23 Febbraio, 2015

1. Il fatto

Con l’annotata sentenza la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla questione del divieto di interposizione e di intermediazione di manodopera sancito dalla legge 23 ottobre 1960, n. 1369, affermando che deve ritenersi legittimo l’accertamento che, di fronte a un caso di interposizione fittizia di manodopera, ridetermini ai fini IVA il volume d’affari del committente apparente applicando le relative sanzioni con riferimento alle somme fatturate all’appaltatore.

Nel merito, è accaduto che nel corso di una verifica fiscale venisse contestata a una società di capitali la contabilizzazione di alcune fatture emesse da altra società, dalle quali risultavano prestazioni di servizi rese in violazione del divieto di interposizione di manodopera, e che l’Ufficio, con successivo atto impositivo, recuperasse a tassazione l’IVA su tali fatture indebitamente detratta, nonché liquidasse l’imposta sulle fatture emesse nei confronti della Città del Vaticano, considerate non imponibili (ai sensi dell’art. 8 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, quali cessioni all’esportazione, in relazione all’art. 71 dello stesso decreto), recuperando inoltre la ritenuta d’acconto sul reddito di lavoro dipendente omessa (ex art. 23 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600).

La Commissione tributaria provinciale adita rigettava il ricorso della contribuente mentre la Commissione regionale, in riforma del giudizio di prime cure, accoglieva il gravame della società, ritenendo a tal fine corretta la censura dell’appellante in ordine alla pretesa insussistenza dei presupposti per la contestata interposizione di manodopera, con la conseguenza che la violazione della disciplina normativa contestata dall’Ufficio non sarebbe fondata né in fatto né in diritto e che, in ogni caso, essendo stati regolarmente eseguiti i versamenti previdenziali (art. 2114 c.c.) e fiscali, non era giustificabile l’ulteriore pretesa dell’ente impositore riguardante le ritenute alla fonte sui redditi di lavoro dipendente. Tale soluzione sarebbe stata anche giustificata dal fatto che gli amministratori della società committente erano stati assolti dal reato loro ascritto «perché il fatto non sussiste».

L’Agenzia delle entrate proponeva ricorso contestando in sede di legittimità, in primo luogo, il vizio di violazione di legge per avere il giudice di appello considerato prettamente formale la contabilizzazione dei costi in un anno anziché nell’altro, a discapito del disposto dell’art. 109 del TUIR che stabilisce il principio di competenza economica.

In secondo luogo l’ente impositore contestava il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, lamentando che la Commissione regionale, nell’accogliere l’appello di parte, si era limitata ad affermare che la violazione del divieto di interposizione della manodopera posta a base dell’accertamento non sembrava assolutamente fondata, valorizzando circostanze di fatto poco rilevanti rispetto alla contestazione, quale il pagamento dei contributi previdenziali e fiscali. In tal modo la Commissione del riesame aveva tralasciato di esaminare elementi essenziali versati in atti dall’Ufficio a sostegno del divieto di interposizione della manodopera stabilito dall’art. 1 della legge n. 1369/1960. Veniva altresì rilevato al riguardo che era ininfluente l’assolvimento degli oneri previdenziali e fiscali nei confronti dei lavoratori forniti alla società contribuente, essendo compatibile il divieto di interposizione di manodopera con l’ipotesi di regolarità fiscale, riferendosi detto divieto sia all’ipotesi di appalto simulato in cui i lavoratori risultavano fittiziamente come dipendenti dell’appaltatore sia ai casi in cui, in forza di effettivo contratto di appalto in cui i lavoratori impiegati erano realmente dipendenti dell’appaltatore, il servizio aveva ad oggetto la mera prestazione di lavoro sotto la direzione del committente e senza assunzione di rischio da parte dell’appaltatore.

La ricorrente aggiungeva ancora sul punto che la sentenza impugnata presentava una motivazione lacunosa in ordine al profilo relativo alla indetraibilità degli apparenti corrispettivi indicati nelle fatture emesse dall’appaltatore, essendo tali importi commisurati alle retribuzioni spettanti ai dipendenti e ai relativi oneri previdenziali, ciò che impediva di considerarli veri e propri corrispettivi, come tali non soggetti ad IVA e, conseguentemente, inidonei a costituire il diritto a detrazione di cui all’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972.

L’Amministrazione finanziaria deduceva inoltre un’ulteriore violazione dell’obbligo di motivazione, avendo la Commissione del riesame posto a giustificazione della sentenza impugnata l’assoluzione nel giudizio penale degli amministratori della società contribuente, senza considerare che l’assoluzione penale non impedisce al giudice tributario un’autonoma valutazione, imponendo comunque a quest’ultimo un vaglio critico degli elementi acclarati alla luce del particolare sistema probatorio del giudizio tributario.

Infine rilevava la ricorrente che erano errate le motivazioni espresse dalla Commissione regionale circa le operazioni effettuate con la Città del Vaticano, non essendo esplicitato il motivo per cui la dichiarazione integrativa presentata dalla società rilevasse a suo favore nella controversia in esame.

[-protetto-]

2. Le motivazioni della pronuncia in esame

Con un’articolata sentenza la Corte di Cassazione ha accolto gli svariati motivi di ricorso prospettati dall’Amministrazione finanziaria, le cui doglianze sono state ritenute palesemente fondate, considerata la lacunosità e la carenza di motivazione delle argomentazioni espresse dal giudice di appello nella sentenza impugnata.

In primo luogo, quanto alla dedotta violazione del principio di competenza economica disposto dell’art. 109 del TUIR, la Suprema Corte considera erroneo l’operato della Commissione regionale che ha ritenuto meramente formale la violazione rapportata alla non tempestiva contabilizzazione dei costi in un anno anziché nell’altro. Giova, infatti, ricordare in argomento che la giurisprudenza di legittimità (1) ha più volte affermato che poiché l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio anziché ad un altro ben può, in astratto, comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi, deve ritenersi rigorosamente preclusa – ai sensi dell’art. 75 del TUIR, nella versione vigente ratione temporis (ora art. 109 del TUIR), alla stregua del quale «i ricavi, le spese e gli altri componenti positivi e negativi per i quali le precedenti norme del presente capo non dispongono diversamente, concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza» – la detrazione di costi in esercizi diversi da quello di competenza, giacché il contribuente non può essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cui registrare le passività (2).

Si tratta, a ben vedere, di un indirizzo risalente, che trae origine dall’affermazione esplicita per cui «le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono inderogabili, sia per il contribuente che per l’Ufficio finanziario e, pertanto, il recupero a tassazione di ricavi nell’esercizio di competenza non può trovare ostacolo nella circostanza che essi siano stati dichiarati in un diverso esercizio: ciò infatti finirebbe per lasciare il contribuente arbitro della scelta del periodo più conveniente in cui dichiarare i propri componenti di reddito con innegabili riflessi sulla determinazione del proprio reddito imponibile» (3).

Infatti la regola posta dall’art. 75 del TUIR, secondo cui i ricavi, i costi e gli altri oneri concorrono a formare il reddito nell’esercizio di competenza, a condizione che la loro esistenza o il loro ammontare sia determinabile in modo oggettivo (dovendo altrimenti essere calcolati nel periodo d’imposta in cui si verifica tale condizione), mira a contemperare la necessità di computare tutte le componenti nell’esercizio di competenza con l’esigenza di non addossare al contribuente un onere troppo difficile da rispettare (4). Quindi tale regola va interpretata nel senso che il dovere di conteggiare detti componenti nell’anno di riferimento si arresta soltanto di fronte a quei ricavi e a quei costi che non siano ancora noti all’atto della determinazione del reddito, e cioè al momento della redazione e presentazione della dichiarazione. È chiaro, poi, che sotto il profilo probatorio la prova della sussistenza degli elementi che giustificano la deroga al principio di competenza deve essere fornita dalla parte che intende avvalersi di siffatta “deroga” (5).

