SOMMARIO: 1. Le due facce del regime tributario sulla vendita di aziende e di immobili – 2. Il sin qui granitico indirizzo della Corte di Cassazione – 3. Quanto è vero che si vende e si compra ad un prezzo che corrisponde al valore di mercato del bene compravenduto? – 4. Il nuovo corso introdotto dall’art. 5 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147.
1. Le due facce del regime tributario sulla vendita di aziende e di immobili
Il regime tributario delle vendite di immobili e di aziende è un regime double face, dove le due facce, quelle dell’imposta di registro e delle imposte sul reddito, si confrontano e si scontrano spesso con una vittima predestinata: il contribuente.
Una brevissima e sintetica esposizione di tale regime, forse pleonastica data la sua notorietà, può comunque essere utile allorché nel prosieguo del presente scritto si farà riferimento alle singole norme e soprattutto alla loro prassi applicativa nell’imposizione indiretta e in quella diretta.
È noto infatti che le cessioni di aziende o di rami di aziende non sono imponibili ai fini dell’IVA [art. 2, terzo comma, lett. b), del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633], ma sono soggette all’imposta di registro, applicata sul «valore venale in comune commercio», ai sensi dell’art. 51, secondo comma, del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131; ad uguale regime sono sottoposte le cessioni di immobili effettuate da persone che non rivestono la qualifica di imprenditori commerciali, mentre per questi ultimi le vendite di immobili sono per lo più soggette ad IVA. Per valore venale in comune commercio s’intende, invero tautologicamente, il valore corrente di mercato di beni aventi analoghe caratteristiche e condizioni (1).
È altresì noto che le plusvalenze costituenti redditi diversi delle persone fisiche ai sensi dell’art. 68, primo comma, lett. a) e b), del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), e le plusvalenze patrimoniali, derivanti dalla cessione di aziende o di immobili (che non danno quindi luogo a ricavi non trattandosi di beni-merce), realizzate da società soggette ad IRES di cui all’art. 86 del TUIR, sono determinate per somma algebrica fra il costo fiscalmente riconosciuto e il corrispettivo di vendita, quindi non in base al valore dei beni ceduti.
È infine noto che l’Amministrazione finanziaria rettifica, ai sensi dell’art. 52 del D.P.R. n. 131/1986, e quindi ai fini dell’imposta di registro, il corrispettivo dichiarato nella vendita degli immobili sulla base del valore corrente dei beni ceduti, ricorrendo spesso ai prezzi e ai valori registrati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare (OMI). L’Osservatorio compie un aggiornamento semestrale dei valori per zone catastali, mediando i prezzi registrati nel semestre precedente se il loro numero è stato significativo, facendo ricorso a valutazioni di estimo effettuate dagli Uffici tecnici erariali in caso contrario. La stessa Agenzia delle entrate scrive comunque che «le quotazioni immobiliari OMI, pubblicate con cadenza semestrale, individuano, per ogni ambito territoriale omogeneo (zona OMI) e per ciascuna tipologia immobiliare, un intervallo di valori di mercato, minimo e massimo, per unità di superficie riferito ad unità immobiliari in condizioni ordinarie, ubicate nella medesima zona omogenea. Restano esclusi quindi gli immobili di particolare pregio o degrado o che comunque presentano caratteristiche non ordinarie per la zona di appartenenza. Nell’ambito dei processi estimativi, perciò, le quotazioni OMI non possono intendersi sostitutive della stima puntuale, in quanto forniscono indicazioni di valore di larga massima. Solo la stima effettuata da un tecnico professionista può rappresentare e descrivere in maniera esaustiva e con piena efficacia l’immobile e motivare il valore da attribuirgli» (2).
L’Agenzia delle entrate notifica avviso di rettifica e di liquidazione della maggiore imposta al compratore (tenuto, a norma dell’art. 1475 c.c., salvo patto contrario, al pagamento delle spese di vendita) e al venditore, solidalmente obbligato con quello al pagamento dell’imposta di registro ai sensi dell’art. 57, primo comma, del D.P.R. n. 131/1986. Per quanto concerne la vendita di aziende, l’Agenzia delle entrate talvolta ricorre ancora, per la valutazione dell’avviamento, alla somma degli ultimi tre redditi imponibili e, in caso di documentati elementi negativi, in misura pari ai due terzi della medesima somma (3).
