1 Marzo, 2016

 

SOMMARIO: 1. Premessa – 2. Sulla mancanza di autonomia delle prestazioni di servicing rese dall’originator rispetto alla (principale) operazione di cartolarizzazione 3. La disciplina IVA delle operazioni di gestione di crediti – 4. La non pertinenza della giurisprudenza comunitaria e della prassi dell’Amministrazione finanziaria 5. Sulla valenza delle sentenze della Corte di Giustizia CE.

 

 

1. Premessa

Come è noto, le operazioni di cartolarizzazione sono state disciplinate in Italia dalla legge 30 aprile 1999, n. 130.

In estrema sintesi, questa complessa operazione comporta la cessione di attività o di beni (generalmente crediti) di una società – definita tecnicamente originator – attraverso l’emissione e il collocamento di titoli. I crediti vengono ceduti dall’originator a una società c.d. “veicolo” (Special Purpose Vehicle, di seguito “SPV”) che ne versa al cedente il corrispettivo economico, ottenuto attraverso l’emissione e il collocamento di titoli obbligazionari.

Detta normativa, per quanto riguarda le indicazioni di carattere fiscale (art. 6 della legge n. 130/1999), non contiene disposizioni specifiche in merito all’applicazione dell’IVA. Appare comunque indiscutibile – per quanto attiene in particolare all’operazione originaria di cessione di crediti da parte della banca originator alla SPV, funzionale a quella successiva negoziazione dei titoli relativi – che i relativi “corrispettivi” rientrino nel campo di applicazione dell’imposta, seppure in regime di esenzione, ai sensi del n. 1 del primo comma dell’art. 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (1).

Non è qui possibile dilungarci sui disparati scopi perseguiti con tale operazione finanziaria che risulta comunque assai diffusa nel mondo bancario ed è adottata diffusamente anche da Amministrazioni pubbliche, fra cui principalmente emerge quello di “finanziamento”, come è reso manifesto, in particolare, dalla disciplina dettata dagli artt. 7 e 7-bis della stessa legge n. 130/1999.

Ciò posto, è anche vero che l’intera operazione assume una struttura complessa, che implica anche lo svolgimento di altre attività “strumentali” che comportano il necessario intervento di soggetti terzi, atteso che la SPV non è assolutamente attrezzata allo scopo, perché priva di organizzazione e di personale. Ciò è espressamente previsto e regolamentato dall’art. 2 della citata legge n. 130/1999.

Fra queste, in particolare, ci interessano quelle [cfr. lett. c) del terzo comma dell’art. 2: «i soggetti incaricati della riscossione dei crediti ceduti e dei servizi di cassa e di pagamento»] che possono essere svolte (ai sensi del successivo sesto comma) da banche (o da intermediari finanziari iscritti nell’albo previsto dall’art. 106 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385, c.d. T.U.B.) fra cui, come normalmente avviene – come nel caso che ci occupa – dalla stessa società originator, atteso che questa evidentemente possieda tutti i dati e gli strumenti necessari per lo svolgimento di tale attività, tecnicamente definita di servicing. In tale ultima ipotesi, nella complessità dell’intera operazione si inserisce, quindi, il contratto di servicing tra le stesse parti della cessione del credito. Tale contratto disciplina operazioni molto complesse che, come vedremo, non possono ridursi a una mera attività di “riscossione dei pagamenti”.

Sulla base del predetto contratto, l’originator svolge di norma in favore delle SPV un’attività di gestione e un’attività di recupero relativa agli stessi crediti ceduti.

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Per quanto segnatamente concerne l’attività di “gestione dei crediti”, questa riguarda i crediti in bonis e, usualmente, comprende tutta una serie di adempimenti diretti alla gestione amministrativa e a favorire l’incasso degli stessi da parte delle SPV. Si tratta, in via esemplificativa, delle seguenti attività:

l’amministrazione dei crediti con cura, diligenza e professionalità;

il controllo della rispondenza nello svolgimento del rapporto a qualsiasi legge e regolamento applicabile ai crediti;

il rispetto della legislazione contro l’usura;

la possibilità di dare, in nome e per conto di SPV, assenso all’eventuale accollo del debito, alla riduzione, restrizione, liberazione, frazionamento, cancellazione delle ipoteche;

il servizio di riscossione dei pagamenti (effettuati nei termini dai debitori) e i servizi di cassa;

la custodia della relativa documentazione e i doveri informativi;

la predisposizione dei mezzi informatici necessari;

il rispetto della normativa di vigilanza;

l’osservanza degli obblighi amministrativi e contabili;

l’aggiornamento dello stato dei crediti e scadenze;

il monitoraggio degli incassi effettuati;

il mantenimento del c.d. “Archivio unico informatico” previsto dalla normativa antiriciclaggio;

il rilascio delle quietanze liberatorie ai debitori adempienti;

l’assolvimento delle indagini finanziarie promosse ai fini fiscali.

All’originator/servicer fanno, pertanto, capo sia compiti di natura operativa, sia funzioni di garanzia circa il corretto svolgimento delle operazioni di cartolarizzazione nell’interesse dei portatori dei titoli e, in generale, del mercato (2).

Tale attività è normalmente remunerata con una commissione parametrata, su base annua, all’ammontare residuo dei crediti amministrati calcolato alla scadenza di un indicato periodo di riferimento.

Per quanto riguarda, invece, la distinta attività di “recupero di crediti”, questa fa riferimento ai crediti che risultano insoluti, per i quali l’attività di gestione sopra menzionata si rivela inefficace ai fini del loro incasso ed è remunerata con una commissione parametrata all’ammontare delle somme effettivamente recuperate, sempre secondo lo stesso periodo di riferimento.

Conseguentemente, anche secondo le indicazioni di sistema (3), l’originator/servicer applica:

il regime di esenzione da IVA per l’attività di gestione di crediti anzidetta;

il regime di imponibilità per l’attività di recupero di crediti anzidetta.

Risulta che in tempi recenti diversi Uffici territoriali dell’Agenzia delle entrate abbiano contestato la legittimità dell’accennato trattamento fiscale, con particolare riferimento alle commissioni addebitate dagli originator/servicer alle SPV per l’attività di “gestione di crediti” resa sulla base di un contratto di servicing stipulato nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione relativa a crediti in bonis intercorsa tra le predette parti. Detti Uffici, richiamandosi alle sentenze della Corte di Giustizia europea 26 giugno 2003, causa C-305/01 (4), e 28 ottobre 2010, causa C-175/09 (5), e alla risoluzione 6 giugno 2007, n. 130/E (6), hanno configurato tale attività come un’indistinta attività di “recupero di crediti”, come tale imponibile agli effetti dell’IVA.

A parere degli scriventi, tali richiami si appalesano peraltro del tutto inconferenti e le conclusioni a cui si perviene non possono essere condivise per le considerazioni di seguito esposte.

2. Sulla mancanza di autonomia delle prestazioni di servicing rese dall’originator rispetto alla (principale) operazione di cartolarizzazione

Si intende in primo luogo evidenziare una circostanza: le commissioni incassate dagli originator/servicer, per l’attività di gestione di crediti rese alle SPV nell’ambito del contratto di servicing, altro non costituiscono che una parte di quanto la società originator si aspetta di ricavare, nell’ambito della stessa operazione di cartolarizzazione, dalla cessione dei crediti alle SPV.

L’aspetto su cui occorre porre anzitutto evidenza è la circostanza che nell’ambito di un’operazione di cartolarizzazione di crediti è previsto lo svolgimento di una serie di attività, per così dire, “collaterali”, aventi per oggetto i crediti ceduti dall’originator alle SPV. Sulla base delle disposizioni contenute nella legge n. 130/1999, tali prestazioni di servizi – tra le quali rientrano anche le prestazioni di gestione dei crediti ceduti di cui si discute in questa sede – devono essere effettuate da un apposito soggetto abilitato: si tratta, in particolare, di una banca o di un intermediario finanziario iscritto nell’albo ai sensi dell’art. 106 del D.Lgs. n. 385/1993.

