Per strano che possa sembrare, seppure la buona fede sia presa in considerazione da numerose disposizioni normative il nostro ordinamento giuridico non ne contiene una precisa definizione. In alcuni casi, essa assume rilievo quale elemento di comportamento, come ad esempio nell’art. 1337 c.c. secondo cui «le parti, nello svolgimento delle trattative … devono comportarsi secondo buona fede», o nell’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente), per cui «i rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente sono improntati al principio della collaborazione e buona fede». In altri, è presa in esame quale elemento ostativo all’applicazione di un regime giuridico collegato alla mala fede, come nell’art. 494 c.c. ove l’erede «che ha omesso in mala fede di denunciare nell’inventario beni appartenenti all’eredità» decade dal beneficio d’inventario.
Nella prassi del diritto privato, il ricorso al canone della buona fede quale condizione integrativa dei contratti è sempre più frequente, condizionando molte soluzioni. Anche il settore tributario si sta aprendo a questo canone, come attestano le note vicende delle “frodi carosello” nel settore dell’IVA.
Il principio enunciato dalle Sezioni Unite si riferisce a una compravendita di veicoli usati in cui l’Amministrazione finanziaria contestava al cessionario l’indebita fruizione del regime agevolato del margine previsto dall’art. 36 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito, con modificazioni, dalla legge 23 marzo 1995, n. 85). A differenza di quanto previsto dal disposto normativo, le auto erano state cedute da soggetti che avevano detratto l’IVA sull’acquisto.
Trattandosi di un’imposizione speciale e facoltativa rispetto alla regola generale, e sulla base di un recente enunciato della Corte di Giustizia dell’Unione europea (1), la Corte di Cassazione ha ribadito che per fruire di tale speciale regime IVA agevolato anche nel caso in cui, come nella specie, l’originario proprietario del bene acquistato aveva detratto l’IVA sull’acquisto, il cessionario «deve provare la propria buona fede, cioè di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto».
La buona fede del cessionario è stata dunque assunta quale una componente del presupposto impositivo, con gli stessi caratteri condizionanti di un elemento oggettivo. In buona sostanza, l’acquisto di un bene usato non è soggetto a imposta se chi lo compra non è consapevole di partecipare a un’evasione fiscale e, ancora, se si è diligentemente comportato in modo da evitare di restare coinvolto in detta evasione.
In relazione alla prima condizione (ossia la scusabilità dello stato di ignoranza sulla reale rappresentazione dello stato dei fatti) entrano in gioco gli elementi oggettivi conosciuti dall’acquirente e comunque a sua disposizione. Per la seconda entra in gioco la colpa, intesa come responsabilità per non aver adottato tutti gli accorgimenti e le precauzioni che una diligenza qualificata avrebbe reso opportuno per conoscere detti fatti.
Nel primo caso, integra il requisito della buona fede chi è inconsapevole di partecipare a un’operazione che lede il diritto dell’Amministrazione finanziaria alla corretta applicazione della norma tributaria. Nel secondo caso tale status accede soltanto a chi è in grado di dimostrare il proprio impegno alla esatta rappresentazione della realtà dei fatti, rimastagli ignota nonostante ciò.
Ancora, mentre nel primo caso compete all’Amministrazione finanziaria fornire la prova degli elementi di conoscenza a disposizione dell’acquirente capaci di dimostrare, anche sul piano inferenziale, l’irregolarità fiscale dell’operazione a cui il medesimo si stava accingendo, nel secondo caso alla stessa è sufficiente rilevare che l’acquisto era inserito in una catena di operazioni deputata all’evasione d’imposta, competendo al cessionario dimostrare che tale circostanza era rimasta a lui sconosciuta nonostante l’avere posto in essere gli opportuni accertamenti del caso.
Il legislatore però non detta alcun parametro a cui collegare il metro di valutazione della ragionevolezza e proporzionalità dei controlli. Ne segue che la decisione finale sul comportamento del contribuente, per stabilire se esso integra o meno il canone di buona fede, sarà pertanto basata su una valutazione prettamente discrezionale, secondo modelli di comportamento che il giudice riterrà, di volta in volta, confacenti al caso trattato.
A tale proposito, la Corte di Cassazione afferma che la congruenza di questi accertamenti dovrà essere valutata «secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto».
Nulla da osservare, se non che il tutto rischia di essere un facile richiamo a espressioni di mero stile linguistico, come tali insufficienti. Per essere sufficienti, queste espressioni dovrebbero evocare in modo concreto le modalità della condotta che il contraente avrebbe dovuto tenere, in modo che chiunque possa agevolmente comprendere quale sia il comportamento da tenere in quelle determinate circostanze per integrare il presupposto impositivo sotto l’aspetto soggettivo.
Se è pur vero che la buona fede sulla correttezza fiscale di una determinata operazione commerciale non possa fondarsi sulla semplice supposizione di ciò, in quanto si raggiungerebbe il singolare risultato di privilegiare il comportamento di chi preferisce non indagare per evitare di conoscere la verità, è altrettanto vero che in difetto di qualsiasi parametro normativo che indichi e individui quali debbano essere le informazioni da acquisire si finisce col rimetterne la valutazione a un soggetto terzo che attingerà, per forza di cose, alle sue personali convinzioni etiche e sociali: la classica giurisprudenza di interessi secondo cui la scienza del diritto non deve fermarsi alle norme di legge ma deve ricercare gli interessi che queste intendono tutelare. E questo tanto più deve avvenire quando, come nel caso in esame, l’ordinamento giuridico presenta lacune che solo l’attività del giudice, in vista di questi interessi, può colmare.