La rettifica ai fini delle imposte sul reddito avviene invece ai sensi dell’art. 38 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per le persone fisiche e ai sensi dei successivi artt. 39 e 40 per le persone titolari di reddito d’impresa; per la rettifica ai fini IVA si applica l’art. 54 del D.P.R. n. 633/1972.
Merita anche ricordare che, ai sensi dell’art. 62-sexies, terzo comma, del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), gli accertamenti di cui agli artt. 39 e 54, ult. cit., possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività, ovvero dagli studi di settore.
2. Il sin qui granitico indirizzo della Corte di Cassazione
Nel caso di cessione di aziende e di immobili la Corte di Cassazione ha sempre avvalorato la prassi dell’Amministrazione finanziaria, la quale ha costantemente rettificato i corrispettivi assunti nel calcolo delle plusvalenze soggette alle imposte sui redditi e dei corrispettivi ai fini della liquidazione dell’IVA, indicati negli atti di compravendita, in base al maggior valore accertato per l’applicazione dell’imposta di registro.
Di recente sono state meticolosamente riportate le pronunce della Suprema Corte in subjecta materia (4). Se si limita l’analisi ad oltre una ventina di pronunce degli ultimi dieci anni, si rileva la granitica ripetizione di un assioma, sostanzialmente di un obiter dictum, che utilizza per lo più le parole che seguono, riferite qui alla cessione di azienda, ma in altre cause, mutatis mutandis, alla cessione di immobili.
«Quando si tratta di imposta sul reddito, al fine dell’accertamento della plusvalenza patrimoniale di un’impresa, occorre verificare la differenza realizzata fra il prezzo di acquisto e il prezzo di cessione del bene, mentre, quando si tratta di imposta di registro, si ha riguardo al valore di mercato del bene medesimo» (5). «In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria è tuttavia legittimata a procedere in via induttiva ai fini delle imposte sul reddito da plusvalenza patrimoniale relativa al valore dell’avviamento, realizzata a seguito di cessione d’azienda, sulla base dell’accertamento di valore effettuato in sede di applicazione dell’imposta di registro, ed è onere probatorio del contribuente superare (anche con ricorso ad elementi indiziari) la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, dimostrando di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore» (6).
In altre parole, pur riconoscendo astrattamente che valore di mercato di un bene, sia esso un immobile o un’azienda o un ramo di essa, è entità diversa dal corrispettivo pattuito per la cessione di quel medesimo bene, si viene a legittimare l’automatica sostituzione, da parte dell’Ufficio finanziario, del corrispettivo dichiarato con il valore di mercato, onerando il contribuente di dimostrare il contrario o con prove certe o con prove presuntive, purché qualificate ai sensi dell’art. 2729 c.c. Merita tuttavia precisare che la sostituzione, comunque, non avviene con il semplice valore di mercato, ma con quello definito nell’ambito di un procedimento impositivo relativo all’imposta di registro, e non con il mero richiamo al valore normale di cui all’art. 9 del TUIR (7).
La presunzione, posta a base della rettifica del corrispettivo, che sostituisce a quest’ultimo il valore di mercato, risiederebbe nella comune prassi di mercato secondo cui ciascun operatore non vende ad un prezzo inferiore a quello di comune commercio (8).
Scrutinando le ultime pronunce della Corte di Cassazione, merita osservare che undici riguardano una cessione di azienda e dieci una cessione immobiliare. I giudici della Suprema Corte, pur ribadendo (per lo più con ordinanze emesse in camera di consiglio) la corrispondenza del corrispettivo al valore definito ai fini dell’imposta di registro, hanno accolto i ricorsi dell’Agenzia delle entrate contro le decisioni di appello (quasi sempre confermative delle sentenze di primo grado), disponendo il rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale per nuovo esame. Da quanto sopra si deduce che i giudici di merito, in massima parte, non condividevano la su accennata corrispondenza e che i giudici di legittimità, pur cassando il disconoscimento di tale corrispondenza, non hanno ritenuto che il maggior valore di registro fosse sufficiente, da solo, a sorreggere la rettifica del reddito.
Giova anche far presente che la prova contraria alla presunzione “corrispettivo uguale a valore” è stata individuata una volta nella vendita di azienda tra persone legate da parentela (9), una volta nelle cattive condizioni di salute del titolare di azienda (10) e quattro altre volte nelle divergenti risultanze contabili (11). Tuttavia la prova contabile non è stata ritenuta sufficiente in altre due pronunce (12).
