La sempre maggiore rilevanza della problematica sulla giustizia e sulla giurisdizione tributaria come si deduce dall’adozione nei provvedimenti del 1992 (1) dei termini processo (non contenzioso), sentenza (non decisione), giudici (non componenti delle Commissioni) e dal suo ampliamento («Appartengono alla giurisdizione tributaria tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie e comunque denominati …» ved. art. 2 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) avvenuta in osservanza del principio dell’esclusività per materia e non più per tributi (2) suggerisce qualche riflessione sulla necessità dell’inderogabile osservanza da parte del giudice “speciale” tributario delle peculiari regole processuali che trovano la loro giustificazione per l’assenza, nella Carta Costituzionale, di disposizioni sull’uniformità di regole nei diversi processi.
Preliminarmente si ritiene opportuno ricordare che le Commissioni tributarie, sorte come Organi amministrativi nel 1864 e quindi preesistenti alla Carta Costituzionale, sono state riconosciute come Organi giurisdizionali e che il “riordino” della giurisdizione tributaria è stato legittimato dalla Corte Costituzionale 23 aprile 1998, ord. n. 144 (3), sicché non incorrono nel divieto previsto dal secondo comma dell’art. 102 Cost. “Non possono essere istituiti giudici straordinari o speciali”.
Pertanto il giudice tributario è un giudice “speciale” per materia e per funzione secondo quanto disposto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 545, “Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria …”, non riconducibile al giudice “onorario” previsto dal secondo comma dell’art. 106 Cost. «La legge sull’ordinamento giudiziario, può ammettere la nomina anche elettiva di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli».
In linea con questa loro configurazione, il legislatore ha disposto che i giudici delle Commissioni tributarie siano nominati tra diverse categorie professionali mediante una selezione per concorso (artt. 4 e 5 del D.Lgs. n. 545/1992) e che abbiano una specifica preparazione.
In proposito l’art. 30, primo comma, lett. f), della legge 30 dicembre 1991, n. 413, prevede «la qualificazione professionale dei giudici tributari in modo che venga assicurata adeguata preparazione nelle discipline giuridiche ed economiche» senza alcuna distinzione tra giudici c.d. “togati e laici”.
Il che significa che il legislatore del 1991 ha avvertito la necessità che il giudice tributario sia adeguatamente preparato dovendo conoscere e applicare le complesse norme sostanziali, procedimentali e processuali tributarie, la cui rapida evoluzione esige, soprattutto nell’attuale contesto socio-economico caratterizzato da un ingente evasione ed elusione, un costante e gravoso impegno.
Lo stesso legislatore con la Legge delega tributaria (legge 11 marzo 2014, n. 23) proseguendo in questo percorso ha riservato una particolare attenzione alla preparazione del giudice tributario prevedendo all’art. 10, primo comma, lett. b), n. 8: «Il rafforzamento della qualificazione professionale dei componenti delle commissioni tributarie al fine di assicurare l’adeguata preparazione specialistica».
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Ad una prima lettura di questa disposizione si rileva come il legislatore, con l’espresso riferimento ai “componenti delle commissioni tributarie” abbia inteso mantenere, anzi consolidare, la loro composizione mista (giudici c.d. togati e laici) in ragione della qualificazione del giudice tributario come giudice “speciale” a tempo parziale.
Conseguentemente ha avvertito l’esigenza di un “rafforzamento” della qualificazione professionale collegandola non più soltanto ad una generica «adeguata preparazione nelle discipline giuridiche ed economiche» ma, innovativamente, ad una preparazione “specialistica” che, alla luce dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale della complessa disciplina, richiede un attento e particolare approfondimento delle relative tematiche.
Pertanto, al fine di un bilanciamento tra i diritti del contribuente e il prevalente interesse pubblico (4) al prelievo, l’impegno richiesto al giudice tributario non può essere sottovaluto rispetto all’esercizio della funzione giurisdizionale in ambiti processuali diversi.
