19 Luglio, 2016

ANNULLABILITÀ, NULLITÀ E INESISTENZA DELL’ATTO TRIBUTARIO

È dato acquisito, ribadito nella presente occasione, che la normativa tributaria costituisce un sottosistema del diritto amministrativo, per la intuitiva ragione che il provvedimento tributario, provenendo da una pubblica Amministrazione ed essendo munito di forza autoritativa, è, prima di tutto e per definizione, un atto amministrativo. Nondimeno, sia l’atto in sé sia il trattamento giuridico che lo connota, proprio in considerazione della funzione assolta, presentano talune tipicità non conculcabili, con le quali il corpus normativo generale degli atti amministrativi – tendenzialmente autoespansivo – deve necessariamente coordinarsi, evitando quella trasmigrazione automatica di norme dall’alto verso il basso che la Suprema Corte, nella circostanza, appunto censura e corregge.
Conseguenza, nella specie, ne è che, là dove la legge tributaria parla di nullità, occorre derubricare la locuzione in quella, meno invasiva, di annullabilità, con un duplice, ineluttabile corollario: che, in sede contenziosa, il vizio 1) deve essere dedotto dalla parte interessata entro il termine di sessanta giorni fissato a pena di decadenza dall’art. 21, primo comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (al pari cioè di tutte le altre doglianze, altrimenti restando l’atto in parte qua coperto dalla definitività); e 2) non può essere rilevato ex officio dal giudice (1). Una terza deduzione, di diretta filiazione dalla prima delle due citate, è che qualsivoglia presunto vizio (d’indole sostanziale, formale, processuale) di un atto prodromico (ad esempio, come nel caso che ne occupa, l’avviso di accertamento), purché ritualmente notificato e divenuto definitivo per mancata impugnazione, perde, con il consolidarsi dell’efficacia, la possibilità di essere risuscitato in sede di impugnazione dell’atto consequenziale (la cartella di pagamento), ostandovi il dettato dell’art. 19, terzo comma, del D.Lgs. n. 546/1992, e non può essere tardivamente sollevato per bloccare la (a quel punto inesorabile) riscossione coattiva (beninteso, se la cartella risulta monda da vizi ad essa propri).
La vicenda che ha offerto il destro all’annotata pronuncia – pronuncia invero piuttosto complessa nel suo anelito enciclopedico e di faticosa lettura, fitta com’è di incisi e rimandi – ha infatti preso le mosse da una cartella di pagamento spiccata a seguito e in forza di un avviso di accertamento non impugnato, che solo in prosieguo, a giudizio contro la cartella ormai incardinato, il privato ha eccepito inficiato di invalidità insanabile e quindi irrimediabilmente nullo, ergo inefficace e improduttivo di effetti in ogni tempo (2). Prospettiva accolta dal giudice di seconde cure (in riforma del primo verdetto), ma valutata erronea e impraticabile dai Supremi Giudici, che hanno messo paletti fermi – probabilmente, come si dirà, non tutti condivisi da parte della insorgente giurisprudenza di merito, ma comunque chiari – sul trinomio nullità-annullabilità-inesistenza.
Per destreggiarsi su questo nodo di importanza cruciale nel dibattito processual-tributario (soprattutto oggidì, quando le certezze di ieri sono sotto assedio da parte di una agguerrita schiera di Commissioni tributarie), occorre partire dal dettato legislativo e riprendere il testo delle disposizioni coinvolte, muovendo da quelle a vocazione più ampia, gli artt. 21-septies (Nullità del provvedimento [amministrativo]) e 21-octies (Annullabilità del provvedimento [amministrativo]) della legge 7 agosto 1990, n. 241, i quali così rispettivamente recitano: art. 21-septies: «È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge»; art. 21-octies: «1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
A sua volta, in materia di imposte dirette (quella di fatto implicata dalla lite), il terzo comma dell’art. 42 (Avviso di accertamento) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, statuisce: «L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all’ultimo periodo del secondo comma».
Tale lo scenario di immediato riferimento.
Ora – in un circuito normativo dove l’interrogativo principale si impernia sul livello di contaminazione e di trasposizione dal genus (il procedimento amministrativo) alla species (il procedimento tributario), tale per cui il primo si rende applicabile al secondo laddove non incontri preclusioni create da deroghe espresse o da incompatibilità sistematiche – il quesito-chiave è il seguente: la nullità dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 coincide o no con quella di cui parla l’art. 21-septies della legge n. 241/1990?
La risposta oggi fornita ricalca quella espressa dalla stessa Sezione singola in una decisione (3) con la quale, oltre a rompere la simbiosi fra le due tipologie di nullità (4), si è voluto altresì sottolineare la «irriducibilità della nullità dell’atto amministrativo [anche] alla nullità degli atti o dei negozi in diritto civile, tenuto conto che la stabilità del provvedimento amministrativo è correlata al termine di decadenza stabilito per l’impugnazione dell’atto, e tale disciplina – che caratterizza il giudizio amministrativo di annullamento, di tipo impugnatorio – confligge con l’azione di accertamento imprescrittibile e con la rilevanza ex officio del vizio di nullità [fenomeni entrambi, questi ultimi, contemplati dal rito civile]» (5). Insomma, ciascuno (legislatore amministrativo, tributario, civile) per la sua strada (6).
Oppure, come altri ha voluto vedere, la nozione “nullità” è talora usata a sproposito. Un “talora” da convertire ahimè in “sovente” stando al risalente insegnamento del giudice di legittimità, per cui «il legislatore tributario usa spesso il termine “nullità” in senso atecnico e, comunque, in modo improprio, sicché la natura giuridica della sanzione – se nullità o annullabilità – deve essere desunta dalla disciplina testuale delle norme regolatrici» (7).
L’indicazione è dunque precisa: il giudice tributario, benché chiamato a mettere la parola fine a un giudizio che non è solo di impugnazione-annullamento ma, ben più intimamente, di impugnazione-merito, pur tuttavia non può travalicare il perimetro disegnato dal petitum delle parti, «costituenti un limite invalicabile ai [suoi] poteri cognitivi ed estimativi», dovendosi egli attenere, a titolo di vincolo insuperabile, ai motivi fatti oggetto da esse parti, in quanto «l’oggetto del dibattito processuale è delimitato, da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte dall’Ufficio nell’atto impositivo impugnato, e, dall’altro, dagli specifici motivi di impugnazione dedotti dal contribuente nel ricorso introduttivo ai sensi dell’art. 18, comma 2, lettera e), del D.Lgs. n. 546/1992» (8).
Tutto questo apprendiamo dalla sentenza massimata. Essa ha drasticamente ridimensionato il difetto in concreto lamentato (invalidità dell’avviso di accertamento per illeggibilità della sottoscrizione in esso apposta) a mera incompetenza (tipologia rientrante, insieme con la violazione di legge e con l’eccesso di potere, nel mare magnum dei vizi di invalidità dell’atto suscettibili di annullamento ex art. 21-octies della legge n. 241/1990) e ha in tal modo marcato il distacco della peculiare fattispecie da quell’altra – assai più devastante perché lesiva dei canoni di riparto delle attribuzioni fra poteri, pietra miliare del sistema – del debordamento di funzioni, passibile di dichiarazione di nullità (9).
Rimane però un territorio scoperto, quello dell’inesistenza dell’atto nel settore tributario. Ciò è a dire: va bene che, ove – come nell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 – è incautamente scritto “nullità”, l’interprete debba tendenzialmente leggere “annullabilità”, ma è lecito, al contempo, pensare che esista, nel diritto tributario, una (liminare) nicchia di vizi facenti capo al terzo istituto, cioè all’inesistenza? E, se sì, quale ne deve essere il trattamento giuridico?
Anche qui la risposta la cogliamo in uno specifico arresto della Suprema Corte (10), che concepisce come possibili, pure nell’iter tributario, contesti di gravità tale, di abnormità così macroscopica rispetto al paradigma vincolante (il cosiddetto schema legale), che non rendono lecito attribuire all’atto la qualità dell’esistenza. È il caso della cosiddetta incompetenza assoluta, frutto di difetto assoluto di attribuzione (e altrimenti detta, in gergo tecnico, straripamento di potere), che si invera quando l’organo di uno dei tre poteri si sia sostituito all’altro, e l’atto tributario – tanto per restare in tema – sia stato adottato da un’Autorità che con l’Amministrazione finanziaria non c’entra nulla. Se invece – ed è la stragrande maggioranza dei casi portati all’attenzione della giurisprudenza, restando gli altri per lo più relegati alla fantasia accademica – l’autore dell’atto incriminato è un Ufficio non competente, per territorio o materia, ma pur sempre rientrante nell’organizzazione dell’Amministrazione in parola, allora «è da escludersi che l’atto impositivo possa ricondursi alla ipotesi di nullità determinata dalla “carenza di potere in concreto” (che postula un vizio dell’atto che “è rappresentato dalla carenza di potere dell’autorità che ha emanato l’atto, ed è quindi estraneo all’area di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo, non sostanziando una domanda di annullamento, ma di nullità radicale e/o di inesistenza del provvedimento”), atteso che tale figura va riferita stricto sensu alla mancanza originaria o successiva dei presupposti esterni all’atto amministrativo ai quali la norma di legge condiziona non solo l’esercizio ma la stessa attribuzione del potere alla P.A.» (11). Sembra doversi arguire che il provvedimento tributario inesistente è cassabile in ogni tempo e con ogni mezzo. Invertendo i fattori del brocardo: quod non est in iure non est in mundo.
