RITENUTO IN FATTO – 1. Con sentenza del Tribunale di Milano in data 14.1.2014 i sopra indicati imputati, nelle vesti e con i ruoli dettagliatamente descritti nei capi di imputazione allegati (quali amministratori di diritto o di fatto delle numerose società ivi indicate), sono stati ritenuti colpevoli dei reati di cui all’art. 416 commi 1 e 2 c.p. (associazione per delinquere volta a commettere più delitti di emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, occultamento e/o distruzione delle scritture contabili, omessa dichiarazione e di truffa aggravata in danno dell’Erario: capo 1), dei reati fiscali di cui agli artt. 2, 5, 8 e 10 D.Lvo n. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti, omessa presentazione di dichiarazione, emissione di fatture per operazioni inesistenti, occultamento o distruzione di scritture contabili: capi 2bis, 4, 5, 7, 8, 13, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 28, 28bis, 33, 34, 36, 37, 39, 40, 42, 44, 48) e dei reati di cui agli artt. 61, n. 7, 640 comma 2 c.p. (truffe aggravate ai danni dello Stato (capi 32, 35, 38, 41, 43) loro rispettivamente ascritti e, esclusa l’aggravante contestata al capo 1 di imputazione nonché l’aggravante di cui all’art. 4 legge 146/2006, esclusa quanto a B.P. la contestata recidiva, unificati i reati per ciascun imputato sotto il vincolo della continuazione condannati.
1. D.B.C. alla pena di anni otto di reclusione, per:
– reato associativo di cui al capo 1) (art. 416 comma 1 c.p., nella veste di promotore e organizzatore);
– reati fiscali di cui ai capi 2bis), 4), 5), 7), 8), 33), 34), 36), 37), 39), 40), 42), 44);
– truffe aggravate contestate ai capi 32), 35), 38), 41), 43);
2. S.M.A. alla pena di anni otto e mesi due di reclusione per:
– reato associativo di cui al capo 1) (art. 416 comma 1 c.p. nella veste di promotore e organizzatore);
– reati fiscali di cui ai capi 2bis), 4), 5), 7) 8), 24, 33), 34), 36), 37), 39), 40), 42), 44
– truffe aggravate contestate ai capi 32), 35), 38), 41), 43);
3. S.P. alla pena di anni due e mesi sette di reclusione per:
– reato associativo di cui al capo 1: (art. 416 comma 2 c.p. nella veste di partecipe);
– reati fiscali di cui ai capi 28 e 28 bis);
4. R.A. alla pena di anni due e mesi due di reclusione, per
– reati fiscali di cui ai capi 28 e 28 bis);
5. C.R. alla pena di anni quattro di reclusione, per:
– reato associativo di cui al capo 1) (art. 416 comma 2 c.p. nella veste di partecipe);
– reati fiscali di cui ai capi 17), 18), 19), 20), 21), 22), 28) e 28 bis);
6. R.L. alla pena di anni due e mesi cinque di reclusione, per:
– reati fiscali di cui ai cap; 4), 5) e 24) (ritenuta la recidiva reiterata infraquinquennale);
7. A.L. alla pena di anni uno e mesi nove di recisione, per:
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– reati fiscali di cui ai capi 13) e 16) (ritenuto la recidiva reiterata);
8. D.G.M. alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione per
– reati fiscali di cui ai capi 7), 8);
9 C.F. alla pena di anni uno di reclusione per:
– reato fiscale di cui al capo 42) (ritenuta la recidiva reiterata);
10. V.G. alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione, per:
– reati fiscali di cui ai capi 33 e capo 34 (ritenuta la recidiva reiterata infraquinquennale);
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11. B.P. alla pena di anni due e mesi otto di reclusione ed euro 1.300,00 di multa per:
– reati fiscali di cui ai capi 36), 37);
– truffa aggravate contestate al capo 35);
12. S.C. alla pena di anni otto e mesi due di reclusione per:
– reato associativo di cui al capo 1) (art. 416 comma 1 c.p., nella veste di promotore e organizzatore);
– reati fiscali di cui ai capi 2bis), 4), 5), 7), 8), 24, 33), 34), 36), 37), 39), 40), 42), 44);
– truffe aggravate contestate ai capi 32), 35), 38), 41), 43);
13. L.R. alla pena di anni sei e mesi dieci di reclusione per:
– reato associativo di cui capo 1) (art. 416 comma 1 c.p. nella veste di partecipe);
– reati fiscali di cui ai capi 4), 5), 7), 8), 20), 21), 22), 33), 34), 36), 37), 39), 40), 42), 44), 48);
– truffe aggravate contestate ai capi 32), 35), 38), 41), 43).
Con la medesima sentenza, il Tribunale ha condannato i suddetti imputati al pagamento delle spese processuali e alle pene accessorie, ex artt. 29 e 32 c.p. ed ex art. 12 D.Lvo 74/2000. Ha altresì disposto la confisca della documentazione in sequestro, dichiarato non doversi procedere nei confronti di D.B, S.M.A., S.C. e L.R. in ordine ai reati di cui ai capi 2, 3 e 6 per essere gli stessi estinti per intervenuta prescrizione e assolto D.B.C., S.M.A., L.R. e S.C. dal reato loro ascritto al capo 45) dell’imputazione perché il fatto non sussiste.
