Circolare 16 ottobre 2017, n. 25/E, dell’Agenzia delle entrate
La circolare illustra il trattamento fiscale dei proventi derivanti da strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati, percepiti da dipendenti ed amministratori di Società di gestione del risparmio, enti o società di gestione dei fondi. Tale provento, nato nel settore del private equity è denominato “carried interest’ e rappresenta una forma di incentivo riconosciuto al realizzarsi di determinati risultati, ai soggetti maggiormente esposti al rischio derivante dall’investimento. Il duplice ruolo rivestito dal manager in seno alla società, vale a dire amministratore o dipendente (e quindi titolare di reddito di lavoro dipendente o assimilato) e azionista/quotista delle società di cui egli è amministratore dipendente (titolare di redditi di capitale) aveva destato tra gli operatori incertezze in ordine alla qualificazione reddituale dei proventi rivenienti da tali strumenti. L’incertezza era dovuta all’ampiezza della definizione di reddito di lavoro dipendente, idonea a ricomprendere ogni erogazione riconducibile al rapporto di lavoro, inclusi i compensi in natura. La norma dispone che i proventi derivanti da strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati siano qualificati, al ricorrere di determinate condizioni, redditi di capitale o diversi con una presunzione di qualificazione del reddito operante ope legis. La circolare illustra tali condizioni, legate alla consistenza dell’investimento, alla postergazione nella distribuzione di utili ed ad un periodo di detenzione minimo degli strumenti così acquisiti. Si illustra inoltre la qualificazione reddituale dei proventi derivanti da strumenti non aventi i requisiti fissati dalla disposizione, la cui natura deve essere ricostruita sulla base di una verifica caso per caso. Si forniscono infine precisazioni sulla data di entrata in vigore della nuova misura, facendo un cenno al regime fiscale applicabile nel periodo di prima applicazione dell’art. 60.
INDICE:
PREMESSA
1. FINALITÀ DELLA NORMA
2. AMBITO APPLICATIVO DELLA NORMA
2.1. Amministratori e dipendenti interessati
2.2. Proventi derivanti da diritti patrimoniali rafforzati: il c.d. carried interest
3. QUALIFICAZIONE DEL CARRIED INTEREST COME REDDITO DI CAPITALE O DIVERSO: REQUISITI
3.1. Investimento minimo
a) Fondi
b) Società
3.2. Differimento nella distribuzione dell’utile
3.3. Periodo minimo di detenzione dell’investimento
4. QUALIFICAZIONE REDDITUALE DEL CARRIED INTEREST IN ASSENZA DEI REQUISITI
5. DECORRENZA DELLA NUOVA DISPOSIZIONE.
“PREMESSA
L’articolo 60 del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo, pubblicato nella G.U. n. 95 del 24 aprile 2017 e convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96, ha disciplinato il trattamento fiscale dei “proventi derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio, percepiti da dipendenti ed amministratori di tali società, enti od organismi di investimento collettivo di risparmio ovvero di soggetti ad essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati …” stabilendo che, al ricorrere di determinati requisiti, tali proventi “si considerano in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi”.
La relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 50 del 2017 (di seguito, relazione illustrativa) specifica, in proposito, che i criteri dettati dalla norma “intendono allineare la disciplina italiana alle analoghe previsioni normative già in essere nelle principali giurisdizioni europee come Francia e Germania e rendere il Paese più competitivo attraverso la definizione di un quadro normativo più chiaro”.
Con la presente circolare vengono forniti i primi chiarimenti relativi all’ambito applicativo della norma in esame ed ai presupposti di ordine quantitativo e temporale, inerenti la consistenza dell’investimento, il periodo minimo di detenzione di tali strumenti ed il differimento nella distribuzione dell’utile, richiesti per l’operatività della presunzione legale che qualifica i proventi derivanti da strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati come redditi di capitale o diversi.
In seguito, per TUIR si intende il Testo Unico delle Imposte sui Redditi approvato con il Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 e per decreto-legge si intende il decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50, recante Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo, pubblicato nella G.U. n. 95 del 24 aprile 2017 e convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96.