Senza considerare, ancora, che di fronte a un conclamato meccanismo elusivo, la prova del congruo e diligente controllo della realtà dei fatti rischia di ridursi a una prova per certi versi diabolica, mancando sempre l’esecuzione di quel controllo che, col senno del poi, sarebbe stato risolutivo. D’altronde se la frode carosello sussiste ed è dimostrata è evidente che qualunque controllo sia stato fatto si è rivelato insufficiente a smascherare la truffa. Vero altresì che se di truffa si parla non può essere così facile individuarla, di talché si rischia di richiedere all’operatore commerciale indagini e investigazioni eccessivamente complesse e costose che solo le Autorità statali dovrebbero potere fare (2).
In conclusione, lo stato della giurisprudenza assume la buona fede sulla regolarità dell’operazione come elemento integrativo del presupposto impositivo, condizionandone l’effettività. Chi si accinge a un’operazione commerciale inserita in una catena di cessioni deve dunque preoccuparsi di verificare, acquisire e conservare le prove necessarie ad attestare la ricerca dei dati e delle informazioni circa il corretto comportamento fiscale dei suoi partners. Per applicare il regime impositivo da lui prescelto non basterà il riscontro dei presupposti oggettivi delineati dalla legge IVA in quanto, se la medesima dovesse risultare inserita in una catena elusiva, questi presupposti debbono essere integrati con l’ulteriore elemento soggettivo in parola, e dunque con la prova dell’attività di ricerca svolta per appurare che le operazioni a valle e a monte della catena di cessioni nella quale era inserita la sua, non erano caratterizzate da frode fiscale.
Non sapendo esattamente quali informazioni acquisire, e non avendo a questo proposito i poteri attribuiti agli organi inquirenti, ivi compreso l’accesso alle banche dati dell’Agenzia delle entrate, una tale attività di controllo sul corretto comportamento fiscale in testa ai soggetti dell’operazione e, soprattutto, a quelli che con questi ultimi hanno operato o opereranno, non sarà per nulla agevole. E ciò anche perché il nostro sistema non si apre per nulla a chi voglia, ad esempio, prendere conoscenza, per l’indispensabile effetto integrativo di cui sopra, dell’organizzazione d’impresa e del genere di affari dei soggetti con cui viene anche indirettamente a contatto.
La Suprema Corte si disinteressa di ciò, della buona fede oggettiva di questi soggetti, e dunque della loro lealtà e correttezza. Essa rivolge la sua attenzione soltanto a una sola parte del rapporto tributario, nello specifico quella acquirente: in particolare, sulla effettività e congruenza dei controlli che la peculiarità del caso avrebbe reso opportuno affinché questi potesse acquisire lo status soggettivo della buona fede.
Per prevenire frodi come quelle di cui si tratta, che tanto allarme stanno provocando per le difficoltà di attuare efficaci strumenti di controllo e repressione, occorrono indubbiamente obblighi severi che pongano al centro del sistema dei commerci il concetto di lealtà e onestà dei comportamenti. Nulla vieta pertanto che al contribuente vengano chieste cautele, a patto che queste siano ragionevolmente attuabili, che siano improntate al principio di proporzionalità e ragionevolezza e, ancora, che tutelino il valore della libertà economica e, soprattutto, quello sulla sicurezza e speditezza dei traffici nel rispetto del diritto alla privacy e riservatezza.
Detto rigore non può tuttavia essere concentrato soltanto sulle parti private, dovendo coinvolgere anche l’Amministrazione finanziaria. Quest’ultima non può limitarsi ad intervenire ex post, partendo da responsi prettamente esegetici e per certi versi dogmatici, per pretendere prove attestanti la buona fede nel senso soprainteso, e senza previa configurazione empirica delle medesime.
Il rischio è che un esagerato e improprio uso della buona fede, senza regolamentazione legislativa, possa portare a una sostanziale modificazione del nostro sistema tributario, non più basato sulla oggettività dei presupposti, ma su una eccessiva e incontrollata discrezionalità dell’interprete. Senza considerare che, una volta assolti i parametri dettati dalla norma processuale sul contenuto minimo della motivazione, la sentenza sarà incensurabile per cassazione, mancando per l’appunto il riferimento normativo attraverso il quale censurare, eventualmente, l’iter argomentativo seguito dal giudice per statuire in ordine alla ragionevolezza e proporzionalità dei controlli.
Il tramonto del positivismo giuridico rende attuale il problema della fondabilità conoscitiva di tali valori (3), che non possono essere abbandonati alle ideologie di chi è chiamato a decidere.
Avv. Bruno Aiudi
(1) Cfr. Corte Giust. UE, sez. IX, 18 maggio 2017, causa C-624/15, in Boll. Trib. On-line: «non è contrario al diritto dell’Unione esigere che un operatore agisca in buona fede e adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad un’evasione tributaria. Non è invece compatibile con il regime del diritto a detrazione previsto dalla direttiva IVA sanzionare, con il diniego di tale diritto, un soggetto passivo che non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore, o che un’altra operazione nell’ambito della catena di fornitura, anteriore o posteriore a quella realizzata da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’IVA. Infatti, l’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario».
(2) Del resto la Corte di Giustizia UE ha affermato proprio questo limite (punti 39 e 40) con la citata sentenza C-624/15, mentre la Corte di Cassazione sembra superarlo ampiamente.
(3) Su tale tema cfr. F. PIRAINO, La buona fede in senso oggettivo, Milano, 2015, 102.
IVA – Regime speciale per i rivenditori di beni usati e oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione – Acquisti di autoveicoli usati – Regime del margine di utile – Costituisce un regime d’imposizione speciale, facoltativo e derogatorio – Interpretazione restrittiva e rigorosa della relativa disciplina – Consegue – Regole e principi applicabili – Individuazione.