2. Le imputazioni hanno a oggetto uno dei più diffusi sistemi di frode all’IVA, meglio noto con il nome di “frode carosello”, realizzato sfruttando le agevolazioni normative previste nel caso di cessioni tra i paesi dell’Unione Europea. Come illustrato nella sentenza appellata, il procedimento trae origine da una verifica fiscale condotta nel corso del 2007 presso la società R.T. srl con sede in Mozzate (CO); grazie ai successivi sviluppi investigativi (coinvolgenti il monitoraggio delle utenze telefoniche e indagini documentali e bancarie, anche mediante rogatoria in Svizzera, in relazione ai conti correnti accesi presso il Credit Suisse delle società di diritto panamense “D.C.” e “V.I.I., emergeva la sussistenza del sodalizio criminoso descritto al capo 1) di imputazione operante nel capoluogo lombardo, finalizzato alla commissione di reati fiscali e di truffe aggravate ai danni dello Stato attraverso la commercializzazione di materiale informatico: reati commessi tramite l’impiego di numerosi schermi societari fittizi di carattere sia comunitario che nazionale e l’emissione di falsi documenti ed implicanti l’evasione di imposte dirette e indirette (segnatamente l’IVA) per milioni di euro negli anni dal 2005 al 2007.
Nella ricostruzione accusatoria, fatta propria dalla sentenza di primo grado, l’associazione per delinquere – promossa e organizzata da D.B.C., S.C. e S.M.A. (oltre che da A.P., giudicato separatamente) – fondava il suo meccanismo operativo su un sistema di società “cartiere” nazionali ed estere appositamente create al fine di operare acquisti intracomunitari in regime di esenzione IVA. Attraverso tale rete criminale veniva offerta al cliente finale nazionale la possibilità di ricevere materiale informatico ad un prezzo notevolmente ribassato rispetto ai prezzi normalmente praticati nel mercato per prodotti analoghi per tipologia, specie e quantità. Acquistando senza assolvimento dell’IVA, infatti, la società “cartiera” aveva modo di fatturare all’operatore commerciale, reale acquirente, a un prezzo pari o di poco superiore a quello di acquisto e l’apparente antieconomicità di tale cessione veniva controbilanciata dal fatto che la cartiera non provvedeva mai a versare l’IVA all’erario.
Sulla base delle risultanze probatorie, in coerenza rispetto alle imputazioni contestate, il Tribunale individua una pluralità di società cartiere appositamente costituite per realizzare frodi carosello comunitarie, differenziandone l’operatività, in base alla tipologia della merce venduta, in due segmenti temporali:
– in una prima fase, riconducibile agli anni 2005-2006, la società di diritto svizzero A.T.S., ma fiscalmente domiciliata in Austria, cede alle cartiere di primo livello P. srl, C. srl e A.T. Srl grossi quantitativi di materiale informatico realmente esistente che poi viene ceduto alle società cartiere: D.P.I. srl, K. srl, N. srl, M. srl, I. srl, W. srl, M.S. srl, C. snc, E. srl, D. srl, M. srl, S. srl, I. srl. Anche T. srl (riferibile ai fratelli S.) e R. spa (di fatto gestita da R.C. per il tramite di P.S., Presidente del CdA) si inseriscono in questa filiera di operazioni negoziali in qualità di acquirenti e, al pari delle cartiere, operano la rivendita della merce a società reali, che così conseguono la disponibilità di prodotti informatici a prezzi notevolmente inferiori rispetto a quelli normalmente praticati sul mercato nazionale. In questa prima fase, caratterizzata dall’emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, trova spazio il meccanismo di frode all’IVA noto con il nome di “frode carosello”, realizzato strumentalizzando a fini illeciti la normativa sugli acquisti intracomunitari (che consente al soggetto che acquista da un soggetto comunitario di compensare IVA a debito e IVA in detrazione, salvo applicare l’IVA in occasione della successiva rivendita in ambito nazionale), attraverso l’interposizione di un soggetto che acquisti fittiziamente dal fornitore comunitario e rivenda al reale compratore, così assumendosi l’integrale debito d’imposta. L’effettivo acquirente si trova in tal modo ad utilizzare fatture alle quali è applicata l’IVA e ad assumere il correlativo diritto alla detrazione; gli importi pari all’IVA, formalmente versata dal reale acquirente all’interposto, non vengono tuttavia corrisposti all’Erario, ma “spartiti” tra i due interessati: di regola, infatti, il soggetto interposto non presenta alcuna dichiarazione, ovvero pur presentandola, non provvede al relativo versamento. Tale circuito illecito determina un duplice vantaggio per il cliente finale, iI quale acquista a un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato e matura un indebito credito IVA, scaricando gli obblighi fiscali connessi al proprio debito di imposta sulla cartiera nazionale, che non provvederà mai ad onorare tale debito;
– nella seconda fase, negli anni 2006-2007, l’operatività illecita si svolge secondo un duplice schema:
– per un verso, proseguono le plurime vendite di prodotti informatici reali da parte delle società comunitarie A.T., S.U.K.C., E.P.L., C.I. alle cartiere filtro N. srl, E. srl, A. srl, M. srl; anche in questo caso le cartiere rivendono ad altre cartiere (es. E. srl), che successivamente rivendono ad altre cartiere o direttamente a clienti nazionali a prezzi vantaggiosi, in quanto inferiori ai correnti prezzi di mercato;
– per altro verso, vengono concluse una serie di vendite comunitarie, per il tramite di cartiere nazionali, di prodotti informatici (ed. semiconduttori A.) privi di qualsivoglia utilità e valore, artificiosamente immessi nel mercato attraverso le informazioni fatte circolare via internet, senza alcun contatto con la merce. Nella sequenza delle operazioni commerciali, riconducibili temporalmente al periodo compreso tra il 10 maggio 2006 e il 30 agosto 2006, i semiconduttori A., dopo essere stati venduti dalle società comunitarie A.T.S. e T.T.I. avente sede legale in Cipro (facenti entrambe capo a D.B.), alle cartiere E. srl, N.H. srl e Q. srl, vengono da queste ultime ceduti alla prima cartiera filtro E. srl, la quale ne effettuata un’ulteriore cessione in favore della seconda cartiera filtro C. srl. A questo punto, la merce, all’apparenza regolare, viene venduta da C. srl a società nazionali che, del tutto ignare della reale consistenza del bene commercializzato, ne operano l’acquisto come “trader”, in quanto certe della successiva immediata rivendita a società mostratesi interessate all’acquisto di tale tipologia di prodotti. Il circuito di vendita, perfettamente circolare, si chiude con il riacquisto della merce da parte delle originarie cedenti. Tali vendite cartolari tra società estere e nazionali avvengono sfruttando sempre il regime di esenzione IVA e consentono alle società che all’interno di tali filiere commerciali si presentano quali originarie cedenti ed ultime cessionarie (A. e T., società comunitarie facenti capo agli stessi soggetti), di lucrare sulla differenza tra il prezzo finale di acquisto e l’originario prezzo di vendita, così incamerando anche la somma corrispondente all’IVA che le cartiere appositamente create per il buon esito dell’operazione fraudolenta non hanno mai versato.
