20 Novembre, 2014

 

 

 

1. Premessa

Con l’annotata ordinanza, la Corte di Cassazione si sofferma brevemente sulla tematica degli studi di settore giungendo a conclusioni, ad avviso di chi scrive, non del tutto condivisibili, soprattutto con riguardo all’attuale contesto, in cui anche l’Amministrazione finanziaria sembra voler improntare i propri rapporti con il contribuente su binari maggiormente rispondenti alla considerazione dell’effettiva situazione economico-patrimoniale di quest’ultimo.

I Supremi Giudici affermano, infatti, che l’art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel consentire di fondare l’accertamento induttivo sugli studi di settore, ha legittimato l’Ufficio fiscale a basarsi su alcuni “elementi sintomatici” standardizzati all’interno della particolare categoria di riferimento, senza tenere in alcun conto alcune peculiarità caratteristiche del comparto merceologico interessato o, più specificamente, riguardanti il soggetto coinvolto.

In particolare, nel caso posto all’attenzione della Suprema Corte, il punto di riferimento legittimante l’atto accertativo sarebbe proprio lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore integrante, nella fattispecie in esame – secondo l’Ufficio finanziario e, a quanto pare, secondo la Commissione tributaria regionale e la Corte stessa – una “grave incongruenza”.

Tale conclusione, secondo quanto affermato dai Supremi Giudici, sarebbe peraltro implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, dall’art. 10, primo comma, della legge 8 maggio 1998, n. 146, che, pur richiamando direttamente il citato art. 62-sexies, non contempla espressamente il requisito della gravità dello scostamento, come nel caso in esame, in cui, comunque, il divario con quanto indicato in dichiarazione era abbastanza rilevante.

Appare opportuno, pertanto, dopo aver riassunto i punti salienti della pronuncia, interrogarsi sulla effettiva portata di tali affermazioni.

2. L’annotata ordinanza della Corte di Cassazione

Un contribuente impugnava, innanzi alla Commissione tributaria provinciale, due avvisi di accertamento basati sugli studi di settore relativi ad IRPEF, IRAP e IVA per gli anni 2001 e 2002. La Commissione tributaria provinciale annullava gli atti impositivi. Null’altro è precisato in merito all’interno dell’ordinanza in commento.

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L’Ufficio finanziario pertanto proponeva appello innanzi alla Commissione tributaria regionale della Puglia che ribaltava la decisione a favore dell’appellante osservando che gli atti impositivi si basavano sugli studi di settore, che costituivano prova presuntiva, senza che il contribuente, che si era discostato parecchio da essi, avesse fornito elementi di prova sul suo assunto, se non in modo generico. Quest’ultimo, inoltre, aveva omesso di instaurare il preventivo contraddittorio, nonostante l’invito trasmessogli in tal senso. Nondimeno, tenuto conto delle deduzioni e delle osservazioni addotte in sede contenziosa, la Commissione tributaria regionale gli applicava il moltiplicatore nel minimo previsto.

Il contribuente proponeva ricorso in cassazione avverso la sentenza di secondo grado deducendo violazione di norme di legge e vizi di motivazione, in quanto la Commissione tributaria regionale adita non aveva considerato che i parametri applicati dall’Ufficio finanziario sono astratti e dovevano essere contemperati dalle effettive condizioni in cui l’attività di commerciante di orologi, gioielli e articoli di argenteria veniva svolta, vale a dire, in un quartiere periferico abitato principalmente da persone non abbienti. Peraltro, trattandosi di presunzioni semplici, l’Agenzia delle entrate avrebbe dovuto fornire la prova della sua pretesa.

La Sezione VI della Corte di Cassazione afferma che il motivo di ricorso è infondato in quanto, in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può – a norma dell’art. 39 del D.P.R. n. 600/1973 – fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili «dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta», sia sugli studi di settore.

In quest’ultimo caso, l’Ufficio accertatore non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale del comparto merceologico, potendosi basare anche soltanto su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente, come affermato nella precedente sentenza della Corte di Cassazione n. 16430/2011 (1).