Ora, nelle cartolarizzazioni che hanno per oggetto crediti “in bonis”, l’attività di gestione dei crediti ceduti viene, appunto, di regola svolta direttamente dal soggetto che cede tali crediti, l’originator. Il perché di tale circostanza è eminentemente da ricercare in alcuni, determinanti, fattori:

1. un notevole contenimento dei costi complessivi dell’operazione di cartolarizzazione;

2. una maggiore facilità nella gestione dei crediti stessi, dato che l’originator è già in possesso di tutti i dati e gli elementi necessari all’attività di gestione stessa;

3. il mantenimento dell’originario rapporto commerciale fra originator e i propri clienti, che consente una più semplice gestione del credito (considerato che l’originator ben può conoscere le caratteristiche ed eventuali peculiarità dei clienti).

Alla luce dei sopra citati fattori, l’attività di gestione dei crediti svolta dall’originator nei confronti delle SPV sulla base del contratto di servicing costituisce evidentemente una sorta di “costola” delle operazioni di cartolarizzazione intervenute tra lo stesso e le predette SPV. In tale ottica, le commissioni percepite per tale attività di gestione altro non rappresentano che una parte del controvalore allo stesso originator dovuto per la cessione dei crediti alle SVP.

Per quanto in questa sede interessa, è appena il caso di notare che tale impostazione non riguarda chiaramente l’attività vera e propria di recupero di crediti svolta dall’originator in relazione ai crediti che finiscano in sofferenza, chiaramente imponibile agli effetti dell’IVA, ma soltanto l’attività di gestione dei crediti che interessa la fase del loro fisiologico incasso.

Quando l’originator assume anche il ruolo di servicer, il contratto di servicing va dunque a integrare le operazioni di cartolarizzazione: l’originator cede crediti e, per consentire all’acquirente di potere incassare gli stessi, si impegna a svolgere un’attività funzionale a tale attività di incasso. È evidente che la cessione potrebbe in teoria sussistere senza tale attività di gestione, ma l’acquirente potrebbe in tal caso incontrare non poche difficoltà nell’incassare i crediti. L’obbligazione assunta dall’originator tende, appunto, a ovviare a tali difficoltà.

In tale prospettiva è evidente come nel caso in considerazione non si sia in presenza di due operazioni, la cessione del credito e le prestazioni poste in essere in dipendenza del servicing, ma di un’unica operazione: la cessione di crediti per i quali l’originator si impegna a fornire una serie di servizi collaterali, funzionali a consentire al cessionario di fruire adeguatamente del diritto trasferito.

Sotto tale profilo, la vicenda non appare così dissimile:

dalla cessione di un programma standard in precedenza elaborato e commercializzato con successivo adattamento di tale programma alle esigenze specifiche dell’acquirente, anche dietro pagamento di prezzi separati, fattispecie che pacificamente rappresenta un’operazione unica, come riconosciuto sia dalla Corte di Giustizia (7) che dalla stessa Agenzia delle entrate (8);

da un’operazione di cessione di beni di notevole ingombro o peso. Si pensi, ad esempio, alla cessione di una statua di notevole peso il cui acquisto sarebbe in termini pratici precluso all’acquirente se gli obblighi del cedente non includessero anche il trasporto della statua stessa, assumendo quindi il trasporto una valenza fondamentale per l’acquirente al fine di consentirgli l’acquisto del bene. È evidente che, in tal caso, l’operazione di trasporto e la cessione della statua costituiscono un’operazione unica.

Al fine di meglio comprendere quando si sia in presenza di un’operazione unica e quali conseguenze ne derivino agli effetti dell’IVA, merita in primo luogo rilevare che, secondo quanto precisato dalla Corte di Giustizia europea, si è in presenza di un’operazione unica «quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo al cliente sono a tal punto strettamente connessi da formare, oggettivamente, una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale» (9). Quando ciò si verifica, osserva la Corte di Giustizia europea, «come è evidente, le operazioni di cui si compone l’operazione unica non assumono un’autonoma rilevanza ai fini IVA, ma occorrerà riferirsi, a tali fini, all’operazione unica nel suo complesso» (10).

Inoltre, sulla base dell’art. 78, (11) primo comma, lett. b), della Direttiva 2006/112/CE del 28 novembre 2006 (di seguito, la “Direttiva 2006/112/CE”) e dell’art. 12 del D.P.R. n. 633/1972 (12) – che ha recepito la norma comunitaria nell’ordinamento nazionale – anche le prestazioni di carattere accessorio, ovvero prestazioni di per sé distinte dall’operazione principale, non assumono autonoma rilevanza ai fini IVA, giacché i corrispettivi relativi alle stesse, anche se addebitati separatamente dal prezzo dell’operazione principale, confluiscono nella base imponibile dell’operazione principale.

Un fondamentale supporto interpretativo, al fine di comprendere quando due operazioni distinte costituiscano un’operazione unica, è costituito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea.

La Corte ha in particolare chiarito che «quando un’operazione è costituita da una serie di elementi e di atti, si devono anzitutto prendere in considerazione tutte le circostanze nelle quali si svolge l’operazione considerata per determinare, da un lato, se ci si trova di fronte a due o più prestazioni distinte o ad un’unica prestazione» (13) e che, di regola, nel caso in cui siano poste in essere da un determinato soggetto passivo di imposta più operazioni, ciascuna di queste deve essere considerata come autonoma e indipendente e la disciplina IVA dovrà essere autonomamente determinata per ciascuna operazione effettuata (14).

Si è invece in presenza di un’operazione unica «nel caso in cui uno o più elementi debbano essere considerati nel senso che costituiscono la prestazione principale, mentre invece uno o alcuni elementi devono essere considerati come una prestazione accessoria o alcune prestazioni accessorie cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale» (15).

La Corte di Giustizia ha, quindi, ampiamente valorizzato il criterio di funzionalità della prestazione accessoria quale elemento necessario e, per ciò solo, identificativo del nesso che collega le due operazioni, principale e accessoria. In particolare, secondo il consolidato orientamento dei giudici comunitari: «una prestazione deve essere considerata accessoria rispetto a una prestazione principale quando essa non costituisce per la clientela un fine a sé stante bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore» (16).

Una volta che a una determinata operazione sia riconosciuto carattere di accessorietà rispetto a un’altra, questa, come detto, non è autonomamente soggetta a imposta, ma i corrispettivi previsti per l’operazione accessoria concorrono alla determinazione della base imponibile dell’operazione principale, trovando quindi applicazione lo stesso regime applicabile per l’operazione principale (17).

Si deve rilevare che l’impostazione della Corte di Giustizia è stata recepita dall’Amministrazione finanziaria (18).

Ora, nella fattispecie di cui trattasi, le prestazioni di servicing non hanno, invero, un fine a sé stante per le SPV: al contrario, esse in tanto si giustificano in quanto le SPV acquistano dall’originator dei crediti e, insieme a tali crediti, intendono, appunto, acquisire il «mezzo per fruire nelle migliori condizioni» di tali crediti.

Si è, come già anticipato, in presenza in realtà di un’operazione unica, ovvero la cessione di crediti per i quali l’originator si impegna a fornire una serie di servizi collaterali, funzionali a consentire al cessionario di fruire adeguatamente del diritto trasferito, da trattare unitariamente ai fini IVA e quindi – atteso che la cessione dei crediti non è assoggettata a IVA (19) – da considerare, complessivamente, come operazione non assoggettata a imposta.

A tutto voler concedere, certo non potrebbe ravvisarsi un’operazione autonoma – in carenza di un fine a sé stante della stessa – ma si sarebbe semmai in presenza di un’operazione “accessoria” rispetto a quella di cessione dei crediti; e poiché la cessione dei crediti non è assoggettata a IVA (20), anche tale operazione – dovendosi ricomprendere nella base imponibile dell’operazione principale in base alle predette disposizioni (21) – sarebbe quindi non assoggettata a IVA.

È solo per completezza da notare che la circostanza che le prestazioni di servicing e l’operazione di cessione dei crediti costituiscano un’operazione unica non può essere posta in dubbio in presenza di due diversi accordi: uno per la cessione di crediti e un altro per il servicing.

L’art. 78, secondo comma, della Direttiva 2006/112/CE, stabilisce, infatti, che le operazioni accessorie: «soggette ad una convenzione separata possono essere considerate dagli Stati membri come spese accessorie» (22). Tale impostazione è stata recepita dal legislatore nazionale: l’art. 12 del D.P.R. n. 633/1972 non attribuisce, invero, alcuna rilevanza al fatto che le operazioni tra cui è ravvisabile un vincolo di accessorietà siano poste in essere in dipendenza di distinti contratti.