Neppure sembra avere ragione di esistere, al dichiarato fine di giustificare una sorta di bilanciamento fra componenti attivi e passivi del reddito che intenderebbe giustificare l’operato della stessa società, l’asserita esclusione di un danno per l’erario, atteso che nessuna interpretazione della disciplina normativa in tema di imputazione delle voci reddituali (siano esse positive o negative) – come noto vincolante tanto per il contribuente quanto per l’erario – richiede e, quindi, legittima un qualche giudizio sull’esistenza o meno di un danno erariale, per modo che appare decisamente irrilevante l’eventuale (anche effettiva) insussistenza dello stesso nella fattispecie oggetto di giudizio (6).

Senza dire poi che il pregiudizio all’erario sembra direttamente riconducibile, nel caso in esame, al mancato versamento alla scadenza del maggiore tributo per un determinato anno come emergente dalla rettifica dell’Ufficio, dovendosi considerare quest’ultimo con esclusivo riferimento a ciascun anno d’imposta.

3. Il divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro

Di seguito la sentenza che si annota affronta la questione sollevata dall’Amministrazione finanziaria ricorrente circa la non corretta applicazione dell’art. 1 della legge n. 1369/1960, per il fatto che la Commissione regionale si era limitata ad affermare che la violazione del divieto di interposizione della manodopera posta a base dell’accertamento non era fondata «né in fatto né in diritto», censura pienamente validata invece dal giudice di legittimità.

Al riguardo occorre ricordare che l’art. 1 della legge n. 1369/1960, concernente «Divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell’impiego di mano d’opera negli appalti di opere e di servizi», abrogata a far data dal 23 ottobre 2003 dall’art. 85, primo comma, lett. c), del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (c.d. “decreto Biagi”), prevedeva espressamente:

«È vietato all’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.

È altresì vietato all’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari.

È considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante».

Come risulta dalla lettura dei sopra riportati primo, secondo e terzo comma, la legge in esame dispone(va), innanzitutto, il divieto per l’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.

Inoltre era sancito il divieto per l’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari, chiarendo che è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine e attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante.

Il terzo comma si occupava specificamente dell’ipotesi di interposizione vietata che, mascherata con le forme di uno “pseudo appalto” di opere o servizi, si caratterizzasse per il difetto di imprenditorialità della prestazione, inquadrandosi così nella mera somministrazione di manodopera vietata (7).

Il quinto comma prevedeva poi che «i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni».

Assodato, quindi, che i fatti oggetto della vertenza in esame ricadono sotto l’impero dell’abrogata legge n. 1369/1960, l’esame della giurisprudenza di legittimità formatasi in materia di appalto di manodopera consente di cogliere, specie nella produzione più vicina, un elemento comune rappresentato sostanzialmente dal rilievo che l’appalto di cui si discute è illecito tutte le volte in cui non è l’appaltatore a gestire concretamente il rapporto di lavoro, bensì l’appaltante. È stato infatti stabilito che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro sancito dall’art. 1 della legge n. 1369/1960 opera nel caso in cui l’appalto abbia ad oggetto prestazioni lavorative, attribuendo all’appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto, senza una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (8).

Occorre infatti considerare che il divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro di cui all’art. 1 della legge n. 1369/1960 (applicabile ratione temporis nella fattispecie de qua) è diretto a proteggere i lavoratori da forme di sfruttamento conseguenti alla dissociazione tra la titolarità formale del rapporto e la sua effettiva destinazione, e cioè tra l’autore dell’assunzione e l’effettivo beneficiario delle prestazioni lavorative. Il divieto opera oggettivamente, prescindendo dall’intento fraudolento o simulatorio delle parti e può essere violato anche da soggetti titolari di una propria organizzazione autonoma, che professionalmente abbiano assunto appalti regolari di opere e servizi, se la situazione lavorativa apparente non corrisponde a quella reale, con la conseguenza che i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze del soggetto che ne ha effettivamente utilizzato le prestazioni lavorative a norma del citato art. 1, quinto comma, della legge n. 1369/1960 (9).

Con particolare riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, il divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, secondo la giurisprudenza di legittimità (10), opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo e senza che esista, anche in fatto, una autonomia gestionale dell’appaltatore esplicata nella conduzione aziendale, nella direzione del personale, nella scelta delle modalità e dei tempi di lavoro.

A tal fine non è superfluo ricordare ancora che la giurisprudenza di legittimità (11) ha stabilito in proposito che nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono – nella loro vigenza – i primi tre commi dell’art. 1 della legge n. 1369/1960, la nullità del contratto fra committente e appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’ultimo comma della stessa disposizione – secondo cui, lo si ripete, i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull’appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi.

Peraltro è noto che «in caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera, l’IVA che (l’apparente) cessionario assume di avere pagato al preteso cedente per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – neppure assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta – non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, proprio per il fatto che l’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista» (12). È stato infatti già precisato che devono essere qualificate come inesistenti le fatture emesse per operazioni aventi natura giuridica diversa da quella indicata, considerato che, come nel caso in esame, le prestazioni per le quali sono state emesse fatture sono totalmente diverse che quelle che sarebbero state realmente poste in essere (intermediazione di manodopera invece che prestazioni di attività lavorativa di tipo artigianale di cui alle fatture), con la conseguente insussistenza giuridica e di fatto delle prestazioni per le quali le predette fatture sono state emesse (13).

4. Considerazionisulla pronuncia in commento

Ciò posto, nell’annotata pronuncia la Corte di Cassazione afferma che nel caso di specie appaiono evidenti le gravi lacune motivazionali della sentenza della Commissione tributaria regionale laziale, laddove il giudice del riesame ha completamente omesso di valutare tutti gli elementi addotti dall’Ufficio finanziario per giustificare l’esistenza di un’intermediazione di manodopera, quali:

l’essere la società appaltatrice amministrata dal rappresentante legale della società contribuente (committente);

la direzione del personale della società appaltatrice da parte della committente e senza assunzione di rischio da parte dell’appaltatore;

l’utilizzazione, da parte del personale dell’appaltatore, dei beni strumentali della società committente, in assenza di beni strumentali da parte della società assuntrice dell’appalto (simulato);

i pagamenti effettuati dalla società committente all’appaltatore, risultati pari a quanto occorrente all’appaltatore stesso per il pagamento degli stipendi e degli altri oneri previdenziali e fiscali.

Pertanto, da questo punto di vista, viene rilevata dalla Sezione Tributaria decidente la completa carenza argomentativa dell’operato del giudice di appello, le cui lacunose motivazioni non consentono al giudice superiore di cogliere il fondamento sul quale si è basata l’affermazione dell’assenza di un’intermediazione di manodopera, se solo si consideri che l’adempimento degli oneri retributivi e previdenziali da parte dell’appaltante (risultati poi rimborsati dal committente stesso all’appaltatore sotto forma di pagamento degli pseudo-corrispettivi), non fa venire meno, in astratto, la possibilità che il personale impiegato sia stato effettivamente al servizio del committente/datore di lavoro effettivo.