3. Quanto è vero che si vende e si compra ad un prezzo che corrisponde al valore di mercato del bene compravenduto?
Le presunzioni trovano fondamento nell’art. 2727 c.c., il quale prevede che il giudice possa risalire da un fatto noto ad un fatto ignorato, facendo utilizzo di massime di esperienza. Le presunzioni sono cioè il risultato di un’operazione logico-deduttiva da parte del giudice che ad esse deve fare ricorso con prudenza: il fatto presunto, in sostanza, deve essere la probabile conseguenza del fatto noto. Le presunzioni devono essere gravi, precise e concordanti, ma il fatto noto può essere anche solo uno, se caratterizzato da particolare gravità e univocità, quale elemento collegato con il factum probandum (13).
Il primo problema da risolvere – se nella maggioranza dei casi il prezzo di compravendita corrisponde al valore di mercato – presuppone la risoluzione di un altro problema, quello attinente alla corretta determinazione del valore di mercato da prendere a riferimento. Giova a proposito ricordare che, se nel 70 per cento dei casi il valore preso a riferimento è corretto, ovvero corrisponde al prezzo rilevato nell’immediato o in un periodo di tempo più esteso ove i prezzi siano caratterizzati da stabilità, e se nel 70 per cento dei casi le parti si sono accordate per un corrispettivo sulla base del valore di mercato, la combinazione di queste due probabilità, che prese singolarmente appaiono sufficientemente elevate, porta ad affermare che il prezzo effettivamente convenuto dalle parti corrisponde al valore di mercato nel 49 per cento dei casi (14). Ne consegue che, ferma restando la probabilità del 70 per cento per uno dei due eventi, la probabilità dell’altro deve essere superiore al 70 per cento, giacché diversamente è più probabile che la combinazione dei due eventi non si verifichi rispetto a quella che si verifichi (15). Ecco, forse, il motivo della raccomandazione del legislatore al giudice di utilizzare le presunzioni come mezzo di prova, ma “con prudenza”!
Tornando al primo problema – quello a termine del quale nella maggioranza dei casi il corrispettivo corrisponde al valore di mercato – si enucleano una serie di elementi che fanno dubitare che la suddetta massima di esperienza sia così attendibile da farla assurgere alla dignità di prova grave e precisa, non bisognosa di concordanza con altro elemento di prova:
a) differente stato di bisogno all’acquisto o alla vendita esistente nei contraenti;
b) diversità nell’aggiornamento e nella precisione delle informazioni, acquisite dai contraenti, sul valore e sull’utilizzo del bene oggetto della compravendita;
c) esistenza di offerte di acquisto o di vendita di beni analoghi (elemento tuttavia raramente riscontrabile nella compravendita di aziende);
d) durata della ricerca e individuazione del bene da parte dell’acquirente e dell’acquirente del proprio bene da parte del venditore;
e) interesse in termini di sacrificio economico dell’acquirente a definire la più mite imposta di registro rispetto a quello economico del venditore nella vertenza avente per oggetto la più onerosa determinazione della plusvalenza patrimoniale e dei ricavi da vendita immobiliare;
f) effettiva partecipazione o almeno possibilità di partecipazione del venditore alla definizione del valore ai fini dell’imposta di registro da parte dell’acquirente;
g) diversa abilità dei contraenti nella negoziazione.
L’enucleazione dei su indicati elementi porta ad affermare che la prova che il corrispettivo sia stato inferiore all’importo ritenuto espressivo del valore di mercato diventa una probatio diabolica e trasforma, in moltissime circostanze, la presunzione relativa di corrispondenza tra prezzo e valore, in una presunzione che non consente prova contraria.
Va in ogni caso affermato che la differenza fra valore e prezzo, per dubitare della genuinità del secondo, deve essere rilevante. Pare abnorme che una semplice differenza di alcuni punti percentuali possa legittimare la sostituzione del corrispettivo di vendita con il valore del bene venduto; mentre il prezzo è un importo preciso, suscettibile di essere espresso in euro e frazioni di euro, il valore esprime una fascia di importi probabili.