L’irrilevanza di accordi distinti al fine di configurare più operazioni come un’operazione unica – in aderenza alle sopra riportate previsioni normative – è stata confermata, in sede interpretativa, dalla stessa Agenzia delle entrate.

L’Agenzia, soffermandosi sul ricordato caso che prevede la cessione di un programma standard in precedenza elaborato e commercializzato con successivo adattamento di tale programma alle esigenze specifiche dell’acquirente, anche dietro pagamento di prezzi separati – caso in cui è stata come anticipato rilevata la sussistenza di un’operazione unica – ha escluso che la presenza di due distinti contratti possa assumere una qualche rilevanza ai fini della configurazione di un’operazione come unica, affermando che: «La circostanza, evidenziata nell’istanza, secondo la quale si prevede la stipula di due contratti distinti per la fornitura del programma standard, da un lato, e per la concessione in licenza d’uso del software personalizzato, dall’altro, è irrilevante ai fini della qualificazione IVA dell’operazione come prestazione unica, atteso lo stretto nesso oggettivo esistente tra le due operazioni derivante dal fatto che, in mancanza dei lavori di adattamento, il software standardizzato non sarebbe di alcuna utilità economica» (23).

Alla luce di quanto sopra osservato, ai fini della prospettata configurazione come operazione unica, risulta dunque irrilevante che l’attività di gestione dei crediti, resa dall’originator in dipendenza del contratto di servicing, venga disciplinata con un accordo separato rispetto a quello con il quale si regolamenta l’operazione principale (quella di cessione di crediti intervenuta nell’ambito dell’operazione di cartolarizzazione).

3. La disciplina IVA delle operazioni di gestione di crediti

Ove pure non si condividesse la ricostruzione sopra operata, secondo cui le prestazioni di servicing rese dall’originator non hanno ai fini IVA autonoma rilevanza e le commissioni percepite da tale soggetto in base al contratto di servicing costituiscono una parte del controvalore percepito dallo stesso per la cessione dei crediti, restando quindi non assoggettate a IVA, tali commissioni sarebbero in ogni caso da qualificare come corrispettivi di operazioni esenti da imposta, in quanto relative a un’attività di gestione del credito svolta dal concedente, esente agli effetti dell’IVA.

Prima di soffermarsi sul regime IVA applicabile alle prestazioni di gestione di crediti da parte del concedente, giova preliminarmente sgombrare ogni dubbio in relazione alla portata della richiamata disposizione di cui all’art. 10, primo comma, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972.

Si deve anzitutto rilevare che non in tutte le operazioni descritte nella citata disposizione vi è la causa di “finanziamento”. La norma – diversamente da quanto avveniva prima delle modifiche alla stessa apportate dalla legge 18 febbraio 1997, n. 28 – non esenta, infatti, solo le operazioni di “credito e finanziamento” (24), ma comprende anche operazioni di natura ben diversa, prevedendo nel testo oggi vigente il regime di esenzione per: «le prestazioni di servizi concernenti la concessione e la negoziazione di crediti, la gestione degli stessi da parte dei concedenti e le operazioni di finanziamento; l’assunzione di impegni di natura finanziaria, l’assunzione di fideiussioni e di altre garanzie e la gestione di garanzie di crediti da parte dei concedenti; le dilazioni di pagamento, le operazioni, compresa la negoziazione, relative a depositi di fondi, conti correnti, pagamenti, giroconti, crediti e ad assegni o altri effetti commerciali, ad eccezione del recupero di crediti; la gestione di fondi comuni di investimento e di fondi pensione di cui al decreto legislativo 21 aprile 1993, n. 124, le dilazioni di pagamento e le gestioni similari e il servizio bancoposta».

Pertanto, la disposizione di cui all’art. 10, primo comma, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972, prevede l’applicazione della disciplina di esenzione non soltanto per operazioni aventi causa di finanziamento, ma anche per operazioni non aventi tale causa, come, ad esempio, quelle legate ai conti correnti o ai pagamenti e, appunto, come meglio di seguito sarà evidenziato, quelle di gestione dei crediti da parte del concedente (25).

Per quanto risulti evidente che l’attività posta in essere dalla società cedente nella fattispecie in considerazione non è in alcun modo di finanziamento – il soggetto che finanzia è, infatti, se mai, la SPV – ciò evidentemente non comporta che si sia in presenza di un’operazione imponibile, attesa la previsione di esenzione anche per operazioni non aventi causa di finanziamento e, segnatamente, come subito appresso si vedrà, per le prestazioni di gestione dei crediti poste in essere dai soggetti che hanno concesso gli stessi.

Invero, tali operazioni sono ricomprese fra le operazioni esenti di cui all’art. 13, par. B, lett. d), n. 1, della Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE (di seguito, “la VI Direttiva”), poi trasfusa nell’art. 135, par. 1, lett. b), della Direttiva n. 2006/112/CE, che prevede l’applicazione della disciplina di esenzione per: «la concessione e la negoziazione di crediti nonché la gestione di crediti da parte di chi li ha concessi».

Ebbene, la traduzione ufficiale italiana della stessa norma recita: «gestione dei crediti da parte di chi li ha concessi», confermando il senso di continuità soggettiva fra attività di concessione del credito, da una parte, e gestione dello stesso.

È evidente che, nella norma, si prendono in considerazione due fattispecie ben diverse: da un lato un’attività di finanziamento, dall’altro un’attività di gestione del credito – vale a dire proprio un’attività di carattere amministrativo relativa al credito – che non si traduce nella concessione di un finanziamento: diversamente la specificazione dell’inclusione della gestione sarebbe del tutto pleonastica, il che contrasterebbe con il noto principio ermeneutico del “legislatore efficiente” o del “legislatore non ridondante” (26).

L’art. 135, par. 1, lett. d), della Direttiva 2006/112/CE, prevede poi l’applicazione della disciplina di esenzione per le «operazioni, comprese la negoziazione, relative a depositi di fondi, ai conti correnti, ai pagamenti, ai giroconti, ai crediti, agli assegni e ad altri effetti commerciali, ad eccezione del recupero dei crediti».

Abbiamo riportato poc’anzi come la normativa nazionale abbia “tradotto” e fatto propria la disposizione della Direttiva comunitaria (27) della normativa comunitaria sopra citata, sicché sono da considerarsi esenti agli effetti dell’IVA:

sia le operazioni di gestione dei crediti da parte del concedente,

che le prestazioni relative a crediti, fatta eccezione per le prestazioni di recupero di crediti.

Nel caso di specie, dunque – anche ad ammettere che alle prestazioni di servicing possa attribuirsi rilevanza autonoma (tesi che, per le ragioni sopra esposte, non si può condividere) – le stesse non potrebbero comunque ritenersi imponibili ai fini IVA ai sensi dell’art. 135, par. 1, lett. b), della Direttiva 2006/112/CE, e dell’art. 10, primo comma, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972, secondo cui, appunto, l’attività di gestione dei crediti se effettuata dal soggetto concedente i crediti (circostanza che sussiste nel caso in considerazione) costituisce un’operazione esente agli effetti dell’IVA.

In proposito si potrebbe altresì rilevare che la citata norma IVA faccia riferimento, quali “concedenti” dei crediti, agli “attuali titolari” degli stessi e che l’esenzione da IVA non possa essere quindi riconosciuta alla gestione creditizia effettuata dalla banca originator la quale, con l’operazione di cartolarizzazione, si è ormai spogliata della titolarità dei crediti ceduti alla SPV (28). Si limiterebbe, in sostanza, l’esenzione a quell’insieme di attività, specificamente remunerate, poste in essere dal creditore – per lo più le banche – durante la vita del finanziamento concesso, ivi compreso l’esame della solidità economica del cliente affidato, attraverso un’accurata analisi patrimoniale e reddituale dell’impresa anche al fine del rinnovo, dell’ampliamento o della riduzione del fido, e un’attività più prettamente amministrativa espletata dalle banche su richiesta della clientela consistente, ad esempio, nel rilascio di certificazioni di interessi di dichiarazioni di passività ai fini successori, ecc.