Infatti, non vanno trascurate le conseguenze, per entrambe le parti del processo, degli eventuali ritardi nel deposito delle sentenze da parte di giudici tributari che, oltre a potersi ricondurre al diniego di giustizia (5) ed incidere sui diritti del contribuente, possono anche ledere il diritto di credito dell’ente impositore e quindi l’interesse pubblico.
Passando all’esame di alcune disposizioni del processo tributario è di facile comprensione come, nel caso in cui non si attui con rigore l’osservanza del n. 2 dell’art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992 («I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e per quanto da esse non disposto e con esse compatibili le norme del codice di procedura civile»), si realizzi una violazione delle regole del processo tributario, non riconducibile all’attività dello ius dicere, cioè all’interpretazione e applicazione delle norme da parte del giudice terzo, indipendente e imparziale (art. 101 Cost. «I giudici sono soggetti soltanto alla legge», art. 111 Cost. «giudice terzo ed imparziale»).
In proposito è noto che le connesse problematiche sull’indipendenza, terzietà e imparzialità del giudice, sono oggetto di particolare attenzione e attualità anche per il giudice tributario, in considerazione del suo particolare status.
Per quanto riguarda la previsione del citato art. 1, n. 2, del D.Lgs. n. 546/1992, si rileva che il ricorso all’applicazione di norme del codice di procedura civile necessita della preliminare verifica dell’assenza di una norma speciale tributaria e della compatibilità della norma processualcivilistica con le disposizioni del D.Lgs. n. 546/1992, sicché non si possono accogliere anomale e infondate richieste di integrazione.
In proposito va sottolineato come l’art. 32 del D.Lgs. n. 546 non consenta che all’udienza di trattazione le parti possano depositare documenti e che, a seguito dell’abrogazione del n. 3 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 546/1992, i giudici tributari abbiano il potere di ordinare ad una delle parti il deposito di documenti ritenuti necessari ai fini della decisione.
E ancora, considerato che la regola per la trattazione della controversia è in Camera di Consiglio (art. 33 del D.Lgs. n. 546/1992), non può consentirsi la trattazione in pubblica udienza in assenza della verifica della notifica (6) della richiesta alla controparte costituita (qualora non sia stata richiesta nel ricorso o nell’appello) senza violare il diritto alla difesa (art. 24 Cost.).
Pertanto in queste ipotesi è evidente che si verificherebbe una potenziale lesione del diritto alla difesa in un processo a carattere essenzialmente documentale.
Conseguentemente appare alquanto impreciso e non rispettoso delle norme processuali tributarie il riferimento alla “
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comparizione delle parti” data la nota non trascurabile della mancata previsione nel processo tributario dell’istituto della contumacia.
Inoltre, in considerazione delle specificità del processo (regola della trattazione in Camera di Consiglio, preclusione al deposito di documenti in udienza, non obbligatorietà della costituzione in giudizio della parte resistente) le richieste di rinvio della trattazione della controversia per impedimento del difensore (art. 115 c.p.c.) non possono trovare un generale accoglimento nel processo tributario (7).
Infatti, si finirebbe con il consentire un’ingiustificata dilazione del processo con una potenziale lesione del principio della “ragionevole durata” [in contrasto col principio del giusto processo art. 111 Cost. (8)] e non una lesione del diritto alla difesa.
E ancora, suscitano perplessità quelle sentenze che accolgono le censure del ricorrente/appellante-contribuente sulla base della mancata costituzione in giudizio o delle carenze nella difesa dell’Ufficio resistente, ignorando che la parte resistente (ente impositore o contribuente in appello) può non costituirsi in giudizio e che il principio di non contestazione non significa che i fatti non contestati debbano ritenersi provati.