IVA – Regime speciale per i rivenditori di beni usati e oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione – Ratio della relativa disciplina – È quella di evitare la doppia imposizione e le distorsioni di concorrenza tra gli operatori di tale mercato.
IVA – Regime speciale per i rivenditori di beni usati e oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione – Acquisti di autoveicoli usati – Diritto di applicare il regime del margine qualora sulla fattura vi sia menzione tanto del regime del margine quanto dell’esenzione dall’IVA – Sussiste – Negazione di tale diritto allorquando emerga che il soggetto passivo-rivenditore non abbia effettivamente applicato detto regime alla cessione dei beni di cui trattasi – Condizioni.
IVA – Regime speciale per i rivenditori di beni usati e oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione – Acquisti di autoveicoli usati – Sussistenza di indizi che consentano di sospettare irregolarità o evasione – Onere del cessionario di assumere informazioni su un altro operatore, presso il quale prevede di acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità – Consegue – Obbligo del soggetto passivo che intenda esercitare il diritto di applicare il regime del margine di compiere ulteriori indagini – Non sussiste – Effettuazione dei controlli necessari presso gli operatori al fine di rilevare irregolarità ed evasioni in materia di IVA nonché infliggere le eventuali sanzioni – Spetta alle Autorità tributarie.
IVA – Regime speciale per i rivenditori di beni usati e oggetti d’arte, di antiquariato e da collezione – Acquisti di autoveicoli usati – Obbligo dell’Amministrazione tributaria di contestare che il contribuente abbia indebitamente fruito del regime del margine, già prima dell’adozione del provvedimento impositivo, adducendo elementi specifici e concreti – Sussiste – Onere del contribuente di fornire la relativa prova contraria – Consegue – Dimostrazione da parte del cessionario della propria buona fede – Necessita – Obblighi specifici di un cessionario di veicoli d’occasione – Esame della “storia” del veicolo individuando i precedenti intestatari del mezzo e le loro specifiche qualità, nonché gli anteriori cedenti – Necessita.
Procedimento – Ricorsi – Appello – Eccezione di merito ritenuta infondata dalla sentenza di primo grado – Appello incidentale della parte appellata sulla propria eccezione rigettata in prime cure – Necessità – Riproposizione a norma dell’art. 346 c.p.c. – Insufficienza.
In tema di IVA, il regime del margine di utile previsto dall’art. 36 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 marzo 1995, n. 85), e dagli articoli da 311 a 325 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (e già dall’art. 26-bis della VI Direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977), per le cessioni, da parte di rivenditori, di beni d’occasione, di oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato, costituisce un regime d’imposizione speciale, facoltativo e derogatorio, in favore del contribuente, del sistema normale dell’IVA, con la conseguenza che la sua disciplina va interpretata restrittivamente e applicata in termini rigorosi, nei limiti di quanto necessario al raggiungimento dello scopo dell’istituto, di talché, con particolare riferimento alla compravendita di veicoli usati, il cessionario al quale l’Amministrazione finanziaria contesti, in base ad elementi oggettivi e specifici, tale fruizione, deve provare la propria buona fede, cioè di avere agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di avere adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto, al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto, il che comporta l’obbligo per il cessionario rivenditore di veicoli usati di individuare, nei limiti dei dati risultanti dalla carta di circolazione in suo possesso, eventualmente integrati da elementi di agevole e rapida reperibilità, i precedenti intestatari del veicolo, al fine di accertare, sia pure solo in via presuntiva, se l’IVA sia stata o meno già assolta a monte da altri, nell’ambito della catena di fornitura, senza possibilità di detrazione: in caso di esito positivo, il diritto di applicare il regime del margine deve essere riconosciuto, anche qualora l’Amministrazione finanziaria dimostri, attraverso indagini e controlli inesigibili dal contribuente, che in realtà l’imposta, per qualsiasi motivo, non era stata detratta, mentre invece nella diversa ipotesi in cui dalla verifica del contribuente emerga che i precedenti titolari svolgano tutti attività di rivendita, noleggio o leasing nel settore del mercato dei veicoli, opera la presunzione contraria, in base al criterio di normalità probabilistica, dell’avvenuto esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte per l’acquisto dei veicoli stessi, in quanto beni destinati ad essere impiegati nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa, con conseguente negazione del diritto alla fruizione del trattamento fiscale più favorevole.
Lo scopo del regime del margine di utile previsto dall’art. 36 del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito, con modificazioni, dalla legge 22 marzo 1995, n. 85), e dagli articoli da 311 a 325 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, è di evitare la doppia imposizione e le distorsioni di concorrenza tra soggetti passivi nel settore dei beni d’occasione, degli oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato, atteso che assoggettare ad imposta, per l’intero prezzo, la cessione di detti beni od oggetti da parte di un soggetto passivo rivenditore, allorché il prezzo al quale quest’ultimo ha acquistato il bene stesso incorpora un importo di IVA assolto a monte da un privato consumatore, oppure da un soggetto che non abbia potuto detrarre l’imposta o abbia agito nel proprio Stato membro dell’Unione europea in regime di franchigia o abbia a sua volta assoggettato la cessione al regime del margine, e che né tale persona né il soggetto passivo-rivenditore siano stati in grado di detrarre, produrrebbe una tale doppia imposizione.