Se si tiene a mente lo scarto che legittima la presunzione di conoscenza dello stato d’insolvenza e quindi la revocatoria fallimentare ex art. 67, primo comma, n. 1), del R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare), quale indice di anomalia del corrispettivo, la differenza fra valore e corrispettivo dovrebbe essere almeno del 25 per cento: la differenza di un quarto è richiamata anche dagli artt. 572, terzo comma, e 591, secondo comma, c.p.c. Si tratta evidentemente di percentuali indicative da modulare in relazione alla natura del bene e alla frequenza con cui esso si scambia sul mercato.
Deve inoltre affermarsi, ricordando gli artt. 1372 e 2909 c.c., che la definizione dell’imposta di registro, in sede amministrativa o giudiziaria, fa stato solo tra le parti fra cui è intervenuta o che hanno avuto la piena possibilità di intervenire alla definizione, essendo costituzionalmente inviolabile il diritto di difesa. Ne consegue che, se l’avviso di accertamento di maggior valore si è definito per effetto di una sentenza passata in giudicato, emessa nei confronti del solo compratore, senza che il medesimo venditore abbia potuto intervenire in giudizio, la pronuncia non ha effetto contro il medesimo venditore obbligato in solido, il quale può opporla all’Amministrazione finanziaria nei limiti in cui la sentenza gli giovi (art. 1306 c.c.). Spetta all’Ufficio finanziario notificare l’avviso di accertamento a tutti i contraenti onde opporre ad essi la pronuncia che sarà emessa a seguito dell’impugnazione interposta da uno solo di costoro.
Anche prescindendo dal disposto del richiamato art. 1306, primo comma, c.c., deve ritenersi aberrante che in uno Stato di diritto la condotta di un soggetto determini l’ammontare dell’obbligazione posta a carico di altro soggetto. Ne consegue che, se l’Agenzia delle entrate definisce il valore di registro o sulla base di una legge di agevolazione (per esempio, in base ad uno dei tanti condoni) o attraverso la domanda di adesione all’accertamento presentata dal compratore, il valore così definito non può essere assunto per la determinazione presuntiva, salvo prova contraria, del corrispettivo percepito dal venditore. Né va ignorato l’art. 1309 c.c., a termini del quale il riconoscimento del debito fatto da uno dei condebitori in solido non ha effetto nei confronti degli altri condebitori.
Eppure non sono mancate autorevoli pronunce in tal senso, dove – nella parte dedicata allo svolgimento del processo – si rileva la doglianza di chi contestava la vincolatività dei valori divenuti definitivi ai fini dell’imposta di registro «in danno del contribuente che a detta definizione non abbia partecipato» (16) o di chi osservava che «la definizione della lite ai fini dell’imposta di registro era avvenuta a cura e spese non della parte venditrice ma di quella acquirente … come risultante dalla domanda di definizione» (17) o dove si legge che «il valore stabilito in sede di applicazione dell’imposta di registro deve essere considerato come un dato obiettivo idoneo, di per sé, a fondare l’accertamento della plusvalenza da cessione, a prescindere dalle modalità con le quali esso sia stato determinato» (enfasi aggiunta) (18). Pronunce del genere fanno assurgere a prova qualificata una definizione avvenuta in base ad una valutazione OMI, che costituisce solo elemento indiziario non qualificato, perché privo dei requisiti qualitativi di cui all’art. 2729 c.c. (19).
Ritengo quindi di poter affermare che non esiste l’automatico binomio «corrispettivo = valore di mercato, salvo prova contraria», ma solo una correlazione la cui sostenibilità deve trovare puntelli nell’esame del caso di specie. Fattori determinanti sono la differenza fra prezzo e valore, le modalità di determinazione del valore (se in sede giudiziaria o amministrativa e se il venditore è stato messo in grado di partecipare a tale determinazione), l’appartenenza del bene ad un settore caratterizzato da scambi rari o numerosi, la natura particolare del bene che ne fa dipendere il prezzo di scambio da elementi soggettivi (come nel caso della compravendita di aziende). Insomma il valore è uno degli elementi, spesso ma non sempre il più importante per determinare il prezzo, ma occorre ripudiare assiomi indimostrati a cui si ricorre per comodità operative. Aveva ragione Tertulliano ad affermare che un bene tantum valet, quantum vendi potest!
4. Il nuovo corso introdotto dall’art. 5 del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147
L’art. 5, terzo comma, del D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147, ha stabilito che gli artt. 58, 68, 85 e 86 del TUIR del 1958 e gli artt. 5, 5-bis, 6 e 7 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 446, sull’IRAP, «si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione o il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro … ovvero delle imposte ipotecaria e catastale».