In proposito giova richiamare l’art. 23 del D.Lgs. n. 546/ 1992, “Costituzione in giudizio della parte resistente”, che non solo prevede un termine diverso (60 giorni) rispetto a quello previsto per il ricorrente (30 giorni) ma non sancisce la perentorietà del suddetto termine per cui l’eventuale inosservanza non comporta alcuna inammissibilità ma soltanto preclusioni di carattere processuale. Ne consegue, con riguardo al principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., applicabile al processo tributario, che così recita «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita», che l’eventuale omessa contestazione da parte del resistente (Ufficio) nel giudizio introduttivo, dei motivi del ricorso del contribuente, non significa che i relativi fatti debbano ritenersi provati e che quindi i motivi di appello dell’Ufficio alla sentenza possano integrare e/o configurarsi come motivi nuovi (9).
Inoltre, considerato che oggetto della giurisdizione tributaria sono «le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati» (art. 2 del D.Lgs. n. 546/1992) e che il processo si introduce con ricorso avverso “Gli atti impugnabili” (indicati nell’art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992 che contiene non un’elencazione tassativa ma una predeterminazione normativa), ne deriva che ai fini dell’individuazione della natura dell’atto impugnato occorre fare ricorso ai canoni di una interpretazione estensiva (10) e ai fini della decisione tenere presente l’autonomia e la centralità dell’atto.
Considerato che la norma tributaria è obbligatoria per entrambe le parti, la valutazione dei motivi d’impugnazione, di legittimità e di merito (11) dell’atto, va effettuata con la preliminare verifica dell’osservanza o meno da parte dell’ente impositore dei presupposti e dell’iter seguito nei diversi schemi procedimentali (ad esempio, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633), la cui peculiare caratterizzazione processualistica è finalizzata ad una anticipata realizzazione della risoluzione delle controversie (ad esempio, accertamento con adesione, interpello, autotutela) in osservanza del diritto alla difesa (art. 24 Cost.) anche in fase procedimentale, come si deduce dall’introduzione dell’istituto processuale del contraddittorio.
Sul punto, nella incontestabile diversa problematica sul ricorso cumulativo e collettivo, si rileva che in materia tributaria gli atti istruttori, diversi ovviamente dall’atto presupposto che ha una sua autonomia (ad esempio, avviso di accertamento-atto d’imposizione e successiva cartella di pagamento-atto della riscossione), incidono sulla legittimità degli atti finali conclusivi del procedimento ma non sono autonomamente impugnabili poiché non è configurabile la teoria degli atti collegati, composti, continuati (con la dovuta attenzione alle aperture della giurisprudenza di legittimità nel caso di illegittimità dell’atto prodromico).
In proposito, non può non rilevarsi la peculiare singolarità di alcune sentenze che, disattendendo la specifica questione oggetto del giudizio mediante l’impugnazione dell’atto (ad esempio, cartella di pagamento, intimazione di pagamento), giungono ad annullare un diverso atto non impugnato (ad esempio, avviso di accertamento, cartella di pagamento) ignorando che trattasi di atti diversi, contestabili per motivi diversi e che i relativi giudizi possono dare esiti diversi in dipendenza dei diversi vizi rilevati.
Particolarmente importante è anche, a seguito della riforma delle sanzioni tributarie non penali, la distinzione tra i diversi atti emanati a seguito di un procedimento ordinario (art. 16 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472), semplificato e ultrasemplificato (art. 17 del D.Lgs. n. 472/1997).
Infatti l’atto di “contestazione” delle sanzioni (art. 16 del D.Lgs. n. 472/1992) che, al verificarsi di alcune condizioni, si trasforma in atto di “irrogazione”, espressamente impugnabile ex art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, non attiene a sanzioni collegate al tributo ma ha una sua autonomia rispetto al diverso atto d’imposizione, per cui le relative questioni vanno distinte.
Con riguardo ai motivi di merito e nella consapevolezza della difficile coincidenza tra giustizia sostanziale e processuale, va sottolineato come, essendo escluso nel processo tributario il giudizio di equità, disciplinato per casi specifici e tenendo conto di determinati criteri (artt. 113 e 339 c.p.c.), non possono condividersi quelle sentenze che, ai fini della valutazione del fondamento della pretesa e della sua quantificazione, vi fanno espresso riferimento con implicito erroneo riferimento al principio costituzionale della capacità contributiva (art. 53 Cost.).