In altri termini la Commissione regionale avrebbe dovuto esaminare attentamente i singoli elementi versati in atti dall’Ufficio e la natura delle prestazioni in concreto svolte al fine di valutare la loro idoneità a sostenere fondatamente l’ipotesi ricostruttiva posta a base dell’avviso di accertamento, tenendo conto del fatto che ove fosse risultato che il personale dell’appaltante impartiva disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, lo stesso poteva costituire uno degli indici dell’accordo fraudolento, sempreché risultasse provato (14) che dette disposizioni fossero riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro anche in relazione alle effettive modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative.

Peraltro è da ricordare al riguardo che la disciplina interna in tema di divieto di intermediazione non si contrappone con l’ordinamento comunitario, in quanto esso non attiene, almeno in via esclusiva, al monopolio pubblico del collocamento, ma persegue lo scopo di garantire, con l’effettività del rapporto di lavoro, una più forte tutela del diritto al lavoro dei lavoratori assunti dall’intermediario, impedendo, o, quantomeno, ostacolando elusioni fraudolente della disciplina posta a garanzia del lavoratore (15).

Peraltro la società contribuente ha anche omesso di provare (art. 2697 c.c.), rileva la Suprema Corte, la ricorrenza “cumulativa” dei presupposti considerati necessari per ritenere che il divieto di intermediazione previsto dalla legge n. 1369/1960 sia in contrasto con l’ordinamento comunitario (16) ovvero: a) che gli Uffici pubblici di collocamento non siano palesemente in grado di soddisfare, per tutti i tipi di attività, la domanda esistente sul mercato del lavoro; b) che l’espletamento delle attività di collocamento da parte delle imprese private venga reso impossibile da disposizioni di legge che vietano tali attività; c) e che le attività di collocamento di cui trattasi possano estendersi a cittadini o territori di altri Stati membri.

Egualmente fondato è stato ritenuto il motivo di ricorso per cassazione relativo alla contabilizzazione, come voci non imponibili, di operazioni effettuate nei confronti della Città del Vaticano, in quanto mancanti del “visto” di entrata da parte delle Autorità vaticane, condizione necessaria voluta dall’art. 8 del D.P.R. n. 633/1972, per la regolarità della cessione. Infatti le disposizioni degli artt. 8 e 9 del D.P.R. n. 633/1972 (cessioni all’esportazione) si applicano alle cessioni eseguite mediante trasporto o consegna dei beni nel territorio dello Stato della Città del Vaticano, comprese le aree in cui hanno sede le istituzioni e gli Uffici richiamati nella convenzione doganale italo-vaticana del 30 giugno 1930, ed ai servizi connessi. Poiché non vi è dubbio che le forniture in questione si concretano in operazioni di esportazione e che, in quanto tali, le stesse rientrano nel campo applicativo delle agevolazioni stabilite dai citati artt. 8 e 9, è sufficiente che, ai fini di dette agevolazioni, gli operatori interessati dimostrino l’avvenuta introduzione dei beni nel territorio dello Stato della Città del Vaticano mediante apposizione, da parte delle competenti Autorità vaticane, del “visto di entrata” dei beni stessi sul duplo della fattura in possesso del venditore nazionale (17).

Peraltro la giurisprudenza (18), in tema di esportazione verso Paesi extracomunitari, ha stabilito che «l’esenzione dall’IVA per le cessioni di beni destinati all’esportazione, prevista dall’art. 8, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, postula l’effettivo perfezionamento di tutte le operazioni di esportazione, delle quali assume per intero la responsabilità il cedente, a carico del quale incombe, nell’ipotesi di mancato perfezionamento della esportazione stessa, alla stregua della disciplina del diritto interno come del diritto doganale comunitario, l’onere della prova della presentazione delle merci alla dogana di destinazione. Tale prova, peraltro, può essere fornita con ogni mezzo, purché essa abbia carattere di certezza ed incontrovertibilità, quale può essere l’attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione dell’avvenuta detta presentazione delle merci in dogana, mentre documenti di origine privata, come la documentazione bancaria dell’avvenuto pagamento, non possono costituisce prova idonea allo scopo».

Nel caso di specie invece la Commissione regionale ha – anacronisticamente – ritenuto di accogliere il rilievo del contribuente valorizzando una «dichiarazione di integrazione e definizione anni pregressi» che non poteva avere effetti su una violazione sostanziale quale la mancata prova dell’esportazione della merce.

5. Rapporti tra giudizio penale e giudizio tributario

Ulteriori stigmatizzazioni che si leggono nell’annotata sentenza riguardano l’eccessiva rilevanza attribuita dalla Commissione tributaria d’appello al procedimento penale conclusosi con l’assoluzione dei responsabili della società contribuente, solo che si consideri che l’assoluzione dei suddetti non poteva costituire da sola elemento idoneo a giustificare in maniera logica la statuita illegittimità della ripresa fiscale a causa dell’assenza di interposizione per le ritenute di acconto dovute dal datore di lavoro effettivo rispetto alle retribuzioni dei lavori impiegati, in quanto è noto che, in ordine ai rapporti fra giudicato penale e giudizio tributario, «nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento» (19) degli enti impositori, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’art. 7, quarto comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, trovando ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna (20) (21).

Peraltro depone a favore di tale soluzione anche il principio di separazione tra procedimento amministrativo di accertamento e procedimento penale fissato dall’art. 20 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in forza del quale il primo non può essere sospeso «per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione». Il legislatore, con tale disposizione, ha confermato il principio della piena e reciproca autonomia (c.d. regime del “doppio binario”) tra il procedimento penale, da un lato, e il processo tributario e il procedimento amministrativo di accertamento, dall’altro, escludendo qualsiasi rapporto di pregiudizialità. In altri termini, l’attività di accertamento degli Uffici finanziari e i processi in seno alle Commissioni tributarie proseguiranno il loro cammino anche nelle ipotesi in cui sia in corso un procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti. Il regime adottato del “doppio binario” presenta il vantaggio, tra l’altro, di evitare un’eccessiva dilatazione dei tempi delle decisioni e di rispettare le differenze, sul piano probatorio, tra l’ambito penale e quello amministrativo (22).

Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, può essere ritenuto – de plano – fiscalmente responsabile qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (23). E viceversa è ammissibile la condanna per evasione anche in caso di annullamento dell’accertamento da parte del giudice tributario (24).

In ultima analisi l’assoluzione in sede penale degli imputati non poteva assolutamente costituire elemento idoneo a suffragare l’assenza dell’interposizione di manodopera.

6. La questione della detrazione dell’IVA e dei costi

Altrettanto si può dire circa la pretesa fiscale riguardante l’indetraibilità in capo all’appaltante delle somme fatturate dalla società appaltatrice, come contestate dall’Ufficio finanziario con l’avviso di accertamento.

Infatti, per giungere all’annullamento della pretesa fiscale concernente la ritenuta d’acconto non effettuata nonché della ripresa a tassazione dell’IVA indebitamente detratta dalla società sulla base delle fatture emesse dall’appaltatore, il giudice di appello avrebbe dovuto adeguatamente giustificare le ragioni che a suo avviso rendevano illegittimo l’operato dell’Amministrazione finanziaria nella parte in cui aveva ritenuto la non assoggettabilità ad IVA delle somme portate dalle fatture, solo apparentemente costituenti “corrispettivo” delle prestazioni ma, in effetti, dissimulanti il pagamento degli oneri retributivi, previdenziali e fiscali dei lavoratori che, nella prospettiva dell’Ufficio accertatore, erano alle (effettive) dipendenze della società contribuente.