Secondo quanto emerge dall’orientamento della Corte di Giustizia dell’Unione europea, l’art. 314 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune dell’IVA, come modificata dalla Direttiva 2010/45/UE del Consiglio del 13 luglio 2010, deve essere interpretato nel senso che osta a che le Autorità competenti di uno Stato membro neghino a un soggetto passivo, che abbia ricevuto una fattura sulla quale vi sia menzione tanto del regime del margine quanto dell’esenzione dall’IVA, il diritto di applicare il regime del margine, anche qualora da una successiva verifica effettuata da dette Autorità emerga che il soggetto passivo-rivenditore, fornitore dei beni d’occasione, non abbia effettivamente applicato detto regime alla cessione dei beni di cui trattasi, a meno che le Autorità competenti non dimostrino che il soggetto passivo non abbia agito in buona fede o che non abbia adottato tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo coinvolga in un’evasione tributaria, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.
I contribuenti non possono avvalersi, nel contesto di un’evasione o di un abuso, delle norme del diritto dell’Unione europea, e ciò si verifica non solo quando un’evasione tributaria è commessa dallo stesso soggetto passivo, ma anche quando un soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto, a monte o a valle, nell’ambito della catena di fornitura, ed a tal fine non è contrario al diritto dell’Unione europea esigere che un operatore agisca in buona fede e adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione non lo conduca alla partecipazione ad un’evasione, ma qualora ciò egli abbia fatto, come non può essergli negato il diritto all’esenzione o alla detrazione, così non può essergli precluso il diritto di applicare il regime del margine; qualora sussistano indizi che consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, un operatore accorto potrebbe, secondo le circostanze del caso di specie, vedersi obbligato ad assumere informazioni su un altro operatore, presso il quale prevede di acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità, e tuttavia l’Amministrazione finanziaria non può esigere in maniera generale che il soggetto passivo il quale intenda esercitare il diritto di applicare il regime del margine, da un lato, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasione a livello degli operatori a monte, verifichi che l’emittente della fattura abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o, dall’altro lato, che il detto soggetto passivo disponga di documenti a tale riguardo poiché, in linea di principio, spetta alle Autorità tributarie effettuare i controlli necessari presso gli operatori al fine di rilevare irregolarità e evasioni in materia di IVA nonché infliggere le eventuali sanzioni.
Qualora l’Amministrazione tributaria ritenga che il contribuente abbia indebitamente fruito del regime del margine di utile, deve contestarne, già prima dell’adozione del provvedimento impositivo, l’esistenza dei presupposti, oggettivi o soggettivi, adducendo elementi specifici e concreti, anche ovviamente aventi efficacia meramente presuntiva, e non, quindi, in modo generico, essendo poi onere del contribuente di fornire la relativa prova contraria e, in particolare, con riferimento all’esistenza delle condizioni soggettive il contribuente-cessionario deve dimostrare la propria buona fede, intesa come comprensiva sia dell’assenza di consapevolezza che il suo acquisto si iscriveva nel contesto di un’evasione dell’IVA, sia dell’uso della necessaria diligenza, ossia di aver adottato tutte le misure ragionevolmente esigibili da parte di un operatore accorto, al fine di assicurarsi che una tale evenienza dovesse escludersi, dovendosi ritenere, a questo riguardo, che rientri nell’ambito delle precauzioni che si possono senz’altro richiedere ad un cessionario di veicoli d’occasione l’esame della “storia” del veicolo, quanto meno con riferimento all’individuazione dei precedenti intestatari del mezzo, risultanti dalla carta di circolazione, documento in possesso dell’acquirente in quanto indispensabile ai fini del perfezionamento dell’operazione, accertando di conseguenza la qualità di tali intestatari, e anteriori cedenti, cioè verificando, eventualmente mediante l’acquisizione di ulteriori dati di rapido reperimento, se essi siano o meno soggetti legittimati ad esercitare il diritto di detrazione dell’IVA: e mentre nell’ipotesi negativa è evidente che il bene è pervenuto al consumo finale, con conseguente applicabilità del regime del margine, nel caso opposto è ragionevole presumere il contrario, quando risulti che il soggetto compie professionalmente operazioni nell’ambito del mercato dei veicoli, svolgendo l’attività di rivendita, di noleggio o di leasing, e il quale pertanto, in base al criterio di regolarità causale, detrae l’imposta pagata per l’acquisto del bene destinato all’esercizio dell’attività propria dell’impresa.
Qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado, o attraverso un’enunciazione in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 c.p.c. corrispondente, per il processo tributario, all’art. 56 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
[Corte di Cassazione, sez. un. (Pres. Rordorf, rel. Virgilio), 12 settembre 2017, sent. n. 21105, ric. Agenzia delle entrate c. Autopiù s.r.l.]
FATTI DI CAUSA – 1.1. Con avvisi di accertamento notificati il 29 aprile 2006, l’Agenzia delle entrate, per quanto qui interessa, contestò alla Autopiù s.r.l., rivenditrice di veicoli usati, l’illegittima applicazione del regime del margine di utile in materia di IVA, relativamente ad una pluralità di operazioni di rivendita di autoveicoli, acquistati da una medesima società nazionale, la s.r.l. Scotti (già Tiesse Diesel s.r.l.), a sua volta cessionaria di società cedenti estere comunitarie (in particolare, della Mediacars Ltd. di Londra). In sintesi, si affermava negli avvisi che la Autopiù s.r.l. aveva acquistato automezzi, provenienti da Stati esteri comunitari, da proprietari esercenti attività di autonoleggio e di leasing, come tali aventi diritto di detrarre l’IVA pagata a monte, sicché, mancando l’assolvimento definitivo dell’imposta, si trattava di operazioni che non potevano fruire del regime speciale del margine.
Avverso gli atti impositivi la Autopiù s.r.l. propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Siena, che lo accolse.
1.2. La Commissione tributaria regionale della Toscana ha rigettato l’appello dell’Agenzia delle entrate con sentenza depositata il 21 gennaio 2010.