Una indispensabile annotazione finale.
Ho accennato sopra ad alcuni colpi di maglio sferrati dalle magistrature di merito all’indirizzo sposato dal giudice della legittimità. La mente corre al recentissimo pronunciamento di un’autorevole voce (12), la quale, nello spiegare – in un capitoletto finale ad hoc, dedicato al «perché il collegio non va ultra petita» – il proprio comportamento apparentemente sopra le righe (13), ha sostenuto il pieno rispetto da parte sua dell’art. 3 Cost., perché «se si rileva d’ufficio la decadenza del contribuente, si deve rilevare anche quella dell’Ufficio [trattandosi di] situazioni equivalenti perché la decadenza serve alla certezza del diritto in entrambi i casi e le parti sono uguali davanti al giudice (art. 111 Cost.)». Motiva il Collegio ligure con la propria pronuncia qui evocata: «Che l’Ufficio agisca nei termini è obbligo costituzionale (art. 97 Cost.), se non lo fa viola tale dovere ma non solo, lede anche certezza del diritto (che è principio e valore fondamentale) e incide su proprietà e interessi privati (artt. 41 e 42 Cost. e art. 1 primo protocollo Cedu) e il giudice può rilevare d’ufficio violazioni che ledono principi costituzionali e diritti fondamentali del contribuente. Il giudice tributario è un giudice e il processo un giudizio, il giudice non è un funzionario e il processo non è l’accertamento: prima di tutto uguaglianza delle parti».
Prima di tutto e in ogni caso, l’uguaglianza delle parti agli occhi del servizio giustizia. Rimossa e in disparte ogni remora intorno alla sistemazione data al problema dalla Suprema Corte, sarà quello il punto di domanda che impegnerà l’avvenire.

Avv. Valdo Azzoni

(1) Conforme Cass., sez. trib., 5 maggio 2010, n. 10802, per la quale – sulla scia di Cass., sez. trib., 8 settembre 2003, n. 13087, e Cass., sez. trib., 5 giugno 2002, n. 8114, tutte in Boll. Trib. On-line – in situazioni simili, «deve trovare applicazione il principio secondo cui, in tema di contenzioso tributario, la nullità dell’avviso di accertamento non è rilevabile d’ufficio e la relativa eccezione, se non formulata nel giudizio di primo grado, non è ammissibile qualora venga proposta per la prima volta nelle successive fasi del giudizio».
(2) Il Collegio di appello aveva concluso che la dedotta (ma solo in detta seconda sede) illeggibilità delle firme apposte sui (più) avvisi di accertamento portati alla sua attenzione, integrando il vizio, ope legis sanzionato di “nullità” dall’art. 42, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, perché ostativa alla riconduzione della paternità degli atti al titolare della funzione (capo dell’Ufficio o funzionario delegato), li inficiava in maniera risolutiva e permanente, con conseguente invalidità derivata degli atti consequenziali unicamente opposti, cioè le cartelle di pagamento spiccate sull’abbrivio dei primi. Secondo la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, invece, il vizio indiscutibilmente sussisteva, ma, materializzando un’ipotesi di annullabilità e non di nullità assoluta (come viceversa sarebbe stato qualora si fosse trattato di usurpazione di potere da parte dell’organo di un altro potere), andava dedotto per tempo e solo dal contribuente, giammai dall’organo giudicante.
(3) Cass., sez. trib., 13 novembre 2013, n. 25508, in Boll. Trib. On-line.
(4) Per comodità di comprensione, si riproduce il tenore delle due disposizioni della disciplina civilistica utili alla comparazione (sulla loro portata e più in generale sugli istituti dell’annullabilità e della nullità in campo civile, ved. il punto fermo messo da Cass., sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242, in Mass. Foro it., 2014, 931). Recita l’art. 1418 c.c. (Cause di nullità del contratto): «1. Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. 2. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346. 3. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge». Recita l’art. 1421 c.c. (Legittimazione all’azione di nullità): «Salvo diverse disposizioni di legge la nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice».
(5) La sentenza n. 25508/2013, cit., fa proprio al riguardo l’assunto di Cons. Stato, sez. V, 16 febbraio 2012, n. 792, in Foro amm. Cons. Stato, 2012, 352, ove è messo in evidenza come la conclusione di cui al testo derivi dalle «note esigenze di certezza dell’azione amministrativa, che mal si conciliano con la possibilità che questa possa restare esposta ad impugnative non assoggettate a termini di decadenza o prescrizione», atteso che l’art. 31, quarto comma, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, recante il Codice del processo amministrativo, stabilisce – innovativamente rispetto al primo codice di procedura amministrativa consegnato al lontano D.P.R. 6 dicembre 1971, n. 1034 – un termine di decadenza anche per l’esercizio dell’azione di nullità («sebbene più ampio di quello valevole per l’azione di annullamento»). Con ciò risulta definitivamente – ed encomiabilmente – infranta l’identificazione fra nullità e inesistenza, in quanto l’azione di accertamento dell’inesistenza (riferibile, è ovvio, solo a lacune macroscopiche dell’atto, tali da minare l’impalcatura del provvedimento con crepe ascrivibili a una «nullità strutturale, ravvisabile nel caso in cui l’atto amministrativo sia privo di uno degli elementi necessari perché lo stesso possa essere giuridicamente qualificato come tale») non è, per sua essenza e stante l’estrema gravità (direi: l’irreversibilità) della patologia, soggetta a termini di decadenza (leggi: ciò che non è può essere dichiarato tale in ogni tempo e con ogni mezzo) mentre è plausibile l’azione ricognitiva dei vizi meno gravi entro termini prefissati. Si tratta «palesemente, di una deroga alla natura cosiddetta soggettiva della giurisdizione amministrativa: in cui il giudice è adito dalle parti (private o pubbliche, ma sempre a tutela del loro interesse specifico, quand’anche si tratti di un interesse pubblico), e non già dal Pubblico Ministero nell’interesse oggettivo della legge» (Cons. di giust. amm. per la Regione siciliana, sez. giur., sentenza 27 luglio 2012, n. 721, in Guida al dir., 2012, 39, 90). Sempre per scrupolo di completezza, si riporta il testo del quarto comma del citato art. 31 (Azione avverso il silenzio e declaratoria di nullità) del D.Lgs. n. 104/2010: «La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni [tre volte tanto il termine previsto, per l’impugnazione giudiziale dei vizi di annullabilità, dal precedente art. 29]. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV». Con il suo rivoluzionario inserimento si è creata “una parentesi”, meglio: «una vera e propria “giurisdizione oggettiva”, da esercitare a tutela dell’interesse della legge», radicante, in capo al giudice amministrativo, un «potere officioso del tutto svincolato dai limiti del “thema decidendum” come definito dagli atti difensivi delle parti» (Cons. di giust. amm. per la Regione siciliana n. 721/2012, cit.)
(6) Prassi legittima, stando da ultimo a Corte Cost. 10 maggio 2012, n. 117, in Giur. cost., 2012, 1701, ove il giudice delle leggi, rifacendosi al proprio costante orientamento, conferisce al legislatore «ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali e, quindi, nella fissazione dei criteri attributivi della competenza, con il solo limite della irragionevolezza delle scelte compiute». Si glissa qui, per snellezza di ragionamento, sull’errore di prospettiva in cui cade la motivazione (invero tralaticia, perché la si legge dall’inizio dei tempi) adottata per giustificare il distacco ontologico del regime della nullità nelle due zone d’azione, quella civile e quella amministrativa: forse che i rapporti tra privati non hanno bisogno di beneficiare della stabilità indotta dalla certezza del diritto? Non necessita anche la circolazione negoziale delle ricchezze di un’identica cura? Il travisamento temo derivi dalla pertinace convinzione che le relazioni pubbliche sono, per loro miracolose qualità innate, di un’incidenza (e quindi di un valore assiologico) superiore alle relazioni private.
(7) Cass. n. 8114/2002, cit.
(8) Cfr. Cass., sez. trib., 20 novembre 2011, n. 21759, in Boll. Trib. On-line, ove si legge che il processo tributario «non è diretto semplicemente all’eliminazione dell’atto impugnato, bensì a una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, sicché il giudice tributario, che ritenga solo in parte fondato il ricorso del contribuente, non può limitarsi ad annullare l’atto impugnato, essendo per contro tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a quantificare la pretesa erariale». Il tutto, si ripete, entro il perimetro che i litiganti hanno demarcato in partenza.
