SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Evoluzione/involuzione del procedimento di accertamento tributario – 3. L’estensione dei controlli ai soggetti terzi nella evoluzione giurisprudenziale – 4. Considerazioni conclusive.
1.Premessa
Lo spunto per effettuare queste brevi riflessioni ci viene fornito da una recente sentenza della Corte di Cassazione [1] nella quale la Suprema Corte ha disposto che l’accertamento ex art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, può fondarsi anche su «elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, senza che occorra la prova certa dell’evasione fiscale». Ne consegue, pertanto, come l’evasione possa essere dimostrata e provata attraverso la documentazione extracontabile che, di conseguenza, costituirebbe un indizio grave, preciso e concordante.
L’avere riconosciuto la legittimità dell’evasione fiscale attraverso indizi gravi, precisi e concordanti rappresenta la questione centrale e, a nostro avviso, maggiormente criticabile della pronuncia in questione poiché ci sembra evidente che l’indizio non abbia la dignità della prova né, tantomeno, sia da identificarsi, da un punto di vista semantico, oltre che normativo, con la presunzione [2].
È, inoltre, ribadito dalla Corte di Cassazione, che riconosce in proposito la fondatezza del ricorso, come le verifiche effettuate nei confronti del contribuente si estendano al figlio dello stesso. In realtà, quanto alle indagini finanziarie, modalità istruttoria utilizzata nell’accertamento de quo, è ormai un orientamento dottrinale [3] e giurisprudenziale consolidato quello che ammette l’estensione delle stesse ai congiunti del contribuente sottoposto ad accertamento, reputando, per dirla con la citata sentenza n. 4904/2013, il rapporto familiare «sufficiente a giustificare, salvo prova contraria, la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate su conti correnti bancari intestati o cointestati a familiari». Ma per questo aspetto ci riserviamo di ritornare più approfonditamente in seguito.
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2.Evoluzione/involuzione del procedimento di accertamento tributario
Ci sia consentito osservare preliminarmente che le teorie sulla natura giuridica dell’accertamento tributario [4] debbono essere valutate per la loro importanza e rilevanza con riferimento all’epoca e alla normativa alle quali si riferiscono: così potremmo dire che le teorie dichiarativa e costitutiva devono essere valutate nel contesto della normativa che va pressappoco dal primo decennio del Novecento alla seconda metà degli anni Sessanta, epoca nella quale comincia ad essere elaborata la teoria procedimentale.
È vero che ritornano di tanto in tanto sia in dottrina che in giurisprudenza utilizzazioni delle teorie dichiarativa e costitutiva, ma riteniamo che esse finiscano col prestare il fianco ad osservazioni critiche proprio per il loro riferimento a testi normativi non più esistenti.
Ciò premesso, e dichiarata la nostra preferenza per la teoria che vede nell’accertamento tributario un procedimento amministrativo, concludentesi stricto sensu con la notifica dell’avviso di rettifica della dichiarazione tributaria, e lato sensu con la fine del processo tributario, tenteremo di ricostruire le vicende dell’accertamento tributario a partire dal T.U. 29 gennaio 1958, n. 645, e, passando dalla riforma del 1971-1973 (legge delega 9 ottobre 1971, n. 825, e D.P.R. n. 600/1973), sino agli studi di settore ed alle più recenti forme di determinazione sintetica/induttiva del reddito.
Possiamo dire, allora, che il passaggio dal T.U. n. 645/1958 alla legge delega per la riforma tributaria n. 825/1971 è stato costituito da alcuni punti cardine ravvisabili nei seguenti:
– le forme dell’accertamento tributario sono quella analitica e quella sintetica, alle quali sono connesse motivazioni più o meno articolate sulla base della corretta o scorretta tenuta della contabilità da parte del soggetto passivo, ovvero in funzione di dichiarazioni più o meno rispettose degli obblighi formali e sostanziali previste dalla legge;
– l’indicazione, da parte del legislatore tributario, di forme di accertamento induttive o presuntive risulta idonea e fuorviante dal momento che più correttamente tali espressioni attengono, invece, più che alle forme, ai metodi di determinazione del reddito;
– l’estensione degli obblighi contabili pressoché a tutti i soggetti passivi, ad esclusione dei lavoratori dipendenti.
In definitiva, il passaggio dalla pregressa normativa, per la quale non esistevano obblighi contabili se non per le società tassabili in base al bilancio, alla nuova prevista dalla riforma del ’71 – ’73, è stato caratterizzato dalla necessità di ricorrere – come regola generale – all’accertamento analitico, con motivazione articolata e prove a carico dell’Ufficio.