Il giudice d’appello ha ritenuto che la contribuente ha legittimamente applicato il regime del margine, in ragione della mancanza di «obblighi investigativi» a suo carico e della «presenza dell’indicazione contenuta nei libretti di circolazione e nelle fatture per cui i beni in discorso erano già stati assoggettati al predetto regime da parte del cedente comunitario», con la conseguenza che alla contribuente stessa non è imputabile «una responsabilità per negligenza, imprudenza od imperizia giacché l’Ufficio non ha mosso alcuna contestazione al trattamento fiscale della Tiesse Diesel e delle sue cessionarie».
Ha aggiunto che, «circa l’erroneo recupero d’imposta sull’operazione di vendita alla Sig.ra L.M.», deve ritenersi che l’operazione «non implichi evasione di imposta ma solo errore formale».
2. Avverso la sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione per due motivi.
La Autopiù s.r.l. ha resistito con controricorso e proposto anche ricorso incidentale articolato in tre motivi.
3. A seguito di istanza della contribuente, la causa è stata rimessa all’esame di queste sezioni unite, in quanto ritenuta, anche in ragione dell’ampiezza del contenzioso in materia, di particolare importanza.
4. Sia l’Agenzia delle entrate, sia la MC Baxter s.r.l., in liquidazione (già Autopiù s.r.l.), hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE – 1. Con i due motivi di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione dell’art. 36 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito dalla legge 22 marzo 1995, n. 85), nel testo modificato, nella parte che qui rileva, dal d.l. 2 ottobre 1995, n. 415 (convertito dalla legge 29 novembre 1995, n. 507), con il quale è stata data attuazione all’art. 26 bis della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977 (articolo aggiunto dalla direttiva 94/5/CE del Consiglio del 14 febbraio 1994), che ha introdotto, nel sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, un regime particolare applicabile alle cessioni di beni d’occasione, di oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato, comunemente definito regime del margine di utile.
2.1. È previsto dal citato art. 36 del d.l. n. 41/95 e dal diritto dell’Unione europea (cfr., ora, artt. 311-325 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006), in sintesi e per quanto specificamente interessa, che per i rivenditori dei beni suddetti, tra i quali i beni mobili usati, suscettibili di reimpiego nello stato originario o previa riparazione (come i veicoli aventi i requisiti indicati nell’art. 38, comma 4, secondo periodo, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427), l’IVA relativa alla rivendita «è commisurata alla differenza tra il prezzo dovuto dal cessionario del bene e quello relativo all’acquisto, aumentato delle spese di riparazione e di quelle accessorie».
Ai fini dell’applicabilità di tale regime d’imposizione è necessario che l’acquisto sia stato effettuato da un privato consumatore, oppure da soggetto che: non ha potuto detrarre l’imposta (poiché, precisa l’art. 314 della direttiva IVA, la cessione del bene da parte sua è «esentata conformemente all’art. 136»); o ha agito nel proprio Stato membro in regime di franchigia (prevista per le piccole imprese «agli articoli da 282 a 292 e riguardi un bene d’investimento», come specifica l’art. 314 cit.); o ha a sua volta assoggettato la cessione al regime del margine.
È previsto, poi, che i soggetti che applicano il regime in esame possono, per ciascuna cessione, applicare l’imposta nei modi ordinari.
2.2. Lo scopo del regime del margine è di evitare la doppia imposizione e le distorsioni di concorrenza tra soggetti passivi nel settore dei beni d’occasione, degli oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato (“considerando” 51 della direttiva IVA): assoggettare ad imposta, per l’intero prezzo, la cessione di detti beni od oggetti da parte di un soggetto passivo rivenditore, allorché il prezzo al quale quest’ultimo ha acquistato il bene stesso incorpora un importo di IVA assolto a monte da una persona appartenente ad una delle categorie indicate nel paragrafo precedente e che né tale persona, né il soggetto passivo-rivenditore sono stati in grado di detrarre, produrrebbe una tale doppia imposizione.
La condizione per l’applicazione del regime del margine alla cessione del bene è, quindi, quella che il bene sia stato acquistato da un soggetto il quale, come appunto quelli sopra menzionati, non ha potuto detrarre l’imposta pagata a monte all’atto dell’acquisto del bene e, pertanto, ha sopportato integralmente l’imposta stessa, laddove l’esistenza del diritto alla detrazione esclude il rischio della doppia imposizione e la conseguente possibilità di sottrarre l’operazione al regime normale dell’IVA.
2.3. In conclusione, il regime d’imposizione del (solo) margine di utile realizzato in occasione della cessione costituisce un regime speciale facoltativo, derogatorio del sistema generale di cui alla direttiva 2006/112 e rispetto a questo meno oneroso (contemplando una base imponibile ridotta), con la conseguenza che la disciplina concernente il suo ambito applicativo deve essere interpretata restrittivamente, nei soli limiti di quanto necessario al raggiungimento dell’obiettivo dell’istituto (in tali sensi, Corte di giustizia 8 dicembre 2005, causa C-280/04, Jyske Finans (1); 3 marzo 2011, causa C-203/10, Auto Nikolovi (2); 19 luglio 2012, causa C-160/11, Bawaria Motors (3); 18 maggio 2017, C-624/15, Litdana (4); nella giurisprudenza nazionale, cfr., tra le più recenti, Cass. 24/9/2014, n. 20089 (5); 19/11/2014, n. 24604 (6); 5/12/2014, n. 25755 (7); 24/7/2015, n. 15630 (8); 30/12/2015, n. 26069 (9); 30/5/2016, n. 11086 (10)).