Appare infatti evidente, spiega la Suprema Corte, che in caso di ritenuta sussistenza della vietata interposizione di manodopera le prestazioni formalmente fatturate dalla società appaltatrice finirebbero con l’assumere il carattere delle operazioni “oggettivamente” inesistenti, con tutte le conseguenze che ne derivano in tema di detraibilità dell’imposta corrisposta, ex art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 (25).

Al riguardo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che in ipotesi di fatture che l’Ufficio finanziario ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che, anche laddove effettivamente poste in essere, si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non sia stata posta in essere, o non lo sia stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che essa sottenda un’operazione fittizia cui il cessionario sia partecipe. Si è poi aggiunto che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, l’art. 54, secondo comma, del D.P.R. n. 633/1972 (26).

È noto, infatti, che in tema di IVA la nozione di “fattura inesistente” va riferita non soltanto all’ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata sul piano fattuale, ma anche a ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di “inesistenza soggettiva”, che ricorre quando, pur risultando i beni o il servizio reso entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa cui le fatture sono rilasciate, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto siano falsi o comunque diversi (27). In siffatta ipotesi, pertanto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 19, 21, settimo comma, e 26, terzo comma, del D.P.R. n. 633/1972, è precluso al cessionario dei beni, così come al committente del servizio, il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta nel caso di emissione di fatture per operazioni inesistenti anche solo sotto il profilo soggettivo (28). Pur essendo i beni o il servizio effettivamente entrati nella disponibilità dell’impresa utilizzatrice, la falsa indicazione di uno dei soggetti del rapporto determina l’evasione del tributo relativo alla diversa operazione, effettivamente realizzata tra altri soggetti (29).

A conclusione della complessa vicenda affrontata dalla pronuncia in esame si può affermare il seguente principio di diritto già forgiato dalla Suprema Corte in una similare pronuncia (30), secondo cui «deve ritenersi legittimo l’accertamento che, di fronte a un caso di interposizione fittizia di manodopera, ridetermina ai fini IVA il volume d’affari del committente apparente applicando le relative sanzioni con riferimento alle somme fatturate all’appaltatore, pur in presenza di un’apparente regolarità fiscale, laddove dette somme corrispondono agli esborsi relativi alle retribuzioni e agli oneri previdenziali della manodopera fittiziamente intermediata, dovendo ricordarsi che il carattere fraudolento dell’operazione negoziale non consente l’operatività del diritto alla detrazione dell’imposta, che la relativaprova può essere fornita dall’amministrazione finanziaria anche per presunzioni, e che a nulla rileva l’intervenuta assoluzione in sede penale degli amministratori della società committente apparente, ben potendo questi ultimi essere ritenuti fiscalmente responsabili qualora l’atto impositivo risulti in ogni caso fondato su indizi validi che, se non possono determinare la condanna in sede penale, si rivelano comunque adeguati fino a prova contraria in sede tributaria».

Dott. Salvatore Servidio 


(1) Cfr. Cass., sez. trib., 24 gennaio 2013, n. 1655, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 12 febbraio 2010, n. 3418, ivi; e Cass., sez. trib., 10 marzo 2008, n. 6331, in Boll. Trib., 2008, 1290.

(2) Così anche Cass., sez. trib., 9 giugno 2000, n. 7912; e Cass., sez. trib., 27 dicembre 2001, n. 16198; entrambe in Boll. Trib. On-line.

(3) Cfr. Cass., sez. trib., 15 novembre 2000, n. 14774, in Boll. Trib., 2001, 1506; Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17195, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 24 settembre 2008, n. 23987, ivi; Cass., sez. trib., 18 dicembre 2009, n. 26665, ivi; e Cass., sez. trib., 18 febbraio 2011, n. 3947, in Boll. Trib., 2011, 1146.

(4) Così Cass., sez. trib., 24 febbraio 2012, n. 2854, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cfr. Cass., sez. trib., 14 maggio 2007, n. 10988, in Boll. Trib. On-line.

(6) Cfr. Cass., sez. trib., 24 gennaio 2013, n. 1648, in Boll. Trib. On-line.

(7) Cfr. Cass., sez. lav., 13 gennaio 1988, n. 151, in Rep. foro it., 1988, Lavoro (rapporto) [3890], n. 457; e Cass., sez. un., 19 ottobre 1990, n. 10183, in Giust. civ., 1991, I, 281.

(8) Ved. Cass., sez. lav., 22 agosto 2003, n. 12363, in Foro it., 2003, I, 2942; Cass., sez. lav., 30 agosto 2007, n. 18281, in Mass. foro it., 2007, 1540; Cass., sez. lav., 29 settembre 2011, n. 19920, ivi, 2011, 773; e Cass., sez. lav., 6 aprile 2011, n. 7898, ibidem, 297.

(9) Cfr. Cass., sez. lav., 16 luglio 2013, n. 17359, in Boll. Trib. On-line.

(10) Ved. Cass., sez. lav., 9 marzo 2009, n. 5648, in Mass. foro it., 2009, 500; Cass., sez. lav., 17 febbraio 2010, n. 3681, ivi, 2010, 158; e Cass. n. 7898/2011, cit.

(11) Cass., sez. un., 26 ottobre 2006, n. 22910, in Mass. foro it., 2006, 1907; Cass., sez. lav., 14 giugno 1999, n. 5901, in Mass. giur. lav., 1999, 1321; e Cass., sez. trib., 15 febbraio 2013, n. 3795, in Boll. Trib. On-line.

(12) In questi termini l’annotata sentenza e Cass., sez. trib., 14 dicembre 2012, n. 23075, in Boll. Trib. On-line.

(13) Cfr. Cass., sez. III pen., 3 aprile 2008, n. 13975, in Boll. Trib. On-line.

(14) Cfr. Cass., sez. lav., 25 giugno 2001, n. 8643, in Foro it., 2001, I, 3109; e Cass., sez. lav., 6 giugno 2011, n. 12201, in Mass. giur. lav., 2011, 709.

(15) Ved. Corte Giust. CEE 11 dicembre 1997, causa C-55/96; e Corte Giust. CE, sez. IV, 8 giugno 2000, causa C-258/98; entrambe in Boll. Trib. On-line.

(16) Cfr. Cass., sez. lav., 12 aprile 2006, n. 8530, in Mass. foro it., 2006, 1327.

(17) Cfr. circ. 16 gennaio 1976, n. 12, in Boll. Trib., 1976, 533.

(18) Cfr. Cass., sez. trib., 3 maggio 2002, n. 6351; e Cass., sez. trib., 19 ottobre 2007, n. 21946; entrambe in Boll. Trib. On-line.

(19) Cfr. Cass., sez. trib., 23 maggio 2012, n. 8129, in Boll. Trib. On-line;e Cass., sez. trib., 3 maggio 2002, n. 6337, in Boll. Trib., 2003, 618; contra cfr. Cass., sez. pen., 18 aprile 2012, n. 14855, ivi, 2012, 950.

(20) Cfr. Cass. n. 8129/2012, cit.