Solo in via eccezionale – e in dipendenza di inosservanze formali e sostanziali in sede di tenuta di contabilità e di presentazione di dichiarazione – l’Amministrazione finanziaria aveva facoltà di ricorrere alla forma meno impegnativa – sul piano della motivazione e della prova – dell’accertamento sintetico.
Il disegno del legislatore non trovò, tuttavia, attuazione anche a causa di circostanze non sempre attribuibili alla responsabilità del legislatore medesimo:
a) innanzitutto la mancata tregua della proliferazione della normativa fiscale che, anziché arrestarsi con il varo della riforma tributaria, subì una accelerazione anche a causa dell’emanazione delle leggi e dei regolamenti di attuazione dei decreti delegati, relativi alla revisione dei vecchi tributi, o alla creazione dei nuovi;
b) l’aumento del numero delle dichiarazioni tributarie presentate dai contribuenti in seguito all’entrata in vigore dell’IRPEF (1° gennaio 1974), con conseguente aumento del numero dei controlli da effettuare da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Ma, probabilmente, a monte di queste circostanze, v’è stata la causa fondamentale della mancata attuazione, per l’appunto, di una tempestiva riforma dell’Amministrazione finanziaria, che avrebbe dovuto precedere quella del sistema tributario.
Da qui una serie di modifiche apportate alla normativa-base sull’accertamento tributario, che hanno preso l’abbrivio dalla constatazione da parte del legislatore dell’incapacità dell’Amministrazione finanziaria di operare accertamenti tributari. È evidente che la responsabilità di un’Amministrazione finanziaria inefficiente – sul versante soprattutto dell’accertamento tributario – debba essere addossata soprattutto al legislatore che non ha provveduto appunto tempestivamente alla riforma della medesima attraverso l’istituzione delle Agenzie fiscali.
Ed, invero, tutti gli strumenti sintetico-induttivi [5] utilizzati in seguito dal legislatore – dalla previsione del redditometro, ai coefficienti presuntivi di reddito (art. 11 del D.L. 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 154), alla minimum tax (art. 11 del D.L. 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 novembre 1992, n. 438), per giungere via via al varo degli studi di settore (art. 62-bis del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427) ed a forme sempre più standardizzate o, per cosi dire, di determinazione medio-ordinarie dei redditi, nonché alle più recenti disposizioni sull’accertamento sintetico di cui al D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122), che è intervenuto a modificare l’art. 38 del D.P.R. n. 600/1973 – intervengono in maniera innovativa sulla stima della capacità di spesa del contribuente al fine di determinare il maggiore imponibile. Essi, in effetti, non mirano ad altro che a marginalizzare l’intervento di controllo con la forma dell’accertamento analitico da parte dell’Amministrazione finanziaria e a mortificare i principi costituzionali e statutari.
A ciò aggiungasi che l’istituto del contraddittorio ad oggi è un momento del procedimento non sufficientemente valorizzato e ci sembra emblematica in tal senso la recente ordinanza della Corte di Cassazione 5 dicembre 2012, n. 21760 [6], in cui la Corte, a proposito di accertamento con adesione – istituto che «non può prescindere dalla fase del contraddittorio» [7] – ritiene che la mancata convocazione del contribuente non abbia alcun riflesso sulla validità dell’accertamento poiché esso rappresenta «una facoltà, da esercitare in relazione ad una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare la contestazione giudiziaria» [8]. Negare l’obbligatorietà del contraddittorio in conseguenza all’istanza del contribuente, in seno all’accertamento con adesione, ci sembra estremamente azzardato e, pertanto, concordiamo con chi ritiene necessario un intervento legislativo volto ad una effettiva tutela del contraddittorio in quanto ciò garantirebbe «una maggiore certezza del diritto ed una maggiore valorizzazione dei momenti di confronto tra le parti del procedimento» [9].
Non tenendo conto, tra l’altro, della estensione del contraddittorio nella fase procedimentale, prevista dallo Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212). In altri termini, il legislatore, in un arco di tempo che grosso modo va dai primi anni Novanta, ha finito col prendere atto dell’inattualità – oltre che della scarsa realizzabilità – di un accertamento tributario basato sulla forma analitica, presupponente una contabilità estesa a tutti i contribuenti, e si è mosso con provvedimenti miranti alla determinazione automatica dei redditi, preliminarmente in sede di dichiarazione e, successivamente, in sede di controllo abbandonando il miraggio della tassazione del reddito effettivo.