3. Tali essendo, in sintesi, la nozione, la ratio e i presupposti del regime impositivo in discussione, l’oggetto della presente controversia, e quindi della questione rimessa all’esame delle sezioni unite, concerne l’aspetto indubbiamente più rilevante nell’applicazione dell’istituto (e che dà perciò luogo ad un ampio contenzioso), cioè l’ambito e l’estensione dell’onere della prova e dei connessi doveri di diligenza gravanti sul contribuente che intenda fruire di tale particolare, e più favorevole, trattamento fiscale.
Nei motivi del ricorso principale, infatti, l’Agenzia delle entrate contesta la ratio decidendi della sentenza impugnata – con la quale, come sopra riportato in narrativa, il giudice a quo ha ritenuto sufficiente ai fini anzidetti l’indicazione, nei libretti di circolazione degli autoveicoli e nelle fatture emesse dalla cedente, della circostanza che i beni erano già stati assoggettati al regime del margine da parte della cedente comunitaria, escludendo ulteriori «obblighi investigativi» a carico della cessionaria –, sostenendo la tesi secondo cui l’onere di verifica del cessionario nazionale non si arresta ai rapporti tra sé e il diretto dante causa, ma la sua diligenza ben può, e anzi deve, andare oltre, in presenza di elementi significativi di “allarme”, idonei a far sospettare l’inattendibilità della detta annotazione e l’avvenuto esercizio del diritto alla detrazione, elementi nella fattispecie consistenti nel fatto che dagli stessi libretti di circolazione sarebbe risultato che i veicoli provenivano da società di autonoleggio o di leasing che li avevano utilizzati come beni dell’impresa (con possibilità, dunque, di detrazione dell’IVA assolta sugli acquisti).
4. Nel controricorso vengono sollevate alcune eccezioni preliminari.
È fondata l’eccezione di giudicato interno in relazione al capo della sentenza impugnata col quale è stato annullato il recupero concernente l’«operazione di vendita alla sig.ra L.M.», non oggetto di impugnazione in questa sede.
Non hanno fondamento, invece, le eccezioni di inammissibilità del ricorso e dei suoi singoli motivi: non quella di inammissibilità dell’intero ricorso per omessa impugnazione dell’affermazione di non imputabilità alla contribuente di responsabilità per negligenza, imprudenza o imperizia, perché la stessa non costituisce autonoma ratio decidendi ed è comunque direttamente investita dal secondo motivo di ricorso; non quella di inammissibilità del primo motivo per erronea ricostruzione dei fatti di causa, in quanto, per un verso, le inesattezze evidenziate (e segnatamente il fatto che le autovetture non provenivano da società estere di autonoleggio o di leasing, bensì da un’unica società – Mediacars Ltd. – a sua volta rivenditrice di autoveicoli, solo per alcuni dei quali risultavano quali originarie intestatarie alcune società di autonoleggio) concernono elementi fattuali secondari, inidonei – quand’anche rispondenti a realtà, come sembra ammettere l’Agenzia delle entrate in memoria – ad incidere, nel senso di vanificarlo, sul thema decidendum esposto nella censura, la quale, per altro verso, non è tesa a rimettere in discussione accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito; né, infine, è fondata l’eccezione di inammissibilità del secondo motivo, sostanzialmente ripetitiva di quella rivolta al primo.
5.1. Il ricorso principale, i cui due motivi vanno esaminati congiuntamente per stretta connessione, è fondato, nei sensi di seguito precisati.
5.2. Sulla questione è recentemente intervenuta la Corte di giustizia con la sentenza 18 maggio 2017, causa C-624/15, Litdana (11), già sopra citata, il cui dispositivo è il seguente:
«L’articolo 314 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, come modificata dalla direttiva 2010/45/UE del Consiglio, del 13 luglio 2010, dev’essere interpretato nel senso che osta a che le autorità competenti di uno Stato membro neghino a un soggetto passivo, che abbia ricevuto una fattura sulla quale vi sia menzione tanto del regime del margine quanto dell’esenzione dall’imposta sul valore aggiunto (IVA), il diritto di applicare il regime del margine, anche qualora da una successiva verifica effettuata da dette autorità emerga che il soggetto passivo-rivenditore, fornitore dei beni d’occasione, non aveva effettivamente applicato detto regime alla cessione dei beni di cui trattasi, a meno che le autorità competenti non dimostrino che il soggetto passivo non ha agito in buona fede o che non ha adottato tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo coinvolga in un’evasione tributaria, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
5.3. In fatto era accaduto che la Litdana, società lituana esercente l’attività di vendita di veicoli d’occasione, aveva acquistato alcuni veicoli da una società danese che aveva emesso fatture recanti l’indicazione del regime del margine (oltre che dell’esenzione dall’IVA), senonché l’amministrazione tributaria lituana aveva negato alla Litdana l’applicazione di tale regime all’atto della rivendita dei beni, a seguito dell’accertamento che la fornitrice danese non aveva in realtà applicato il regime medesimo.
La Corte ha innanzitutto ribadito il principio, più volte espresso, secondo il quale i singoli non possono avvalersi, nel contesto di un’evasione o di un abuso, delle norme del diritto dell’Unione e ha affermato – richiamando le numerose pronunce in tema di diritto alla detrazione dell’IVA e all’esenzione dall’imposta di una cessione intracomunitaria – che ciò si verifica non solo quando un’evasione tributaria è commessa dallo stesso soggetto passivo, ma anche quando un soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto, a monte o a valle, nell’ambito della catena di fornitura; a tal fine, non è contrario al diritto dell’Unione esigere che un operatore agisca in buona fede e adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione non lo conduca alla partecipazione ad un’evasione, ma qualora ciò egli abbia fatto, come non può essergli negato il diritto all’esenzione o alla detrazione, così non può essergli precluso il diritto di applicare il regime del margine (punti da 31 a 37).