(21) In dottrina si rinvia a F. Ciani – L. Scimè, processo tributario e processo penale: indipendenze codificate e dipendenze auspicate, in Boll. Trib., 2013, 325; S. Gallo, La rilevanza ai fini fiscali degli elementi acquisiti in sede penale, ivi, 2009, 1077; e B. Aiudi, processo tributario e processo penale: un rapporto controverso, ivi, 2004, 87.

(22) Ved. circ. 4 agosto 2000, n. 154/E, in Boll. Trib., 2000, 1237.

(23) Cfr. Cass., sez. trib., 27 febbraio 2013, n. 4924, in Boll. Trib. On-line.

(24) In termini cfr. Cass., sez. III pen., 2 settembre 2013, n. 35846, in Boll. Trib. On-line.

(25) Ved. Cass., sez. trib., 6 giugno 2012, n. 9108, in Boll. Trib. On-line.

(26) Cfr. Cass., sez. trib., 19 ottobre 2007, n. 21953, in Boll. Trib., 2007, 1816, con nota di F. Del Torchio, Falsa fatturazione ed onere della prova: ancora due recenti pronunce della Corte; Cass., sez. trib., 19 settembre 2012, n. 15741, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. trib., 24 maggio 2013, n. 12961, ivi.

(27) Cfr. Cass., sez. trib., 14 dicembre 2012, n. 23075, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. trib., 11 aprile 2011, n. 8132, in Boll. Trib., 2011, 1561, con nota di F. Provenzano, Notazioni a margine della giurisprudenza di legittimità sulle fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.

(28) Cfr. Cass., sez. trib., 19 luglio 2013, n. 17680, in Boll. Trib. On-line.

(29) Cfr. Cass., sez. trib., 22 marzo 2006, n. 6378, in Boll. Trib. On-line; e Cass., sez. trib., 16 settembre 2011, n. 18907, in Boll. Trib., 2011, 1809.

(30) Cfr. Cass., sez. trib., 5 luglio 2013, n. 16852, in Boll. Trib. On-line.

IRPEF – Redditi di impresa – Costi – Detrazione nel periodo d’imposta di competenza a norma dell’art. 75 (ora art. 109) del TUIR – Scelta del periodo d’imposta di imputazione – Inammissibilità – Mancanza di danno all’erario – Irrilevanza.

IVA – Detrazione dell’imposta – Operazioni in frode all’IVA – Pregiudicano la detraibilità dell’imposta sulle operazioni passive – Intermediazione vietata di manodopera – Operazione soggettivamente inesistente – Si configura – Indetraibilità dell’IVA – Consegue.

Procedimento – Commissioni – Giudizio avanti le Commissioni – Giudicato penale – Efficacia vincolante nel processo tributario – Non sussiste – Diverso regime probatorio nel processo tributario – Esclusione di autorità di cosa giudicata alla sentenza penale irrevocabile – Consegue.

IVA – Fatture per operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti – Onere probatorio – Incombe sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare l’inesistenza delle operazioni o l’esistenza di operazioni fraudolente cui il cessionario sia partecipe – Uso di presunzioni – Ammissibilità.

In tema di reddito d’impresa non è consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, neppure al dichiarato fine di bilanciare componenti attivi e passivi del reddito e pur in assenza della configurabilità di un danno per l’erario, atteso che le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dall’art. 75 del TUIR, sono vincolanti sia per il contribuente che per l’erario e, per la loro inderogabilità, non richiedono né legittimano un qualche giudizio sull’esistenza o meno di un danno erariale, che è del tutto irrilevante.

In caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera, l’IVA che l’apparente cessionario assume di avere pagato al preteso cedente per l’operazione soggettivamente inesistente, in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale, soggetto neppure assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, proprio per il fatto che l’alterazione del meccanismo di riscossione della predetta imposta, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista.

In ordine ai rapporti tra giudicato penale e giudizio tributario vige il principio secondo cui nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’art. 7, quarto comma, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna; ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario.

In ipotesi di fatture che l’Ufficio finanziario ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti o che, ancorché effettivamente poste in essere, si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l’Ufficio medesimo ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe, e tale prova può essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede per l’IVA l’art. 54, secondo comma, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.

 [Corte di Cassazione, sez. trib. (Pres. Valitutti, rel. Conti), 28 agosto 2013, sent. n. 19759, ric. Agenzia delle entrate c. Bollanti Veicoli Sanitari s.r.l.]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. La Guardia di Finanza, nel corso di una verifica fiscale compiuta sulla società Bollanti Veicoli sanitari srl relativa all’anno 2001, contestava alla società contribuente la deduzione di costi relativi all’anno 2000, la contabilizzazione di sei fatture emesse dalla Quattro Group srl, dalle quali risultavano prestazioni di servizi rese in violazione del divieto di interposizione di manodopera e la contabilizzazione fra i costi non imponibili di operazioni effettuate nei confronti della città del Vaticano, in assenza del visto di entrata da parte delle autorità vaticane.

2. Sulla base di tali elementi veniva emesso un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate Ufficio di Latina recuperava a tassazione l’IVA relativa alle fatture indebitamente detratte ed alle operazioni condotte con la Città del Vaticano, nonché l’importo relativo alla ritenuta di acconto sul reddito da lavoro dipendente indebitamente omessa, pure rideterminando il reddito escludendo i costi non di competenza.

3. La società contribuente impugnava l’avviso di accertamento innanzi alla CTP di Latina che rigettava il ricorso.

4. Con sentenza pubblicata il 28 giugno 2007 la CTR del Lazio, sez. staccata di Latina, in riforma della sentenza resa dalla CTP, accoglieva l’appello proposto dalla società contribuente, compensando integralmente le spese.

4.1 Il giudice di appello, pur ritenendo infondata la dedotta violazione dell’art. 7 della legge n. 212/2000, in ragione della precedente notifica del processo verbale di constatazione alla società contribuente, riteneva che l’errata contabilizzazione dei costi (operata nell’anno 2001 piuttosto che nel 2000) non aveva influito sui due periodi di imposta, costituendo mera violazione formale senza alcun debito di imposta. Ragion per cui la stessa non era direttamente sanzionabile. Riteneva, inoltre, corretto il rilievo dell’appellante in ordine alla ritenuta interposizione di manodopera.

Rilevava che la violazione della disciplina normativa ritenuta dall’Ufficio non era fondata né in fatto né in diritto e che, in ogni caso, essendo stati effettuati regolarmente i versamenti previdenziali e fiscali, non poteva sostenersi l’ulteriore versamento delle ritenute alla fonte a carico della contribuente, tenuto anche conto del fatto che il Tribunale di Latina aveva assolto i Signori B. “perché il fatto non sussiste” con sentenza del 19.12.2006.

4.2 Precisava, infine, rispetto al terzo rilievo esposto nell’avviso di accertamento, che la contribuente aveva documentato la presentazione della dichiarazione di integrazione e definizione degli anni pregressi.

5. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi. La società contribuente ha depositato controricorso e memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 6. Con il primo motivo l’Agenzia ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 109 TUIR, nonché dell’art. 10, comma 3, della legge n. 212/2000, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.

Lamenta che la CTR, nel considerare di natura meramente formale la contabilizzazione dei costi nell’anno 2001 anziché nell’anno 2000, aveva violato la disposizione sopra indicata del TUIR, come già questa Corte aveva altra volte avuto modo di chiarire.

7. Con il secondo motivo l’Agenzia ha dedotto il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto controverso, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

7.1 La CTR, nell’accogliere l’appello proposto dalla società contribuente, si era limitata ad affermare che la violazione del divieto di interposizione della manodopera posta a base dell’accertamento non sembrava fondata né in fatto né in diritto, valorizzando il pagamento dei versamenti previdenziali e fiscali.