A questo punto dell’evoluzione/involuzione della normativa in tema di accertamento tributario, il legislatore ha compiuto un ennesimo passo avanti al fine di rendere ancor più residuale il ricorso all’accertamento analitico spingendosi sempre più verso forme di determinazione sintetico-induttive che si allontanano dalla tassazione del reddito effettivo che rischia di essere annoverata einaudiamente tra i miti e i paradossi della giustizia tributaria [10].
Auspichiamo, pertanto, che l’esigenza di una tassazione, appunto, del reddito effettivo, e dunque, di una giusta imposta, possa scendere dal piedistallo astratto del mito e trovare una sua concretezza identificandosi con quella imposta che il fisco non pretende apoditticamente, ma democraticamente attraverso il dialogo e il contraddittorio, in definitiva attraverso la compliance. Il contraddittorio costituisce, in definitiva, lo strumento indispensabile per consentire di attribuire dignità di prove a meri indizi risultanti, in questo caso, dalla documentazione extracontabile.
3.L’estensione dei controlli ai soggetti terzi nella evoluzione giurisprudenziale
Merita, dunque, un approfondimento ulteriore, come sopra accennato, la questione relativa al coinvolgimento dei soggetti diversi dal contribuente che ha subito l’accertamento, in seno alle indagini finanziarie e, in tal senso, riteniamo di dover prendere le mosse dalla sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione 28 giugno 2001, n. 8826 [11]. In essa la Suprema Corte ha affrontato la questione dell’applicabilità dell’art. 51 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ai conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse dal titolare, solo perché legate da vincoli familiari o commerciali. La Suprema Corte ha chiarito che «l’articolo 51, comma 2, nn. 2) e 7), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 accordava all’Ufficio il potere di richiedere agli istituti di credito notizie dei movimenti sui conti bancari intrattenuti dal contribuente e di presumere la loro inerenza ad operazioni imponibili, ove non si deduca e dimostri che i movimenti medesimi siano stati conteggiati nella dichiarazione annuale o siano ricollegabili ad atti non soggetti a tassazione».
La ratio della norma di cui all’art. 51 proseguivala Corte di Cassazione, non ne autorizzava l’applicazione ai conti bancari intestati a persone legate da vincoli di parentela, a meno che l’Ufficio non fosse in grado di dimostrare che l’intestazione a terzi fosse stata fittizia, e che esprimesse cioè un’apparenza voluta per far risultare in capo ad altre operazioni in realtà compiute dal contribuente.
Già a tal proposito la Suprema Corte[12] aveva precisato che l’Ufficio non poteva avviare arbitrariamente un controllo bancario, se non avesse acquisito gli elementi che gli avrebbero consentito di superare la situazione apparente. In definitiva,la Corte aveva assunto un atteggiamento garantista, consentendo la proiezione dei dati bancari intestati su conti di terzi in quello del contribuente indagato solo in presenza di gravi indizi che facessero quantomeno supporre l’esistenza di una interposizione fittizia. Proprio su tale aspetto intendiamo soffermarci in quanto oggetto di interesse nella giurisprudenza più recente.
In buona sostanza, il principio di carattere generale [13] che si poteva estrapolare era quello secondo il quale l’interposizione fittizia di persona avrebbe dovuto costituire il presupposto, la premessa, dell’indagine bancaria e non il suo scopo, nel senso che non era automatica l’attribuzione in capo al contribuente di operazioni annotate su conti di terzi se non vi erano fondati indizi di riferibilità.
Ci sembra possibile affermare che i casi più frequenti [14], in materia di estensione della soggettività a persone diverse dal contribuente, superando il dato formale, e cioè prescindendo dalla intestazione a terzi [15], riguardano:
1) l’esame dei conti personali dei soci o degli amministratori di società, nella ipotesi di indagini fiscali rivolte a società;
2) l’esame dei conti dei familiari del contribuente indagato.