I documenti di prassi richiamati sono pubblicati nella banca dati documentazione tributaria, sul sito www.agenziaentrate.it.
1. FINALITÀ DELLA NORMA
L’articolo 60 del decreto-legge, dispone che, al verificarsi di determinate condizioni, i proventi derivanti dagli strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati percepiti da manager e dipendenti sono in ogni caso qualificati come redditi di capitale o diversi, configurandosi come una forma di remunerazione della partecipazione al capitale di rischio.
Il duplice ruolo rivestito dal manager, vale a dire di amministratore o dipendente (e quindi titolare di reddito di lavoro dipendente o assimilato o autonomo, qualora le relative funzioni siano riconducibili all’eventuale esercizio della professione) e di azionista/quotista delle società o enti di cui è amministratore o dipendente – o di società ad esse collegate – ha destato tra gli operatori incertezze in ordine alla qualificazione reddituale dei proventi derivanti da strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati.
Non risultavano, infatti, individuate le ipotesi in cui il provento conseguito dal manager costituiva senza dubbio una remunerazione connessa alla posizione di co-investitore rispetto a quelle in cui esso rappresentava invece una sorta di commissione di gestione (performance fee) corrisposta a titolo di retribuzione della attività lavorativa.
L’incertezza dell’inquadramento reddituale dipende dai criteri di determinazione del reddito di lavoro dipendente, stabiliti dall’art. 51 del TUIR, che comprende “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro” (art. 51 comma 1 del TUIR). L’ampiezza di tale definizione è idonea ad attrarre nella categoria dei redditi di lavoro dipendente ogni erogazione riconducibile al rapporto di lavoro, inclusi i compensi erogati in natura. Analogo criterio vige (in virtù del rinvio all’art. 51 del TUIR contenuto nell’art. 52 comma 1 del TUIR), per i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, tra cui sono compresi – ai sensi dell’art. 50, comma 1, lett. c-bis) del TUIR – quelli percepiti “in relazione agli uffici di amministratore … sempreché gli uffici o le collaborazioni [ndr. di amministratore] non rientrino nell’oggetto dell’arte o professione” abitualmente esercitata, circostanza quest’ultima che riconduce il compenso degli amministratori di società alla categoria dei redditi di lavoro autonomo.
Sotto quest’ultimo aspetto, un interessante spunto di riflessione è rinvenibile nella sentenza n. 9635 resa in data 27 febbraio 2014 dalla sez. III della Cassazione penale che, sia pur in via incidentale rispetto al tema oggetto della controversia, ha ricondotto il provento derivante da un diritto patrimoniale rafforzato pattuito contrattualmente a titolo di compenso per gli obiettivi di performance, tra i redditi di natura professionale, da imputare al professionista (e non alla società estera, costituente uno schermo interposto) “in quanto persona
.in grado di perseguire attraverso la sua consolidata esperienza imprenditoriale e la sua capacità di condurre le trattative, gli obiettivi di performance fissati negli accordi convenzionali”.
La natura di retribuzione correlata alla prestazione lavorativa del manager non può venir meno in considerazione dell’aleatorietà del provento, erogato – al pari degli utili – solo se il fondo genera profitti che superano un ‘livello minimo di rendimento’, atteso che analoga incertezza sussiste anche per la retribuzione variabile incentivante.
Per altro verso, l’attribuzione a manager e dipendenti di utili più che proporzionali al valore della partecipazione al capitale, laddove finalizzata ad allineare i loro interessi a quelli degli investitori, porterebbe a considerare tali proventi “utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società ed enti” di cui all’art. 44, comma 1, lett. e) del TUIR, o, in caso di cessione, redditi diversi di natura finanziaria.
Una conferma della complessità relativa alla qualificazione del provento in discussione può rinvenirsi negli Orientamenti dell’ESMA (European Securities and Markets Authority) – Orientamenti per sane politiche retributive a norma della direttiva GEFIA mutuati in ambito nazionale – e per la parte che interessa in questa sede – nel Regolamento in materia di organizzazione e procedure degli intermediari che prestano servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio, emanato il 29 ottobre 2007 congiuntamente dalla Banca d’Italia e Consob, come modificato da ultimo con atto congiunto del 27 aprile 2017.