(9) Da ricordare, con Cons. Stato, sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957, in Foro amm. Cons. Stato, 2012, 864, che «gli elementi essenziali del provvedimento, il cui difetto ne determina la nullità, sono: a) la totale irriferibilità del provvedimento a un organo emanante, in modo tale da rendere impossibile l’imputazione degli effetti del medesimo (es. difetto di sottoscrizione); b) il difetto di identificazione (e di identificabilità) del destinatario nella cui sfera giuridica gli effetti del provvedimento amministrativo sono destinati a prodursi, incidendo un tale difetto sulla tipicità del provvedimento e sulla possibilità per il destinatario di percepirne l’imperatività».
(10) Cfr. Cass. n. 25508/2013, cit.
(11) Cass. n. 25508/2013, cit. Nel passaggio estratto, si fa cenno, a titolo di conferma, a Cass., sez. I, 19 ottobre 2006, n. 22492, in Assicurazioni, 2007, II, 2, 121.
(12) Cfr. Comm. trib. prov. di La Spezia, sez. II, 24 aprile 2015, n. 441, in Boll. Trib. On-line.
(13) La sostanza della questione trattata è quanto mai attuale, e a sua volta rivoluzionaria la risposta data. Secondo Comm. trib. prov. di La Spezia n. 441/2015, cit., l’art. 24 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, composto di un unico comma («Le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale»), «è tuttora in vigore, atteso lo specifico richiamo operato dall’art. 70 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600». «Orbene» – prosegue la sentenza – «non si comprende perché il rispetto di tale principio debba sussistere solo in caso di verifica “esterna” ed essere invece frustrato in caso di verifica “interna” presso i locali dell’Ufficio», se è vero che «il contribuente verificato presso la sede dell’ufficio, non conoscendo le risultanze istruttorie, subisce la frustrazione del diritto di formulare osservazioni e richieste difensive prima della emissione dell’avviso di accertamento ed è costretto ad adire la via giudiziale per il compimento di qualsiasi attività difensiva. L’interesse tutelato dall’art. 12 [della legge 27 luglio 2000, n. 212, più nota come Statuto dei diritti del contribuente] in esame, evidentemente, è il diritto del contribuente di ricevere un provvedimento impositivo giusto emesso in esito ad un contraddittorio procedimentale, qualunque sia la metodologia di verifica adottata dall’ufficio». A questo punto, ricordando che «il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario che trova applicazione ogniqualvolta l’Amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo», il giudice provvede a rilevare d’ufficio il vizio e a farne discendere la caducazione del provvedimento impugnato (benché non impugnato in parte qua).

Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Avviso di accertamento – Sottoscrizione – Difetto di sottoscrizione – Sanzione della nullità prevista dall’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973 – Applicabilità del regime normativo dei vizi di nullità dell’atto amministrativo – Esclusione – Riconduzione dei vizi di nullità tributaria allo schema della invalidità-annullabilità – Tempestiva contestazione da parte del contribuente mediante ricorso da proporre entro il termine ordinario di decadenza – Necessità – Contestazione mediante l’impugnazione dell’atto conseguenziale o rilevabilità d’ufficio da parte del giudice tributario – Inammissibilità.
Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Atti impositivi – Regime dei vizi di nullità degli atti previsto dal diritto amministrativo – Applicabilità al diritto tributario – Limiti e condizioni – Riconduzione nei vizi di legittimità e loro contestabilità solo mediante ricorso da proporre entro il termine ordinario di decadenza – Sussiste – Difetto di tempestiva proposizione del vizio di nullità – Consolidamento del provvedimento tributario viziato con conseguente definitività del rapporto obbligatorio sottostante – Consegue.
Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Nullità degli atti impositivi – Rilevabilità d’ufficio da parte del giudice tributario – Non sussiste.
Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Natura ed oggetto del processo tributario come giudizio di impugnazione-merito – Finalità del giudizio – È quella di addivenire ad una pronuncia di merito sul rapporto tributario entro i limiti posti dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e dalle censure e domande di parte.
Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Indagine sul rapporto sostanziale da parte del giudice – È limitato dai motivi di contestazione della pretesa dell’Amministrazione finanziaria specificamente dedotti nel ricorso introduttivo del contribuente – Deduzione di determinati vizi dell’atto impugnato – Obbligo del giudice di attenersi all’esame di essi – Consegue – Possibilità di annullare il provvedimento impositivo per vizi diversi da quelli dedotti – Esclusione – Presentazione di motivi aggiunti da parte del contribuente – Ammissibilità nei limiti del deposito di documenti non conosciuti.
Accertamento imposte sui redditi – Accertamento – Avviso di accertamento – Regime delle nullità – Distinzione tra il difetto di un elemento di perfezionamento dell’atto, quale la sottoscrizione, e l’individuazione dell’Autorità legittimata ad esercitare il potere – Vizio di incompetenza – Idoneità ad inficiare la validità di qualsiasi atto amministrativo – Sussiste – Atto adottato da un Ufficio incompetente – È illegittimo per violazione delle norme che definiscono le attribuzioni del soggetto autore dell’atto.

Alla sanzione della nullità comminata dall’art. 42, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, all’avviso di accertamento privo di sottoscrizione, delle indicazioni e della motivazione di cui al precedente secondo comma, o al quale non risulti allegata la documentazione non anteriormente conosciuta dal contribuente, al pari delle altre norme che prevedono analoghe ipotesi di nullità degli atti tributari nelle diverse discipline d’imposta, non è direttamente applicabile il regime normativo di diritto sostanziale e processuale dei vizi di nullità dell’atto amministrativo – che hanno trovato riconoscimento positivo nell’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, e sistemazione processuale nell’art. 31, quarto comma, del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, nell’autonoma azione di accertamento della nullità sottoposta a termine di decadenza e nell’attribuzione del potere di rilevazione ex officio da parte del giudice amministrativo – atteso che l’ordinamento tributario costituisce un sottosistema del diritto amministrativo con il quale è in rapporto di “species ad genus”, potendo pertanto trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate o non risultino incompatibili con le norme speciali di diritto tributario che disciplinano gli atti del procedimento impositivo, ostando alla generale estensione del regime normativo di diritto amministrativo la scelta operata dal legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria della “nullità tributaria” indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità dell’atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della “invalidità-annullabilità”, dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui all’art. 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in difetto del quale il provvedimento tributario, pure se affetto da vizio di “nullità”, si consolida, divenendo definitivo e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva dell’imposta, escludendo nel contempo che detto vizio di nullità possa essere fatto valere per la prima volta dal contribuente con la impugnazione dell’atto conseguenziale o comunque essere rilevato di ufficio dal giudice tributario.
La disciplina dei vizi di nullità degli atti amministrativi, previsti dall’art. 21-septies della legge 7 agosto 1990, n. 241, non può essere automaticamente trasposta in ambito tributario ma deve essere necessariamente coordinata con la normativa tributaria che, pur prevedendo anch’essa il vizio di nullità dell’atto tributario, come le “nullità” per la violazione dell’obbligo di motivazione del provvedimento impositivo introdotte dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, nel corpus legislativo delle diverse imposte, in attuazione della legge 27 luglio 2000, n. 212, lo configura tuttavia come vizio di legittimità che, al pari dei vizi di annullabilità, può essere dedotto dal contribuente soltanto attraverso i motivi di ricorso, da proporre avanti le Commissioni tributarie nel termine di decadenza previsto dall’art. 21 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in difetto di proposizione del quale il provvedimento tributario viziato da “nullità” si consolida, rendendo definitivo il rapporto obbligatorio sottostante e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva dell’imposta.
L’impedimento alla rilevabilità “ex officio” del vizio di “nullità tributaria” è il derivato della scelta del modello processuale di tipo impugnatorio che il legislatore si è determinato ad adottare, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità politica che gli è riservata nella conformazione degli istituti processuali e che incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute.
Il giudizio tributario, pur non connotandosi come un giudizio di “impugnazione-annullamento” in senso stretto, ma piuttosto come un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato ma, ove il contribuente non si limiti a dedurre con il ricorso esclusivamente vizi di validità dell’atto, è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, rimane tuttavia pur sempre definito entro i limiti oggettuali posti, da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro, dagli specifici motivi dedotti nel ricorso introduttivo proposto dal contribuente.
Nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma della impugnazione dell’atto tributario per vizi formali o sostanziali, l’indagine sul rapporto sostanziale non può che essere limitata ai soli motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione finanziaria che il contribuente abbia specificamente dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con la conseguenza che ove il contribuente abbia inteso limitare la materia controversa ad alcuni determinati vizi di validità dell’atto impugnato il giudice deve attenersi all’esame di essi e non può, “ex officio”, annullare il provvedimento impositivo per vizi diversi da quelli dedotti, anche se risultanti dagli stessi elementi acquisiti al giudizio, in quanto tali ulteriori profili di illegittimità debbono ritenersi estranei al “thema controversum”, come definito dalle scelte proprie del ricorrente, tenendo altresì conto che l’oggetto del giudizio, circoscritto ai motivi di ricorso, può essere modificato solo nei limiti consentiti dalla disciplina processuale e, cioè, con la presentazione di “motivi aggiunti”, consentita però dall’art. 24 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel solo caso di deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della Commissione tributaria.