Con riferimento al punto sub 1) si afferma la presunzione di diretta riferibilità alla società circa i conti intestati agli amministratori, tuttavia, è opportuno distinguere l’ipotesi di indagini nei confronti di società di persone, ovvero di capitali. Nella ipotesi di indagine avente per oggetto una società di persone, si è pronunciata la Corte di Cassazione [16], stabilendo che «per lo stretto rapporto intercorrente tra socio-amministratore e società di persone da lui amministrata non può ritenersi preclusa agli Uffici IVA, nell’adempimento dei loro compiti, di accertare, sulla base dei conti del socio, l’esistenza di operazioni imponibili non dichiarate, concernenti la società, salvo prova contraria». Essendo la società di persone inscindibile dalle persone dei soci, pertanto, una indagine che si occupi della società indagata non può non concretizzarsi in una indagine dei soci-amministratori che non rivestirebbero, a nostro avviso, la qualifica di terzi. E, infatti, in altra occasione [17] la Suprema Corte pronunciandosi con riferimento alla utilizzabilità dei dati dei soci risultanti nei confronti della società, stabilisce che «pur essendo concettualmente distinta dai singoli soci, sostanzialmente si identifica con costoro …» e che un’eventuale indagine che volesse esprimersi nei confronti di una società di fatto non potrebbe non riguardare i singoli soci.
Nella ipotesi della società di capitali, essendo individuabili e nettamente distinte le figure dei soci da quella della società, e non realizzandosi una commistione di una figura nell’altra, si ritiene illegittimo l’accertamento nei confronti della società di capitali, basato sulla movimentazione dei conti correnti intestati ai singoli soci [18].
Si ritiene indispensabile, pertanto, l’emanazione di una ulteriore autorizzazione che legittimi l’acquisizione di informazioni bancarie relativamente ad un soggetto con una differente natura giuridica.
Nella ipotesi sub 2), l’esame dei conti dei familiari del contribuente indagato, si ritiene comunemente ammesso. Con riferimento al coniuge non legalmente ed effettivamente separato, la Corte Costituzionale con sentenza 15 luglio 1976, n. 179 [19], chiamata a pronunciarsi in materia di cumulo dei redditi, ha ribadito l’autonoma capacità contributiva di ciascun soggetto appartenente al medesimo nucleo familiare e, pertanto, l’incostituzionalità del cumulo dei redditi.
Ci sembra, quindi, possibile affermare che se sussistono i presupposti di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973, è indubbia la facoltà da parte dell’Amministrazione finanziaria di accedere ai conti del coniuge e dei figli, ma, qualora questi presupposti non sussistessero, in via prudenziale e garantistica sarebbe opportuna l’emanazione di una autorizzazione ad hoc.
In termini più generali quanto più il vincolo di parentela diventa lontano, tanto più necessaria è una legittimazione cartolare e giuridica alla estensione del controllo a soggetti diversi dal contribuente.
Qualora il conto sia formalmente intestato a terzi, ma sostanzialmente il contribuente possa disporne tramite apposita delega, si ritiene che esso debba essere oggetto di segnalazione da parte della banca poiché rientra nella nozione di conto intrattenuto.
E invero, nella circolare 10 maggio 1996, n. 116/E [20], viene precisato che «la locuzione conto intrattenuto, usata dal legislatore, lascia intendere che oggetto delle richieste dell’Amministrazione finanziaria sono non soltanto i conti intestati al contribuente, bensì anche quelli che si trovano nella sua disponibilità in seguito ad apposito mandato ricevuto dal titolare del conto».
La questione relativa alla estensione delle indagini finanziarie nei confronti dei soggetti terzi si è ulteriormente arricchita di significativi interventi giurisprudenziali. Tenteremo, quindi, di circoscrivere la nostra indagine alle più recenti sentenze che ci sono sembrate particolarmente interessanti e rafforzative della interpretazione fornita circa la problematica inerente l’esame dei conti dei familiari del contribuente indagato.
Punto di partenza della nostra analisi è la sentenza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione 17 giugno 2002, n. 8683 [21], la quale ammetteva la possibilità di controllare non solo i conti cointestati ad entrambi i coniugi, ma anche i conti intestati unicamente al coniuge del contribuente che, in tale fattispecie, assumeva la veste di cointestatario e codichiarante, il quale si trovava a subire un accertamento bancario, frutto del convincimento (in capo all’Amministrazione finanziaria) che rappresentava un espediente normale l’intestazione di un conto corrente a nome del coniuge del contribuente indagato.
La legittimazione di tale estensione soggettiva, considerato che l’intestazione a nome del coniuge rappresentava, a detta della Corte, come già precisato, una normale prassi, era da ricondursi al duplice requisito «della connessione e dell’inerenza del conto intestato al coniuge al conto intestato al contribuente».
