28 Novembre, 2014

L’Europa dei lumi attua la rivoluzione copernicana nel sistema del diritto. Si levano voci imperiose contro l’asservimento della giustizia all’opinio doctorum e si auspica una codificazione a tutto campo.

La Rivoluzione francese, conseguenza logica e necessaria dell’Illuminismo, rovescia l’ancien régime, abolendo i privilegi del clero e della nobiltà fra i quali, di massimo rilievo, l’esenzione fiscale. L’aristocrazia peraltro contribuiva alle necessità dello Stato non con i soldi ma col sangue, atteso che essa costituiva il nerbo dell’organizzazione militare dello Stato.

Per vero non consta che in ambito illuminista il profilo della contribuzione tributaria abbia riscosso particolare attenzione da parte dei filosofi-giuristi, essendo la loro attenzione precipuamente concentrata su problemi cardinali quali la pena di morte e la tortura. Vale in ogni caso lo sforzo di indagare nelle loro opere per individuare gli eventuali passaggi che ineriscono l’argomento.

E iniziamo dal patriarca (1). Charles Louis de Secondat, sieur de la Bréde et baron de Montesquieu nella seconda parte, libro tredicesimo, del suo opus magnum tratta del «rapporto che l’imposizione dei tributi e l’entità delle entrate pubbliche hanno con la libertà» il che, già in rubrica, richiama l’elegante perorazione che autorevole dottrina (2) ha recentemente espresso in ordine a dissennate tesi sanculotte che propongono una tassazione ad oltranza. E già nell’incipit l’Autore osserva che «naturalmente non è lecito togliere al popolo quello di cui ha reale bisogno per gli immaginari bisogni dello Stato». È probabile che il Robespierre tributario di cui si è fatto cenno nel richiamato contributo non ritenga utile soffermarsi su idee e concetti vecchi di oltre due secoli e mezzo ma, ad avviso di chi scrive, fa male perché le ventate demagogiche passano mentre la saggezza rimane. E ancora «non vi è nulla che la saggezza e la prudenza debbano regolare più che la parte che si toglie e quella che si lascia ai sudditi».

Sembra quasi che il president à mortier del tribunale di Bordeaux fosse dotato di poteri di antiveggenza e, in ragione di ciò, fermamente determinato a scagliare i propri fulmini contro i malaccorti paladini della tassazione coûte que coûte. Infatti la rubrica del secondo capitolo del richiamato tredicesimo libro suona categorica: «è ragionare male dire che l’entità dei tributi è buona di per sé» e il passo si conclude con la pertinente considerazione «ma se un potere arbitrario porta via le ricompense della natura subentra il disgusto per il lavoro, e sembra che l’inazione sia l’unico bene».

Certo Montesquieu, uomo del suo tempo, considera criterio normale dell’imposizione la proporzionalità. Va d’altronde osservato che in Italia, patria dell’ingegnere Quintino Sella, cui la tradizione attribuisce l’“invenzione” della progressività impositiva, tale principio assurse a canone normativo solo dal 1° gennaio 1948 e, quantomeno dalla riforma del 1971, esso inerisce un solo tributo il che peraltro, ad avviso dei giudici della Consulta, costituisce una sufficiente adesione al precetto costituzionale.

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La formula definitoria adottata dall’Immortale Presidente per individuare le entrate dello Stato è la seguente: «le entrate dello Stato sono la parte che ciascun cittadino dà di ciò che possiede per avere la sicurezza del restante, o per goderne piacevolmente». (Si respira aria di contratto sociale in questa affermazione) e prosegue «per fissare bene queste entrate, bisogna aver riguardo e alle necessità dello Stato e alle necessità dei cittadini». Decomponendo questo passo si rinvengono, accanto a concetti obsoleti quale quello del profilo patrimoniale più che reddituale della base imponibile, probabili spunti di attualità nell’enunciazione dei bisogni dello Stato (e già questa formula sembra superare il desueto concetto del tributo come corrispettivo delle prestazioni statuali). Sicuramente limitativo l’ancoraggio giustificativo del pagamento delle imposte all’ottenimento della sicurezza, quantomeno ove si intenda leggere tale sostantivo quale sinonimo di garanzia dell’ordine pubblico ossia, in definitiva, della pax publica.