La formulazione lessicale dell’art. 42, terzo comma, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui «l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all’ultimo periodo del secondo comma», induce a distinguere tra il difetto di un elemento di perfezionamento dell’atto di accertamento, quale la sottoscrizione, e l’individuazione dell’Autorità legittimata ad esercitare il potere, ossia la competenza, occorrendo precisare che l’eventuale violazione delle norme attributive della competenza assume valenza autonoma, nel diritto tributario, anche in assenza di una esplicita previsione di “nullità tributaria” (ovvero di invalidità-annullabilità), atteso che l’atto adottato da un Ufficio amministrativo incompetente non è né semplicemente inefficace, né meramente produttivo di conseguenze sul piano sanzionatorio-disciplinare, ma è illegittimo, per violazione delle norme che definiscono le attribuzioni del soggetto autore dell’atto, cosicché l’accertamento del vizio di incompetenza non può che comportare l’eliminazione dal mondo giuridico del provvedimento illegittimo da parte del giudice amministrativo ovvero, nell’ambito della giurisdizione demandatagli, da parte del giudice tributario.

[Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Piccininni, rel. Olivieri), 18 settembre 2015, sent. n. 18448, Agenzia delle entrate c. Valli di Sole Pejo e Rabbi s.p.a.]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – Accogliendo l’appello proposto da Valli di Sole Pejo e Rabbi s.p.a., ed in totale riforma della decisione di prime cure, la Commissione tributaria di secondo grado di Trento con sentenza 14.11.2008 n. 91 annullava, per vizio di nullità degli avvisi presupposti, la cartella di pagamento notificata alla società il 30.5.2007 dall’Ufficio di Cles dell’Agenzia delle Entrate, ed avente ad oggetto le somme dovute dalla società per i maggiori tributi a titolo IVA, IRPEG ed ILOR, accertati per gli anni 2001 e 2003 con atti impositivi divenuti definitivi.
I Giudici di appello, rigettata la eccezione dell’Ufficio di inammissibilità della impugnazione per difetto del requisito di specificità dei motivi dell’atto di appello proposto dalla società, e premesso che anche agli atti impositivi – riconducibili nella generale categoria degli atti amministrativi – trovavano applicazione le norme della legge 7.8.1990 n. 241 sul procedimento amministrativo, come modificate dalla legge 11.2.2005 n. 15 che aveva introdotto l’art. 21-septies (nullità del provvedimento), in tal modo affiancando ai vizi di annullabilità dell’atto amministrativo il vizio di nullità per mancanza degli elementi essenziali, rilevavano che la radicale invalidità dell’atto tributario doveva ritenersi deducibile dal contribuente “senza i rigori tipici, anche relativamente ai termini decadenziali, e quindi anche traducendola in un motivo di ricorso proposto avverso un atto che deriva i propri effetti da un atto prodromico affetto da nullità, quand’anche non impugnato dal destinatario”.
Nella specie i Giudici di merito accertavano la nullità degli avvisi di accertamento, in quanto la illeggibilità delle firme apposte sugli atti rendeva impossibile, in assenza anche di altri elementi (quali il sigillo od il timbro dell’ufficio o l’indicazione della qualifica del funzionario competente), la imputazione degli stessi al Capo dell’ufficio o ad un funzionario da quello delegato, come prescritto dall’art. 42 co1 Dpr n. 600/73, risultando pertanto inficiati gli atti presupposti da vizio di nullità, con conseguente invalidità derivata delle cartelle di pagamento opposte.
La sentenza, notificata in data 3.12.2008, è stata impugnata per cassazione, con cinque mezzi, dalla Agenzia delle Entrate con ricorso ritualmente notificato alla società contribuente che ha resistito con controricorso, depositando anche memoria illustrativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE – §.1 Con il primo motivo (Omissis).
§.2 Il secondo motivo (Omissis).
§.3 L’esame del quarto motivo (violazione degli artt. 19 e 21 D.lgs. n. 546/1992; dell’art. 42 Dpr n. 600/73; dell’art. 21-septies legge n. 241/1990, in relazione all’art. 360 co1 n. 3 c.p.c.) e del quinto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 19, comma 3 della D.lgs n. 546/1992) deve essere logicamente anteposto a quello del terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 42 Dpr n. 600/73), in quanto entrambe le censure sono volte ad impugnare la medesima statuizione della Commissione tributaria secondo cui, la intervenuta “definitività” – per omessa impugnazione – degli avvisi di accertamento notificati alla contribuente, non precludeva alla società di adire egualmente il Giudice tributario, impugnando l’atto esecutivo conseguenziale (cartella di pagamento), per far valere il vizio di radicale nullità dei provvedimenti impositivi presupposti, in quanto privi degli “elementi essenziali” di validità ai sensi dell’art. 21-septies legge n. 241/1990 (nella specie in quanto privi della sottoscrizione che risulta illeggibile e dunque non attribuibile “al capo dell’ufficio od altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”, ex art. 42, comma 1 e 3, Dpr n. 600/73).
La Agenzia fiscale supporta i due motivi di ricorso con i seguenti argomenti giuridici:
– i vizi di invalidità dell’atto amministrativo (annullabilità; nullità) non sono in alcun modo assimilabili al fenomeno della “inesistenza”, atteso che l’atto invalido deve ritenersi comunque esistente e produttivo di effetti finché non viene rimosso, mentre l’atto inesistente è un “non-atto”;
– gli atti affetti da invalidità sono, pertanto, soggetti ad impugnazione nei termini di legge, mentre l’azione volta ad accertare la inesistenza dell’atto è imprescrittibile;
– i vizi di nullità degli atti tributari, previsti dall’art. 42 Dpr n. 600/73, debbono piuttosto considerarsi vizi di “annullabilità”: nel caso di specie, peraltro, non è stata accertata la totale mancanza di sottoscrizione, venendo in questione soltanto la riferibilità della sottoscrizione “illeggibile” al titolare dell’organo competente;
– gli atti tributari possono essere impugnati solo per vizi propri, non essendo consentito far valere la invalidità derivata dell’atto impugnato per vizi dell’atto presupposto divenuto definitivo.
3.1 I motivi sono fondati alla stregua delle seguenti considerazioni.
3.2 In ordine alla diretta applicabilità al procedimento di accertamento tributario, ed agli atti tributari, delle norme della L. n. 241 del 1990 (ex pluribus: Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 16161 del 28/10/2003 (1) – con riferimento all’art. 18, comma 2, della legge n. 241 del 1990 –; id. Sez. 5, Ordinanza n. 19675 del 27/9/2011 (2) – con riferimento all’art. 3, comma 4, della legge n. 241/90 –; id. Sez. 5, Sentenza n. 13321 del 17/6/2011 (3) – con riferimento agli artt. 3, commi 3, 22 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241, anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 –; id. Sez. 5, Sentenza n. 3754 del 15/2/2013 (4) – che ritiene applicabile il principio generale in tema di “annullamento” degli atti amministrativi, di cui all’art. 21-octies, comma secondo, della legge 7 agosto 1990, n. 241 –; id. Sez. U, Sentenza n. 19667 del 18/9/2014 (5) – che rileva la oggettiva continuità tra le norme della legge n. 241/1990 e quelle della legge n. 212/2000 che le hanno recepite. Peraltro anche anteriormente alla introduzione della legge n. 212/2000 era stata riconosciuta la estendibilità anche gli atti tributari – cartelle di pagamento emesse ai sensi dell’art. 36-bis Dpr n. 600/1973 – delle norme sull’obbligo di motivazione dei provvedimento amministrativi, in via generale imposto dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241: cfr. Corte cost. ord. 21.4.2000 n. 117 (6); id. ord. 9.11.2007 n. 377 (7)) non è dato ravvisare impedimenti diversi dagli stessi limiti espressamente indicati dalla medesima legge sulla disciplina del procedimento amministrativo (art. 13 co2; art. 24 co1, lett. b, legge n. 241/1990), non sussistendo, concettualmente, aprioristiche preclusioni alla applicazione – anche nel diritto tributario – della categoria dogmatica del vizio di nullità, e nella specie del vizio di nullità dell’atto “che manca degli elementi essenziali” (espressamente previsto per i provvedimenti amministrativi dall’art. 21-septies, comma 1, della legge n. 241/1990, introdotto dalla legge 11.2.2005, n. 15), sebbene la estensione di tale vizio di invalidità non sembra costituire un novum rispetto al diritto tributario, ove si consideri che la categoria della nullità dell’atto tributario, per carenza di elementi formali essenziali, era già prevista dall’art. 42, comma 3, del Dpr n. 600/73, che, nel testo riformato dall’art. 1, comma 1, lett. c), n. 1) D.lgs. 26.1.2001 n. 32, dispone “l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all’ultimo periodo del comma 2” (l’esame viene incentrato sulla norma concernente l’accertamento delle imposte dirette, in quanto esplicitamente indicata in rubrica quale norma di diritto asseritamente violata. Ma è appena il caso di osservare come l’unica invalidità dell’atto, conosciuta dal diritto tributario anche nelle altre discipline d’imposta, sia quella della nullità nella quale sono indifferentemente raggruppati i vizi di natura formale e sostanziale dei provvedimenti: art. 37-bis, commi 4 e 5, art. 42, commi 1 e 2 – in relazione al comma 3 –, art. 43, comma 4, Dpr n. 600/73; art. 56, commi 2, 3, 4 e 5, Dpr n. 633/72; art. 36, comma 4-ter, DL 31.12.2007 n. 248 conv. in legge 28.2.2008, n. 31; art. 52, comma 2-bis, Dpr 26.4.1986, n. 131; art. 34, comma 2-bis, art. 35, comma 2-bis, art. 60, Dlgs 31.10.1990, n. 346; art. 13, comma 1, Dlgs 31.10.1990, n. 347; art. 6, comma 5, art. 11, comma 2, art. 12, comma 7 – nella interpretazione fornita da Corte cass. SS.UU. Sez. U, Sentenza n. 18184 del 29/7/2013 (8) –, legge n. 212 del 2000; art. 16, comma 2 e 7, art. 17, comma 1, Dlgs n. 472/1997. L’“annullamento” dell’atto è relegato in via esclusiva all’esercizio dei poteri di autotutela dell’Amministrazione finanziaria: art. 9-bis, comma 4, legge 27.12.2002, n. 289; art. 54, comma 8, Dpr n. 633/72; art. 2-quater, comma 1, DL 30.9.1994 n. 564 conv. in legge 30.11.1994 n. 656).
