7 Luglio, 2017

Non posso che sentirmi lusingato della attenzione critica che un Maestro come Enrico De Mita (1) ha dedicato alla mia nota “Habent sua sidera lites” (2). Cercherò di cogliere lo stimolo contenuto nelle sue parole.
Ricordo che la riflessione trae spunto da due sentenze della Quinta Sezione Tributaria della Corte di Cassazione (3), che risolvono in maniera antitetica due controversie di contenuto pressoché identico. Di guisa che uno dei due contribuenti si vede confermare il diritto alle agevolazioni fiscali per l’acquisto della c.d. “prima casa”, mentre l’altro patisce l’accoglimento del ricorso dell’Agenzia delle entrate e si trova quindi a dover sborsare una somma, che possiamo agevolmente supporre sia per lui ingente.
Il Prof. De Mita ravvisa nel titolo stesso del mio scritto una sorta di fatalistica “resa” alla opinabilità del ragionamento giuridico, e quindi l’implicita accettazione del fatto che i valori (latu sensu politici) di cui il singolo magistrato è portatore si riverberano sull’esito del processo.
Scrive De Mita che «Dal punto di vista del diritto sostanziale le due sentenze andrebbero ricondotte a un solo principio per la ricerca del quale sono sottoposte al giudizio delle Sezioni unite. Le due logiche non sono riconducibili a una sola. La maggiore attenzione alle esigenze fiscali, nella sentenza sfavorevole al contribuente, “la ricerca di soluzioni che non diano troppo spazio a difese pretestuose e di difficile valutazione”, non appartiene al diritto. I fini della legge non servono a interpretarla ma attengono a quei giudizi di valore che ogni giudice sente ma che non possono far parte della motivazione. La preoccupazione più garantista di soddisfare le esigenze primarie della vita è un’altra preferenza dei giudici ma non può far parte della motivazione. Cicala spiega come può avvenire, per la sensibilità dei giudici, che la questione venga risolta in modo contraddittorio, ma questo non può essere un modo surrettizio per salvare una sentenza sbagliata. La logica giuridica non consente contraddizioni. I fini della legge sono interessanti dal punto di vista sociologico e politico ma estranei alla scienza giuridica. La tesi di Cicala, secondo la quale “ogni sentenza, come ogni uomo, nasce sotto una stella che ne influenza il destino” dimostra un’altra attenzione al mondo del diritto, un realismo che non può giustificare tutto».
E conclude rilevando che «qui il sentimento c’entra poco. Si tratta di scelte politiche ritenute anche giuste e legittime. Il giudice deve applicare la legge anche se dal punto di vista fiscale non è conveniente. Cicala propende per una giurisprudenza fiscale dove il giudice si sente un po’ legislatore. Ho sempre spiegato agli studenti che il giudice parte dal suo senso di giustizia e poi motiva. Ma ho spiegato soprattutto che il diaframma politica-diritto non può essere disinvoltamente superato, senza venir meno alla funzione del diritto».
Mi par di cogliere il cuore del pensiero del Maestro nell’affermazione secondo cui «la logica giuridica non consente contraddizioni», e quindi non può condurre indifferentemente a due soluzioni contrastanti: una delle due sentenze è “sbagliata”.
Concordo.
La dignità del “ragionar di diritto” poggia su un’ipotesi, che tutti gli operatori dobbiamo tener per vera: l’interpretazione della legge può produrre risultati univoci, ed almeno in un gran numero di casi, persino evidenti.
Se così non fosse verrebbe meno il presupposto stesso della “scienza giuridica” e tutto il nostro “sapere” si tradurrebbe in una mera “tecnica”; utile per rivestire di panni seducenti quella soluzione che meglio collima con la nostra soggettiva visione “politica”, o – più banalmente – con il nostro interesse.
Detto ciò, è doveroso io prenda posizione, senza rifugiarmi nella comoda constatazione dell’alto tasso di casualità che oggi caratterizza le vicende giudiziarie; e dunque dichiari che sono favorevole a quella interpretazione che meglio salvaguarda i valori sostanziali tutelati dalla legge: dunque, nell’esempio che ha dato lo spunto a questa riflessione, ritengo esatta la soluzione che riconosce il diritto del contribuente all’agevolazione fiscale in questione.
Sono consapevole che valori sostanziali non sono soltanto i legittimi interessi del tapino che viene in contatto con la macchina della giustizia. Anche nelle norme apparentemente più “aride” sono sottese rilevanti esigenze sociali.
Valore sostanziale è, ad esempio, anche la certezza dei rapporti giuridici, e quindi la scansione dei tempi e delle modalità procedurali e processuali. Il processo non è solo uno strumento per “far giustizia”, è anche uno strumento per “far certezza”. Il rispetto delle forme è un valore: l’errore commesso dal difensore può pregiudicare l’incolpevole cliente. L’errore del giudice viene, a salvaguardia della certezza, spesso coperto dalla coltre del giudicato, con molta maggior efficacia – afferma Salvatore Satta – di quanto la terra ricopra gli errori dei medici.
Per altro verso, non possiamo nasconderci che in questo momento storico caratterizzato da un complesso intreccio di fonti del diritto europee e nazionali e da una molteplicità di Corti Supreme (Corte Europea di Giustizia, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Corte Costituzionale, Corte di Cassazione) il tentativo di elaborare, anche solo nella propria mente, un sistema giuridico coerente e stabile appare la fatica di Sisifo.
Ma – come ben ha posto il luce Albert Camus – noi dobbiamo «immaginare Sisifo felice» (4). Dobbiamo cioè dar per scontato che l’adempimento del nostro compito (e la soddisfazione assai relativa che può derivarne) non richiedono il raggiungimento dell’obbiettivo della razionalizzazione del sistema giuridico, che è fuori della nostra portata (il pensiero vola all’imponente arretrato della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione); ci è chiesto solo di operare con il meglio delle nostre forze perché il masso risalga la china, senza farci abbattere dalla prospettiva che esso abbia presto a ruzzolar di nuovo giù.