Pacifica, dunque, è l’estensione dell’indagine nei confronti dei conti cointestati ai coniugi codichiaranti ed altrettanto pacifica è, a parere della Corte di Cassazione, l’indagine esperita nei confronti del conto intestato solo al coniuge in ragione della connessione e dell’inerenza fra i due conti (intestato al contribuente indagato e al coniuge).
In effetti il concetto di inerenza è utilizzato in tale ipotesi in maniera atecnica poiché, ovviamente, non è riferibile – com’è intuitivo – al principio di determinazione del reddito d’impresa [22], bensì al rapporto che sussiste tra «un soggetto e i suoi attributi o predicati» [23].
E se, come già accennato, il contribuente poteva trincerarsi dietro l’ipotesi di cui all’art. 37 del D.P.R. n. 600/1973, e cioè si poteva consentire il libero accesso ai conti del coniuge solo qualora l’Amministrazione finanziaria fosse in grado di dimostrare che si versava in una ipotesi di interposizione fittizia, anche tale circostanza è stata respinta dalla Corte secondo la quale si può dimostrare l’interposizione quando si verifica che sui conti del terzo si riscontrino operazioni riconducibili alla persona sottoposta a verifica.
Tale fittizietà si desumerebbe [24] «da una serie di elementi come la cointeressenza, rapporti di parentela, rappresentanza, mandato ecc. che giustificano la loro imputabilità ad operazioni imponibili relative al contribuente»; quanto alle società di capitali a ristretta base azionaria e familiare, nonché alle società di persone «l’esistenza di vincoli di parentela tra i soci e gli amministratori è stata considerata in grado di giustificare l’estensione delle indagini bancarie riferibili alla società purché venga provato dall’Ufficio con elementi concreti che quei determinati movimenti risultanti da conti correnti di singoli soci siano collegabili ad operazioni commerciali poste in essere dalla società» [25].
Tale orientamento è stato ribadito anche nella giurisprudenza più recente che fa riferimento non solo al duplice requisito della connessione ed inerenza, ma anche alla presunzione di diretta riferibilità di rapporti intestati a terzi. La sentenza della Corte di Cassazione 23 luglio 2010, n. 17387 [26], stabilisce che, in assenza di prova contraria, sono legittimamente riferibili alla gestione sociale, le movimentazioni bancarie acquisite sui conti dei familiari, dei soci e degli stretti congiunti dell’amministratore. E, segnatamente, la Corte afferma la presunzione di riferibilità «dei conti dei familiari della legale rappresentante alla gestione sociale occulta, precisando che la stessa era stata ritenuta in conseguenza non solo della ristrettezza della base familiare della società, ma altresì per il fatto che i titolari dei conti accertati non disponevano di mezzi propri che potessero giustificare spostamenti di così cospicue somme di denaro». Il recupero d’imposta in capo ad un soggetto diverso da quello cui è intestato il conto è un orientamento già consolidato in capo alla giurisprudenza di legittimità [27] che, più in generale, consente che l’Ufficio tributario si avvalga di dati ed elementi che risultano da rapporti intestati a terzi – salva la prova contraria – presumendo l’esistenza di imponibili non assoggettati a tassazione, ove si possa dimostrare, anche sulla base di presunzioni semplici, cioè gravi, precise e concordanti, che il contribuente sottoposto ad accertamento sia l’effettivo possessore per interposta persona.
Più di recente, e comunque nelle stessa direzione interpretativa, la Sezione Tributariadella Corte di Cassazione con sentenza 6 ottobre 2011, n. 20449 [28], afferma che si ha motivo di ritenere connessi ed inerenti al reddito del contribuente, le operazioni riscontrate sui conti correnti bancari formalmente intestati a terzi (congiunti del contribuente ed amministratori di società). La riferibilità, dunque, è diretta ed opera salvo prova contraria fornita dal contribuente.
È, pertanto, il vincolo familiare una motivazione necessaria e sufficiente a giustificare la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate su conti correnti intestati a soggetti terzi ed, in tal senso, ci è sembrata particolarmente interessante l’ordinanza della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione 13 settembre 2010, n. 19493 [29], che afferma la legittimità dell’accertamento sul conto corrente persino della suocera dell’amministratore di una società.