Trattasi esplicitamente di una norma di interpretazione autentica e quindi con efficacia retroattiva, ai sensi dell’art. 1, secondo comma, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), che il giudice deve applicare con riferimento a tutti i rapporti pendenti (20).
Si sottolinea la forte valenza della norma «che non interviene sulle disposizioni procedurali in materia di accertamento, ma agisce direttamente in via interpretativa sulle norme sostanziali del TUIR» (21).
La norma, proprio perché di interpretazione autentica, sconfessa le decine di sentenze della Suprema Corte che ritenevano invece sufficiente a sorreggere la rettifica del corrispettivo, dichiarato in atti e contabilizzato (se il venditore operava nell’esercizio di attività d’impresa), la semplice definizione di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro. La norma fa tornare in auge chi aveva affermato che «nella motivazione dell’accertamento ai fini delle imposte dirette non è sufficiente la sola indicazione dell’importo definito ai fini dell’imposta di registro, senza ulteriori elementi di prova in relazione al maggior prezzo che l’Amministrazione finanziaria assume come conseguito» (22).
L’espressione usata dalla novella – valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro – merita un commento.
Come è noto, l’imposta di registro sulle compravendite di aziende e di immobili si applica sul valore dei beni o dei diritti trasferiti [art. 43, primo comma, lett. a), del D.P.R. n. 131/1986]. Il valore di detti beni e diritti, da intendersi quale valore in comune commercio, è quello dichiarato dalle parti nell’atto e, in mancanza di dichiarazione di tal valore, il corrispettivo pattuito se superiore al valore (successivo art. 51, primo comma). Ne consegue che, per quanto le parti per prassi indicano il prezzo della compravendita e lo assoggettano ad imposta, esse possono dichiarare un valore e un prezzo ad esso inferiore, assoggettando ad imposta il primo dei due. Ne consegue che ai fini delle imposte dirette, si assume il corrispettivo dichiarato dalle parti e non il valore ancorché maggiore, fermo restando il potere dell’Ufficio finanziario di rettificare il corrispettivo ricorrendone i presupposti di legge.
Ritengo che, anche per evitare lo spirare dei termini di decadenza per l’accertamento, l’Agenzia delle entrate possa emettere, ai fini delle imposte dirette, un avviso di rettifica del corrispettivo pattuito, facendo leva anche sul maggior valore accertato ai fini dell’imposta di registro. Tuttavia la mera rettifica ai fini dell’imposta di registro, se è sub judice, non costituisce neanche una prova semplicissima o mero indizio. Costituirà un elemento di prova, da solo non sufficiente, ma utile in concorso con un altro o con altri, allorché sarà definito al termine di un procedimento amministrativo svoltosi nel rispetto del diritto al contraddittorio o meglio ancora al termine di un processo giudiziario (23).
In concorso con altro o altri elementi, sì da far ritenere legittimo il ricorso alle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c., anche un scarto ridotto fra corrispettivo e valore potrebbe sottendere l’occultamento di un maggior corrispettivo. E infatti, se l’Agenzia delle entrate raggiunge la prova che il corrispettivo è stato, per esempio, 510 e non 500, non c’è dubbio che le imposte sul reddito debbano assumere nel calcolo 510; ma, in questo caso il valore definito ai fini dell’imposta di registro per importo prossimo a 510 esplicherebbe ben poca influenza, giacché mentre il prezzo, per sua natura, è un’entità precisa, espressa in euro e in centesimi di euro, il valore è sempre un’entità approssimata, che può definirsi corretta, ma mai vera.
Inoltre la prova contabile, ovvero l’esistenza di una contabilità formalmente corretta, quindi chiara, completa, aggiornata e documentata, è una prova a favore dell’imprenditore che controbilancia l’esistenza di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro, ben inteso definito nel rispetto del diritto al contraddittorio spettante alla parte contro la quale tale maggiore valore è fatto valere.
L’apprezzamento della prova cambia allorché, in mancanza di giustificazioni da parte dell’imprenditore, che pur disponga di una contabilità formalmente corretta, la differenza tra valore definito ai fini dell’imposta di registro e corrispettivo contabilizzato sia rilevante. In linea generale potrebbe ritenersi rilevante la differenza pari o superiore ad un quarto (24) sebbene non si debba generalizzare, potendo dipendere la differenza in più o in meno dalla natura del bene e dal mercato in cui esso è stato offerto. Naturalmente uno scarto anomalo, pur neutralizzando la prova contabile, di per sé non è sufficiente a sostenere la rettifica, dato il chiaro disposto del nuovo art. 5 del D.Lgs. n. 147/2015.