I ruoli dei singoli imputati all’interno dell’associazione vengono ricostruiti nella sentenza di primo grado come di seguito sinteticamente esposto:
– C.D.B. viene riconosciuto promotore ed organizzatore del sodalizio criminale: quale amministratore (dapprima di diritto, dopo il 27.9 2006 di fatto) e dominus esclusivo della società A.I., amministratore di fatto della T. ed altresì delle cartiere P., C., A., N., E., E., N., Q. – asservite alle finalità del gruppo ed impiegate nelle frodi fiscali realizzate proprio mediante l’utilizzo di A. e T. – egli viene ritenuto responsabile di avere coordinato e gestito l’attività dell’associazione delittuosa, pianificandone le strategie e conseguendo enormi vantaggi economici dalla sua operatività;
– M.S. è ritenuto promotore e organizzatore del sodalizio per aver operato sia in veste di A.U. della I.T.S. e sia quale amministratore di fatto di T., P., C., A., N., E., E., N.H., Q.
– C.S. è considerato responsabile con l’identico ruolo operativo del fratello (promotore e organizzatore).
– P.S. è ritenuta partecipe, in forza della carica di presidente del C. di A. rivestita nella società R. S.p.A., implicata in tutti i meccanismi di frode praticati dal sodalizio criminale (la società commercializzava, in breve tempo, materiali elettronici ed informatici provenienti dalla Unione Europea attraverso la società cartiera A.).
– R.C. è ritenuto partecipe per essere stato amministratore di fatto delle società R., S. ed I.
– R.L. è ritenuto partecipe per avere ricoperto la carica di amministratore di diritto della A. srl e di amministratore di fatto delle cartiere-filtro P., C., N., E., E., N.H. e Q.
Quanto ai numerosi reati-fine dell’associazione per delinquere, si tratta di:
– reati fiscali di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, omessa presentazione di dichiarazione, emissione di fatture per operazioni inesistenti, occultamento o distruzione di scritture contabili contestati ai capi 2, 2bis, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 13, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 28, 28bis, 33, 34, 36, 37, 39, 40, 42, 44, 48: delitti mediante i quali, secondo quanto accertato dal Tribunale, sarebbe stata realizzata l’evasione di imposte (dirette e indirette) di ammontare ingente, per milioni di euro, e sarebbero state cancellate le tracce documentali delle operazioni fraudolente (ciò, in particolare, per l’occultamento e la sottrazione della documentazione contabile integrante il reato di cui all’art 10 D.Lvo n. 74/2000);
– truffe aggravate ai danni dello Stato contestate ai capi 32, 35, 38, 41, 43, configurate per il capzioso innesco di transazioni solo apparentemente corredate da un concreto effetto traslativo, aventi ad oggetto merce, priva di valore, che è tornata sempre all’originario fornitore, consentendogli di lucrare della differenza tra il prezzo ricevuto per il pagamento della merce da parte del cliente nazionale reale e quello pagato dal fornitore comunitario al momento del relativo riacquisto (grazie anche al “risparmio” dell’IVA, non versata, incassata dalle cartiere).
In ordine a tali reati, fatta eccezione che per quelli contestati ai capi 2), 3) a 6 (dichiarati estinti per intervenuta prescrizione) e al capo 45 (per cui non reputa raggiunta la prova della sussistenza del fatto), il Tribunale ritiene provata la responsabilità penale degli imputati per tutti i reati loro rispettivamente ascritti, nella qualità di rappresentanti legali o amministratori di fatto indicate nei capi d’imputazione.
3. Gli imputati D.B.C., S.M.A., S.P., R.A., C.R., R.L., A.L., D.G.M., C.F., V.G., B.P., S.C. e L.R. hanno proposto appello avverso la sentenza di condanna pronunziata in primo grado. I motivi d’appello investono tutti, in via principale e nel merito, l’affermazione di responsabilità penale per i fatti-reato per cui è intervenuta condanna, per i quali si chiede l’assoluzione degli imputati, in riforma della sentenza di primo grado. Le difese contestano – con diversi argomenti, a seconda delle posizioni rappresentate – la sussistenza di prove idonee a dimostrare la configurabilità degli elementi oggettivi e soggettivi dei delitti in questione, il concorso degli imputati nella loro commissione, la qualifica attribuita in seno al ritenuto reato associativo, la configurabilità giuridica delle truffe ai danni dello Stato. Per le posizioni di S.A. e S.C. sono state altresì proposte – in via preliminare – questioni di nullità della sentenza di primo grado in conseguenza della eccepita nullità della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto che dispone il giudizio.