7.2 Così facendo, il giudice di appello aveva dato rilievo a circostanze di fatto irrilevanti rispetto alla contestazione. Quanto al primo aspetto, infatti, la CTR aveva tralasciato di esaminare gli elementi indicati dall’ufficio e contenuti nel processo verbale di constatazione a sostegno del divieto di interposizione della manodopera sancito dall’art. 1 della legge n. 1369/2003.

7.3 Aggiungeva che l’assolvimento degli oneri previdenziali e fiscali nei confronti dei lavoratori forniti alla società contribuente, al quale aveva fatto esplicito riferimento il giudice di appello, era privo di pregio, essendo compatibile il divieto di interposizione di manodopera con l’ipotesi di regolarità fiscale, detto divieto riferendosi tanto al caso di appalto simulato, in cui i lavoratori risultavano fittiziamente come dipendenti dell’appaltatore, che all’ipotesi in cui il servizio reso aveva ad oggetto la mera prestazione di manodopera sotto la direzione del committente e senza assunzione di rischio da parte dell’appaltatore.

7.4 Peraltro, la motivazione si palesava oltremodo lacunosa in ordine al profilo relativo alla indetraibilità degli apparenti corrispettivi indicati nelle fatture emesse dalla Quattro Group srl.

Infatti, gli importi fatturati erano risultati di importo equivalente alle retribuzioni spettanti ai dipendenti ed ai relativi oneri previdenziali; ciò che impediva di considerarli quali veri corrispettivi.

8. Con il terzo motivo l’Agenzia ha dedotto il vizio di motivazione insufficiente su un punto decisivo della controversia, avendo la CTR posto a giustificazione del proprio assunto l’assoluzione nel giudizio penale dei Signori B. perché il fatto non sussiste, senza considerare che l’assoluzione in sede penale del contribuente non impedisce al giudice tributario un’autonoma valutazione ed impone comunque a quel giudice un vaglio critico degli elementi acclarati alla luce del particolare sistema probatorio del giudizio tributario.

Nel caso di specie, la CTR, tralasciando di ponderare gli elementi probatori offerti dall’ufficio a sostegno della pretesa fiscale, aveva quindi dato luogo ad una motivazione insufficiente.

9. Con il quarto motivo l’Agenzia ha dedotto il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.

Lamenta che la motivazione della CTR in ordine alle operazioni effettuate con la Città del Vaticano era contraddittoria, non comprendendosi perché la dichiarazione integrativa proposta con riguardo ad anni pregressi potesse giovare in relazione alla controversia esaminata.

10. La società contribuente ha dedotto, in linea preliminare, l’assenza di jus postulandi dell’Avvocatura dello Stato nei confronti dell’Agenzia delle Entrate ed in via graduata l’inammissibilità ed infondatezza delle censure – risultando la decisione correttamente motivata – espressamente formulando, a sostegno delle ragioni esposta nel corso del giudizio, richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in ordine alla compatibilità del sistema sanzionatorio previsto dalla legge n. 1369/1960 con i principi comunitari dopo che la Corte di Giustizia aveva già dichiarato l’incompatibilità della normativa interna – peraltro sostituita dalla legge n. 276/2003, entrata in vigore in epoca antecedente al p.v.c. del 18 marzo 2003 reso dalla Guardia di Finanza. In sede di memoria, inoltre, la società controricorrente ha dedotto il giudicato esterno sull’insussistenza del divieto di intermediazione in parte qua, in relazione a quanto deciso dal Tribunale del lavoro di Latina.

11. Occorre anzitutto sgombrare il campo dalla prospettata inammissibilità del ricorso per Cassazione per difetto di jus postulandi da parte dell’Avvocatura dello Stato, essendo ormai granitica la giurisprudenza di questa Corte nel senso esattamente opposto alle argomentazioni esposte dalla società controricorrente, ritenendosi che ove l’Agenzia delle entrate si avvalga, nel giudizio di cassazione, del ministero dell’avvocatura dello Stato, non è tenuta a conferire a quest’ultima una procura alle liti, essendo applicabile a tale ipotesi la disposizione dell’art. 1, comma 2, del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, secondo il quale gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni e non hanno bisogno di mandato – cfr. Cass. SS.UU. 23020/05 n. 14785 del 5/7/2011 (1); Cass. n. 3427 del 12/2/2010 (2).

11.1 Parimenti ininfluente pare, ai fini del presente procedimento, la sentenza del Tribunale di Latina che, non essendo stata resa nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, non può essere proficuamente richiamata per inferirne l’irretrattabilità delle statuizioni ivi contenute – cfr. Cass. n. 23568/2008– non risultando nemmeno certo il passaggio in giudicato della stessa malgrado la produzione, in seno all’udienza, di altra decisione, pur’essa sprovvista di attestazione del passaggio in giudicato.

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12. Ciò posto, il primo motivo di ricorso è fondato.

12.1 Premesso che, al di là della formulazione letterale del quesito, la parte ricorrente ha prospettato un’unica doglianza, volta a verificare la correttezza dell’operato del giudice di appello in ordine alla contabilizzazione a posteriori dei costi; ragion per cui i rilievi difensivi sul punto esposti dalla società non colgono nel segno.

12.2 Quanto al merito della censura, questa Corte ha di recente ribadito che in tema di reddito d’impresa, non è consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, neppure al dichiarato fine di bilanciare componenti attivi e passivi del reddito e pur in assenza della configurabilità di un danno per l’erario, atteso che le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dall’art. 75 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, sono vincolanti sia per il contribuente che per l’erario e, per la loro inderogabilità, non richiedono né legittimano un qualche giudizio sull’esistenza o meno di un danno erariale, per modo che appare decisamente irrilevante l’eventuale (anche effettiva) insussistenza dello stesso nel caso concreto – cfr. Cass. 1648/13 (3).

12.3 In definitiva, nessuna interpretazione della disciplina normativa in tema di imputazione delle voci reddituali (siano esse positive che negative) richiede e, quindi, legittima un qualche giudizio sull’esistenza o meno di un danno erariale, per modo che appare decisamente irrilevante l’eventuale (anche effettiva) insussistenza dello stesso nel caso concreto, ulteriormente specificandosi che il pregiudizio all’erario sembra direttamente riconducibile, nel caso qui in esame, al mancato versamento alla scadenza della maggiore pretesa fiscale per un determinato anno (2000) come emergente dalla rettifica dell’Ufficio, dovendosi considerare quest’ultima con esclusivo riferimento a ciascun anno d’imposta.

12.4 Tanto è sufficiente per escludere il carattere meramente formale della violazione rapportata alla non tempestiva contabilizzazione dei costi. Ha dunque errato la CTR nel ritenere irrilevante la contabilizzazione dei costi nell’anno 2001.

12.5 Ed è appena il caso di evidenziare la totale irrilevanza, innanzi a questa Corte, degli elementi fattuali esposti dalla società controricorrente, i quali non trovano conferma nella decisione impugnata né risultano essere stati ritualmente proposti nel giudizio di merito e, come tali, non possono passare al vaglio di questa Corte.