Analogo ragionamento va fatto quanto ai beni dei figli in cui, fin dal 2001, con la sentenza depositata il 26 giugno 2001, n. 8738 [30], la Corte di Cassazione forniva un’interpretazione estensiva, tesa, cioè, al recupero a tassazione di beni (natanti o automobili) che facessero supporre il possesso di un adeguato e congruo reddito. La Corte così motivava la propria scelta interpretativa: «quando il contribuente, richiesto con apposito questionario, ammette la proprietà e l’utilizzazione di determinati beni, indici di capacità reddituale, è legittimo che l’ufficio presuma il possesso di redditi adeguati». E, ancora, la Corte di Cassazione ritiene che sul contribuente debba ricadere la dimostrazione della tassabilità in capo a terzi dei beni, rivestendo egli unicamente la veste di “prestanome” di beni, in effetti di proprietà dei figli.
Ciò, a nostro avviso, da un punto di vista squisitamente tecnico ed oggettivo, rispetta le regole dell’accertamento sintetico, che parte dall’individuazione di fatti economici per giungere, poi, alla valutazione del reddito complessivo.
Pur condividendo gli orientamenti della Corte di Cassazione ribadiamo, quindi, quanto già affermato in altre circostanze [31], e cioè che tanto più lontano è il vincolo di parentela, tanto più necessaria è una separata e differente legittimazione autorizzatoria per la estensione a terzi dei controlli.
Anche negli ultimi annila Cortedi Cassazione ha sempre continuato a sostenere la legittimità della estensione delle indagini in forza del sostanziale rapporto intercorrente tra contribuente e terzi eventualmente titolari di rapporti finanziari.
Sotto tale profilo la Suprema Corte[32] ha disposto l’estensione del controllo nei confronti del terzo convivente munito di delega ad operare sul conto deducendo che lo stretto legame di natura personale fra il contribuente e l’intestataria del conto è motivo sufficiente a far dedurre la riferibilità del conto medesimo nel rispetto del principio già affermato dalla Corte di Cassazione [33] secondo il quale «sulla base delle regole di esperienza, dalla conoscenza di un fatto secondario si deduce l’esistenza del fatto principale ignoto».
Ci sembra pacifica, alla luce di quanto sopra detto, l’estensione nei riguardi:
– del coniuge e dei familiari del contribuente, nonché dell’amministratore delle società a ristretta base familiare [34];
– dei soci di società di persone, indipendentemente dalla qualifica di amministratori, e dei soci di società di capitali a ristretta base familiare [35];
– dei terzi legati alla società da particolari rapporti di cointeressenza, rappresentanza organica, mandato, procura generale, etc. [36].
Si rileva, pertanto, indispensabile, la verifica dell’esistenza di un rapporto diretto tra il soggetto controllato ed il terzo con la documentazione bancaria che determina automaticamente il sorgere dei requisiti della connessione e dell’inerenza e, di conseguenza, della diretta riferibilità. In definitiva, grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare l’esistenza dei due requisiti appena individuati. In assenza di tale dimostrazione è possibile sostenere che l’Amministrazione finanziaria agisca in piena violazione delle garanzie del contribuente.
In conclusione, si può affermare la legittimità dell’estensione soggettiva delle indagini bancarie a terzi previa dimostrazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, del rapporto esistente fra i due soggetti, evidentemente superflua nel caso di rapporto di coniugio, e dei motivi che legittimano l’estensione dell’indagine su un conto collegato.
4.Considerazioni conclusive
In conclusione l’importanza della più volte citata sentenza della Corte di Cassazione n. 4904/2012 sta non nella estensione delle indagini bancarie a soggetti terzi rispetto al contribuente accertato, poichè ci sembra pacifico che il rapporto familiare sia di per sé sufficiente a giustificare la riferibilità al contribuente accertato delle operazioni riscontrate, quanto nella circostanza che meri indizi possano costituire prove dell’evasione fiscale in assenza di un contatto dialettico, cioè di un contraddittorio, tra fisco e contribuente.
L’abbandono ormai evidente da parte dell’Amministrazione finanziaria dell’accertamento analitico-documentale per sostituirlo con forme di determinazione sempre più standardizzate e parametrizzate non dovrebbe consentire, tuttavia, di mettere a repentaglio i sacrosanti principi costituzionali e statutari in tema di contraddittorio preventivo.
La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione sembra, purtroppo, orientata verso una sorta di favor nei riguardi dell’Amministrazione finanziaria, sempre meno in grado di procedere con accertamento analitico-documentale.
Prof. Luigi Ferlazzo Natoli
prof. Maria Vittoria Serranò
Università di Messina