4. Dopo la pronunzia di sentenza di condanna in primo grado sono venuti a scadenza i termini massimi previsti, nonostante le interruzioni, per l’estinzione per prescrizione della quasi totalità dei reati contestati, secondo quanto previsto dagli artt. 157, 160 e 161 c.p. e 17 D.Lvo n. 74/2000, quest’ultimo nella formulazione vigente prima della aggiunta del comma 1 bis, disposta con D.L. 13 agosto 2011 n 138, conv. con modificazioni nella legge 14 settembre 2011 n. 148. Il comma 1 bis dell’art. 17 cit. – con cui i termini di prescrizione per i reati previsti dagli articoli da 2 a 10 del D.Lvo n. 74/2000 sono elevati di un terzo – è stato infatti introdotto con legge entrata in vigore successivamente alla commissione dei reati contestati e, quindi, è inapplicabile nella fattispecie – alla luce dei consolidati orientamenti giurisprudenziali di seguito richiamati – in ragione della natura giuridica sostanziale delle norme in materia di prescrizione e della estensione alle stesse del vincolo intertemporale dell’art. 25 comma 2 Cost. e della norma di cui all’art. 2 comma 2 c.p.
Rispetto alle contestazioni oggetto di censura e rimesse all’esame di questa Corte d’Appello, la situazione è la seguente:
– il delitto di associazione per delinquere è punito dall’art. 416 c.p. con la reclusione fino a 7 anni per gli organizzatori dell’associazione e fino a 5 anni per il mero partecipe;
– tutti i reati fiscali sono puniti dal D.L. n. 74/2000 con la reclusione non superiore a 6 anni di reclusione;
– il delitto di truffa è punito dall’art. 640 c.p. con pena fino 3 anni di reclusione;
– nessuno dei reati attribuiti agli imputati rientra fra quelli elencati nei commi 3 bis e quater dell’art. 51 c.p.p.;
– per nessuno dei reati sono contestate e ritenute circostanze ad effetto speciale, idonee a determinare un allungamento dei termini prescrizionali ex art. 157 comma 2 c p.;
– eccetto che per R.L. e V.G. (per i quali e stata contestata e ritenuta la recidiva reiterata infraquinquennale) e per A.L. e C.F. (per i quali è stata contestata e ritenuta la recidiva reiterata), a nessuno degli imputati sono state contestate la recidiva o le condizioni per la dichiarazione di delinquenza abituale e professionale (ex artt. 99, 102, 103 e 105 del codice penale).
Considerato, quindi, che per gli organizzatori e promotori dell’associazione per delinquere il termine di prescrizione è di 7 anni mentre per tutti gli altri è di 6 anni; considerate le date di commissione dei reati; considerato altresì che – nonostante le interruzioni (l’ultima delle quali e costituita dalla sentenza di condanna in data 14.1.2014) e in assenza di cause di sospensione della prescrizione – per tutti gli imputati cui non è stata contestata la recidiva il termine non può essere prorogato oltre i 7 anni e 6 mesi dal fatto oppure (per l’organizzazione dell’associazione per delinquere) oltre gli 8 anni e 9 mesi; tutto quanto sopra considerato, in applicazione delle norme di cui agli artt. 157-161 c.p. i reati oggetto delle imputazioni su cui questa Corte è chiamata a decidere sarebbero, ad oggi, tutti prescritti(1), ad eccezione dei seguenti:
– reato di cui all’art. 416 comma 1 c p. attribuito al capo 1 a D.B.C., S.M., S.M., in qualità di promotori e organizzatori dell’associazione per delinquere (reato commessa da gennaio 2015 a luglio 2007; termine di prescrizione pari a 8 anni e 9 mesi in scadenza nel marzo 2016);
– reato di cui all’art. 2 D.Lvo n. 74/2000, limitatamente alla dichiarazione fraudolenta per l’anno 2007, attribuito al capo 28 a S.P., R.A., C.R. (il reato di cui al capo 28 concerne la violazione dell’art. 2 D.Lvo 74/2000 in relazione all’utilizzo da parte di R. di F.O.l, emesse da A., A. I, negli anni 2005-2006-2007; le date di consumazione coincidono con quelle di presentazione delle dichiarazioni fraudolente, rispettivamente il 30.10.2006 per l’anno 2005, il 28.9.2007 per l’anno 2006, il 26.9.2008 per l’anno 2007; per quest’ultimo reato il termine di prescrizione verrebbe a scadenza il 24.3.2016);
(1) Gli ultimi ad aver maturato il termine di prescrizione sono i reati di cui all’art 5 D.L.vo n. 74/2000 relativi all’anno 2006 (capo 8 seconda parte, 19, 22, 34, 37, 40): poiché il termine per la presentazione della dichiarazione per l’anno 2006 per via telematica era stato prorogato al 1.10.2007 (Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 luglio 2007, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 209 del 08/09/2007), il termine di prescrizione decorre dal 1.1.2008 ed è maturato il 1.7.2015, salvo che per il recidivo V. (capo 34).
– reati agli artt. 10 e 5 D.Lvo n. 74/2000 contestati a R.L. ai capi 4, 5 e 24 (per effetto della recidiva reiterata infraquinquennale)
– reati di cui all’art. 5 D.Lvo n. 74/2000 contestati a A.L. ai capi 13 e 16 (per effetto della recidiva reiterata):
– reato di cui all’art. 10 D.Lvo n. 74/2000 contestato a C.F. al capo 42 (per effetto della recidiva reiterata);
– reato di cui agli artt. 10 e 5 D.Lvo n. 74/2000 contestati a V.G. ai capi 33 e 34 (per effetto della recidiva reiterata infraquinquennale);
– reato di cui all’art. 10 D.Lvo n. 74/2000 contestato a L.R. al capo 48 (la distruzione e/o occultamento della documentazione sociale obbligatoria risulta accertata in data 7.5.2008; il termine di anni 7 e mesi 6 di prescrizione verrebbe quindi a scadere il 7.11.2015).