Entrando in medias res, nel capitolo secondo scaturisce una proposta organica: «si possa mettere delle imposte sulle persone, sulle terre e sulle merci». Senza cadere nel banale gioco di attribuire a tale categorizzazione il nomen iuris di specifici tributi oggi da noi vigenti, appare all’evidenza una tal quale visione dégagée del sistema impositivo.

Nel 1654 viene introdotta in Francia l’imposta di registro. A Montesquieu essa non piaceva e la definisce, nel titolo del nono capitolo, «un cattivo genere di imposta», propendendo per l’imposta di bollo sulla scorta dell’uso della carta bollata, iniziato in Francia nel 1674. È stato tra l’altro osservato che la seconda imposta non sostituisce la prima, ma si cumula con essa.

Al capitolo undicesimo tratta «delle pene fiscali» ossia di quelle che noi definiamo sanzioni (amministrative) tributarie o sanzioni tributarie extrapenali. Vi si rintracciano interessanti emersioni di istituti e di figure. Si rammenta che «si confiscano le merci, qualche volta perfino i vascelli e le vetture» ma si sottolinea la nota che quantomeno nei paesi d’Europa «il mercante ha dei giudici che possono difenderlo dagli oppressori». Si tratta forse di una preveggente anticipazione delle nostre giustamente apprezzate Commissioni tributarie? Si accenna alle “false dichiarazioni” che peraltro, once upon a time, non comportavano né confisca né aumento di dazi. Si scopre, al capitolo diciannovesimo, che l’accisa era in vigore già in Inghilterra.

Il tredicesimo libro si conclude con una severa requisitoria contro la figura degli appaltatori delle imposte, talmente invisi che la leggenda ha identificato nell’homme a la masque de fer Nicolas Fouquet, sovraintendente alle finanze sotto Luigi XIV.

Voltaire, in una sorta di decalogo del legislatore, afferma «le imposte siano sempre proporzionali» (3) e l’aspirazione alla proporzionalità ci può fare immaginare quali dovevano essere in allora i criteri informatori del sistema tributario. Ovviamente a noi oggi tale soluzione appare incongrua ma, a parziale scarico di Francoise Marie Arouet, va detto che, rispetto al turpe sistema impositivo vigente sotto l’ancien régime, costellato da esenzioni a favore di intere categorie di soggetti, l’idea espressa attraverso la critica alle più evidenti sacche di non contribuzione di un’imposizione generalizzata a tutti i cittadini, poteva comunque rappresentare in quel contesto storico-politico, un progresso.

Il trattato di Beccaria (4) risulta tutto mirato a quello che oggi con discutibile espressione lessicale si definisce “penale di sangue” e quindi la materia tributaria, anche nel suo eventuale versante antigiuridico, non appare certo privilegiata nell’economia dell’opera. D’altronde, a differenza ad esempio di Montesquieu o di Filangieri, il milanese non intendeva ridefinire i limiti esterni del sistema legislativo ma, molto più puntualmente, attirare l’attenzione sugli aspetti più repellenti dell’ordinamento normativo nella sua ricaduta in termini sanzionatori. Ai fini della presente indagine, comunque, due sono i lemmi che, quantomeno nella loro esteriorità, potrebbero risultare pertinenti: “contrabbandi” e “del fisco”.

Dopo aver precisato (5) che «il contrabbando è un vero delitto che offende il sovrano e la nazione», realisticamente nota come «questo delitto nasce dalla legge medesima (6); poiché crescendo la gabella cresce sempre il vantaggio». L’ovvietà della constatazione nulla toglie alla sua concretezza. Ipotizza come sanzione elettiva la confisca della merce contrabbandata e, in taluni casi di particolare gravità – peraltro non specificamente precisati – la reclusione.