Si deve tuttavia rilevare che la disposizione – là dove menziona la gestione dei crediti da parte del concedente – dà per scontato che si tratti di prestazioni diverse da quelle di gestione rese dall’originario concedente nei confronti dell’originario finanziato. Se disciplinasse tali prestazioni la norma sarebbe, di nuovo, del tutto pleonastica, contrastando con il noto principio ermeneutico del “legislatore efficiente” o del “legislatore non ridondante” (29), giacché tale attività di gestione formerebbe insieme all’attività di concessione del credito, per quanto sopra detto, una prestazione unica. La disposizione deve quindi essere intesa a disciplinare proprio la gestione di crediti da parte di un soggetto che ha ceduto gli stessi.

4. La non pertinenza della giurisprudenza comunitaria e della prassi dell’Amministrazione finanziaria

Invero, risulta che gli organi verificatori – a sostegno della pretesa imponibilità delle prestazioni rese dalla società originator alle SPV sulla base del contratto di servicing – fondino il loro convincimento richiamando le motivazioni espresse nelle citate sentenze della Corte di Giustizia europea causa C-305/01 del 2003, e causa C-175/09 del 2010, e nella citata risoluzione n. 130/E/2007.

Tali sentenze, nel caso in considerazione, appaiono però del tutto inconferenti, non assumendo nella specie alcuna rilevanza.

La prima ragione è che la Corte di Giustizia nelle predette sentenze si è soffermata sulla disposizione di cui all’art. 13, parte B, lett. d), n. 3, della VI Direttiva, attuale art. 135, par. 1, lett. d), della Direttiva 2006/112/CE, e non sull’art. 13, parte B, lett. d), n. 1, della VI Direttiva, attuale art. 135, par. 1, lett. b), della Direttiva 2006/112/CE, che prevede l’applicazione del regime di esenzione per le prestazioni di gestione di crediti da parte del concedente.

Atteso che nel caso in questa sede in considerazione si ricade chiaramente nell’ambito applicativo dell’art. 135, par. 1, lett. b), della Direttiva 2006/112/CE (che dispone appunto l’applicazione della disciplina di esenzione per «la gestione di crediti da parte di chi li ha concessi»), le sentenze della Corte di Giustizia appaiono quindi inconferenti.

È, invero, da evidenziare che la Corte di Giustizia europea sia nella già citata causa C-305/01 del 2003 che nell’altrettanto già citata causa C-175/09 del 2010 (ove, peraltro, si discuteva in merito alla diversa fattispecie contrattuale del factoring), si è pronunciata su vicende nelle quali l’attività di gestione del credito è effettuata non dal cedente, ma dal cessionario del credito o da altro soggetto. È per questo che la norma che viene in rilievo in tali sentenze è il numero 3 e non il numero 1 dell’art. 13, parte B, lett. d), della VI Direttiva.

La fattispecie ivi esaminata è quindi del tutto diversa da quella di cui al caso in considerazione, dato che in questo l’attività di gestione del credito è svolta proprio dal cedente del credito.

Anche richiamarsi al caso esaminato dalla già citata risoluzione n. 130/E/2007 non assume la valenza che alla stessa si intenderebbe attribuire, per sostenere l’imponibilità delle prestazioni rese dall’originator alla SPV in base al contratto di servicing.

In tale risoluzione, innanzitutto, il tema del regime IVA applicabile alle prestazioni rese in dipendenza di un contratto di servicing è affrontato soltanto per incidens, essendosi la stessa soffermata soltanto sul regime territoriale dell’operazione (mentre, da un punto di vista sostanziale, le operazioni venivano considerate atomisticamente, dato che l’operazione di cartolarizzazione non è stata esaminata nel suo complesso).

È poi da osservare che la citata risoluzione si è espressa con riferimento ad un caso avente a oggetto crediti in sofferenza e che quindi implica effettivamente un’attività di recupero, mentre in questa sede si discute, eminentemente, di un’attività di gestione di crediti in bonis.

Last but not least, nella risoluzione n. 130/E/2007, il soggetto che aveva proposto quell’interpello era un intermediario finanziario diverso dall’originario concedente i crediti oggetto dell’operazione di cartolarizzazione considerata.

Nel caso qui esaminato, invece, tali prestazioni sono rese dal soggetto originator: tale circostanza, per le considerazioni espresse in precedenza nelle presenti osservazioni, porta addirittura a escludere che le prestazioni di servicing abbiano un’autonoma rilevanza ai fini IVA.

Del resto, proprio nelle modalità di determinazione delle commissioni previste a fronte di tale attività, che non sono parametrate all’ammontare dei crediti effettivamente incassati, ma sono calcolate in una percentuale su base annua dell’ammontare residuo dei crediti amministrati, sembra risolutiva al fine di dimostrare che la “causa giuridica” dell’intera prestazione sia quella della gestione dei crediti, e non quella del loro recupero (coattivo).

Ciò evidenzia addirittura un rapporto di proporzionalità inversa tra le commissioni percepite per l’attività di servicing e l’ammontare dei crediti in scadenza incassati: le commissioni in questione sono tanto più elevate quanto meno efficiente è l’attività di incasso dei crediti!

È evidente, dunque, che, anche alla luce delle sopra evidenziate modalità di determinazione delle commissioni, non si è in presenza di un’attività di recupero di crediti imponibile agli effetti dell’IVA, bensì di un’attività di gestione di crediti esente a tali ultimi effetti.

Invero, come tradizionalmente definita nel nostro sistema IVA, la diversa attività di “recupero crediti”, espressamente esclusa nel già citato art. 10, primo comma, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972, tra le operazioni finanziarie esenti, doveva essere circoscritta: «all’attività di recupero/riscossione del “quantum” dovuto dal debitore, posta in essere a fronte di inadempienze del debitore (ad esempio, procedure esecutive e concorsuali o connesse alla vendita all’asta), e non anche alla mera attività amministrativa connessa ai sistemi di incasso (ad esempio, inviti a pagare, lettere sollecitatorie di pagamento)» (30).

Ma il contenuto della richiamata sentenza della Corte di Giustizia causa C-175/09 del 2010 merita ulteriori osservazioni.

Tale sentenza (richiamata dalla stessa Agenzia delle entrate in una recente risoluzione, seppure riferita alla diversa fattispecie del factoring) (31), sembra estendere la nozione di “recupero crediti”, per sua natura imponibile a IVA, rispetto a quella tradizionale sopra ricordata, ricomprendendo il servizio di “raccolta e gestione dei pagamenti dei crediti”, anche se effettuati nei termini pattuiti, prestato da un terzo soggetto.

Sicché anche l’incasso di un credito in bonis, secondo le puntualizzazioni della Corte, rientrerebbe nell’imponibilità dell’IVA se specificatamente retribuito come un servizio, in quanto a nulla rileva per la sua qualificazione che sia fornito alla scadenza del credito e ciò a prescindere dal fatto che si tratti di crediti per i quali sia già intervenuta l’inadempienza da parte del debitore, in quanto «una prestazione di servizi può essere ricompresa nella nozione di recupero di crediti anche qualora concerna crediti non ancora scaduti, e che saranno puntualmente pagati allo spirare del termine».

Non appare, invero, così pertinente il richiamo alla fattispecie esaminata in quell’occasione della Corte (al di là di altri obiettivi motivi di critica alle sue motivazioni, che esamineremo nel paragrafo che segue), atteso che si prende in considerazione (32) l’assunzione del prestatore del servizio dell’«incarico del recupero di crediti per conto del titolare degli stessi» e così facendo «libera i propri clienti da compiti che, senza il suo intervento, questi ultimi, in qualità di creditori, dovrebbero effettuare da soli».

Orbene, nella cartolarizzazione, come si è visto in precedenza, tale attività di riscossione dei pagamenti è addirittura necessitata perché, ai sensi del citato art. 6 della legge n. 130/1999, la SPV deve di fatto affidare detto servizio all’apporto di terzi, fra cui risulta frequentemente compresa la banca originator, perché questa già dispone di tutta la documentazione relativa alle gestione di tali crediti e possiede la struttura gestionale e amministrativa a ciò preposta.