Il carattere innovativo che deve essere riconosciuto alla disposizione dell’art. 21-septies, comma 1, della legge 241/1990 (“È nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione od elusione del giudicato, nonché negli altri caso espressamente previsti dalla legge”) va rinvenuto, invece, nell’ambito del diritto amministrativo, avendo inteso distinguere, il Legislatore del 2005, i “vizi di nullità” previsti in tale norma, dai tradizionali “vizi di annullabilità” del provvedimento amministrativo, che trovano disciplina nell’art. 21-octies della medesima legge n. 241/1990, e che si identificano nei tipici vizi di legittimità della violazione di legge, dell’eccesso di potere e della incompetenza (art. 21-octies della legge n. 241/1990: “1. È annullabile il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza. 2. Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”).
Secondo la Commissione tributaria la espressa previsione dei vizi di nullità dei provvedimenti amministrativi avrebbe spiegato diretti riflessi sulla disciplina delle invalidità degli atti tributari (ritenuti per concorde opinione una “species” appartenente al “genus” dell’atto amministrativo), imponendo non soltanto di distinguere ai fini della corretta classificazione dogmatica – nell’ambito delle stesse norme tributarie che comminano la sanzione della nullità – i difetti dell’atto impositivo propriamente riconducibili a tale forma radicale di invalidità da quelli, invece, riconducibili alla annullabilità, ma anche di applicare agli atti tributari lo statuto normativo proprio di ciascun tipo di invalidità (annullabilità/nullità), secondo la disciplina enucleabile – almeno così parrebbe intendere dalla lettura della motivazione della sentenza di appello – dal sistema del diritto civile (l’azione costitutiva di annullamento deve essere proposta ad istanza di parte è sottoposta a termine di decadenza o prescrizione, diversamente dall’azione di nullità che è imprescrittibile; soltanto il vizio di nullità è rilevabile ex officio dal Giudice; il vizio di annullabilità può essere sanato mediante convalida, mentre il vizio di nullità è insanabile), venendo a ritenere la CTR che la categoria della nullità dell’atto amministrativo, introdotta dalla legge 11.2.2005 n. 15, verrebbe a configurarsi in modo del tutto analogo alla omologa categoria della invalidità disciplinata dal diritto civile.
La tesi del Giudice tributario non può essere condivisa in quanto prescinde del tutto dalla speciale disciplina della impugnazione dei provvedimenti tributari.
3.3 La questione è stata in parte già esaminata nel precedente di questa Corte, V sez. sentenza 13 novembre 2013 n. 25508 (9), le cui argomentazioni, che si condividono, appare opportuno precisare ulteriormente di seguito, onde fugare ogni possibile equivoco.
Osserva il Collegio:
a) che l’art. 21-septies della legge n. 241/1990, art. 21-septies è collocato all’interno del testo legislativo sotto il Capo IV-bis, intitolato “Efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo, revoca e recesso”, introdotto dall’art. 14 della legge 11.2.2005, n. 15, ed entrato in vigore il successivo 8.3.2005: trattasi, dunque, di norma che non trova applicazione, in virtù della ordinaria disciplina della efficacia delle legge nel tempo, agli atti amministrativi – affetti da vizi di legittimità che, al momento della loro adozione, erano riconducibili alla categoria della annullabilità – emanati e divenuti irrevocabili per omessa impugnazione anteriormente alla entrata in vigore di detta legge;
b) che pur tenendo conto che non era affatto ignota alla dottrina e giurisprudenza amministrativa – anteriormente alla espressa previsione del “vizio di nullità” dell’atto amministrativo, contenuta nella legge n. 15/2005 – la categoria della nullità dell’atto (spesso assimilata a quella della “inesistenza”), tuttavia la estensione anche agli atti tributari, in quanto atti amministrativi, di tale invalidità radicale, non sconta affatto – come sembrerebbe intendere il Giudice di appello – la automatica applicazione a tali atti della disciplina normativa del vizio di nullità propria del diritto e del processo civile, anziché di quella propria del diritto e del processo amministrativo (ante o post riforma), né tanto meno legittima una operazione sincretistica volta alla applicazione agli atti tributari di una disciplina di tipo “misto”, dovendo ravvisarsi sul punto una assoluta irriducibilità (e dunque una conseguente non sovrapponibilità) dei vizi di nullità dell’atto amministrativo ai vizi di nullità degli atti e dei negozi di diritto privato. La stabilità del provvedimento amministrativo è, infatti, correlata al termine di decadenza stabilito per la impugnazione dell’atto, e tale disciplina che caratterizza il giudizio amministrativo di tipo impugnatorio, tanto di annullamento, quanto di accertamento della nullità (essendo diversificati soltanto i termini di decadenza delle rispettive impugnazioni: art. 29 ed art. 31 co4, D.lgs. 2.7.2010, n. 104 – CPA –), confligge apertamente con le caratteristiche di “imprescrittibilità” della azione di accertamento e con i limiti imposti dal principio dispositivo alla “rilevabilità ex officio” del vizio di nullità, estesa anche agli atti posti in essere in violazione di norme imperative (art. 1418 co1 c.c. nullità c.d. “virtuale”), che contraddistinguono la disciplina civilistica.