13. Passando all’esame del secondo e del terzo motivo che, attenendo a diversi profili del vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione, meritano un esame congiunto. Tali censure, sono fondate nei limiti di cui in seguito specificati. Va detto, anzitutto, che entrambi i motivi sono stati virtualmente esposti, avendo individuato nel cd. momento di sintesi il fatto controverso e le lacune motivazionali prospettate, facendo tra l’altro riferimento agli elementi costitutivi del divieto previsti dalla L. n. 1369 del 1960.

13.1 Giova infatti rammentare che l’art. 1, commi 1, 2 e 3, della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, prevede, anzitutto, il divieto per l’imprenditore di affidare in appalto o in subappalto o in qualsiasi altra forma, anche a società cooperative, l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante impiego di manodopera assunta e retribuita dall’appaltatore o dall’intermediario, qualunque sia la natura dell’opera o del servizio cui le prestazioni si riferiscono.

La medesima disposizione sancisce, ancora, il divieto per l’imprenditore di affidare ad intermediari, siano questi dipendenti, terzi o società anche se cooperative, lavori da eseguirsi a cottimo da prestatori di opere assunti e retribuiti da tali intermediari, chiarendo che è considerato appalto di mere prestazioni di lavoro ogni forma di appalto o subappalto, anche per esecuzione di opere o di servizi, ove l’appaltatore impieghi capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso venga corrisposto un compenso all’appaltante. Il comma 3 appena ricordato si occupa specificamente dell’ipotesi di interposizione vietata (Cass., sez. lav., 13 gennaio 1988, n. 151; Cass., S.U., 19 ottobre 1990, n. 10183) che, mascherata con le forme di uno “pseudo appalto” di opere o servizi, si caratterizza per il difetto di imprenditorialità della prestazione, inquadrandosi così nella mera somministrazione di manodopera vietata. È poi il comma quinto dell’art. 1, a prevedere che “i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.

13.2 Occorre ancora sottolineare, anche al fine di dare risposta ad un rilievo ventilato dalla società controricorrente che la legge n. 1369/1960 è stata abrogata dall’art. 85, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 276/2003, che ha tuttavia previsto tale effetto “dalla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo” – pubblicato sulla GU n. 235 del 9 ottobre 2003 – ed è quindi entrato in vigore il 23 ottobre successivo secondo l’ordinario periodo di vacatio.

Sulla base di tale quadro normativo di riferimento – v., del resto, Cass. n. 16146/2004; Cass. n. 21818/2006 e Cass. S.U. n. 22916/2006 – appare dunque sicuramente rilevante nel caso di specie l’art. 1 della legge n. 1369/1960, ancora in vigore rispetto alle vicende oggetto degli avvisi di accertamento relativi all’anno di imposta 2001.

13.4 Ciò posto, giova rammentare che questa Corte ha già avuto modo di affermare che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dall’art. 1 della legge n. 1369/1960, opera nel caso in cui l’appalto abbia ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa, attribuendo all’appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto in assenza di una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo – cfr. Cass. n. 19920/2011, Cass. n. 7898/2011.

13.5 Orbene, appaiono evidenti le gravi lacune motivazionali della sentenza impugnata, laddove sono stati totalmente pretermessi, nell’indagine compiuta dalla CTR, gli elementi, tutti dotati del carattere della decisività, addotti dall’Ufficio per giustificare l’esistenza di un’intermediazione di manodopera quali l’essere la società Quattro Group amministrata da B.G., la direzione del personale di detta società da parte della Bollanti Veicoli – confermato dalle dichiarazioni rese dagli stessi dipendenti – l’utilizzazione, da parte del personale della Quattro Group dei beni strumentali della società Bollanti in assenza di beni strumentali da parte della Quattro s.r.l.

13.6 Elementi ai quali si aggiungeva il fatto che i pagamenti effettuati dalla società Bollanti Veicoli alla Quattro Group erano risultati pari a quanto occorreva alla Quattro Group per il pagamento degli stipendi e degli altri oneri previdenziali e fiscali.

13.7 La lacunosità dell’indagine compiuta dalla CTR emerge, per altro verso, dalla valorizzazione, operata dal giudice di appello, del riconosciuto versamento degli oneri appena sopra ricordati in favore dei lavoratori da parte della Quattro Group, apparendo evidente l’irrilevanza di siffatta circostanza al fine di escludere l’esistenza di un’intermediazione vietata dall’art. 1 L. cit.

13.8 Anzi, non è superfluo rammentare come questa Corte abbia di recente statuito che nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono – prima dell’intervenuta abrogazione ad opera dell’art. 85, comma 1, lett. c), del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 – i primi tre commi dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione dell’u.c., stesso art. – secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni – comportano che solo sull’appaltante gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali, non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell’appaltatore in virtù dell’apparenza del diritto e dell’apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi – cfr. Cass. n. 3795 del 15/02/2013 (4).

Si è, ancora, precisato che in caso di accertamento del carattere fraudolento dell’intermediazione di manodopera l’IVA che (l’apparente) cessionario assume di avere pagato al preteso cedente per l’operazione soggettivamente inesistente – in quanto corrisposta ad un soggetto che non era legittimato ad operare la rivalsa in ragione del divieto di intermediazione e del carattere fraudolento dell’operazione negoziale – neppure assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta – non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972 proprio per il fatto che l’alterazione del meccanismo di riscossione dell’imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell’ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell’imposta sulle operazioni passive dell’imprenditore o del professionista – cfr. Cass. n. 23075/12 (5), cit.

13.9 In definitiva, la CTR avrebbe dovuto esaminare i singoli elementi prospettati dall’Ufficio – che ad una valutazione ex ante appaiono decisivi ai fini della controversia – e la natura delle prestazioni in concreto svolte, al fine di valutare la loro idoneità – o inidoneità – a conclamare l’ipotesi ricostruttiva posta a base dell’avviso di accertamento, tenendo conto del fatto che ove fosse risultato che il personale dell’appaltante impartiva disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, lo stesso poteva costituire uno degli indici dell’accordo fraudolento, sempreché risulti provato che dette disposizioni sono riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro anche in relazione alle effettive modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative – cfr. Cass. n. 15615/2011, Cass. n. 12201/2011.

13.10 Ne consegue che l’operato del giudice di appello appare gravemente carente, non consentendo di cogliere il fondamento sul quale si è basata l’affermazione dell’assenza di un’intermediazione di manodopera, se solo si consideri che l’adempimento degli oneri retributivi e previdenziali da parte del soggetto committente non fa venire meno, in astratto, la possibilità che il personale impiegato sia effettivamente al servizio del committente.

13.11 Il giudizio critico appena espresso si estende, poi, all’ulteriore riferimento, operato dalla CTR, all’assoluzione dei B. nel procedimento penale definitosi a loro carico, se solo si consideri che l’assoluzione dei suddetti, per come apoditticamente richiamato dalla CTR, non poteva costituire, da solo, elemento idoneo a giustificare in maniera logica l’illogicità della pretesa fiscale, l’assenza dei presupposti che potevano giustificare, ai fini fiscali, la ripresa fiscale per le ritenute di acconto dovute dal datore di lavoro effettivo rispetto alle retribuzioni dei lavori impiegati.

13.12 È noto, del resto, l’orientamento di questa Corte in ordine ai rapporti fra giudicato penale e giudizio tributario – per tutti, v., di recente, Cass. n. 8129 del 23/5/2012 (6) – ove si è chiarito che nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorché i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in materia di prova posti dall’art. 7, comma 4, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sé inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna.