Il quarantesimo capitolo (7) è rubricato “Del fisco”. Si annida peraltro qui un misunderstanding semantico (ci si rammenterà che un tempo a tale sostantivo corrispondeva l’aerarium principis). Scrive in proposito l’Autore: «Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe: gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lucro … L’oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l’esattore di queste pene) ed il reo … Il giudice era dunque un avvocato del fisco, piuttosto che un indifferente ricercatore del vero: un agente dell’erario fiscale anzi che il protettore e il ministro delle leggi». Di tutto questo discorso, obsoleto atteso il radicale mutamento del panorama ivi descritto, solo la considerazione conclusiva sul dovere di imparzialità del magistrato contiene tutt’ora un rilevante profilo di validità.

L’Europa dei lumi produce a Napoli pur «così politicamente backword» secondo Cordero (8) «uno studioso dalle insegne normanne». È Gaetano Filangieri, probabilmente la più lucida testa pensante, con Filippo Renazzi nel panorama giuridico italiano del periodo illuministico (ma anche dopo, fino alla comparsa di Carrara e di Carmignani). Nel suo trattato sulla scienza della legislazione (9) sfiora appena la materia tributaria ma raggiunge un punto alto nella disciplina giuridica. Scavalcando integralmente ex ante l’impianto normativo inserito nello Statuto albertino (10), il principe di Satriano con una secca battuta individua il fondamento del prelievo tributario nell’obbligo dei consociati di concorrere alle spese pubbliche come enunciato all’art. 53 Cost., facendo emergere quel profilo di solidarietà sociale che la dottrina unanimemente legge come presupposto giuspositivo dell’obbligo tributario (11).

In realtà, già Montesquieu, come sopra rilevato, aveva ancorato il principio contributivo alle esigenze dello Stato, ma il napoletano lo ha scolpito in termini così perentori da farlo assurgere a regola di diritto.

La disciplina inerente il prelievo tributario è sostanzialmente coeva all’organizzazione politica di raggruppamenti umani, statuali o civici che fossero, ossia da quando il nucleo – familia, gens, tribù – si era dilatato in misura tale da non potersi più autofinanziare, ed ha dato talora luogo ad espressioni divenute emblematiche (12).

Vari i metodi, sistemi e mezzi per produrre il gettito e per alimentarlo, taluni brutali, altri più sofisticati, forse anche astuti e brillanti. Rimane il dato che solo con l’Illuminismo sembrano trovare spazio, anche nel sistema tributario, i valori e i principi che noi oggi consideriamo scontati in quanto imprescindibili.

Dott. Federico Bellini

(1) I brani citati sono tratti da montesquieu, Lo spirito delle leggi, traduzione italiana di B. Boffito Serra, Milano, Rizzoli, 1967, 2 voll.

(2) G. Gaffuri, Ancora dell’attitudine alla contribuzione, in Rass. trib., 2013, 975 ss.

(3) F.M. Voltaire, Dizionario filosofico, trad. it. di D. Lo Re, Milano, Rizzoli, 1966, 227.

(4) C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Rizzoli, 1950.

(5) C. Beccaria, op. cit., 73.

(6) L’osservazione rammenta talune invettive di Saul di Tarso contro la Legge mosaica.

(7) C. Beccaria, op. cit., 68 ss.

(8) F. Cordero, Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Bari-Roma, Laterza, 1986, 523.

(9) G. Filangieri, La scienza della legislazione, Venezia, Vitto, 1782.

(10) L’art. 25 dello Statuto albertino stabiliva che «Essi [ossia i cittadini, N.d.a.] contribuiscono indistintamente nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato» impostando così il prelievo tributario sul duplice, inaccoglibile, binario della patrimonialità quale presupposto impositivo e della proporzionalità, iniqua per i redditi più modesti.

(11) G. Filangieri, op. cit., 281, secondo cui «La misura delle contribuzioni sono i bisogni dello Stato».

(12) Si consideri, ad esempio, la risposta del Profeta di Nazareth sul tributo a Cesare (MT. 22, 15 ssgg.); il vespasianeo «non olet» o il lemma nel Dizionario delle idee correnti di Flaubert «Dazio: frodarlo».