Uno scarto rilevante, fra valore definito ai fini dell’imposta di registro e opponibile al venditore, costituisce una prova singola, ma grave di occultamento di corrispettivo, che non è qualificata dal legislatore sufficiente, occorrendo un quid pluris: irregolarità contabili del venditore, mutuo ottenuto dal compratore pari o superiore al prezzo di compravendita, irregolarità contabili da parte di quest’ultimo, le prove documentali di un maggior corrispettivo reperite presso una delle parti intervenute al negozio (compreso l’agente o il mediatore), la successiva definizione da parte del venditore di redditi imponibili incompatibili col corrispettivo di vendita pattuito, l’anomalia di risposte fornite dalle parti a questionari inviati dall’Agenzia delle entrate, ecc.
Ciò comporta un maggior scrutinio da parte dell’Agenzia delle entrate a garanzia di un’imposizione rispettosa del principio di capacità contributiva e del buon andamento dell’Amministrazione finanziaria: che è cosa buona e giusta!
Dott. Giuseppe Verna
(1) Si veda anche la definizione, ai fini delle imposte sul reddito, di valore normale data dall’art. 9, comma 3, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR).
(2) http://www.agenziaentrate.gov.it/wps/content/Nsilib/Nsi/Documentazione/omi/Banche+dati/quotazioni+immobiliari.
(3) È di tutta evidenza quanto sciocca e avulsa dalla realtà sia la formula (contenuta nell’abrogato nell’art. 2 del D.P.R. 31 luglio 1996, n. 460), che moltiplica per tre la media degli ultimi tre imponibili, giacché, data l’elisione dei due 3, essa si riduce alla sommatoria degli ultimi tre redditi imponibili; sul punto ved. G. VERNA, Una formula sciocca ed abrogata per la tassazione dell’avviamento nelle cessioni d’azienda, in Boll. Trib., 2006, 1061, in nota a Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. XIII, 9 marzo 2006, n. 8, dove la formula legislativa è adeguatamente sviluppata; ID., Sul persistente malvezzo di determinare l’avviamento ricorrendo ad una formula sciocca ed abrogata, ivi, 2007, 1329, in nota a Comm. trib. prov. di Macerata, sez. IV, 15 novembre 2006, n. 125; ID., Un caso di rettifica impossibile del valore dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro, ibidem, 1495, in nota a Comm. trib. reg. della Lombardia, sez. I, 18 gennaio 2007, n. 2; ID., Avviamento d’azienda: l’incredibile ultrattività di una norma abrogata, ivi, 2010, 74, in nota a Comm. trib. prov. di Massa Carrara, sez. II, 8 giugno 2009, n. 211; e ID., Sulla competenza e diligenza del giudice tributario in tema di valutazione dell’avviamento ai fini dell’imposta di registro, ivi, 2013, 1131, in nota a Comm. trib. reg. della Liguria, sez. VII, 26 settembre 2012, n. 84.
(4) Cfr. S. CARUNCHIO, Accertamento di maggior valore: imposta di registro e imposte sui redditi, in www.fondazionenazionalecommercialisti.it, doc. 31 gennaio 2016.
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 2 marzo 2011, n. 5078, in Boll. Trib. On-line.
(6) Cfr. Cass., sez. VI, 10 giugno 2013, ord. n. 14571, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Cass., sez. trib., 2 marzo 2012, n. 3290, in Boll. Trib. On-line, in tema di cessione di quota di partecipazione, ma anche Cass. n. 5078/2011, cit.
(8) Così Comm. trib. reg. della Puglia, sez. IX, 11 ottobre 2010, n. 104, inedita, citata da Cass. n. 14571/2013, cit.
(9) Cfr. Cass., sez. trib., 1° giugno 2007, n. 12899, in Boll. Trib. On-line.
(10) Cfr. Cass., sez. VI, 5 settembre 2013, ord. n. 20427, in Boll. Trib. On-line.