Inoltre, la stessa sentenza evidenzia (33) che «l’oggetto economico di tali atti è il trasferimento dell’importo dovuto ogni mese dal paziente del dentista. Il trasferimento della somma dovuta verso il conto corrente del prestatore di servizi presenta un’utilità per il cliente di quest’ultimo solamente se detta somma, diminuita della retribuzione del prestatore di servizi, viene successivamente versata al cliente e se il prestatore di servizi accredita al medesimo gli importi ricevuti».

Al contrario, nella commissione contestata, riguardante la complessa operazione di “gestione di crediti da parte del concedente” (in cui senz’altro rientra l’incasso dei crediti in bonis, spontaneamente pagati dai debitori, ma ciò non rappresenta, evidentemente, la parte esclusiva né predominante dell’intera prestazione), non è parametrata all’ammontare dei crediti effettivamente incassati ma è calcolata su base annua dell’ammontare residuo dei crediti amministrati (anzi, paradossalmente – come è già stato notato – più sono consistenti i crediti in scadenza incassati più basso risulta l’ammontare di detta commissione).

A ben vedere, però, anche a voler sostenere l’assunto che quando un terzo incaricato intervenga, percependo un’apposita “commissione”, in un’operazione di pagamento e provveda al trasferimento di quanto incassato al titolare del relativo credito, si concretizzi comunque un’operazione imponibile di “recupero crediti”, ciò porterebbe allo stravolgimento di consolidati convincimenti maturati in materia IVA.

Come si ricorderà, il più volte citato n. 1 del primo comma dell’art. 10 del D.P.R. n. 633/1972 è stato riscritto – con un certo tardivo adeguamento a quanto già disposto dalla VI Direttiva CE – dall’art. 4, primo comma, lett. b), della legge n. 28/1997, al fine di ricomprendere, fra le operazioni finanziarie esenti da IVA, fra l’altro, le «operazioni … relative a … pagamenti».

Conseguentemente, dall’entrata in vigore di detta legge sono stati indubitabilmente trattati in esenzione da IVA i corrispettivi pattuiti per le operazioni di bonifico, riscossione, pagamento, domiciliazione di utenze, ecc., per le quali in passato si applicava il tributo.

Sull’argomento vale altresì ricordare la fondamentale sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia CE (34), le cui motivazioni sono state più volte richiamate dalla stessa nostra Amministrazione finanziaria (35), quando si è espressa in materia del c.d. “outsourcing bancario”.

In particolare, proprio in riferimento all’attività di “riscossione e pagamento”, è stata diffusamente affermata la sua natura di servizio esente da IVA, anche se questo viene prestato da terzi (pur rispettando tutte le condizioni giuridiche e tecniche esplicitate nella stessa sentenza, riscontrabili ed evidentemente rispettate nella fattispecie che ci occupa). Avendo poi questa esenzione carattere “oggettivo”, non è nemmeno necessario che tale attività sia necessariamente prestata da una banca o sia svolta in una determinata maniera, elettronica o manuale.

Non v’è chi non veda come si appalesi un’evidente contraddizione fra quanto espresso in questa sentenza, emanata dai medesimi giudici comunitari, e in quella della causa C-175/09 del 2010.

Né basta semplicemente osservare che quest’ultima sia stata pronunciata più recentemente, visto che la stessa non risulta approfondita e circostanziata e non fornisce, peraltro, sufficienti chiarimenti in ordine alle caratteristiche che le prestazioni di servizi di “pagamento” e di “gestione di crediti” devono avere per beneficiare dell’esenzione riconosciuta dalla norma.

Del resto, la stessa nostra Amministrazione finanziaria, nell’unica declaratoria in cui richiama la sentenza causa C-175/09 del 2010 (36), focalizza la sua attenzione esclusivamente sul diverso contratto di factoring, perdendo l’occasione di fornire chiarimenti in merito all’impatto che la sentenza potrebbe avere sulle commissioni di servicing e, in particolare, sull’attività di riscossione e pagamento.

Ma è stato considerato quale sarebbe il normale sviluppo a cui si arriverebbe se quell’assunto circa l’equiparazione del trattamento fiscale fra la “riscossione dei pagamenti” e il “recupero crediti” venisse confermato? Se così fosse, diverrebbe imponibile a IVA qualsiasi commissione pattuita per l’effettuazione di pagamenti intermediati da un terzo (esempio: bonifici bancari, domiciliazione delle utenze, R.I.D., ecc.), disapplicando evidentemente quanto disposto sin dal 1997 con le modifiche intervenute con la citata legge n. 28/1997.

5. Sulla valenza delle sentenze della Corte di Giustizia CE

A conclusione di quanto esposto, ci preme formulare ulteriori considerazioni, più generali, in merito all’asserita efficacia nel nostro ordinamento di quanto statuito dai giudici della Corte di Giustizia CE.

Come è noto, diversamente di quanto avviene con l’emanazione di un “regolamento comunitario”, la “Direttiva” richiede, in linea di principio, un intervento del legislatore nazionale teso a introdurre il principio comunitario e ad adattarlo, ove ammesso e, comunque, nei limiti indicati dalla Direttiva stessa, alle esigenze interne.

Di conseguenza, gli effetti della Direttiva sono, di norma, dipendenti dalla trasposizione nel diritto interno delle norme ivi contenute. Peraltro, può verificarsi l’ipotesi di efficacia diretta del provvedimento comunitario quando esso disponga in merito ad un comportamento meramente omissivo del Paese destinatario. In tale ipotesi, non essendo richiesto alcun provvedimento di recepimento, la Direttiva assume efficacia diretta.

È questo il caso anche delle Direttive c.d. self executing, in cui il dettato normativo comunitario è talmente dettagliato e privo di spazi interpretativi e applicativi da parte dello Stato membro da rendere superflua l’attività di trasposizione.

In ogni caso, l’esigenza dell’apposito provvedimento interno di attuazione non diminuisce il requisito vincolante della Direttiva e ne determina la prevalenza, laddove la norma nazionale sia assente (ipotesi di mancato recepimento) o in contrasto (ipotesi di errato recepimento) rispetto alla disposizione comunitaria.

Il principio secondo cui le norme contenute nelle Direttive comunitarie potrebbero avere efficacia immediata e diretta nell’ordinamento nazionale è ormai consolidato (37). In particolare, sulla base di questo principio, la Corte Costituzionale ha indicato che i due ordinamenti, comunitario e statale, «sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato» e le norme del primo vengono, in forza dell’art. 11 Cost., a ricevere “diretta applicazione” nel secondo, pur rimanendo estranee al sistema delle fonti statali (38). Come pure precisato dalla Corte Costituzionale, «L’effetto di tale diretta applicazione … non è, quindi, la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che pertanto sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario» (39).

Secondo i principi sopra enunciati, la diretta efficacia della norma comunitaria comporta, da un lato, la possibilità di applicare in via prioritaria le disposizioni della Direttiva, disattendendo le norme in contrasto, emanate dal legislatore interno; e, dall’altro lato, impedisce al legislatore stesso di emanare una disposizione interna in contrasto con la norma comunitaria, se la norma interna è emanata successivamente a quella comunitaria.

In secondo luogo, anche nell’ambito del rapporto “verticale”, la preminenza della norma comunitaria deve essere valutata al solo vantaggio dell’amministrato e non anche dello Stato membro, essendo riconosciuto solo al cittadino leso dalla mancata attuazione della Direttiva il diritto di invocare dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni non recepite e di agire per il risarcimento dei danni nei confronti dello Stato inadempiente (40). Viceversa lo Stato che, a causa dell’inosservanza dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria, viene sanzionato dai giudici comunitari, non può far valere a suo favore gli effetti di una normativa non recepita, traendo così vantaggio dalla propria inadempienza e dai propri ritardi.

Tale conclusione non è soltanto un logico corollario delle osservazioni sopra rese, ma trova specifico e definitivo conforto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia che differenzia, relativamente all’efficacia della Direttiva, la posizione della pubblica Amministrazione da quella del cittadino. In pratica, i cittadini sono vincolati solo dagli atti normativi e regolamentari adottati dagli Stati in esecuzione alla Direttiva, mentre quest’ultima, in quanto tale, non è opponibile ai privati, che non possono mai essere obbligati, in forza di essa, nei confronti dello Stato e di altri soggetti giuridici.