RITENUTO IN DIRITTO – 1. E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui viene ordinata l’esecuzione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 TFUE dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C- 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ult. comma e 161 comma 2 c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche nel caso in cui dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost.
2. La Corte di Giustizia (Grande Sezione), pronunziandosi a seguito di rinvio pregiudiziale proposto, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal GIP del Tribunale di Cuneo con ordinanza del 17 gennaio 2014, in un procedimento penale riguardante reati in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) del tutto analoghi a quelli per cui qui si procede, ha statuito – con la citata sentenza resa in data 8.9.2015 – che una normativa nazionale in materia di prescrizione del reato come quella stabilita dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, del codice penale, come modificato dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, e dell’articolo 161 di tale codice – normativa che prevede che l’atto interruttivo verificatosi nell’ambito di procedimenti penali riguardanti frodi gravi in materia di imposta sul valore aggiunto comporti il prolungamento del termine di prescrizione di solo un quarto della sua durata iniziale – è idonea a pregiudicare gli obblighi imposti agli Stati membri dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE nell’ipotesi in cui detta normativa nazionale impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea, circostanze che spetta al giudice nazionale verificare, il giudice nazionale è tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando, all’occorrenza, le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE.
3. Le conseguenze della pronuncia della Corte di Lussemburgo sull’ordinamento interno sono incisive, per il primato del diritto UE rispetto a quello nazionale (compreso lo stesso diritto penale).
A fondamento della propria decisione, la Corte di giustizia richiama i primi due paragrafi dell’art. 325 TFUE, a tenore dei quali gli Stati membri “combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione” e “adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari”. Si tratta di norme di diritto primario, in grado di esplicare effetto diretto nel giudizio nazionale; norme che – come ricorda la Corte di Lussemburgo – impegnano gli Stati membri a “lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive e, in particolare, li obbliga ad adottare, per combattere la frode lesiva degli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere la frode lesiva dei loro interessi finanziari” (§ 37 sentenza CGUE) e pongono “a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione” (§ 51). L’effetto diretto dei primi due paragrafi dell’art. 325 TFUE, per la primazia del diritto della UE rispetto al diritto nazionale, comporta la conseguenza “di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente” (§ 52), nel caso di specie rappresentata dagli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma del codice penale italiano.
La pronuncia della Corte di giustizia, pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, ha un valore generale e vincola non solo il giudice a quo, ma anche tutti i giudici nazionali, nonché la pubblica amministrazione nel suo complesso (Cfr. Corte cost. sent. n. 113/1985; Corte cost. sent. n. 284/2007, secondo cui “le statuizioni della Corte di giustizia delle Comunità europee hanno, al pari delle norme comunitarie direttamente applicabili cui ineriscono, operatività immediata negli ordinamenti interni“; CGCE, 22 giugno 1989, causa 103/88, Costanzo); la stessa sentenza della CGUE Taricco è perentoria al riguardo, avvisando che “qualora il giudice nazionale giungesse alla conclusione che le disposizioni nazionali di cui trattasi non soddisfano gli obblighi del diritto dell’Unione relativi al carattere effettivo e dissuasivo delle misure di lotta contro le frodi all’IVA, detto giudice sarebbe tenuto a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione disapplicando, all’occorrenza, tali disposizioni e neutralizzando quindi la conseguenza rilevata al punto 46 della presente sentenza, senza che debba chiedere o attendere la previa rimozione di dette disposizioni in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” (cfr. § 49 e i numerosi precedenti conformi ivi richiamati).
D’altro canto, occorre ricordare che, conformemente ai principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia 9 marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal) e dalla successiva giurisprudenza della Corte costituzionale, segnatamente con la sentenza n. 170/1984 (Granital), qualora si tratti di disposizione del diritto dell’Unione europea direttamente efficace, spetta al giudice nazionale comune valutare la compatibilità comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando – se del caso – il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia e, nell’ipotesi di contrasto, provvedere egli stesso all’applicazione della norma comunitaria in luogo della norma nazionale; mentre, in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta – contrasto accertato eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia – e nell’impossibilità di risolvere il contrasto in via interpretativa, iI giudice comune deve sollevare la questione di legittimità costituzionale, spettando poi alla Corte costituzionale valutare l’esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente, annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario (nello stesso senso sentenze n. 284/2007, n. 28 e n. 22/ del 2010 e n. 75/2012).
È, infine, in forza delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. che la Corte costituzionale ha riconosciuto la portata e le diverse implicazioni della prevalenza del diritto comunitario e della sua interpretazione conforme, anche rispetto a norme costituzionali (sentenza n. 126/1996), individuandone il solo limite nel contrasto con i principi fondamentali dell’assetto costituzionale dello Stato o con i diritti inalienabili della persona (sentenza n. 170/1984), con la precisazione che tale contrasto è sindacabile esclusivamente dalla Corte costituzionale (sent. n 129/2006, ord. n 454/2006 e sent. n. 284/2007).
4. Nel caso di specie, ricorrono le condizioni dalle quali la Corte di Giustizia, nella sentenza Taricco, fa discendere l’obbligo di disapplicazione delle norme di cui agli artt. 160 ult. comma e 161 comma 2 c.p.