I richiamati documenti, che naturalmente non si occupano degli aspetti fiscali del reddito, identificano il carried interest (o commissione di gestione, assoggettato a tali disposizioni) come una forma di remunerazione da parte del FIA (fondo alternativo di investimento) “spettante ai membri del personale a titolo di compenso per la gestione del FIA” stesso, che si sostanzia in una quota degli utili del fondo eccedente l’utile derivante dall’investimento. Tali documenti evidenziano due elementi meritevoli di attenzione: in primo luogo la necessità di distinguere tale remunerazione dalla quota di utili che rappresenta invece il provento dell’investimento e, in secondo luogo, la necessità che la distribuzione del carried interest sia subordinata alla restituzione agli investitori dell’intero capitale apportato e di una quota di utili determinata a un tasso di rendimento minimo (hurdle rate), oltre che alla previsione di opportuni meccanismi di restituzione fino alla liquidazione del FIA.
La stessa relazione all’art. 60 (Dossier A.S. 2853, Conversione in legge del decreto-legge n. 50 del 2017) dà atto che, ancor prima dell’entrata in vigore della norma, “all’assenza di una chiara qualificazione normativa sulla natura giuridico-tributaria di reddito di ‘capitale’ ai fini delle imposte dirette dei proventi derivanti dai diritti patrimoniali ‘rafforzati’ percepiti dai manager e dai dipendenti titolari di quote o azioni della società, si è fatto fronte con il chiarimento pubblicato in via di prassi dall’Agenzia delle Entrate (Risoluzione n. 103/E/2012), dove si è affermato che i proventi de quo devono configurarsi quali redditi di ‘capitale’
..ma solo allorché la partecipazione agli utili mediante tali investimenti non sia subordinata all’esistenza del rapporto di lavoro con l’investitore, dal momento che è ben ipotizzabile che in tal caso il beneficiario potrebbe continuare a mantenere il possesso della partecipazione, anche in caso di ‘cessazione’ del rapporto di lavoro”.
Come evidenziato nella relazione illustrativa, “la norma traccia ora una più precisa linea di demarcazione, basata sui requisiti di ordine quantitativo e temporale dell’investimento, anche allo scopo di evitare possibili abusi tesi a convertire in modo surrettizio redditi da lavoro dipendente o autonomo in redditi di capitale o diversi”.
L’intervento normativo è quindi finalizzato a delineare le ipotesi in cui i diritti patrimoniali rafforzati “si considerano in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi” con una qualificazione fiscale, operante ope legis, subordinata al rispetto delle seguenti condizioni:
a) l’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e gli amministratori di cui al presente comma, comporta un esborso effettivo pari ad almeno l’1 per cento dell’investimento complessivo effettuato dall’organismo di investimento collettivo del risparmio o del patrimonio netto nel caso di società o enti;
b) i proventi delle azioni, quote o strumenti finanziari che danno i suindicati diritti patrimoniali rafforzati maturano solo dopo che tutti i soci o partecipanti all’organismo di investimento collettivo del risparmio abbiano percepito un ammontare pari al capitale investito e ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento ovvero, nel caso di cambio di controllo, alla condizione che gli altri soci o partecipanti dell’investimento abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo;
c) le azioni, le quote o gli strumenti finanziari aventi i suindicati diritti patrimoniali rafforzati sono detenuti dai dipendenti e amministratori di cui al presente comma, o, in caso di decesso, dai loro eredi, per un periodo non inferiore a cinque anni o, se precedente al decorso di tale periodo quinquennale, fino alla data di cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione”.