La dottrina e la giurisprudenza amministrativa hanno rimarcato le differenze che connotano la disciplina dei vizi di nullità degli atti amministrativi, in quanto subordinata alle esigenza di certezza e stabilità dell’azione delle PP.AA., ciò che appunto ha indotto il Legislatore della riforma del 2005, da un lato, a sottoporre anche l’azione di accertamento della nullità a limiti temporali di natura decadenziale (cfr. Cons. Stato, V sez. 16.2.2012 n. 792 (10), che rileva appunto come l’art. 31, comma 4, del D.lgs 2 luglio 2010, n. 104 – Codice del processo amministrativo – stabilisce un termine di decadenza, se pure più lungo, anche per l’esercizio dell’azione di nullità “in ragione delle note esigenze di certezza dell’azione amministrativa, che mal si conciliano con la possibilità che questa possa restare esposta ad impugnative non assoggettate a termini di decadenza o prescrizione”; id. Consiglio di Giustizia amministrativa della regione siciliana, sentenza 9.7.2013 n. 589, che ha qualificato il termine di natura “processuale” e non “sostanziale”, specificando che trattasi di termine di decadenza e non di prescrizione), dall’altro, ad evitare di ricondurre nella categoria della nullità la violazione di norme imperative (nullità cd. “virtuale”) che rimane, pertanto, confinata nel vizio di legittimità della “violazione di legge” di cui all’art. 21-octies, comma 1, della legge n. 241/1990, denunciabile con l’ordinaria azione di annullamento ex art. 29 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, V sez. 15 marzo 2010 n. 1498 che giustifica la soluzione legislativa in quanto “le norme riguardanti l’azione amministrativa, dato il loro carattere pubblicistico, sono sempre norme imperative e quindi non disponibili da parte dell’amministrazione”), rimanendo circoscritta, pertanto, la nullità dell’atto amministrativo, esclusivamente alle ipotesi tassative previste espressamente dalla legge, e dunque operando come categoria di invalidità meramente residuale rispetto a quella della illegittimità/annullabilità dell’atto (cfr. Cons. Stato, IV sez. 2 aprile 2012 n. 1957. Sintomatica in proposito è la “dimenticanza” del Legislatore, tra le diverse sentenze di merito che il Giudice amministrativo può adottare, della sentenza dichiarativa della nullità dell’atto amministrativo – art. 34 c.p.a. –, che solo in parte sembra trovare giustificazione nella disposizione del primo comma che correla le pronunce di merito elencate “ai limiti della domanda”, correlazione che, per quanto si dirà immediatamente in prosieguo, viene meno nella rilevabilità ex officio di vizi di nullità dell’atto). Ulteriore elemento distintivo tra la nullità di diritto civile e quella di diritto amministrativo viene ad essere individuato nella disciplina della “rilevabilità ex officio”: se, infatti, è analogo il regime della eccezione ad istanza di parte, sollevabile in ogni tempo, invece non coincide affatto quello della rilevabilità d’ufficio da parte del Giudice, almeno avuto riguardo alla costante interpretazione che della norma processuale di cui all’art. 31 co4 c.p.a. ha dato la giurisprudenza amministrativa, che ha ritenuto il predetto potere officioso del tutto svincolato dai limiti del “thema decidendum”, come definito dagli atti difensivi delle parti, in quanto riconducibile ad una vera e propria “giurisdizione oggettiva” da esercitare a tutela dell’interesse della legge (cfr. Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, sentenza 27 luglio 2012 n. 721, secondo cui “L’art. 31, comma 4, c.p.a., esprime, dunque, una parentesi di giurisdizione oggettiva che, per espressa previsione di legge, si innesta nel processo amministrativo, in deroga al suo ordinario carattere di giurisdizione soggettiva. Così dovendosi ricostruire il sistema, è evidente che non vi può essere luogo ad alcun temperamento tra l’art. 31, comma 4 – nonché, dalla stessa parte, tra le singole norme che testualmente comminano, in modo espresso, una nullità rilevabile d’ufficio – e, dall’altra parte, il c.d. principio della domanda (o dell’interesse della parte istante) che, nel processo civile, ha costituito un limite interpretativo alla generale applicazione del principio della rilevabilità d’ufficio della nullità”). Soluzione evidentemente diversa dal regime della “rilevabilità ex officio” della nullità da parte dell’AGO, che opera, invece, all’interno dei limiti dell’oggetto del giudizio e del potere dispositivo delle parti (costituisce massima tralatizia quella per cui il principio della rilevabilità di ufficio della nullità dell’atto va necessariamente coordinato con il principio dispositivo e con quello di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e trova applicazione soltanto quando la nullità si ponga come ragione di rigetto della pretesa attorea, per essere l’atto elemento costitutivo della domanda. Qualora sia, invece, la parte a chiedere la dichiarazione di invalidità di un atto ad essa pregiudizievole, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di legittimità enunciate dall’interessato e non può fondarsi su elementi rilevati d’ufficio o tardivamente indicati, configurandosi in questa ipotesi, la nullità come elemento costitutivo della domanda dell’attore, la quale si pone come limite assoluto alla pronuncia giurisdizionale: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 2572 del 25/3/1988; id. Sez. 2, Sentenza n. 1340 del 9/2/1994; id. Sez. 3, Sentenza n. 10498 del 1/8/2001; id. Sez. 2, Sentenza n. 13628 del 5/11/2001; id. Sez. U, Sentenza n. 21095 del 4/11/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 89 del 8/1/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 21600 del 20/9/2013; id. Sez. U, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014).
Dalle considerazioni che precedono risulta che la trasposizione nel diritto e nel processo tributario del “vizio di nullità” dell’atto, così come disciplinato da altri rami del diritto, non può considerarsi operazione affatto “neutra”, essendo ben diverse le conseguenze, sia sul piano sostanziale che su quello processuale, dello statuto normativo del vizio di nullità che si intende applicare all’atto tributario, secondo la peculiare disciplina da cui si vuole attingere (artt. 1418 e 1421 c.c., ovvero art. 21-septies legge n. 241/1990, ed art. 31, commi 3 e 4, c.p.a.).
In modo più esplicito si vuole porre in evidenza come non esista nell’ordinamento giuridico una nozione unitaria del vizio di nullità dell’atto giuridico, essendo riservata alla discrezionalità del Legislatore, nel rispetto delle garanzie assicurate dalla Costituzione, la scelta più opportuna tra le diverse soluzioni giuridiche possibili, delle discipline degli istituti giuridici e delle forme di tutela giudiziaria dei diritti e degli interessi, ma come tale vizio si atteggi piuttosto in modo diverso secondo le differenti esigenze e gli specifici interessi che vengono in considerazione nelle diverse discipline normative che regolano i rapporti di diritto pubblico ed i rapporti di diritto privato (una chiara indicazione in tal senso è fornita, nell’ambito dello stesso diritto civile, dalle nullità c.d. di protezione a “regime speciale”, su cui, da ultimo, Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014), essendo, quindi, necessario verificare in quali condizioni possa operare il vizio di nullità, accanto a quello di annullabilità, nel diritto tributario;
c) che la disciplina dei vizi di nullità degli atti amministrativi, previsti dall’art. 21-septies della legge n. 241/1990, non può, pertanto, essere automaticamente trasposta in ambito tributario ma deve essere necessariamente coordinata con la normativa tributaria (che costituisce un sottosistema del diritto amministrativo in relazione di “species ad genus”: con la conseguenza che, le norme che regolano il procedimento amministrativo trovano applicazione nel sottosistema, nei limiti in cui non siano derogate od incompatibili con le norme di diritto tributario che disciplinano il procedimento impositivo) che, pur prevedendo anch’essa il vizio di nullità dell’atto tributario (es. le “nullità” per violazione dell’obbligo di motivazione del provvedimento impositivo, introdotte dal D.lgs n. 32/2001 nel corpus legislativo delle diverse imposte, in attuazione della legge n. 212/2000), lo configura, tuttavia, come vizio di legittimità che (al pari dei vizi di annullabilità) può essere dedotto dal contribuente soltanto attraverso i motivi di ricorso, da proporre avanti le Commissioni tributarie nel termine di decadenza previsto dall’art. 21 del D.lgs n. 546/1992, in difetto di proposizione del quale il provvedimento tributario viziato da “nullità” si consolida, rendendo definitivo il rapporto obbligatorio sottostante e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta. E non vi è dubbio che, dovendosi ravvisare anche per i rapporti tributari – attraverso i quali viene garantita l’acquisizione delle risorse finanziarie indispensabili al funzionamento dell’Organizzazione pubblica ed all’esercizio delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici essenziali – le medesime esigenze di certezza e stabilità che hanno indotto il Legislatore del 2005 a sottoporre a decadenza anche l’“azione di nullità” esercitata nel giudizio amministrativo e ad escludere la previsione di ipotesi di “nullità c.d. virtuale” degli atti amministrativi (ma occorre dare atto che, sulla invalidità per vizio di “nullità virtuale” dei provvedimenti tributari, sembra manifestarsi recentemente una parziale apertura, in relazione alla violazione di “principi fondamentali” di rilevanza costituzionale contemplati dalle norme di cui alla legge n. 212/2000: Corte cass. Sez, U, Sentenza n. 18184 del 29/07/2013; id. Sez, U, Sentenza n. 19667 del 18/09/2014), deve ritenersi in oggettivo contrasto con il sistema del diritto e del processo tributario, la trasposizione della disciplina del vizio di nullità (per di più mista, in quanto tratta, sul piano sostanziale, dall’art. 21-septies della legge n. 241/1990, e, sul piano processuale, dalla disciplina del processo civile) operata dal Giudice di appello, tale per cui, in difetto di tempestiva impugnazione da parte del contribuente dell’atto impositivo affetto da “nullità”, tale vizio di invalidità possa, comunque, essere fatto valere per la prima volta con la impugnazione dell’atto conseguenziale (cartella di pagamento), trattandosi di vizio rilevabile anche “ex officio” in ogni stato e grado del processo.
L’affermazione del Giudice di appello si pone in palese contrasto con la giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente rimarcato la sostanziale equiparazione delle “nullità” tributarie ai vizi di legittimità (formali o sostanziali) dell’atto che, se riscontrati dal Giudice tributario, comportano una pronuncia di “annullamento” del provvedimento impositivo opposto, essendo stato affermato in proposito che “in tema di IRPEF e IVA, il vizio di «nullità» dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione (artt. 42 e 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, e artt. 56 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972), deve essere inteso come vizio di «annullabilità»” (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 8114 del 5/6/2002 (11)) e che in ogni caso il regime di tipo impugnatorio proprio del giudizio tributario, comporta che le “nullità di diritto tributario” debbano essere eccepite ad istanza di parte (eccezioni in senso stretto) e non possano essere rilevate di ufficio, soggiacendo pertanto, sia ai termini di decadenza per la proposizione della impugnazione dell’atto tributario, sia alle preclusioni interne alle fasi ed ai gradi del giudizio tributario (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 13087 del 8/9/2003 (12); id. Sez. 5, Sentenza n. 10802 del 5/5/2010 (13)). In aperta violazione della disciplina normativa positiva è inoltre l’argomento speso dalla CTR secondo cui la “nullità tributaria” sarebbe divenuta – a seguito della legge n. 15/2005 modificativa della legge n. 241/1990 – rilevabile di ufficio in qualsiasi stato e grado del processo tributario.