Ed infatti:
– la mera lettura dei capi di imputazione e della sintetica esposizione dei fatti sopra svolta rende evidente che la previsione di una proroga del termine di prescrizione, per effetto degli atti interruttivi, di “solo un quarto della sua durata iniziale” impedisce nel caso concreto di pervenire a un accertamento definitivo e, nel caso di ritenuta responsabilità penale degli imputati, di infliggere sanzioni “effettive e dissuasive” in un “numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione europea“: basti considerare il numero esorbitante di operazioni fraudolente oggetto di contestazione, eseguite tramite l’interposizione strumentale di numerose società nazionali ed estere, ripetute nell’arco di circa tre anni, con il coinvolgimento di mezzi, uomini, strutture e organizzazione di elevata efficienza e comportanti l’evasione dell’IVA (una quota della quale, come noto, deve essere girata automaticamente al bilancio europeo) per svariati milioni di euro tra il 2005 e il 2007 (tanto da meritare la esplicita contestazione di avere cagionato “un danno di patrimoniale di rilevante gravità in danno dello Stato” al capo 1 e “un danno patrimoniale di rilevante gravità” ai capi 2, 3, 6, 32, 35, 38, 41, 43); operazioni integranti reati pressoché tutti estinti, ove il termine di prescrizione fosse calcolato secondo le norme di cui agli artt. 160 e 161 c.p. sopra richiamate;
– i reati fiscali, le truffe e l’associazione per delinquere in contestazione, produttive di una grave lesione degli interessi finanziari dell’Unione europea (portata a segno mediante le frodi “carosello” oggetto del presente procedimento e la conseguente, massiccia evasione dell’IVA) sono soggetti a termini di prescrizione più brevi di quelli previsti dal reato di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, previsto dall’art. 291 quater D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, lesivo dei soli interessi finanziari dello Stato italiano: reato che, sebbene di natura e gravità comparabile a quelle dei reati comportanti evasione dell’IVA (e, quindi, una lesione degli interessi finanziari anche dell’UE), in quanto incluso tra quelli indicati dall’art. 53 comma 3 bis c.p.p. è sottoposto, per effetto della disciplina dettata dal combinato disposto degli artt. 160 ultimo comma e 161 comma 2 c.p., a termini di prescrizione notevolmente più ampi, essendo previsto per tale reato che il termine di prescrizione decorra nuovamente e per intero al verificarsi di ogni atto interruttivo, senza l’apposizione di alcun limite all’estensione del prolungamento complessivo.
5. In tale situazione, il giudice penale sarebbe tenuto a dare piena efficacia all’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE disapplicando le disposizioni nazionali che abbiano per effetto di impedire allo Stato membro interessato di rispettare gli obblighi impostigli dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE. Nel caso di specie, come reso chiaro dalla lettura della sentenza CGUE Taricco, si tratterebbe di disapplicare la norma di cui all’art.160 ultimo comma e all’art. 161 comma 2 c.p., nella parte in cui appongono un limite massimo (pari a un quarto) all’aumento del termine ordinario per la prescrizione nel caso di interruzione del suo corso. La disciplina interna applicabile quale risultante della disapplicazione sarebbe, conseguentemente, agevolmente e con certezza individuabile nel regime ordinario previsto per i reati di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p., già esclusi ex lege dalla sottoposizione al “tetto” massimo di un quarto previsto dagli artt. 160 ult. comma e 161 comma 2 c.p. Ne conseguirebbe che per nessuno dei reati ad oggi prescritti, secondo i calcoli sopra effettuati sulla base delle norme di cui agli artt. 157-161 c.p., sarebbe ancora maturato il termine di prescrizione, da computarsi in 6 anni (o 7 anni nel caso del reato di cui all’art. 416 comma 1 c.p.) a decorrere dall’ultimo atto interruttivo costituito dalla sentenza di condanna di primo grado, in data 14.1.2014; i termini di prescrizione verrebbero quindi a scadenza il 14.1.2020 o, per il più grave delitto di cui all’art. 416 comma 1 c.p., il 14.1.2021.
6. Questa Corte, tuttavia, ritiene di non poter disapplicare la norma interna di cui agli artt. 160 ultimo comma e 161 comma 2 c.p., nel caso in esame, in quanto dubita della compatibilità degli effetti di tale disapplicazione, implicanti l’applicazione di un diverso e più sfavorevole regime prescrizionale, con il principio di legalità in materia penale di cui all’art. 25 comma 2 Cost.: principio fondamentale di ordine costituzionale, come tale sindacabile esclusivamente dalla Corte costituzionale (in conformità alla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata).
La Corte di Giustizia affronta tale obiezione nella richiamata sentenza Taricco (§ 54-57), giungendo alla conclusione che il principio di legalità non sia in alcun modo vulnerato. Richiama, al riguardo, l’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (CDFUE), che – in forza dell’art. 52 CDFUE – recepisce il principio di legalità e di proporzionalità dei reati e delle pene, nell’estensione riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sulla corrispondente previsione dell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Secondo tale giurisprudenza, richiamata dalla Corte di giustizia, la materia della prescrizione del reato attiene in realtà alle condizioni di procedibilità del reato e non è pertanto coperta dalla garanzia del principio di nullum crimen.
A ben vedere, tuttavia, la giurisprudenza della Corte EDU richiamata dalla CGUE e, in particolare, la sentenza Coéme e a. c. Belgio, ric. nn. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96, e 33210/96, § 149, non sembra attagliarsi perfettamente al caso in esame, affermando che la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti dall’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in un caso in cui l’allungamento dei termini di prescrizione era intervenuto quando i fatti addebitati non si erano ancora prescritti; nella fattispecie all’esame di questa Corte, invece, come sopra si è detto, il termine di prescrizione – calcolato secondo le norme di cui agli artt. 160-161 c.p. – era già maturato prima che la CGUE, con la sentenza Taricco, intervenisse a chiarire l’incompatibilità di tali norme con il diritto dell’Unione e a imporne conseguentemente la disapplicazione, quale effetto diretto dell’art. 325 TFUE.