Il principio elaborato dalla Corte afferma precisamente che l’efficacia diretta – a date condizioni – di una Direttiva tutela i privati qualora lo Stato non abbia adempiuto ai suoi obblighi, ma non fornisce un’arma agli Stati membri, considerando che una simile interpretazione condurrebbe a imporre ai singoli degli obblighi, contrariamente al disposto dell’art. 249 del Trattato UE.

In sostanza una Direttiva non può far nascere di per sé obblighi diretti a carico dei privati e le sue disposizioni non possono essere invocate, in quanto tali, contro di essi (41). Sul punto la Corte di Giustizia si è pronunciata in modo inequivoco:

«In tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono essere, sotto il profilo del contenuto, assolute ed adeguatamente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato, vuoi nel caso che questo omette di trasporre tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale, vuoi quando ne effettua una trasposizione errata. Tuttavia, a norma dell’articolo 189 del Trattato [ora 249, n.d.a.], la natura vincolante della direttiva, sulla quale si basa la possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale, sussiste unicamente nei confronti dello Stato membro cui è rivolta. Ne consegue che la direttiva non può di per sé imporre degli obblighi ai singoli e che non può, quindi essere fatta valere come tale a carico del singolo stesso dinanzi al giudice nazionale. Nell’applicare il diritto nazionale, ed in particolare la legge nazionale appositamente adottata in esecuzione della direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto alla luce dello scopo e dell’ottica della direttiva, onde ottenere il risultato di cui si parla all’articolo 189 del Trattato. Quest’obbligo trova, tuttavia, dei limiti nei principi generali del diritto che fanno parte del diritto comunitario in particolare quelli della certezza del diritto e della irretroattività. La direttiva non può, quindi, avere effetto, di per sé e indipendentemente dalla legge nazionale adottata da uno Stato membro per la sua applicazione, di determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni» (42).

Venendo ora ad esaminare la fondamentale funzione interpretativa svolta dalla Corte di Giustizia CE, si osserva che l’attività di controllo e, se del caso, di rettifica della norma nazionale rispetto al dato comunitario deve essere ovviamente oggetto di verifica giudiziale, considerando che la costante giurisprudenza su questo punto afferma (43) il diritto del soggetto amministrato di invocare la Direttiva e di far valere, anche attraverso l’azione giudiziaria comunitaria, i principi ivi contenuti.

Sotto questo profilo, occorre ricordare gli effetti delle azioni promosse per l’inosservanza, la falsa o mancata applicazione del provvedimento oggetto di una Direttiva da parte dello Stato membro, da esperirsi presso la Corte di Giustizia dell’Unione europea (44). La questione dell’immediata efficacia delle Direttive viene risolta attraverso una procedura specifica, detta “rinvio pregiudiziale”, promossa dal soggetto che ne abbia interesse (il soggetto amministrato) contro lo Stato inadempiente nei confronti del diritto comunitario.

L’art. 234 del Trattato (ex art. 177) prevede infatti tre oggetti del rinvio pregiudiziale riguardanti:

1) le interpretazioni delle norme del Trattato;

2) la validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni comunitarie;

3) l’interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del Consiglio, ove sia previsto dagli statuti stessi.

Per quanto concerne il diritto tributario, gli aspetti significativi del rinvio sono dati dai primi due punti e riguardano, in sintesi, l’interpretazione di norme ben identificate o del Trattato stesso o di un atto di diritto derivato (ad esempio, un regolamento, una Direttiva, una decisione) o di qualunque atto comunitario che produca effetti giuridici.

Il procedimento pregiudiziale si fonda su una ripartizione delle funzioni tra il giudice di rinvio (cioè il giudice nazionale) e quello comunitario. Il problema della coesistenza di due giurisdizioni (comunitaria e nazionale) va risolta tenendo presente che i due giudici sono in posizione gerarchica (l’uno rispetto all’altro), ma operano su piani autonomi: il primo (quello nazionale) nell’ambito dell’impianto normativo interno; il secondo (comunitario) rispetto alle norme comunitarie.

In questo senso, i giudici nazionali sono chiamati a cooperare con i giudici comunitari per assicurare l’uniformità del diritto comunitario in tutta l’Unione europea.

Va segnalata, in proposito, la Raccomandazione della Corte ai giudici nazionali (45), ove sono precisati alcuni aspetti significativi del procedimento di rinvio pregiudiziale per rendere più proficua la cooperazione fra i giudici nazionali e quelli comunitari, e consentire alla Corte di meglio rispondere alle aspettative nazionali.

In particolare viene precisato che ogni giudice nazionale può chiedere alla Corte di interpretare una norma di diritto comunitario, contenuta nel Trattato o in un atto di diritto derivato, qualora lo ritenga necessario ai fini della soluzione della controversia ad esso sottoposta.

I giudici, le cui decisioni non sono suscettibili di ricorso giurisdizionale interno, sono tenuti a sottoporre alla Corte le questioni di interpretazione sollevate dinanzi ad essi, salvo che non esista già una giurisprudenza in materia, ovvero quando la corretta applicazione della norma comunitaria sia del tutto chiara.

Questo aspetto sta ad indicare che il rinvio pregiudiziale è precluso quando la questione sia già stata risolta dalla Corte di Giustizia, ovvero non necessiti di chiarimento, considerata la chiara interpretazione della norma comunitaria (46).

Le sentenze pregiudiziali emesse dall’organo di giustizia comunitario esplicano, di regola, efficacia inter partes, ovvero fra il soggetto passivo-attore e lo Stato-convenuto. Tuttavia, considerato l’effetto di “nomofilattico” delle sentenze della Corte di Giustizia, similmente – ma ancor più – a quanto previsto per le sentenze rese dalla Corte di Cassazione, gli interventi giurisprudenziali della Corte del Lussemburgo acquistano valore di precedente, vincolante per lo Stato membro soccombente e, incidendo nel tessuto legislativo interno, assumono efficacia erga omnes (47).

In sostanza le sentenze della Corte di Giustizia incidono concretamente sulla norma di diritto interno in contrasto o incompatibile con la disposizione comunitaria e determinano la “disapplicazione” della prima e l’applicazione della seconda.

L’effetto è, dunque, non di “vuoto” legislativo ma, più correttamente, di “inerzia” della disposizione interna dichiarata in contrasto con il principio comunitario (48).

Peraltro, l’attenzione del legislatore interno agli interventi della Corte di Giustizia è, per così dire, normalizzata, considerando che l’art. 2, terzo comma, della legge 9 marzo 1989, n. 86 (c.d. “legge La Pergola”), stabilisce che nella relazione introduttiva al disegno di legge c.d. “comunitaria” si dia conto della giurisprudenza della Corte per quanto riguarda le sentenze aventi riflessi, sotto il profilo giuridico-istituzionale, sull’ordinamento interno, e per quelle relative alle eventuali inadempienze e violazioni degli obblighi comunitari da parte della Repubblica italiana.

Dopo questa lunga disgressione, seppur doverosa (49), appare evidente la fondamentale funzione svolta dalla Corte di Giustizia CE e non si è lontani dal vero se si afferma che le sue sentenze, così incidenti nel tessuto normativo, prima comunitario, ma anche su quello dei singoli Stati membri, debbano essere valutate al pari di quanto avviene con l’emanazione delle Direttive comunitarie.

Sicché si può sostenere che la portata di dette sentenze sia destinata, in primis, ai legislatori degli Stati membri (che dovrebbero adeguare conseguentemente le normative nazionali) prima ancora che nei confronti del contribuente che nel suo comportamento si è adeguato, con legittimo affidamento, alla disciplina tuttora vigente.

Si noti, come esempio, quello che è recentemente avvenuto, nel nostro ordinamento, con la modifica introdotta dall’art. 1, comma 520, lett. b), della legge 24 dicembre 2012, n. 228, al n. 4 del citato art. 10 del D.P.R. n. 633/1972, al fine di considerare imponibile ad IVA il “servizio di gestione individuale di portafogli”, proprio in adeguamento di quanto pronunciato in merito da una sentenza della Corte di Giustizia europea (50).

Non a caso, però, la stessa legge n. 228/2012 (51) ha espressamente statuito che detta modifica debba aver vigore solo dal momento della sua entrata in vigore (1° gennaio 2013), per non creare pregiudizio ai contribuenti interessati che legittimamente si sono comportati secondo le diverse disposizioni previgenti.