13.13 Ne consegue che l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale, ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario (conf. Cass. n. 4924 del 27/2/2013 (7)). Ed allora, non par dubbio che lo scarno riferimento, operato nella sentenza impugnata, all’assoluzione dei B. non poteva in alcun modo costituire elemento idoneo a suffragare l’assenza della interposizione.

13.14 Anche sotto tale profilo la motivazione è, per l’effetto, gravemente carente.

13.15 Carenza che, d’altra parte, si appalesa ulteriormente evidente se si considera che la pretesa fiscale riguardava, altresì, la ritenuta indetraibilità delle somme fatturate dalle società Quattro.

13.16 Ed infatti, per giungere all’annullamento della pretesa fiscale la contribuente avrebbe dovuto adeguatamente giustificare le ragioni che rendevano illegittimo l’operato dell’Ufficio, nella parte in cui aveva ritenuto la non assoggettabilità all’IVA delle somme portate dalle fatture, solo apparentemente costituenti “corrispettivo” delle prestazioni ma, in effetti, dissimulanti il pagamento degli oneri retributivi e previdenziali e fiscali del personale che, nella prospettiva dell’ufficio, era alle dipendenze della società contribuente.

13.17 L’assenza di ogni motivazione in ordine a tale aspetto, evidentemente correlata alla ritenuta esclusione dell’intermediazione alla quale la CTR è giunta attraverso una lacunosa ed incongrua motivazione si riverbera, pertanto, anche sulla questione appena esposta.

13.18 Appare infatti evidente che, in caso di ritenuta sussistenza del divieto di interposizione di manodopera, le prestazioni formalmente fatturate dalla Quattro Group finirebbero con l’assumere il carattere delle operazioni oggettivamente inesistenti, con tutte le conseguenze in tema di detraibilità, sulle quali più volte questa Corte ha avuto occasione di statuire, tenendo conto della giurisprudenza resa dalla Corte di Giustizia – per cui v., fra le altre, Cass. n. 9108 del 6/6/2012 (8).

13.19 Si è, sul punto, già avuto modo di chiarire che in ipotesi di fatture che l’Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che – ancorché effettivamente poste in essere – si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco l’amministrazione stessa ha l’onere di provare che l’operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che essa sottende un’operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. Si è pure aggiunto che tale prova può essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l’IVA, l’art. 54, comma 2, del D.P.R. n. 633/1972 (cfr. Cass. n. 23075/2012; Cass. 21953/07 (9); Cass. 9108/12, Cass. 15741/12 (10)).

13.20 Anche sotto tale profilo, pertanto, la motivazione della decisione appare carente.

13.21 Né a paralizzare i superiori argomenti risulta idonea la questione, prospettata in sede di controricorso dalla società contribuente, in ordine alla compatibilità della disciplina interna in tema di divieto di intermediazione con i principi espressi dalla Corte di Giustizia nelle sentenze dell’11 dicembre 1997 (resa nella causa C-55/96 (11)) e dell’8 giugno 2000 (resa nella causa C-258/1998 (12)).

13.22 Sul punto, questa Corte ha già ritenuto – sent. n. 10978/2002– che il divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni lavorative, stabilito dall’art. 1 della L. n. 1369 del 1960, non confligge con l’ordinamento comunitario, quale risulta a seguito della sentenza 11 dicembre 1997 della Corte di Giustizia delle Comunità Europee; esso infatti non attiene, almeno in via esclusiva, al monopolio pubblico del collocamento, ma persegue lo scopo di garantire, con la effettività del rapporto di lavoro, una più forte tutela del diritto al lavoro dei lavoratori assunti dall’intermediario, impedendo, o, quantomeno, ostacolando elusioni fraudolente della disciplina posta a garanzia del lavoratore. Ciò che rende non pertinente, dopo l’individuazione della portata della sentenza della Corte di Giustizia operata da questa Corte, la richiesta di rinvio pregiudiziale, in assenza di elementi che possono ingenerare il dubbio di incompatibilità del quadro normativo interno con quello comunitario.

13.23 Peraltro, nemmeno può ritenersi che la società contribuente, sulla quale incombeva il relativo onere, abbia allegato e dimostrato la ricorrenza “cumulativa” dei presupposti – incapacità palese degli uffici pubblici di collocamento di soddisfare, per tutti i tipi di attività, la domanda esistente sul mercato del lavoro; impossibilità dell’espletamento delle attività di collocamento da parte delle imprese private per effetto di disposizioni di legge che vietano tali attività; estensione delle attività di collocamento a cittadini o territori di altri Stati membri – che questa Corte – cfr. Cass. n. 8530/2006 – ha in altra occasione ritenuto necessari per ritenere che il divieto di intermediazione previsto dalla L. n. 1369 del 1960 fosse in contrasto con l’ordinamento comunitario.

14. Parimenti fondato risulta il quarto motivo, ritualmente esposto e coerente con i requisiti di cui all’art. 366-bis c.p.c.

14.1 Ed invero, rispetto alla contestazione, prospettata nell’avviso di accertamento, in ordine alla contabilizzazione, come voci non imponibili, di operazioni effettuate nei confronti della Città del Vaticano in assenza della esibizione del visto di entrata da parte delle autorità vaticane, la CTR con la motivazione già ricordata, ha ritenuto di accogliere il rilievo del contribuente valorizzando una dichiarazione di integrazione e definizione anni pregressi (c.d. integrativa speciale).

14.2 Orbene, il percorso motivazionale esposto dalla CTR risulta gravemente lacunoso e sfornito di quel minimo di rigore logico che deve sorreggere il ragionamento del giudice sottoposto al vaglio di congruità di questa Corte.

14.3 Non è dato, infatti comprendere come il giudice di appello abbia potuto valorizzare, ai fini della dimostrazione dell’esportazione dei beni ceduti alla Città del Vaticano, al quale sarebbe seguito il regime di non imponibilità, l’esistenza di documentazione non relative alle operazioni in contestazione.

14.4 Anche sotto tale profilo la sentenza impugnata merita di essere cassata.

15. Resta solo da evidenziare che le questioni sollevate dalla società controricorrente a pag. 19 – calendate sub ottavo motivo – del controricorso non possono passare al vaglio della Corte, non avendo la suddetta nemmeno indicato se e quando le stesse sono state (ritualmente) prospettate nel corso del procedimento di merito ed in assenza di ricorso incidentale da parte della società contribuente.

16. Quanto alla questione esposta a pag. 26 – calendata sub nono motivo – la stessa non può passare al vaglio di questa Corte, risultando demandata al giudice del rinvio.

17. In conclusione, in accoglimento di tutti i motivi di ricorsi, la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della CTR del Lazio – sez. Latina – che si conformerà a quanto sopra esposto, provvedendo altresì sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.(Omissis).

(1) In Boll. Trib. On-line.

(2) In Boll. Trib. On-line.

(3) Cass. 24 gennaio 2013, n. 1648, in Boll. Trib. On-line.

(4) In Boll. Trib. On-line.

(5) Cass. 14 dicembre 2012, n. 23075, in Boll. Trib. On-line.

(6) In Boll. Trib. On-line.

(7) In Boll. Trib. On-line.

(8) In Boll. Trib. On-line.

(9) Cass. 19 ottobre 2007, n. 21953, in Boll. Trib., 2007, 1816.

(10) Cass. 19 settembre 2012, n. 15741, in Boll. Trib. On-line.

(11) In Boll. Trib. On-line.

(12) In Boll. Trib. On-line.