermato dalla corte territoriale, l’estratto di ruolo è una riproduzione fedele ed integrale degli elementi essenziali contenuti nella cartella esattoriale: esso deve contenere tutti i dati essenziali per consentire al contribuente di identificare a quale pretesa dell’amministrazione esso si riferisca (e per consentire al contribuente di apprestare le sue difese e al giudice ove adito di verificare la fondatezza della pretesa creditoria o gli altri punti sollevati dall’opponente) perché contiene tutti i dati necessari ad identificare in modo inequivoco la contribuente, ovvero nominativo, codice fiscale, data di nascita e domicilio fiscale; tutti i dati indispensabili necessari per individuare la natura e l’entità delle pretese iscritte a ruolo, ovvero il numero della cartella, l’importo dovuto, l’importo già riscosso e l’importo residuo, l’aggio, la descrizione del tributo, il codice e l’anno di riferimento del tributo, l’anno di iscrizione a ruolo, la data di esecutività del ruolo, gli estremi della notifica della cartella di pagamento, l’ente creditore (indicazioni obbligatoriamente previste dall’art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973, oltre che dagli artt. 1 e 6 del d.m. n. 321 del 1999). Gli estratti di ruolo sono di conseguenza validi ai fini probatori e in particolare, per quanto qui interessa, per individuare a tutela di quale tipo di credito agisca l’amministrazione. Questa Corte ha già avuto modo di affermare che la copia della parte del ruolo relativa al contribuente, munita della dichiarazione di conformità all’originale resa dal collettore delle imposte, costituisce prova del credito, ai sensi dell’art. 2718 cod. civ. (secondo cui le copie parziali o le riproduzioni per estratto, rilasciate nella forma prescritta da pubblici ufficiali che ne sono depositari e sono debitamente autorizzati, fanno piena prova solo per quella parte dell’originale che riproducono letteralmente), atteso che il collettore esercita le stesse funzioni dell’esattore, di cui è coadiutore (art. 130 d.P.R. 15 maggio 1963, n. 858), e che l’esattore, pur non rientrando tra i “pubblici depositari” – cui la legge attribuisce la funzione di tenere gli atti a disposizione del pubblico e che sono obbligati, ex art. 743 cod. proc. civ., a rilasciare copia degli atti anche a chi non ne è parte – è tuttavia un “depositario” del ruolo, datogli in consegna dall’intendente di finanza (art. 24 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602), ed inoltre è autorizzato a rilasciarne copia, ai sensi dell’art. 14 della legge 4 gennaio 1968 n. 15 (secondo cui l’autenticazione delle copie, anche parziali, può essere fatta dal pubblico ufficiale presso il quale è depositato l’originale) (Cass. n. 25962 del 2011). L’estratto del ruolo non è quindi una sintesi del ruolo, operata a sua discrezione dallo stesso soggetto che l’ha formato, ma è la riproduzione di quella parte del ruolo che si riferisce alla o alle pretese impositive che si fanno valere nei confronti di quel singolo contribuente con la cartella notificatagli (nel senso che l’estratto di ruolo non sia altro che una riproduzione parziale del ruolo v. già Cass. n. 724 del 2010)».

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