D’altra parte, in tema di accertamento tributario, la necessità che lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore testimoni una “grave incongruenza”, espressamente prevista dall’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, aggiunto dalla legge di conversione 29 ottobre 1993, n. 427, ai fini dell’avvio della procedura finalizzata all’accertamento, deve ritenersi implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, dall’art. 10, primo comma, della legge n. 146/1998, che, pur richiamando direttamente l’art. 62-sexies predetto, non contempla espressamente il requisito della gravità dello scostamento, come nel caso in esame, in cui comunque il divario con quanto indicato in dichiarazione era abbastanza rilevante (2).

Concludono quindi i Giudici Supremi che la sentenza della Commissione tributaria regionale impugnata per cassazione dovesse ritenersi motivata in modo giuridicamente corretto e adeguato e che, conseguentemente, il ricorso del contribuente dovesse essere rigettato.

3. Esame critico dell’ordinanza in esame

I Supremi Giudici concludono che, in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria ben può fondare il proprio accertamento sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dagli studi di settore, in quanto la disposizione di legge pone una alternativa tra questi ultimi e quelli riconducibili alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio dell’attività svolta. E, nel caso in cui il termine di confronto siano gli studi di settore, non è richiesta una verifica dei dati richiesti attraverso uno studio generale del comparto merceologico, in quanto è sufficiente fare riferimento ad«alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente».

Invero, da quello che leggiamo nell’annotata ordinanza (3), sembra che l’unico elemento sintomatico sia proprio la grave incongruenza tra i due termini del confronto (dichiarazione del contribuente e studi di settore).

Non sembra che ci siano altri elementi presi in considerazione dall’Ufficio finanziario.

La conclusione della Suprema Corte merita, pertanto, alcune considerazioni sull’attuale inquadramento degli studi di settore.

Gli orientamenti più recenti in terminis delineano una prevalenza del riconoscimento ai predetti strumenti della natura di presunzioni semplici (4), per le quali è necessario riscontrare i requisiti della gravità, precisione e concordanza volta per volta.

Essi, infatti, in quanto accertamenti standardizzati, vale a dire basati su dati medi e generalizzati, hanno forza limitata se non vengono adeguati alla realtà del contribuente sottoposto a verifica.

Di conseguenza, non possono essere considerati elementi sufficienti a fondare un atto accertativo in quanto l’Amministrazione finanziaria dovrebbe acquisire e allegare, a sostegno della propria pretesa tributaria, altri elementi probatori.

Per attribuire agli studi di settore una adeguata forza probatoria, pertanto, il comma 3-bis dell’art. 10 della legge n. 149/1998, introdotto con la legge 30 dicembre 2004, n. 311, ha sancito l’obbligo di attivare il contraddittorio con il contribuente prima della notifica dell’atto di accertamento, a partire dagli accertamenti relativi ai periodi di imposta 2004 e successivi.

Il legislatore tributario ha quindi affermato, come peraltro diffusamente sostenuto in dottrina (5), che il contraddittorio è strumento indefettibile in quanto ritenuto idoneo ad adattare la situazione risultante dalle elaborazioni standardizzate al caso concreto.

Durante il contraddittorio, il contribuente, attraverso le sue deduzioni, potrà mettere in luce elementi che rendono non applicabile il risultato matematico-statistico dello studio di settore in relazione alla propria specifica e contingente condizione reale.

L’Ufficio finanziario, da parte sua, dopo il contraddittorio, nel caso in cui non ritenga plausibili o conferenti le giustificazioni addotte dal contribuente, dovrà motivare l’avviso confutando le argomentazioni del contribuente ma, soprattutto, non sembra possa limitarsi a fondare l’accertamento sul semplice scostamento tra i dati della dichiarazione e le risultanze degli studi (6).

Il contraddittorio pertanto diventa lo strumento che attribuisce alla presunzione semplice le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza richieste dalla legge e che assicura il rispetto del principio di capacità contributiva, nella misura in cui garantisce che l’imposizione nei confronti dei soggetti interessati dall’accertamento mediante studi di settore non dipenda esclusivamente da indici di “normalità economica”, dedotti avendo riguardo al comparto dei contribuenti che abbiano caratteristiche comuni, ma che tenga conto delle effettive condizioni economiche e patrimoniali del contribuente verificato.