L’art. 61, comma 2, del Dpr n. 600/1973, dispone, infatti, che “la nullità dell’accertamento, ai sensi del comma 3 dell’art. 42 e del comma 3 dell’art. 43, e in genere per difetto di motivazione, deve essere eccepita a pena di decadenza in primo grado”: la eccezione di “nullità” dell’atto tributario viene, dunque, qualificata ex lege come “eccezione ad istanza di parte” (eccezione in senso stretto), confermando ulteriormente la impostazione della legislazione tributaria volta ad una sostanziale equiparazione dei vizi di nullità degli atti impositivi ai vizi di legittimità dell’atto amministrativo, sottoposti al regime della invalidità-annullabilità, con conseguente esclusione di una generale rilevabilità “ex officio” di detti vizi da parte del Giudice di merito e di legittimità.
L’impedimento alla rilevabilità “ex officio” del vizio di “nullità tributaria” è, infatti, il derivato della scelta del modello processuale di tipo impugnatorio che il Legislatore si è determinato ad adottare, nell’esercizio dell’ampia discrezionalità politica che gli è riservata nella conformazione degli istituti processuali (cfr. Corte cost. Sentenza 11.11.2011 n. 304), e che – come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale – incontra il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute (cfr. Corte cost. sentenze 26.6.2007 n. 237; id. 18.2.2010 n. 52; id. 10.5.2012 n. 117).
Il processo tributario è strutturato secondo un meccanismo d’instaurazione imperniato sulla impugnazione degli atti nominativamente indicati dall’art. 19 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (nonché di quegli altri atti, emessi dalla Amministrazione finanziaria, che, se pure non compresi nell’elenco, sono comunque idonei a produrre i medesimi effetti giuridici nei confronti del destinatario-contribuente), ed il cui oggetto è rigorosamente circoscritto al controllo di legittimità formale e sostanziale dell’atto impugnato:
– il giudizio tributario, pur non connotandosi come un giudizio di “impugnazione-annullamento” in senso stretto, ma piuttosto come un giudizio di “impugnazione-merito”, in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma – ove il contribuente non si limiti a dedurre con il ricorso esclusivamente vizi di validità dell’atto – è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, rimane tuttavia pur sempre definito entro i limiti oggettuali posti, da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro, dagli specifici motivi dedotti nel ricorso introduttivo proposto dal contribuente (cfr. Corte cass. 5 sez. 22.9.2006 n. 20516 (14); id. 5 sez. 11.5.2007 n. 10779 (15); id Sez. 5, Sentenza n. 21759 del 20/10/2011 (16)):
– nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma della impugnazione dell’atto tributario per vizi formali o sostanziali, l’indagine sul rapporto sostanziale non può, quindi, che essere limitata ai soli motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione che il contribuente abbia specificamente dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con la conseguenza che, ove il contribuente abbia inteso limitare la materia controversa ad alcuni determinati vizi di validità dell’atto impugnato, il giudice deve attenersi all’esame di essi e non può, “ex officio”, annullare il provvedimento impositivo per vizi diversi da quelli dedotti, anche se risultanti dagli stessi elementi acquisiti al giudizio, in quanto tali ulteriori profili di illegittimità debbono ritenersi estranei al “thema controversum”, come definito dalle scelte proprie del ricorrente. L’oggetto del giudizio, circoscritto ai motivi di ricorso, può essere modificato solo nei limiti consentiti dalla disciplina processuale e, cioè, con la presentazione di “motivi aggiunti”, consentita però, dall’art. 24 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel solo caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione” (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 19337 del 22/9/2011 (17));
d) che il Giudice di appello ha, inoltre, qualificato come nullità “per mancanza degli elementi essenziali” previsti dall’art. 21-septies della legge n. 241/1990, un vizio di invalidità dell’atto impositivo in realtà diverso, operando una commistione tra il primo ed il terzo comma dell’art. 42 Dpr n. 600/73 e venendo così a sovrapporre il vizio di incompetenza del soggetto che ha emesso e sottoscritto l’avviso di accertamento (art. 42, comma 1, Dpr n. 600/73), al diverso vizio della mancanza nell’atto impositivo dell’elemento formale della sottoscrizione (art. 42, comma 3, Dpr n. 600/73), risolvendosi a rilevare di ufficio il vizio di “nullità” degli atti impositivi, previsto dalla norma soltanto in caso di carenza di sottoscrizione, nonostante gli atti in questione fossero stati tutti sottoscritti (sebbene con grafia illeggibile), e per di più prescindendo dal necessario accertamento della imputazione della firma a soggetto non appartenente all’Ufficio o comunque diverso da quelli legittimati ad emettere l’atto (capo dell’ufficio od altro impiegato della carriera direttiva da quello delegato).
La Commissione tributaria, infatti, non ha accertato che gli atti impositivi erano privi della “sottoscrizione”, intesa quale “elemento essenziale” di validità dell’atto impositivo (circostanza incontestata), ma ha affermato che la illeggibilità della sottoscrizione non consentiva di verificare se il sottoscrittore fosse “il capo dell’ufficio od un impiegato della carriera direttiva da quello delegato”, e dunque non consentiva di verificare se il soggetto che aveva sottoscritto l’atto fosse o meno dotato della necessaria competenza ad emettere gli avvisi di accertamento (quale titolare dell’organo ovvero funzionario delegato appartenente al medesimo ufficio), come emerge inequivocamente dalla motivazione della sentenza di appello ove viene puntualizzato che “non è dato rinvenire alcun altro elemento (quale l’apposizione del sigillo o del timbro di un ufficio o l’indicazione della qualifica del funzionario competente) che consenta di individuare inequivocamente se gli atti impositivi in questione siano stati emessi dall’organo amministrativo titolare del relativo potere di adottarli ossia dal Direttore reggente o da un suo delegato”.
Se dunque, come si evince dall’ indicato passaggio motivazionale della sentenza impugnata, la “ratio decidendi” non trova fondamento nella falsità materiale od ideologica degli atti impositivi, non essendo posto in dubbio che gli atti provengano effettivamente dalla Amministrazione finanziaria attributaria del potere di accertamento impositivo, ne segue allora che la invalidità degli atti, rilevata dalla CTR, non può che essere ricondotta al tipico vizio di legittimità, per violazione delle norme di legge che disciplinano la “competenza”, che comporta secondo la stessa disciplina normativa dell’atto amministrativo richiamata dalla Commissione tributaria regionale (la quale ha inteso erroneamente equiparare la sanzione della “nullità tributaria” prevista dall’art. 42 co3 Dpr n. 600/1973 al vizio di nullità per “mancanza degli elementi essenziali” di cui all’art. 21-septies, legge n. 241/1990), non un vizio di “nullità” rilevabile di ufficio, ma soltanto la “invalidità-annullabilità” dell’atto amministrativo (art. 21-octies, comma 1, legge n. 241/1990), che consegue al vizio di incompetenza dell’autorità che lo ha emesso (nella specie ex art. 42 co1 Dpr n. 600/1973), invalidità che può essere fatta valere soltanto dal contribuente con specifico motivo di ricorso proposto avanti le Commissioni tributarie nel termine di decadenza di cui all’art. 21 D.lgs n. 546/1992, difettando peraltro nell’ordinamento una norma che attribuisca al Giudice tributario un potere di rilevabilità di ufficio delle nullità analoga all’art. 1421 c.c. ed art. 31, comma 4, D.lgs. n. 104/2010, (CPA).