POSTILLA

Qualcuno potrebbe voler conoscere gli ulteriori sviluppi della giurisprudenza della Cassazione circa la disciplina applicabile ove un soggetto acquisti l’abitazione invocando i benefici fiscali sulla c.d. “prima casa”, e tuttavia non trasferisca la residenza in tale immobile entro il termine posto dalla legge, sostenendo che questo mancato o tardivo trasferimento sia stato determinato da una forza maggiore.
È stata depositata il 24 giugno 2016 la sentenza n. 13148 della Suprema Corte (5) che delinea un quadro articolato e completo della giurisprudenza; ed in cui si legge che l’agevolazione sulla c.d. “prima casa” non si perde ove il trasferimento richiesto dalla legge non sia stato tempestivo per causa di forza maggiore. E questa affermazione sembrerebbe foriera di un dispositivo favorevole per i contribuenti.
Ma così non è, la decisione sottolinea che l’art. 1, nota II-bis, lett. a), della tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, subordina il riconoscimento del diritto all’agevolazione alla condizione che l’abitazione si trovi nel Comune di residenza oppure che la residenza venga trasferita nel Comune in cui si trova l’abitazione entro il termine di diciotto mesi dall’acquisto. E con un’interpretazione rigidamente ancorata alla lettera della legge conclude che non è necessario che il contribuente vada ad abitare nell’immobile acquistato, essendo sufficiente il trasferimento della residenza in un qualsiasi luogo collocato all’interno dell’area comunale.
Simile conclusione giova a chi acquista un’abitazione nel suo Comune di residenza (e che potrebbe non utilizzare mai il suo acquisto a fini abitativi); ma in concreto ha nuociuto al contribuente coinvolto nella controversia decisa con il provvedimento di cui andiamo parlando.
Costui aveva infatti dedotto l’esistenza di una causa di forza maggiore che gli avrebbe impedito di utilizzare l’immobile. Ma la Corte di Cassazione replica che avrebbe dovuto dedurre e provare uno stato di necessità tale da rendere impossibile prendere la residenza nel Comune ove si trova l’immobile. Di conseguenza ritiene non decisiva la prova offerta dal contribuente, e rigetta il ricorso proposto avverso la sentenza di merito che aveva negato il diritto all’agevolazione.
Soggiunge poi la Suprema Corte con un incisivo obiter dictum, ispirato all’esigenza di certezza dei diritti dello Stato nei rapporti fiscali, di ritenere «peraltro opportuno altresì chiarire che in generale causa di forza maggiore è soltanto quella imprevedibile e sopravvenuta, che non dipende da un comportamento addebitabile anche solo a titolo di colpa nel vari gradi per es. lieve ecc. o nelle varie specie per es. in eligendo ecc. … E che pertanto anche nella materia in discussione la causa di forza maggiore non può essere diversa. E in questo senso appare per es. condivisibile la Ris. 1 febbraio 2002 n. 35/E dell’Agenzia delle Entrate (6) che in specifici casi ha ammesso la causa di forza maggiore con riferimento ai Comuni dell’Umbria colpiti da sisma. Cosicché sarebbe per es. ammissibile che, come ancora avvenuto in Emilia nei Comuni colpiti dal terremoto del 2012, che hanno non solo visto ridotto in misura rilevante il proprio patrimonio abitativo, ma anche la creazione di numerose zone cosiddette rosse interdette per molto tempo all’accesso, ravvisare l’impossibilità di trasferire tempestivamente la residenza per mancanza di abitazioni agibili».

Prof. Mario Cicala
Presidente della Commissione
Tributaria Regionale della Toscana

(1) E. DE MITA, Separazione insuperabile fra diritto e politica, in Il Sole 24 Ore del 1° luglio 2016, 41.
(2) M. CICALA, Habent sua sidera lites, in Boll. Trib., 2016, 725.
(3) Si tratta di Cass., sez. trib., 10 febbraio 2016, n. 2616, e Cass., sez. trib., 27 aprile 2016, n. 8351, entrambe in Boll. Trib., 2016, risp. 793 e 796, con nota di L. LOVECCHIO, La rilevanza della causa di forza maggiore nella disciplina delle agevolazioni fiscali sulla c.d. “prima casa”, ibidem, 798 ss.
(4) Cfr. A. CAMUS, Il mito di Sisifo. Saggio sull’assurdo (Le mythe de Sisyphe. Essai sur l’absurde), Gallimard (Parigi), 1942. La citazione, invece, è tratta da A. CAMUS, Il mito di Sisifo, in Opere, Milano, Bompiani, 2003, 318 s.: «Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».
(5) Cfr. Cass., sez. trib., 24 giugno 2016, n. 13148, in Boll. Trib., 2016, 1277.
(6) In Boll. Trib., 2002, 1252.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *