3 Giugno, 2019

La controversia decisa dall’annotata ordinanza si riferiva ad un accertamento riguardante l’ICI per l’anno 2007, emesso dal competente Comune per negare il diritto alla detrazione di cui all’art. 8 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, nei confronti di proprietario risultante unico dimorante nell’alloggio dichiarato “abitazione principale”, priva della presenza di altri componenti del nucleo familiare, residenti altrove (nella fattispecie, il coniuge).
La Suprema Corte, richiamando gli estremi di proprie, numerose e coerenti decisioni in terminis, ha ribadito il principio dell’inapplicabilità della detrazione prevista a favore delle abitazioni principali dall’art. 8 succitato, sulla base della modifica apportata a tale disposizione dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, che – all’art. 1, comma 173, lett. b) – ha disposto, a far tempo dal 1° gennaio 2007, che «per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente”; per i Massimi Giudici la modifica apportata al testo dell’art. 8 della normativa originaria sulla definizione, ai fini dell’ICI, va letta ed interpretata come requisito soggettivo aggiuntivo per il riconoscimento del beneficio, nel senso che – salva l’ipotesi di unico proprietario e occupante dell’alloggio – la compresenza di familiari e la completezza del nucleo familiare costituiscono elemento essenziale per accordare la riduzione prevista dalla normativa ICI.
A nostro parere, l’applicazione in termini assoluti e generali di questa tesi lascia francamente perplessi: l’estrema varietà, nella realtà, delle situazioni familiari, originarie o sopravvenute, sembrerebbero indurre a valutazioni specifiche, caso per caso, operate in sede di merito, della rilevanza di tali situazioni e variazioni sul diritto del contribuente possessore e occupante dell’alloggio ad ottenere la riduzione, per la pacifica destinazione ed utilizzazione dell’immobile ad “abitazione principale”. Si pensi, in via esemplificativa, alle ipotesi frequenti di divorzi e separazioni fra coniugi (come nel caso concreto esaminato dall’ordinanza in esame), si pensi a situazioni sopravvenute di proprietari di alloggio con iniziale compresenza di genitori, che poi finiscono in case di riposo, si pensi ancora a nuclei familiari composti da figli che, per motivi di studio o di lavoro, lasciano temporaneamente l’alloggio paterno: è logico, è giusto, in simili evenienze, che l’abitazione principale di chi l’ha acquistata ed occupata, diventi – ai fini dell’ICI – “seconda casa”? “Seconda” a cosa, se non esiste alcuna “prima casa”!
La soluzione accolta dalla giurisprudenza della Suprema Corte imporrebbe poi, il controllo e la verifica costanti, da parte dei Comuni, delle situazioni familiari presso le “abitazioni principali” riconosciute: inaccettabile, contrastante con la normativa vigente sulla tutela della privacy, impossibile da verificare a livello generale in tutto il territorio comunale.
Né si può ragionevolmente ipotizzare, nel silenzio della legge, un obbligo del contribuente-occupante di alloggio riconosciuto “abitazione principale” di notificare al Comune di residenza eventuali, sopravvenute variazioni nella composizione del nucleo familiare originario, sulla base del fondamentale principio sancito dall’art. 23 Cost. (che vieta, com’è noto, l’imposizione di “prestazioni personali” fuori dai casi previsti specificamente dalla legge).
Va detto, per circoscrivere la portata del problema in rassegna, che esso riguarda esclusivamente l’applicazione dell’ICI dal 2007 fino all’entrata in vigore dell’IMU: per quest’ultimo, ora vigente tributo, la normativa prevede numerose ipotesi di “conservazione” del diritto alla detrazione per “abitazione principale” per situazioni familiari particolari (ved., da ultimo, la legge 28 dicembre 2015, n. 208, all’art. 1, commi 10 e segg.), mentre – con riguardo a situazioni antecedenti all’anno 2007, relative all’ICI – la questione non ci risulta proponibile (si rinvia, all’uopo, a E. RIGHI, In tema di individuazione dell’abitazione principale ai fini ICI, in nota a Comm. trib. reg. del Lazio, sez. XXXIII, 24 febbraio 2004, sent. n. 49, in Boll. Trib., 2004, 1350).

Dott. Eugenio Righi

ICI – Esenzioni ed agevolazioni – Abitazione principale – Requisiti richiesti per l’applicazione della riduzione prevista dall’art. 8 del D.Lgs. n. 504/1992 – Dal 1° gennaio 2007 sono la residenza anagrafica e la dimora abituale nell’immobile da parte del possessore e del suo nucleo familiare – Residenza dei familiari in altro Comune – Inapplicabilità della detrazione – Consegue.

In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), la spettanza della detrazione prevista per le abitazioni principali dall’art. 8 del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, è subordinata con decorrenza dal 1° gennaio 2007, per effetto della modifica introdotta a tale norma dall’art. 1, comma 173, lett. b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, alla destinazione dell’immobile alla dimora abituale del contribuente e del suo nucleo familiare, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo, di talché in difetto del predetto requisito, per l’accertata residenza dei familiari in un altro Comune, non sussiste il diritto alla detrazione in parola.

[Corte di Cassazione, sez. VI (Pres. Cirillo, rel. Solaini), 9 gennaio 2018, ord. n. 303, ric. Comune di Castiglione della Pescaia]

Con ricorso in Cassazione affidato a due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente perché connessi, nei cui confronti il contribuente non ha spiegato difese scritte, il comune di Castiglione della Pescaia impugnava la sentenza della CTR della Toscana, relativa a un avviso d’accertamento ICI 2007 e 2008, per il mancato riconoscimento dell’agevolazione riferita all’immobile adibito ad abitazione principale, lamentando, con un primo motivo, il vizio di violazione di legge, in particolare, dell’art. 8 comma 2 del d.lgs. n. 504/92 e con un secondo motivo la violazione del medesimo art. 8 comma 2 cit. e degli artt. 143 e 144 c.c., sempre in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 c.p.c., in quanto, erroneamente, i giudici d’appello, avevano riconosciuto il diritto della contribuente ad usufruire dell’esenzione oggetto di controversia, benché nell’immobile oggetto di tassazione avesse fissato la residenza anagrafica e dimorasse solo la stessa contribuente mentre, il coniuge e i figli erano risultati pacificamente residenti e dimoranti in altro comune.
Il Collegio ha deliberato di adottare la presente decisione in forma semplificata.
L’articolata censura è fondata.
È, infatti, insegnamento di questa Corte, quello che “In tema d’imposta comunale sugli immobili (ICI), ai fini della spettanza della detrazione prevista, per le abitazioni principali (per tale intendendosi, salvo prova contraria, quella di residenza anagrafica), dall’art. 8 del d.lgs. n. 504 del 1992 (come modificato dall’art.1, comma 173, lett. b), della l. n. 296 del 2006, con decorrenza dall’1 gennaio 2007), occorre che il contribuente provi che l’abitazione costituisce dimora abituale non solo propria, ma anche dei suoi familiari, non potendo sorgere il diritto alla detrazione ove tale requisito sia riscontrabile solo per il medesimo. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva escluso la detrazione sulla base dell’accertamento che l’immobile “de quo” costituisse dimora abituale del solo ricorrente e non della di lui moglie).” (Cass. ord. n. 15444/17, Cass. ordd. nn. 12299/17, 13062/17, 12050/10 (1)).
Nel caso di specie, la sentenza impugnata si pone in evidente contrasto con il superiore principio, in quanto è pacifico tra le parti, che il nucleo familiare della ricorrente né risiede anagraficamente, né dimora abitualmente presso l’immobile oggetto di tassazione, mentre l’unica a risiedere abitualmente nell’immobile è solo la ricorrente, che, in tale situazione, non può invocare il diritto al riconoscimento dell’esenzione.
Va, conseguentemente accolto il ricorso, cassata senza rinvio l’impugnata sentenza e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ex art. 384 c.p.c., rigettato l’originario ricorso introduttivo del ricorrente.
Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio di merito a seguito dell’alterno esito tra i precedenti giudizi di merito e il presente giudizio, ponendosi a carico della intimata le spese del giudizio di legittimità

P.Q.M. – LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della contribuente. Dichiara compensate le spese del giudizio di merito e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 1000,00, oltre € 200,00 per esborsi, oltre il 15% per spese generali, oltre accessori di legge.

(1) Cfr. Cass. 21 luglio 2017, n. 15444; Cass. 17 maggio 2017, n. 12299; Cass. 24 maggio 2017, n. 13062; Cass. 17 maggio 2010, n. 17050; tutte in Boll. Trib. On-line.

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