Ulteriori singolarità non irrilevanti, per gli effetti ai fini della tutela degli interessi pubblici, sono i casi in cui il giudice, in assenza di comunicazione da parte dell’Ufficio, cui è affidato il relativo compito, si sostituisce ad esso, riconoscendo la regolarità delle istanze e dei versamenti (del contribuente) previsti dalle diverse leggi per la definizione agevolata (“condono”), supera l’incontestabilità sancita dalla legge della fattispecie derivante dal c.d. “condono”, accoglie istanze di rimborso in materia di “condono”, concettualmente incompatibili con i relativi provvedimenti in considerazione dello scopo di gettito per cui sono emanati.
E infine, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si limita a rilevare la singolarità delle pronunce che fanno ricorso all’analogia nell’interpretazione delle norme tributarie sostanziali e che ignorano la peculiarità dell’IRAP, definendola imposta sul reddito.
In conclusione, considerato che l’ottica costituzionale delle “Norme sulla giurisdizione” (art. 111 Cost.) nella sua generalità include quella tributaria per la cui attuazione si richiede il “giusto processo regolato dalla legge”, ne consegue che al fine di superare la potenziale conflittualità e risolvere le controversie nel processo tributario, si esige l’osservanza delle specifiche regole.
Infatti, il valore della giustizia nel processo tributario ha acquisito un ruolo sempre più centrale: «l’elevarsi di quella che potremmo chiamare la pretesa creditoria, la richiesta che il corpo pubblico fa ai cittadini affinché in misura crescente dedichino le proprie risorse a finanziare la spesa pubblica, codesto elevarsi reclama e postula la necessità della giustizia tributaria, intesa come giustizia nel processo, in una misura certo maggiore che nel passato» (12).
Dott. Santa Micali
(1) Ved. D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 545, “Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria”, e D.Lgs. n. 546/1992, “Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991 n. 413”.
(2) Il legislatore non definisce il tributo la cui nozione è stata elaborata dalla dottrina che, nell’ottica solidaristica dell’art. 53 Cost., ne ha individuato il collegamento con l’attività di prelievo per il concorso alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva (art. 53 Cost.).
(3) In Boll. Trib., 1998, 1340.
(4) «L’attività finanziaria, lungi dall’essere un’attività che limiti i diritti e la personalità del singolo, ne è il necessario presupposto, perché senza tale attività non vi sarebbe Stato, senza Stato non vi sarebbe diritto», così V.E. Vanoni, Opere giuridiche, Milano, 1961, 121 ss.
(5) Cfr. Cass., sez. un., 17 gennaio 2012, n. 528, in Giur. it., 2012, 2614, riguardante un magistrato ordinario.
(6) Ved. Cass., sez. trib., 30 giugno 2011, n. 14393, in Boll. Trib. On-line.
(7) Cfr. Cass., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17202; e Cass., sez. trib., 2 novembre 2011, ord. n. 22713; entrambe in Boll. Trib. On-line.
(8) Cfr. F. Gallo, Verso un giusto “processo tributario”, in Rass. trib., 2003, 1.
(9) Cfr. Cass., sez. trib., 18 giugno 2014, n. 13834, in Boll. Trib. On-line.
(10) Cfr. Cass., sez. un., 18 maggio 2000, n. 361, inedita.
(11) I principi costituzionali in materia tributaria, richiamati come principi generali dallo Statuto dei diritti del contribuente (legge 27 luglio 2000, n. 212), sono il principio di uguaglianza (art. 3), della riserva di legge relativa (art. 23) e il principio della capacità contributiva (art. 53).
(12) Ved. E. Allorio, Le nuove prospettive dell’ordinamento tributario, in Dir. prat. trib., 1964, I, 216.