A prescindere da tali incidentali rilievi (eventualmente rilevanti nella diversa prospettiva dell’assicurazione delle fondamentali garanzie del giusto processo, che anche nella giurisprudenza della Corte europea impongono allo Stato il dovere di agire secondo buona fede, nel rispetto dei principi della certezza e della tutela del legittimo affidamento dei cittadini: cfr. ex multis C.EDU, Unedic c. Francia, 18 dicembre 2008, § 74; ld., G.C., Scordino c. Italia, 29 marzo 2006, § 126; Id., G.C., Scoppola c. Italia, 9 settembre 2009, § 132 e 139), ciò che convince della non manifesta infondatezza della questione è la costante e condivisibile giurisprudenza della Corte costituzionale, che – a differenza di quella europea – è ferma nel ritenere le norme sulla prescrizione come norme di diritto sostanziale, parte integrante della ‘legge penale’, come tali soggette al principio di legalità e a tutti i suoi corollari di cui all’art. 25 comma 2 Cost.; tanto che le questioni di legittimità costituzionale tendenti ad ampliare, in malam partem, i termini di prescrizione sono state sinora sempre giudicate inammissibili, proprio perché il loro eventuale accoglimento avrebbe comportato un aggravamento della responsabilità penale dell’imputato e – dunque – un’ingerenza della Corte costituzionale in un dominio riservato esclusivamente al legislatore in forza, appunto, dell’art. 25 co. 2 Cost.
Categoriche, in tal senso, le affermazioni della Corte costituzionale, per cui (cfr. sentenza n 394/2006 e giurisprudenza ivi richiamata) “secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, all’adozione di pronunce in malam partem in materia penale osta non già una ragione meramente processuale – di irrilevanza, nel senso che l’eventuale decisione di accoglimento non potrebbe trovare comunque applicazione nel giudizio a quo – ma una ragione sostanziale, intimamente connessa al principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»“. Spiega il Giudice delle leggi che “rimettendo al legislatore – e segnatamente al «soggetto-Parlamento», in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale (sentenza n. 487 del 1989) – la riserva sulla scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, detto principio impedisce alla Corte sia di creare nuove fattispecie criminose o di estendere quelle esistenti o casi non previsti; sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti comunque inerenti alla punibilità (e così, ad esempio, sulla disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi: ex plurimis, ordinanze n. 317 del 2000 e n. 337 del 1999).”
Con orientamento assurto al rango di diritto vivente (e condiviso da questa Corte, stante la chiara lettera dell’art. 25 comma 2 Cost.), la Corte costituzionale ritiene, quindi, che la riserva di legge contenuta nell’art. 25 Cost. le impedisca di incidere in peius non solo sulla fattispecie incriminatrice e sulla pena, ma anche sugli aspetti inerenti alla punibilità, tra cui espressamente include la prescrizione.
Il principio è ribadito in termini netti, più recentemente, anche da Corte cost. sent. n. 324/2008. Nell’affrontare le censure prospettate dal giudice dal GIP del Tribunale di Padova in merito all’art. 6, comma 2, della legge n 251 del 2005, nella parte in cui non prevede che il termine prescrizionale, nel caso di reato continuato, decorra dalla data di cessazione della continuazione (sul presupposto che il limite al sindacato di costituzionalità cui e sottoposta la Corte costituzionale nel caso in cui si invochi una pronuncia additiva inmalam partem in materia penale non opererebbe con riferimento alla disciplina della prescrizione), il Giudice delle Leggi osserva che “Il rimettente trascura di considerare, anche al solo fine di confutarla, la costante giurisprudenza di questa Corte che, in più occasioni, ha ribadito che il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost. rende inammissibili pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti, o, comunque, «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi» (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008)“. “Pacifico” per la Corte costituzionale, è poi l’assoggettamento della prescrizione “quale istituto di diritto sostanziale … alla disciplina di cui all’art. 2, quarto comma, cod. pen. che prevede la regola generale della retroattività della norma più favorevole, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva» (sentenza n. 393 del 2006)“.
Parimenti incontrastata, del resto, è la considerazione della natura sostanziale delle norme sulla prescrizione – e del conseguente loro assoggettamento al regime di cui all’art. 2 c.p. – nella giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 32781 del 22/05/2014, Abbinate, Rv. 260536; Sez. 1, Sentenza n. 20430 del 27/01/2015, Bilardi Rv. 263687).
Nel caso di specie, in conclusione, la disapplicazione delle norme (di carattere sostanziale) di cui agli artt. 160 ult. comma e 161, comma 2 c.p., imposta dall’art. 325 TFUE nella interpretazione datane dalla sentenza CGUE Taricco, produrrebbe la retroattività inmalam partem della normativa nazionale risultante da tale disapplicazione, implicante l’allungamento dei tempi prescrizionali, con effetti che questa Corte dubita siano compatibili con il principio di legalità in materia penale, come affermatosi nella consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione.
Profilandosi, in tal senso, un contrasto tra l’obbligo di disapplicazione derivato dall’art. 325 TFUE, considerato dalla Corte di giustizia conforme al principio di legalità in sede europea sulla base dell’art. 49 CDFUE, e il principio di legalità in materia penali; nella estensione attribuitagli dal diritto costituzionale italiano sulla base dell’art. 25 co. 2 Cost., si ritiene necessario rimettere alla Corte costituzionale la valutazione della opponibilità di un ‘controlimite’ alle limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento dell’Unione europea ai sensi dell’art. 11 cost., in funzione del rispetto del principio fondamentale dell’assetto costituzionale interno, poziore rispetto agli stessi obblighi di matrice europea.
7. La rilevanza della questione è comprovata dalla considerazione per cui è proprio dalla soluzione della questione di costituzionalità che dipende l’applicabilità delle disposizioni normative di cui artt. 160 ult. comma e 161 comma 2 c.p.