Nel caso in esame, ci sono due aspetti che meritano di essere evidenziati.

Il primo è che gli avvisi riguardano i periodi d’imposta 2001 e 2002 e quindi l’obbligo al contraddittorio non scaturirebbe direttamente dalla disposizione di legge. Nondimeno, dal testo della ordinanza, leggiamo che un invito al contraddittorio da parte dell’Ufficio procedente ci sarebbe stato ma il contribuente non avrebbe ritenuto di accoglierlo.

Su tale secondo aspetto, si fonda, a nostro avviso, la discutibilità della pronuncia in esame.

L’avere invitato al contraddittorio il contribuente, anche in assenza di un obbligo di legge, mostra che i Supremi Giudici hanno accolto il principio del contraddittorio, ormai incontrovertibilmente acquisito all’interno del nostro ordinamento e dell’ordinamento comunitario (7), anche nella fase pregiudiziale in quanto immanente, a prescindere dalle regole di efficacia delle norme del tempo.

D’altra parte, va tenuto conto del fatto che le già citate sentenze delle Sezioni Unite del 2009 (8) hanno affermato l’invalidità dell’accertamento che non sia stato preceduto dal contraddittorio, ma hanno altresì precisato che, nel caso in cui l’invito sia stato rivolto al contribuente e questi non si sia presentato o non abbia effettuato contestazioni, l’accertamento può limitarsi a richiamare dati offerti dagli strumenti standard, senza per questo essere invalido.

Il contribuente che non abbia accettato il contraddittorio può, tuttavia, ancora svolgere le sue ragioni nel giudizio che decida eventualmente di instaurare impugnando l’avviso di accertamento (9).

Tale impostazione è stata precisata e rafforzata, successivamente, dalla Suprema Corte nell’affermare che se il contribuente non pone in essere una adeguata difesa nel contraddittorio procedimentale l’Ufficio finanziario può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione dei parametri o degli studi di settore, «in quanto l’onere della prova posto a suo carico consiste esclusivamente nella dimostrazione dell’applicabilità dello standard prescelto al caso concreto» e, quindi, l’avviso di accertamento deve essere considerato legittimo (10).

Ciò significa che, secondo la giurisprudenza di legittimità, se il contribuente non accoglie l’invito al contraddittorio, l’Ufficio finanziario può legittimamente emettere l’avviso di accertamento sulla base dell’unico dato consistente nello scostamento tra quanto dichiarato e quanto risultante dagli studi di settore.

Rispetto a questa conclusione, in dottrina (11) è, invece, ritenuta imprescindibile l’esigenza di riscontrare ulteriormente lo scostamento, anche nel caso in cui il contribuente non si sia presentato all’invito.

D’altra parte, ad avviso di chi scrive, accogliendo l’impostazione della giurisprudenza di legittimità, la conseguenza è che si grava il contribuente, nella fase contenziosa, dell’onere della prova contraria e, ciò appare non in linea con l’altra conclusione della Corte medesima, e cioè che gli studi di settore sono presunzioni semplici che devono essere assistite dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.

In questo caso viene, infatti, a mancare la dimostrazione di questi “elementi sintomatici” che dovrebbero essere diversi dallo scostamento e dovrebbero riguardare l’effettivo espletamento dell’attività imprenditoriale e le caratteristiche proprie della stessa.

I Supremi Giudici, nell’annotata pronuncia, mostrano di aderire a quell’orientamento secondo cui il fatto che il contribuente non abbia accettato il contraddittorio è legittimante dell’utilizzo dello scostamento come unico elemento probante, quantomeno con riferimento all’emissione dell’atto accertativo.

L’annotata ordinanza richiama espressamente un proprio ulteriore precedente n. 16430/2011 per affermare che l’Ufficio fiscale si può limitare ad utilizzare questo elemento sintomatico e che non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale del comparto merceologico.

Posto che chi scrive non condivide questo assunto nemmeno in fase procedimentale, certamente non si ritiene che il medesimo possa essere accolto in fase processuale.

La giurisprudenza di legittimità (12) ha, infatti, sostenuto che, pur ritenendosi che la mancata accettazione del contraddittorio consenta all’Ufficio finanziario di motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards, l’esito del contraddittorio non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, in quanto il giudice tributario può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standards al caso concreto – aspetto questo che deve essere dimostrato dall’ente impostore – quanto la controprova offerta dal contribuente.

Quest’ultimo, peraltro, nella fase contenziosa, per quanto gli concerne, come abbiamo già rilevato, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte.

Ciò fa ritenere, come opportunamente rilevato (13), che in mancanza di punti d’incontro tra l’Ufficio procedente e il contribuente, nell’ambito del contraddittorio, sarà il giudice a stabilire se gli elementi scaturiti dal contraddittorio stesso possano qualificare la presunzione semplice. Pertanto, se la presunzione semplice offerta dall’Ufficio finanziario non viene considerata valida, soprattutto in quanto priva dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, anche a prescindere dalle deduzioni difensive del contribuente, il giudice, motivando adeguatamente, potrebbe comunque concludere per l’infondatezza dell’avviso di accertamento.

Di conseguenza, il riscontro che, in alcune ipotesi come quella in esame, verrebbe a mancare la fase del contraddittorio procedimentale, non può non essere preso in considerazione in fase contenziosa (14).

Sembra, invece, che, con riferimento alla vicenda in esame, il giudice tributario di secondo grado abbia ritenuto di dover applicare la linea più rigida e favorevole all’Agenzia delle entrate piuttosto che al contribuente e che la giurisprudenza di legittimità abbia seguito la stessa impostazione, peraltro, non per la prima volta (15).

Questa scelta desta forte perplessità soprattutto perché fatta invocando il rispetto del principio di capacità contributiva.

Riteniamo, infatti, che l’unico modo per assicurare il rispetto del principio predetto utilizzando strumenti standardizzati possa essere quello di rendere i risultati quanto più vicini alla realtà del contribuente e, certamente, ciò non è riscontrabile in una fattispecie come quella in esame per la quale si è fatto riferimento solo allo scostamento tra i dati dichiarati e quelli risultanti dal software che correda gli studi di settore. Anche nel caso in cui, come si afferma, lo scostamento fosse importante.

D’altra parte, anche l’Agenzia delle entrate sembra orientata verso una valutazione siffatta dato che, negli ultimi anni, proprio per avvalorare una maggiore corrispondenza degli studi alla realtà, ha preferito applicarli congiuntamente al redditometro, che consente di tenere conto di un maggior numero di dati relativi al contribuente in possesso del sistema, e che, quindi, è più idoneo a fornire una rappresentazione maggiormente veritiera del contesto economico-patrimoniale di quest’ultimo.

Il giudice tributario, pertanto, avrebbe potuto supportare il proprio convincimento disponendo, ad esempio, una consulenza tecnica d’ufficio (16), per acclarare quanto sostenuto dal contribuente.

D’altra parte, almeno in secondo grado, il fatto che sia stato applicato il moltiplicatore nella misura minima, lascia intendere che qualche spiraglio nel senso di una probabile non assoluta valenza dello studio di settore, con riferimento al caso specifico – condizione dalla quale riteniamo non si possa prescindere, se si invoca il principio di capacità contributiva – si era aperto nelle menti del Collegio giudicante.

Avv. Patrizia Accordino

Università degli Studi di Messina

(1) Cfr. Cass., sez. trib., 27 luglio 2011, n. 16430, in Boll. Trib. On-line.

(2) Sul punto si fa espresso rinvio anche a Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, n. 26635, in Boll. Trib., 2010, 303, con nota di Proietti, Presunzioni semplici quelle di parametri e studi di settore: la lettura costituzionalmente orientata delle Sezioni Unite.

(3) Orientamento confermato anche dalla successiva Cass., sez. VI, 29 ottobre 2013, ord. n. 24367, in Boll. Trib. On-line.

(4) Cfr. in dottrina Giorgi, L’accertamento basato su studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, in Rass. trib., 2001, 659 ss.; Beghin, Gli studi di settore, le “gravi incongruenze” ex art. 62-sexies del dl n. 331/1993 e l’insostituibile opera di adattamento del risultato di normalità economica alla fattispecie concreta, in Riv. dir. trib., 2007, 749 ss.; e Marcheselli, Gli accertamenti analitico-induttivi e gli studi di settore tra presunzioni semplici e legali, in Corr. trib., 2009, 3622 ss. In giurisprudenza, ved. Cass. n. 26635/2009, cit.; Cass., sez. un., 18 dicembre 2009, nn. 26636, 26637, e 26638, in Boll. Trib., 2010, 303, con la già citata nota di Proietti, Presunzioni semplici quelle di parametri e studi di settore: la lettura costituzionalmente orientata delle Sezioni Unite; nonché la più recente Cass., sez. trib., 24 marzo 2011, ord. n. 6777, in Boll. Trib. On-line.

(5) Cfr. Beghin, Gli studi di settore, le “gravi incongruenze” ex art. 62-sexies del dl n. 331/1993 e l’insostituibile opera di adattamento del risultato di normalità economica alla fattispecie concreta, cit., 749 ss.; e Versiglioni, Prova e studi di settore, Milano, 2007, 191 ss.

(6) Cfr. Versiglioni, La parametrizzazione del tributo nel diritto attuale: composizione della lite e non accertamento del fatto ignoto, in Rass. trib., 2008, 344 ss.

(7) Con riguardo al principio del contraddittorio così come elaborato dalla dottrina tributaristica, con specifico riferimento all’art. 12 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), cfr., per tutti, Colli Vignarelli, La violazione dell’art. 12 dello Statuto e la illegittimità dell’accertamento alla luce dei principi di collaborazione e di buona fede, in Bodrito-Contrino-Marcheselli, Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente. Studi in onore del Prof. Gianni Marongiu, Torino, 2012, 499 ss. Con riferimento all’accoglimento del principio in ambito comunitario, cfr. Corte Giust. UE, sez. II, 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropè, in Boll. Trib. On-line.

(8) Cfr. nota 4.

(9) Come si legge nelle già citate sentenze delle Sezioni Unite nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009, citt.

(10) Cfr. Cass., sez. trib., 15 giugno 2010, ord. n. 14313; e Cass., sez. trib., 30 novembre 2010, ord. n. 24198; entrambe in Boll. Trib. On-line.

(11) Cfr. Girelli, Gli studi di settore quale strumento “multifunzionale” tra dichiarazione, accertamento e processo tributario, in Riv. dir. trib., 2012, 721 ss.

(12) Cfr. Cass., sez. trib., 7 novembre 2012, ord. n. 19223, in Boll. Trib. On-line.

(13) Cfr. Ingrao, Gli studi di settore: esegesi della normativa, valutazione delle questioni di fatto e prospettive di coordinamento con l’accertamento sintetico, in Riv. dir. trib., 2011, 248 ss.

(14) Così Girelli, Gli studi di settore quale strumento” multifunzionale” tra dichiarazione, accertamento e processo tributario, cit., 721 ss.

(15) Cfr. in terminis Cass., sez. VI, 12 novembre 2012, ord. n. 19626, in Boll. Trib. On-line.

  1. Cfr. Basilavecchia, Accertamento e studi di settore: soluzione finale, in Riv. giur. trib., 2010, 212 ss.

 

 

Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Riferimento solo ad alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente – Sufficienza.

Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento basato sugli studi di settore – Grave incongruenza tra il reddito dichiarato e quello risultante dallo studio di settore di riferimento – Necessità.

In tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può, a norma dell’art. 39 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta, sia sugli studi di settore, nel quale ultimo caso l’Ufficio finanziario non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale del comparto merceologico, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente.