Ha poi riaffermato che, qualora sussistano indizi che consentono di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, un operatore accorto potrebbe, secondo le circostanze del caso di specie, vedersi obbligato ad assumere informazioni su un altro operatore, presso il quale prevede di acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità. Tuttavia, l’amministrazione fiscale non può esigere in maniera generale che il soggetto passivo il quale intende esercitare il diritto di applicare il regime del margine, da un lato – al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasione a livello degli operatori a monte – verifichi che l’emittente della fattura abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o, dall’altro lato, che il detto soggetto passivo disponga di documenti a tale riguardo; spetta infatti, in linea di principio, alle autorità tributarie effettuare i controlli necessari presso gli operatori al fine di rilevare irregolarità e evasioni in materia di IVA nonché infliggere le eventuali sanzioni (punti 39 e 40).
Pertanto, la questione se la Litdana abbia agito in buona fede e abbia adottato tutte le misure che le si potevano ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le operazioni effettuate non la conducessero a partecipare ad un’evasione tributaria appartiene alla competenza del giudice del rinvio (punto 42).
6.1. Nella sentenza della Corte di Lussemburgo trova sostanzialmente conferma l’orientamento espresso in materia dalla giurisprudenza della sezione tributaria di questa Corte, la quale (cfr., tra altre, le sentenze sopra citate al par. 2.3) ha costantemente fatto riferimento al canone della buona fede e al correlato onere del cessionario di adottare, in via preventiva, tutte le precauzioni ragionevolmente esigibili al fine di assicurarsi di non essere coinvolto, col proprio acquisto, in un’evasione fiscale.
6.2. Qualora l’amministrazione tributaria ritenga che il contribuente abbia indebitamente fruito del regime del margine, deve contestarne – già prima dell’adozione del provvedimento impositivo (Cass. Sez. U. 9/12/2015, n. 24823 (12)) – l’esistenza dei presupposti, oggettivi o soggettivi, adducendo elementi specifici e concreti (anche, ovviamente, aventi efficacia meramente presuntiva) e non, quindi, in modo generico.
Spetta a questo punto al contribuente l’onere di fornire la relativa prova contraria.
In particolare, con riferimento all’esistenza delle condizioni soggettive, che qui assumono rilievo e che presentano i profili più delicati e controversi, il contribuente-cessionario deve dimostrare la propria buona fede, intesa come comprensiva sia dell’assenza di consapevolezza che il suo acquisto si iscriveva nel contesto di un’evasione dell’IVA, sia dell’uso della necessaria diligenza, ossia di aver adottato tutte le misure ragionevolmente esigibili da parte di un operatore accorto, al fine di assicurarsi che una tale evenienza dovesse escludersi.
A questo riguardo, deve ritenersi, in conformità alla univoca giurisprudenza della sezione tributaria, che rientri nell’ambito delle precauzioni che si possono senz’altro richiedere ad un cessionario di veicoli d’occasione l’esame della “storia” del veicolo, quanto meno – che è quel che interessa – con riferimento all’individuazione dei precedenti intestatari del mezzo, risultanti dalla carta di circolazione, documento in possesso dell’acquirente in quanto indispensabile ai fini del perfezionamento dell’operazione.
E può dirsi quindi altrettanto agevole, senza che ciò comporti, di regola, la pretesa di oneri investigativi inesigibili, accertare la qualità di tali intestatari, e anteriori cedenti, cioè verificare, eventualmente mediante l’acquisizione di ulteriori dati di rapido reperimento, se essi siano, o meno, soggetti legittimati ad esercitare, nel caso di specie, il diritto di detrazione dell’IVA: e mentre nell’ipotesi negativa è evidente che il bene è pervenuto al consumo finale, con conseguente applicabilità del regime del margine, nel caso opposto è ragionevole presumere il contrario, quando risulti che il soggetto compie professionalmente operazioni nell’ambito del mercato dei veicoli, svolgendo l’attività di rivendita, di noleggio o di leasing, e il quale, pertanto, in base al criterio di regolarità causale, detrae l’imposta pagata per l’acquisto del bene destinato all’esercizio dell’attività propria dell’impresa.
6.3. È significativo, in questo quadro, rilevare che la Corte di giustizia, nella sentenza citata (punto 44), ha ritenuto di sottolineare, come elementi fattuali che il giudice del rinvio avrebbe potuto considerare in senso favorevole alla società contribuente, sia il fatto che l’operazione in questione si iscriveva in un rapporto commerciale di lunga durata tra essa e la società danese, sia, ancor più, la circostanza che la Litdana aveva avuto in precedenti occasioni conferma dalle autorità tributarie, su sua richiesta, che la dicitura apposta dalla cedente sulle fatture costituiva prova sufficiente a consentire l’applicazione del regime del margine; in tale situazione, ha concluso la Corte, sarebbe contrario al principio di proporzionalità chiedere al soggetto passivo di verificare sistematicamente, per ogni cessione, che il fornitore abbia effettivamente applicato il regime del margine, quantomeno quando non vi sia alcun indizio che faccia sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione.
Si trattava, pertanto, di un caso del tutto peculiare, nel quale la cessionaria aveva agito in forza di uno specifico affidamento ingenerato da indicazioni fornitele dall’amministrazione tributaria: se ne evince, a contrario, che il comportamento dell’acquirente deve essere apprezzato in termini tendenzialmente rigorosi.
6.4. Spetta in ogni caso al giudice di merito valutare se la condotta del contribuente-cessionario sia stata complessivamente tale da rispondere alla diligenza massima ragionevolmente esigibile, in conformità al principio di proporzionalità, in rapporto alle circostanze della singola fattispecie; con la conseguenza, nell’ipotesi affermativa, di riconoscere l’applicazione del regime del margine anche qualora, pur in presenza di elementi che depongano in senso favorevole, dovesse in concreto risultare, in base a successivi controlli che solo all’amministrazione tributaria sono consentiti in virtù degli strumenti investigativi di cui essa dispone, l’assenza dei presupposti per la sua fruizione.