Per tornare proprio alle più volte già citate sentenze della Corte di Giustizia europea causa C-305/01 del 2003 e causa C-175/09 del 2010, così fondamentalmente richiamate dai funzionari che hanno proceduto alle verifiche di cui in premessa a sostegno delle proprie tesi, l’unico ordinamento fiscale tra gli Stati membri che ci risulti si sia adeguato al suo disposto è quello della Gran Bretagna, ove è stato previsto (52):

«Folling the AXA judgment, therefore, “debt collection” cannot be seen as applying solely to the service of chasing and recovering overdue payments on behalf of the creditor and all services principally concerned with collecting payments from the person owing them for the benefit of the entity to which those payment are owed (regardless of whether those payament are received before, on, or after their due data) fall within the exclusion to the exemption and are consequently liable to VAT at the standard rate.

Supplies which involve the collection of payment as a minor or ancillary function but which are principally concerned with other payment related transaction that fall within the Article 135 exemption, for example the movement and settlement of payments between bank accounts, will not be affected by the AXA judgment and will continue to fall within the VAT exemption».

Pertanto, se da una parte viene – in recepimento della sentenza dei giudici di Lussemburgo – allargata la nozione di “recupero crediti” (“debt collection”), da assoggettare ad IVA, al punto che essa non deve essere più limitata alla riscossione coattiva dei crediti scaduti, ma comprendere anche al loro incasso entro i termini pattuiti, dall’altra tale modifica troverà applicazione a decorrere dalla data della sua emanazione (12 gennaio 2012), senza alcun effetto retroattivo alle situazioni pregresse, già diversamente disciplinate.

Non a caso, poi, al fine di evitare le perplessità applicative prima accennate circa la possibile estensione dell’interpretazione giurisprudenziale anche a operazioni di intermediazione nell’incasso di crediti che, comunque, devono mantenere l’esenzione da IVA, viene specificato che questo trattamento persiste per i pagamenti effettuati tramite accrediti su conti bancari («for example the movement and settlement of payments between bank accounts, will not be affected by the AXA judgment and will continue to fall within the VAT exemption»).

Ora, invece, come abbiamo avuto occasione di verificare, negli accertamenti finora notificati in materia, non solo vengono contestati ai contribuenti (nello specifico, sia alle società originator che alle SPV, per una pretesa loro responsabilità per aver accettato dai primi fatture in esenzione da IVA) comportamenti che, con legittimo affidamento, sono sempre risultati conformi alla letteralità delle norme vigenti, ma addirittura si risale a ritroso nel tempo (fino alle annualità non ancora prescritte), ben anteriori alla data di pubblicazione della sentenza AXA che si richiama.

L’inapplicabilità delle cause C-305/01 del 2003 e C-175/09 del 2010 alla normativa italiana, del resto, appare allo stato attuale talmente solare da essere stata riconosciuta dalla stessa Agenzia delle entrate. Nella citata risoluzione n. 139/E/2004 – poi confermata dalla risoluzione n. 32/E/2011 – viene infatti disapplicata la prima delle due ricordate sentenze, cui la seconda delle due ricordate sentenze si richiama. A tale conclusione l’Agenzia delle entrate perviene facendo rilevare la differenza tra la disciplina italiana delle operazioni finanziarie e quella di altri ordinamenti, ai quali la prima delle due ricordate sentenze si riferisce. In presenza di tale differenza, riconosciuta dalla stessa Agenzia delle entrate, non si vede come si possa dare ingresso diretto a criteri comunitari enunciati da sentenze della Corte di Giustizia che – a prescindere dalla loro inconferenza, rilevata nel paragrafo 4 del presente elaborato – per stessa ammissione dell’Agenzia delle entrate non trovano applicazione nell’ordinamento giuridico nazionale!

 

Dott. Pierpaolo Maspes – Avv. Gianni Polo

(1) Sulla riconducibilità nel campo di applicazione dell’IVA, in regime di esenzione, delle cessioni di crediti aventi la finalità di far ottenere al cedente la monetizzazione del credito cfr. ris. 24 maggio 2000, n. 71/E, in Boll. Trib., 2001, 377; ris. 17 novembre 2004, n. 139/E, ivi, 2004, 1741; e ris. 11 marzo 2011, n. 32/E, ivi, 2011, 688.

(2) Cfr., in tal senso, comunicazione Banca d’Italia 31 marzo 2000, n. 38653.

(3) Cfr. parere ABI 19 settembre 2001, n. 712.

(4) In Boll. Trib. On-line.

(5) In Boll. Trib., 2011, 1820.

(6) In Boll. Trib. On-line.

(7) Cfr. Corte Giust. CE, sez. I, 27 ottobre 2005, causa C-41/04, in Boll. Trib. On-line.

(8) Cfr. ris. 1° dicembre 2008, n. 456/E, in Boll. Trib. On-line.

(9) Cfr. Corte Giust. CE causa C-41/04 del 2005, cit.; Corte Giust. CE, sez. II, 21 febbraio 2008, causa C-425/06, in Boll. Trib. On-line; Corte Giust. UE, sez. II, 11 giugno 2009, causa C-572/07, in Boll. Trib., 2009, 1804; Corte Giust. UE, sez. III, 10 marzo 2011, cause riunite C-497/09, C-499/09, C-501/09 e C-502/09, in Boll. Trib. On-line; Corte Giust. UE, sez. II, 19 luglio 2012, causa C-44/11, ivi; Corte Giust. UE, sez. VI, 27 settembre 2012, causa C-392/11, ivi; Corte Giust. UE, sez. V, 21 febbraio 2013, causa C-18/12, ivi; e Corte Giust. UE, sez. I, 7 giugno 2013, causa C-155/12, ivi.

(10) Cfr., in particolare, Corte Giust. UE causa C-44/11 del 2012, cit.

(11) Cfr. l’art. 78 della Direttiva 2006/112/CE, secondo cui nella base imponibile di una data operazione (principale) «devono essere compresi gli elementi seguenti: (…) le spese accessorie, quali le spese di commissione, di imballaggio, di trasporto e di assicurazione addebitate dal fornitore all’acquirente o al destinatario della prestazione».

(12) Cfr. l’art. 12, primo comma, del D.P.R. n. 633/1972, ai sensi del quale le cessioni o prestazioni accessorie a una cessione di beni o a una prestazione di servizi, che intercorrono tra le stesse parti dell’operazione principale, nei rapporti tra tali parti «non sono soggette autonomamente all’imposta».

(13) Cfr. Corte Giust. CE causa C-41/04 del 2005, cit.; Corte Giust. UE cause riunite C-497/09, C-499/09, C-501/09 e C-502/09 del 2011, cit.; Corte Giust. UE causa C-44/11 del 2012, cit.; e Corte Giust. UE causa C-18/12 del 2013, cit.

(14) Cfr. Corte Giust. CE causa C-425/06 del 2008, punto 50, cit.; Corte Giust. UE causa C-572/07 del 2009, punto 17, cit.; Corte Giust. UE, sez. IV, 19 novembre 2009, causa C-461/08, punto 35, in Boll. Trib. On-line; e Corte Giust. UE, sez. III, 2 dicembre 2010, causa C-276/09, punto 21, ivi.

(15) Cfr. Corte Giust. CE, sez. VI, 25 febbraio 1999, causa C-349/96, punto 30, in Boll. Trib. On-line; Corte Giust. CE 15 maggio 2001, causa C-34/99, punto 45, in Boll. Trib., 2001, 1265; Corte Giust. CE causa C-41/04 del 2005, cit.; e Corte Giust. CE causa C-44/11 del 2012, punto 21, cit.

(16) Cfr. Corte Giust. CE, sez. V, 22 ottobre 1998, cause riunite C-308/96 e C-94/97, punto 24, in Boll. Trib. On-line; Corte Giust. CE causa C-349/96 del 1999, punto 30, cit.; Corte Giust. CE, sez. VI, 11 gennaio 2001, causa C-76/99, punto 27, in Boll. Trib. On-line; Corte Giust. CE causa C-34/99 del 2001, punto 45, cit.; Corte Giust. CE, sez. VI, 3 luglio 2001, causa C-380/99, punto 20, in Boll. Trib. On-line; Corte Giust. UE causa C-572/07 del 2009, punto 18, cit.; Corte Giust. UE, sez. I, 11 febbraio 2010, causa C-88/09, punto 24, in Boll. Trib. On-line; e Corte Giust. CE causa C-276/09 del 2010, punto 25, cit.