In tema di accertamento tributario, la necessità che lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore testimoni una grave incongruenza, espressamente prevista dall’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), ai fini dell’avvio della procedura finalizzata all’accertamento, deve ritenersi implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, dall’art. 10, primo comma, della legge 8 maggio 1998, n. 146, il quale, pur richiamando direttamente il citato art. 62-sexies, non contempla espressamente il requisito della gravità dello scostamento di talché tale requisito può ritenersi integrato nel caso in cui il divario con quanto indicato nella relativa dichiarazione dei redditi sia abbastanza rilevante.

[Corte di Cassazione, sez. VI (Pres. Cicala, rel. Bognanni), 29 ottobre 2013, ord. n. 24364]

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO – 1. B.M. propone ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, avverso la sentenza della commissione tributaria regionale della Puglia n. 44/06/10, depositata il 26 marzo 2010, con la quale, accolto l’appello dell’agenzia delle entrate contro la decisione di quella provinciale, l’opposizione del medesimo, relativa a due avvisi di accertamento concernenti Irpef, Irap ed Iva per gli anni 2001 e 2002, veniva respinta. In particolare il giudice di secondo grado osservava che gli atti impositivi si basavano sugli studi di settore, che costituivano prova presuntiva, senza che il contribuente, che si era discostato parecchio da essi, avesse fornito elementi di prova sul suo assunto, se non in modo generico, ed inoltre aveva omesso di instaurare il preventivo contraddittorio, nonostante l’invito trasmessogli. Tuttavia il moltiplicatore gli veniva applicato nel minimo previsto, tenuto conto delle deduzioni ed osservazioni addotte in sede contenziosa. L’agenzia delle entrate resiste con controricorso, mentre il ricorrente ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE – 2. Col motivo addotto a sostegno del ricorso il ricorrente deduce violazione di norme di legge e vizi di motivazione, in quanto la CTR non considerava che i parametri applicati dall’ufficio sono astratti, e dovevano essere contemperati dalle effettive condizioni in cui l’attività di commerciante di orologi, gioielli ed articoli di argenteria veniva svolta, e precisamente in un quartiere periferico e di persone non abbienti, trattandosi solo di presunzioni semplici, per le quali invece l’agenzia doveva fornire la prova della sua pretesa.

Il motivo è infondato, in quanto, com’è noto, in tema di accertamento induttivo dei redditi, l’Amministrazione finanziaria può – ai sensi dell’art. 39 del D.P.R. n. 600 del 1973 – fondare il proprio accertamento sia sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili “dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio dell’attività svolta”, sia sugli studi di settore, come nella specie, nel quale ultimo caso l’Ufficio non è tenuto a verificare tutti i dati richiesti per uno studio generale del comparto merceologico, potendosi basare anche solo su alcuni elementi ritenuti sintomatici per la ricostruzione del reddito del contribuente (cfr. anche Cass. Sentenza n. 16430 del 27/7/2011(1)). Del resto in tema di accertamento tributario, la necessità che lo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli studi di settore testimoni una “grave incongruenza”, espressamente prevista dall’art. 62-sexies del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, aggiunto dalla legge di Conversione 29 ottobre 1993, n. 427, ai fini dell’avvio della procedura finalizzata all’accertamento, deve ritenersi implicitamente confermata, nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva, dall’art. 10, comma 1, della legge 8 maggio 1998, n. 146, il quale, pur richiamando direttamente l’art. 62-sexies cit., non contempla espressamente il requisito della gravità dello scostamento, come nel caso in esame, in cui comunque il divario con quanto indicato in dichiarazione era abbastanza rilevante (v. pure Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009(2)).

Dunque sul punto la sentenza impugnata risulta motivata in modo giuridicamente corretto ed adeguato.

3. Ne deriva che il ricorso va rigettato.

4. Quanto alle spese del giudizio, esse seguono la soccombenza, e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M. – La Corte: rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al rimborso delle spese a favore della controricorrente, e che liquida in Euro 4.000,00 (quattromila/00) per onorario, oltre a quelle prenotate a debito.

(1) In Boll. Trib. On-line.

(2) In Boll. Trib., 2010, 303.

 

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