Come sopra esposto, nelle considerazioni in fatto, ove si facesse applicazione di tali norme nella fattispecie concreta, la quasi totalità dei reati risulterebbe estinta per intervenuta prescrizione, con conseguenze incidenti – ancor prima che sull’esito del giudizio (in termini di conferma o riforma, totale o parziale, della sentenza di primo grado) – sulle regole di giudizio da applicare per pervenire alla decisione.
Secondo l’autorevole insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 35490 del 28/05/2009 Tettamanti, Rv. 244274), in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi“, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. Ciò significa, in altri termini – com’è stato chiarito dalla giurisprudenza successiva della stessa Corte di legittimità (Sez. 4, n. 23680 del 7 maggio 2013, Rizzo e altro, Rv. 256202), che la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l’assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell’imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze.
L’indirizzo interpretativo, condiviso da questa Corte, è assolutamente granitico (cfr. altresì, fra le tante, Sez. 1, Sentenza n. 43853 del 24/09/2013, Giuffrida, Rv. 25844; Sez. 6, Sentenza n. 10284 del 22/01/2014 Culicchia, Rv. 259445). Le uniche eccezioni a tale regola di giudizio – previste dalla giurisprudenza per il caso in cui, in sede di appello, a fronte di una sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l’impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530, comma secondo, c.p.p. – non ricorrono nel caso di specie, in assenza di parti civili costituite o di appello del Pubblico Ministero o del Procuratore Generale.
È evidente, quindi, che, in relazione a pressoché tutti i capi di imputazione (ne resterebbero escluse solo le imputazioni sopra richiamate, di promozione e organizzazione dell’associazione per delinquere contestata al capo 1, la dichiarazione fraudolenta per l’anno d’imposta 2007 contestata al capo 28, i reati attribuiti agli imputati reiteratamente recidivi e il reato fiscale di cui al capo 48), dall’applicazione o disapplicazione del combinato disposto degli artt. 160 ult. comma e 161 comma 2 c.p. discenderebbe l’adozione di due regole di giudizio differenti, con riferimento all’esame dei motivi di impugnazione dedotti in giudizio; nel primo caso, constatata la sopravvenienza di una causa di estinzione dei reati, per poter accedere alla richiesta difensiva di adozione della pronuncia ampiamente liberatoria sarebbe sufficiente verificare se sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l’assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico degli imputati ovvero la prova positiva della loro innocenza (l’unica che, secondo la citata giurisprudenza, assurta a rango di diritto vivente, consentirebbe la prevalenza della formula proscioglimento nel merito rispetto alla declaratoria di estinzione per prescrizione); nel secondo caso, invece, occorrerebbe entrare nel merito delle censure, implicanti una rivalutazione critica di tutto il materiale probatorio e un apprezzamento ponderato delle opposte risultanze, e accogliere le richieste assolutorie degli appellanti anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova.
Considerato che il requisito della rilevanza va riferito alla complessiva regiudicanda all’esame del giudice, non ne elide l’attualità il fatto che per due degli imputati appellanti (S.C. e S.A.) sia stata sollevata preliminarmente la questione di nullità dell’avviso di conclusioni delle indagini e del decreto che dispone il giudizio. Peraltro, non può pretendersi che il giudice remittente, nel sollevare la questione pregiudiziale rispetto alla pronunzia che è chiamato a rendere, debba anticipare il proprio convincimento circa le questioni processuali sollevate con l’atto d’appello, essendo sufficiente una mera delibazione delle stesse, nella specie condotta da questa Corte sulla scorta della motivazione della sentenza di primo grado e dell’ordinanza del Tribunale in data 1.2.2012, con cui sono state rigettate le questioni ex art. 491 c.p.p., riproposte con gli atti d’appello (cfr., in analoga fattispecie, Corte costituzionale, sentenza n. 78 del 2002; anche nel caso rimesso allo scrutinio della Corte Costituzionale con ordinanza della Corte di Cassazione n. 37443/2014 e deciso con la sentenza della Corte costituzionale n. 185/2015, avente ad oggetto la norma dell’art. 99 quinto comma c.p., è stata ritenuta rilevante la questione di legittimità costituzionale di una norma afferente al trattamento sanzionatorio, come tale applicabile solo all’esito dell’esame delle doglianze attinenti alla dichiarazione di responsabilità dell’imputato, il cui esito tuttavia non era stato anticipato dalla Corte remittente se non in termini di mera delibazione). In ogni caso, si tratta di questioni preliminari riguardanti le sole posizioni di Suma Cristian e Suma Angelo, l’accoglimento delle quali non estenderebbe i suoi effetti ai coimputati, in quanto dagli stessi non tempestivamente eccepite nei termini di cui all’art. 491 c.p.p. e, comunque, non riproposte con i rispettivi appelli.
P.Q.M. – la Corte d’Appello di Milano, visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87
Ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza,
solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge 2 agosto 2008, n. 130, con cui viene ordinata l’esecuzione del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, come modificato dall’articolo 2 del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (TFUE), nella parte che impone di applicare la disposizione di cui all’art. 325 §§ 1 e 2 TFUE dalla quale – nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Giustizia nella sentenza in data 8.9.2015, causa C – 105/14, Taricco – discende l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare gli artt. 160 ultimo comma e 161 secondo comma c.p. in presenza delle circostanze indicate nella sentenza, anche se dalla disapplicazione discendano effetti sfavorevoli per l’imputato, per il prolungamento del termine di prescrizione, in ragione del contrasto di tale norma con l’art. 25, secondo comma, Cost.
Sospende il giudizio in corso sino all’esito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale.
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