(17) Cfr. l’art. 78 della Direttiva 2006/112/CE e l’art. 12 del D.P.R. n. 633/1972.

(18) In particolare, nella ris. 11 febbraio 1998, n. 6/E, in Boll. Trib., 1998, 455, è stato chiarito che affinché possa ravvisarsi un nesso di accessorietà «è necessaria ma non sufficiente la convergenza di tutte le prestazioni nella direzione della realizzazione di un unico obiettivo», sottolineando l’ulteriore necessaria sussistenza di «un nesso di dipendenza funzionale delle prestazioni accessorie rispetto alla prestazione principale», nel senso che «le prestazioni accessorie siano effettuate proprio per il fatto che esiste una prestazione principale, in combinazione con la quale possono portare ad un determinato risultato perseguito». Tale approccio interpretativo è stato confermato anche nella ris. 15 luglio 2002, n. 230/E, in Boll. Trib. On-line, nella parte in cui si è precisato che «sono accessorie solo le operazioni poste in essere dal medesimo soggetto in necessaria connessione con l’operazione principale alla quale, quindi, accedono e che hanno, di norma, la funzione di integrare, completare o rendere possibile la detta prestazione o cessione principale». Nella ris. 11 dicembre 2009, n. 283/E, in Boll. Trib. On-line, è stato ulteriormente precisato che, affinché sussista il nesso di accessorietà, occorre che «la prestazione accessoria costituisca il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale», con la conseguenza che «non possono pertanto considerarsi accessorie le operazioni che si svolgono tra soggetti diversi ovvero le operazioni che perseguono una finalità autonoma e diversa da quella che connota l’operazione principale, pur se propedeutica o collegata a quest’ultima».

(19) Ai sensi degli artt. 2, terzo comma, lett. a), e 10, primo comma, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972, le cessioni di crediti sono infatti da considerare escluse da IVA se poste in essere per finalità non finanziarie e rilevano invece come operazioni esenti da IVA se poste in essere per finalità finanziarie. In tale ultimo caso, la prestazione di finanziamento, esente da IVA ai sensi del predetto art. 10, primo comma, n. 1, è evidentemente quella resa dal cessionario del credito, la cui base imponibile è costituita dalla differenza tra l’ammontare del credito ceduto e il controvalore corrisposto dal cessionario del credito al cedente del credito. Sul punto, cfr. ris. n. 71/E/2000, cit.; ris. n. 139/E/2004, cit.; e ris. n. 32/E/2011, cit.

(20) Cfr. la nota precedente.

(21) Cfr. l’art. 78 della Direttiva 2006/112/CE e l’art. 12 del D.P.R. n. 633/1972.

(22) Si tratta delle spese di cui all’art. 78, primo comma, lett. b), della Direttiva 2006/112/CE: «le spese accessorie, quali le spese di commissione, di imballaggio, di trasporto e di assicurazione addebitate dal fornitore all’acquirente o al destinatario della prestazione».

(23) Cfr. ris. n. 456/E/2008, cit.

(24) Cfr. l’art. 10, primo comma, n. 1), del D.P.R. n. 633/1972, nel testo risultante prima delle modifiche apportate dalla legge n. 28/1997: «Sono esenti dall’imposta: … le operazioni di credito e di finanziamento, compresi lo sconto di crediti, cambiali o assegni bancari, le fideiussioni o altre malleverie, le dilazioni di pagamento nonché la gestione di fondi comuni di investimento e le gestioni similari; il servizio di banco-posta di cui al decreto del Presidente della Repubblica 29 marzo 1973, n. 156».

(25) Sull’ampiezza del concetto di operazioni relative a pagamenti, cfr. il ben noto leading case

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costituito dalla sentenza resa da Corte Giust. CE, sez. V, 5 giugno 1997, causa C-2/95, in Boll. Trib. On-line, recepita dall’Agenzia delle entrate in varie risoluzioni, tra le quali cfr. ris. 10 dicembre 2001, n. 205/E, in Boll. Trib. On-line; e ris. 30 maggio 2014, n. 56/E, in Boll. Trib., 2014, 854.

(26) Sul punto cfr. G. Tarello, Argomenti interpretativi, in Digesto, IV, Torino, 1987, 422.

(27) Ci si riferisce alla disciplina risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 28/1997, di cui sopra si è detto.

(28) In questo senso cfr. Q.W. Imbimbo, Regime IVA delle servicing fees nelle operazioni di cartolarizzazione dei crediti, in www.strumentifinanziariefiscalità, 2012, 75.

(29) Cfr. G. Tarello, Argomenti interpretativi, cit., 422.

(30) Cfr. lett.-circ. ABI 5 ottobre 2005, n. TR/002264. In senso conforme, ved. G. Arnao – F. Castelli, IVA nelle banche, in Monografia del Corr. trib., n. 1/1998; e F. Castelli, IVA – Banche e società del gruppo bancario, Torino, 2003, 46.

(31) Cfr. ris. n. 32/E/2011, cit.

(32) Cfr. Corte Giust. UE causa C-175/09 del 2010, punto 33, cit.

(33) Cfr. Corte Giust. UE causa C-175/09 del 2010, punto 23, cit.

(34) Cfr. Corte Giust. CE causa C-2/95 del 1997, cit.

(35) Cfr. ris. n. 205/E/2001, cit.; ris. 28 maggio 2003, n. 120/E; ris. 13 giugno 2003, n. 133/E; ris. 28 aprile 2008, n. 175/E; ris. 3 dicembre 2008, n. 466/E; e ris. 11 dicembre 2009, n. 283/E; tutte in Boll. Trib. On-line.

(36) Cfr. ris. n. 32/E/2011, cit.

(37) Cfr. Corte Giust. CEE 1° febbraio 1977, causa C-51/76, in Boll. Trib. On-line.

(38) Cfr. Corte Cost. 8 giugno 1984, n. 170, in Boll. Trib. On-line.

(39) Cfr. Corte Cost. 18 aprile 1991, n. 168, in Boll. Trib., 1991, 812.

(40) Cfr. Cass., sez. lav., 5 aprile 1995, n. 3974, in Foro it., 1997, I, 3663.

(41) Cfr. Corte Giust. CEE 26 febbraio 1986, causa C-152/84, in Dir. lav., 1986, II, 248; e Corte Giust. CE 14 luglio 1994, causa C-91/92, in Foro it., 1995, IV, 38.

(42) Cfr. Corte Giust. CEE 8 ottobre 1987, causa C-80/86, in Giust. civ., 1989, I, 3.

(43) Cfr. Corte Giust. CEE 19 gennaio 1982, causa C-8/81, in Comm. trib. centr., 1982, II, 186.

(44) Cfr. Corte Giust. CEE 26 febbraio 1976, causa C-52/75, in Boll. Trib. On-line.

(45) Cfr. comunicazione 9 dicembre 1996, n. 34.

(46) Cfr. Corte Giust. CE 6 ottobre 1982, causa C-283/81, in Boll. Trib. On-line.

(47) Cfr. Corte Cost. 23 aprile 1985, n. 113, in Boll. Trib. On-line.

(48) Cfr. Corte Cost. 11 luglio 1989, n. 389, in Boll. Trib. On-line.

(49) Per una più ampia disamina cfr. P. Centore, Manuale dell’IVA europea, Milano, 2008, 30 ss.; e G. Polo, IVA e servizi finanziari e bancari, Roma, 2012, 15 ss.

(50) Cfr. Corte Giust. UE causa C-44/11 del 2012, cit. Sulla conseguente modifica legislativa ved. anche G. Polo, Considerazioni in merito alla dichiarata imponibilità ad IVA delle gestioni individuali di portafoglio, in Boll. Trib., 2013, 426; nonché ID., La disciplina IVA degli strumenti finanziari, in G. Corasaniti (a cura di), Gli strumenti finanziari nella fiscalità d’impresa, Milano, 2013, 620.

(51) Cfr. art. 1, comma 521, della legge n. 228/2012.

(52) Cfr. H.M.R.C., Brief 12 gennaio 2012, n. 54/10.