6.5. Va, in definitiva, enunciato il seguente principio di diritto:
«In tema di IVA, il c.d. regime del margine, previsto dall’art. 36 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito dalla legge 22 marzo 1995, n. 85) e dagli articoli da 311 a 325 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (e, già, dall’art. 26 bis della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977) per le cessioni, da parte di rivenditori, di beni d’occasione, di oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato, costituisce un regime d’imposizione speciale, facoltativo e derogatorio, in favore del contribuente, del sistema normale dell’IVA: ne consegue che la sua disciplina va interpretata restrittivamente e applicata in termini rigorosi, nei limiti di quanto necessario al raggiungimento dello scopo dell’istituto.
Con particolare riferimento alla compravendita di veicoli usati, il cessionario, al quale l’amministrazione finanziaria contesti, in base ad elementi oggettivi e specifici, tale fruizione, deve provare la propria buona fede, cioè di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto.
Rientra in tale condotta anche l’individuazione, nei limiti dei dati risultanti dalla carta di circolazione in suo possesso, eventualmente integrati da elementi di agevole e rapida reperibilità, dei precedenti intestatari del veicolo, al fine di accertare, sia pure solo in via presuntiva, se l’IVA sia stata, o no, già assolta a monte da altri, nell’ambito della catena di fornitura, senza possibilità di detrazione: in caso di esito positivo, il diritto di applicare il regime del margine deve essere riconosciuto, anche qualora l’amministrazione dimostri, attraverso indagini e controlli inesigibili dal contribuente, che in realtà l’imposta, per qualsiasi motivo, non era stata detratta. Nell’ipotesi, invece, in cui dalla verifica del contribuente emerga che i precedenti titolari svolgano tutti attività di rivendita, noleggio o leasing nel settore del mercato dei veicoli, opera la presunzione (contraria, in base al criterio di normalità probabilistica) dell’avvenuto esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte per l’acquisto dei veicoli stessi, in quanto beni destinati ad essere impiegati nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa, con conseguente negazione del diritto alla fruizione del trattamento fiscale più favorevole».
6.6. Negli indicati termini, in conclusione, il ricorso dell’Agenzia delle entrate deve essere accolto, poiché il giudice a quo, nel valutare il comportamento della Autopiù s.r.l. (ora MC Baxter s.r.l. in liquidazione), non si è attenuto ai principi enunciati.
7.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale, la società contribuente denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per avere il giudice d’appello omesso di pronunciare sulla censura, formulata nel ricorso introduttivo e riproposta in appello ai sensi dell’art. 56 del d.lgs. n. 546 del 1992, di illegittimità degli avvisi di accertamento per difetto di motivazione, in ragione della mancata allegazione o riproduzione, in violazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000 (statuto dei diritti del contribuente), della documentazione concernente le richiamate verifiche effettuate presso la cedente comunitaria della Scotti s.r.l.
Col secondo motivo è denunciata, nell’ipotesi subordinata in cui si ritenesse che la detta censura sia stata implicitamente rigettata, la violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, del citato d.lgs. n. 546 del 1992, per difetto assoluto di motivazione.
Infine, con l’ultima doglianza è dedotta, nel merito, la violazione del citato art. 7 della legge n. 212/2000.
7.2. Il ricorso è inammissibile.
Premesso che il motivo di difetto di motivazione degli avvisi di accertamento è stato espressamente rigettato dal primo giudice (come la contribuente chiaramente espone e dimostra nel ricorso incidentale), va applicato il principio in virtù del quale, qualora un’eccezione di merito sia stata ritenuta infondata nella motivazione della sentenza del giudice di primo grado, o attraverso un’enunciazione in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta, ma che sottenda in modo chiaro ed inequivoco la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione da parte sua dell’appello incidentale, non essendo sufficiente la mera riproposizione di cui all’art. 346 cod. proc. civ. (corrispondente, per il processo tributario, all’art. 56 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) (Cass., Sez. U., 12/5/2017, n. 11997 [rectius, 11799] (13), e già 19/4/2016, n. 7700 (14)).
Nella specie, pertanto, essendosi la Autopiù s.r.l. limitata, nel giudizio di appello, a riproporre la questione nell’atto di controdeduzioni, anziché proporre appello incidentale avverso l’espressa statuizione di rigetto del primo giudice, l’esame della questione stessa è rimasto precluso, già in appello, per essersi formato il giudicato interno.
8. In conclusione, va accolto il ricorso principale nei termini sopra precisati e va dichiarato inammissibile il ricorso incidentale.
La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al ricorso accolto e la causa rinviata alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, la quale procederà a nuovo esame della controversia, uniformandosi ai principi enunciati nel par. 6.5, oltre a provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M. – La Corte, a sezioni unite, accoglie il ricorso principale nei sensi di cui in motivazione e dichiara inammissibile il ricorso incidentale.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Toscana in diversa composizione.
(1) In Boll. Trib. On-line.
(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib., 2013, 470.
(4) In Boll. Trib. On-line.
(5) In Boll. Trib. On-line.
(6) In Boll. Trib. On-line.
(7) In Boll. Trib. On-line.
(8) In Boll. Trib. On-line.
(9) In Boll. Trib. On-line.
(10) In Boll. Trib. On-line.
(11) In Boll. Trib. On-line.
(12) In Boll. Trib., 2016, 223.
(13) In Boll. Trib. On-line.
(14) In Corr. giur., 2016, 968.