La formulazione lessicale del comma terzo dell’art. 42 Dpr n. 600/73, art. 42 (“l’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui all’ultimo periodo del comma 2”) induce a distinguere tra il difetto di un elemento di perfezionamento dell’atto di accertamento (la sottoscrizione) e la individuazione della autorità legittimata ad esercitare il potere (competenza), occorrendo precisare che la eventuale violazione delle norme attributive della competenza assume valenza autonoma, nel diritto tributario, anche in assenza di una esplicita previsione di “nullità tributaria” (id est: invalidità-annullabilità), essendo stato puntualmente osservato (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 5507 del 6/3/2013 (18), con riferimento ai criteri di distribuzione delle competenze tra gli uffici della Agenzia delle Dogane) come l’organizzazione degli uffici dell’Amministrazione finanziaria non si sottragga ai principi costituzionali che regolano i pubblici uffici, atteso che «nel comma 1 dell’art. 97 Cost., non può ravvisarsi una semplice direttiva, rivolta prevalentemente agli organi dell’Amministrazione, nè il suo contenuto può considerarsi limitato alla riserva di legge da esso disposta. Il comma in parola va, difatti, collegato con il successivo, il quale prescrive che “nell’ordinamento degli uffici siano determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari”. Tali determinazioni – operate sulla base di disposizioni di legge – sono state, dipoi, considerate dal Costituente, nel raccordo tra i primi due commi della disposizione in esame, come condizioni per assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’Amministrazione, ravvisandosi in esse i mezzi per raggiungere una razionale, predeterminata e stabile distribuzione di compiti, nell’interesse del servizio. Al contempo – in una prospettiva chiaramente garantistica, a fronte dell’espletamento di poteri autoritativi da parte dell’Amministrazione – il riparto di competenze, sia per materia che per territorio, è finalizzato a far sì che il cittadino, nel rivolgersi alla pubblica Amministrazione, conosca con esattezza quale sia l’ufficio competente per il suo caso, quali ne siano le attribuzioni, quali le responsabilità di colui che vi è preposto e che rappresenta, nei suoi confronti il pubblico potere (cfr., in tal senso, C. Cost. 14/62). … L’incompetenza è – per vero – ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 21-octies, uno dei tre vizi (oltre alla violazione di legge ed all’eccesso di potere) che – sul piano generale – possono inficiare la validità di un qualsiasi provvedimento amministrativo. L’atto adottato da un ufficio incompetente, infatti, non è né semplicemente inefficace, né meramente produttivo di conseguenze sul piano sanzionatorio-disciplinare – come quando si tratta di violazione dei criteri di riparto delle attribuzioni, adottati dall’Amministrazione con norme interne (Cass. 14805/11) – ma è illegittimo, per violazione delle norme che definiscono le attribuzioni del soggetto autore dell’atto (C. St. 5142/07, 934/10). Per il che, l’accertamento del vizio di incompetenza non può che comportare l’eliminazione dal mondo giuridico del provvedimento illegittimo da parte del giudice amministrativo, ovvero – nell’ambito della giurisdizione demandatagli – da parte del giudice tributario (cfr., in motivazione, Cass. 14805/11, 14786/11) …”.
Pertanto si palesa errata in diritto la operazione ermeneutica compiuta dalla CTR che ha qualificato come carenza di un “elemento essenziale” dell’avviso, derivandone la rilevabilità ex officio del “vizio di nullità” dell’atto (secondo la previsione dell’art. 21-septies legge n. 241/1990), quello che, invece, deve ricondursi correttamente ad un “vizio di incompetenza”, in quanto tale inficiante la legittimità dell’avviso di accertamento e deducibile in via esclusiva ad istanza del contribuente come “vizio di invalidità-annullabilità” dell’atto impositivo (non rilevabile di ufficio dal Giudice tributario), dovendo, altresì, escludersi che il “vizio di incompetenza” in questione – ex art. 42 co1 Dpr n. 600/73 – possa trasmodare nel vizio di nullità dell’atto amministrativo per “difetto assoluto di attribuzione”, previsto dall’art. 21-septies della legge n. 241/1990, che la giurisprudenza amministrativa prevalente identifica con il vizio c.d. di “incompetenza assoluta”, ossia con la invasione di settori attribuiti ad altri poteri dello Stato ovvero con l’esercizio di poteri del tutto estranei alle attribuzioni della Pubblica Amministrazione che ha emanato l’atto. La “incompetenza assoluta” è, all’evidenza, figura di invalidità del tutto avulsa dalla fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, atteso che nella specie gli atti impositivi trovano fondamento in norme di legge 1-che istituiscono la imposta e disciplinano la insorgenza della obbligazione tributaria al ricorrere dei presupposti specificamente indicati, e 2-che attribuiscono agli uffici della Amministrazione finanziaria il relativo potere di accertamento impositivo.
Ne segue che la questione decisa dal Giudice tributario favorevolmente al contribuente concerne l’illegittimo esercizio della potestà impositiva per essere stata azionata la pretesa fiscale dalla PA in violazione della norma di legge sulla distribuzione della competenza di cui all’art. 42, comma 1, Dpr n. 600/1973, e non la assoluta carenza di potere impositivo della Amministrazione finanziaria, neppure nella diversa forma della “carenza di potere in concreto” (che postula un vizio dell’atto “rappresentato dalla carenza di potere dell’autorità che ha emanato l’atto, ed è quindi estraneo all’area di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo, non sostanziando una domanda di annullamento, ma di nullità radicale e/o di inesistenza del provvedimento”: cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 22492 del 19/10/2006), atteso che tale figura va riferita “stricto sensu” alla originaria mancanza dei presupposti esterni (agli elementi costitutivi dell’atto amministrativo) ai quali la norma di legge condiziona espressamente, non solo l’esercizio, ma la stessa attribuzione del potere alla PA, ipotesi del tutto diversa da quella oggetto del presente giudizio.
§.4 La questione sottoposta all’esame del Collegio deve, pertanto, essere risolta alla stregua del seguente principio di diritto:
«Alla sanzione della “nullità” comminata dall’art. 42, comma 3, Dpr n. 600/1973 all’avviso di accertamento privo di sottoscrizione, delle indicazioni e della motivazione di cui al precedente comma 2, o ad al quale non risulti allegata la documentazione non anteriormente conosciuta dal contribuente, al pari delle altre norme che prevedono analoghe ipotesi di “nullità” degli atti tributari nelle diverse discipline d’imposta, non è direttamente applicabile il regime normativo di diritto sostanziale e processuale dei vizi di “nullità” dell’atto amministrativo – che hanno trovato riconoscimento positivo nell’art. 21-septies della legge n. 241/1990 e sistemazione processuale nell’art. 31, comma 4, del D.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (CPA) nell’autonoma azione di accertamento della nullità sottoposta a termine di decadenza, e nella attribuzione del potere di rilevazione “ex officio” da parte del Giudice amministrativo –, atteso che l’ordinamento tributario costituisce un sottosistema del diritto amministrativo, con il quale è in rapporto di “species ad genus”, potendo pertanto trovare applicazione le norme generali sugli atti del procedimento amministrativo soltanto nei limiti in cui non siano derogate o non risultino incompatibili con le norme speciali di diritto tributario che disciplinano gli atti del procedimento impositivo, ostando alla generale estensione del regime normativo di diritto amministrativo, la scelta operata dal Legislatore, nella sua piena discrezionalità politica, di ricomprendere nella categoria unitaria della “nullità tributaria” indifferentemente tutti i vizi ritenuti tali da inficiare la validità dell’atto tributario, riconducendoli, indipendentemente dalla peculiare natura di ciascuno, nello schema della invalidità-annullabilità, dovendo essere gli stessi tempestivamente fatti valere dal contribuente mediante impugnazione da proporsi, con ricorso, entro il termine di decadenza di cui all’art. 21 D.Lgs. n. 546/1992, in difetto del quale il provvedimento tributario – pure se affetto da vizio [di] “nullità” – si consolida, divenendo definitivo e legittimando l’Amministrazione finanziaria alla riscossione coattiva della imposta.
Consegue che si pone in oggettivo conflitto con il sistema normativo tributario l’affermazione secondo cui, in difetto di tempestiva impugnazione dell’atto impositivo affetto da “nullità”, tale vizio possa comunque essere fatto valere per la prima volta dal contribuente con la impugnazione dell’atto conseguenziale, ovvero che, emergendo il vizio dagli stessi atti processuali, possa, comunque, essere rilevato di ufficio dal Giudice tributario, anche in difetto di norma di legge che attribuisca espressamente tale potere».
§5 Pertanto deve essere dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo della società contribuente proposto avverso la cartella di pagamento con il quale si è fatto valere il vizio di “nullità” – per mancanza degli elementi essenziali – degli avvisi di accertamento presupposti, divenuti definitivi per omessa tempestiva impugnazione.
L’accoglimento del ricorso, relativamente ai motivi quarto e quinto, rende superfluo l’esame del terzo motivo determinandone l’assorbimento.
§6 In conclusione il ricorso trova accoglimento, quanto al quarto e quinto motivo, dichiarati inammissibili il primo ed il secondo motivo ed assorbito il terzo motivo. La sentenza impugnata deve, in conseguenza, essere cassata senza rinvio, potendo la causa, in difetto di ulteriore necessaria attività istruttoria, essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 co2 c.p.c. con la inammissibilità del ricorso introduttivo proposto dalla società contribuente.
Segue la condanna della società soccombente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo, compensate quelle dei gradi di merito.

P.Q.M. – La Corte: – accoglie il ricorso, relativamente al quarto e quinto motivo, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito dichiara inammissibile il ricorso introduttivo proposto dalla società contribuente che condanna alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 8.000,00 per compensi oltre alle spese prenotate a debito, compensate le spese relative ai gradi di merito.

(1) In Boll. Trib., 2004, 154.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) In Boll. Trib. On-line.
(5) In Boll. Trib., 2014, 1740.
(6) In Boll. Trib., 2000, 1356.
(7) In Boll. Trib., 2007, 1831.
(8) In Boll. Trib., 2013, 1427.
(9) In Boll. Trib. On-line.
(10) In Boll. Trib. On-line.
(11) In Boll. Trib. On-line.
(12) In Boll. Trib. On-line.
(13) In Boll. Trib. On-line.
(14) In Boll. Trib. On-line.
(15) In Boll. Trib. On-line.
(16) In Boll. Trib. On-line.
(17) In Boll. Trib. On-line.
(18) In Boll. Trib. On-line.

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