(11) Cfr. Cass., sez. trib., 21 febbraio 2007, n. 4057, in Boll. Trib. On-line; Cass., sez. trib., 24 marzo 2010, n. 7023, in Boll. Trib., 2010, 90, con nota adesiva di G. VERNA, Il maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro vince la prova contabile o da questa è vinto?; e Cass., sez. trib., 3 ottobre 2014, n. 20914, in Boll. Trib. On-line. In particolare ved. Cass., sez. trib., 12 novembre 2014, n. 24054, in Boll. Trib. On-line, che ha affermato (punto 3.2) che, «in presenza di contabilità formalmente regolare», «le valutazioni effettuate dall’U.T.E. non possono rappresentare da sole elementi sufficienti per giustificare una rettifica in contrasto con le risultanze contabili, ma possono essere vagliate nel contesto della situazione economico-contabile dell’impresa e, ove concorrano con altre indicazioni documentali o presuntive gravi, precise e concordanti – quali, tra le altre, l’assoluta sproporzione tra corrispettivo dichiarato e valore dell’immobile – costituire elementi validi per la determinazione dei redditi da accertare».
(12) Cfr. Cass., sez. trib., 11 novembre 2011, n. 23608; e Cass., sez. VI, 20 febbraio 2014, ord. n. 4114; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(13) Cfr. P. LEANZA, Le prove civili, Torino, 2012, 76, e giurisprudenza ivi citata.
(14) Infatti il 70% del 70% fa il 49%.
(15) Dovendo applicare il criterio prudenziale previsto dall’art. 2729 c.c., il giudice dovrebbe ammettere presunzioni in cui l’evento ignoto è conseguenza dell’evento noto almeno in un numero di casi superiore al 60%; quindi, riprendendo le percentuali indicate nella nota precedente, se il corrispettivo è pari al valore di mercato nel 70% dei casi, la precisione del valore di mercato preso a confronto deve essere superiore all’85% o viceversa.
(16) Cfr. Cass., sez. VI, 12 luglio 2012, ord. n. 11900, in Boll. Trib. On-line.
(17) Cfr. Cass. n. 14571/2013, cit.
(18) Nel caso di specie il valore era stato definito dall’acquirente col procedimento di adesione all’accertamento di imposta di registro: ved. Cass., sez. trib., 20 luglio 2012, ord. n. 12632, in Boll. Trib. On-line.
(19) Cfr. Comm. trib. prov. di Reggio Emilia, sez. I, 15 novembre 2011, n. 488, in Boll. Trib. On-line; Comm. trib. reg. della Liguria, sez. VII, 31 gennaio 2013, n. 21, in Boll. Trib., 2013, 1051; Comm. trib. prov. di La Spezia, sez. III, 25 ottobre 2013, n. 24, inedita; Comm. trib. prov. di La Spezia, sez. III, 9 dicembre 2013, n. 224, in Boll. Trib. On-line; Comm. trib. reg. della Basilicata, sez. II, 13 maggio 2014, n. 309, ivi; e Comm. trib. reg. del Campobasso, sez. I, 4 giugno 2015, n. 154, ivi.
(20) Nonostante l’inconsistente auspicio formulato da Autori vicini all’Amministrazione finanziaria, che, senza alcuna motivazione, sostengono «la mancanza di refluenze … per i contenziosi in atto»: cfr. G. ANTICO – M. GENOVESI, Plusvalenza IRPEF in base al valore accertato ai fini dell’imposta di registro, in il fisco, 2015, 2133. Non deve essere dimenticato che, nell’audizione del direttore dell’Agenzia delle entrate alla VI Commissione del Senato del 19 maggio 2015, è stato evidenziato che «l’articolo 5 in esame, che ha l’effetto di impedire l’accertamento del maggior corrispettivo unicamente sulla base del maggior valore, sia una norma di interpretazione autentica e, come tale, applicabile anche per il passato e quindi per gli atti rogati anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo in esame».
(21) Cfr. A. TRABUCCHI – L. TRINCHERA, Stop ai riflessi automatici sulle imposte dirette degli accertamenti di valore ai fini del registro, in Corr. trib., 2015, 1838.
(22) Cfr. Associazione Dottori Commercialisti Milano, norma di comportamento n. 171, Rilevanza ai fini delle imposte dirette del maggior valore definito ai fini dell’imposta di registro in caso di cessione d’azienda, in Boll. Trib., 2008, 1501.
(23) Si richiama qui Cass. n. 3290/2012, cit.
(24) Vedasi quanto attinto dalla legge fallimentare nel paragrafo precedente.
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