La presunzione legale di qualificazione del reddito opera esclusivamente in riferimento ai proventi derivanti da strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati, e non riguarda il reddito derivante dalla assegnazione degli stessi, ricompreso – in base ai principi generali desumibili dall’art. 51 del TUIR – tra i redditi di lavoro dipendente o assimilato, nella misura pari alla differenza tra il valore di mercato del titolo ed il prezzo pagato dal dipendente. Restano ferme inoltre le ordinarie regole di imputazione del reddito – operanti anche nei casi di partecipazione indiretta – essendo la norma destinata a disciplinare esclusivamente la qualificazione dello stesso.
2. AMBITO APPLICATIVO DELLA NORMA
2.1. Amministratori e dipendenti interessati. Sotto il profilo soggettivo gli investitori considerati dalla norma sono coloro che intrattengono un rapporto di lavoro dipendente o assimilato con società, enti o società di gestione dei fondi.
Il riferimento testuale a “dipendenti” e “amministratori” lascia intendere che sono esclusi dall’ambito di applicazione della norma i professionisti (es. avvocati, dottori commercialisti ecc.) coinvolti nel ruolo di consulenti. Ne consegue che l’eventuale extra-rendimento garantito a questi soggetti non costituisce reddito di capitale ope legis, ed, inoltre, non concorre alla determinazione della percentuale di investimento minimo richiesta dall’art. 60, comma 1 lett. a), ai manager e dipendenti – come si vedrà più avanti – ai fini della qualificazione del reddito.
Devono ritenersi invece compresi nella disposizione in commento i manager e dipendenti di società di consulenza finanziaria (c.d. advisory company). Al riguardo, si evidenzia che le advisory company, sebbene non abbiano capacità decisionale sugli investimenti, e quindi responsabilità diretta, intervengono sulle strategie di investimento e sulle relative scelte fornendo un supporto alla gestione che ne condiziona le decisioni. L’applicazione della norma anche ai dipendenti di tali società può evincersi altresì dallo stesso testo normativo, che fa riferimento a “soggetti ad essi (società o OICR) legati da un rapporto “indiretto” di … gestione” nonché dagli atti parlamentari illustrativi dell’articolo 60 (Dossier A.S. 2853) ove i soggetti “con funzioni di advisor”, oltre a quelli “delegati alla gestione” sono espressamente menzionati.
Dal lato datoriale, sono quindi riconducibili al comma 1 dell’articolo 60 soggetti quali le società costituite per la gestione di investimenti (SGR e Advisory companies), società che effettuano l’investimento, e società ‘target’, vale a dire le società obiettivo delle operazioni di investimento.
In base a quanto previsto dal comma 4 dell’articolo 60, le partecipazioni dei manager sono detenute in “organismi di investimento collettivo del risparmio [OICR], società o enti residenti o istituiti nel territorio dello Stato” nonché in OICR società od enti “residenti ed istituiti in Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni”, individuati in base all’elencazione contenuta nel D.M. 4 settembre 1996 (Elenco degli Stati con i quali è attuabile lo scambio di informazioni ai sensi delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni sul reddito in vigore con la Repubblica Italiana, come da ultimo modificato dall’articolo 1, comma 1, del D.M. 23 marzo 2017).
Relativamente agli OICR essi sono identificati nei fondi comuni di investimento, nelle SICAF (società di investimento a capitale fisso) e nelle SICAV, (società di investimento a capitale variabile) ed individuati in via generale negli organismi istituiti “per la prestazione del servizio di gestione collettiva del risparmio, il cui patrimonio – raccolto tra una pluralità di investitori
- è gestito nell’interesse degli stessi ed in autonomia dai medesimi nonché investito in strumenti finanziari” (articolo 1, comma 1, lettere k) ed l) del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, TUF, circolare n. 21/E del 20141).
2.2. Proventi derivanti da diritti patrimoniali rafforzati: il c.d. carried interest. Sotto il profilo oggettivo, i proventi presi in considerazione dall’articolo 60 del decreto legge sono quelli relativi ad “azioni, quote o strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati”. La previsione normativa non contiene la definizione di diritto patrimoniale rafforzato, la quale si ricava, indirettamente, dalle condizioni e dai requisiti che la norma, ispirandosi al settore del private equity, richiede per attribuire natura finanziaria ai redditi derivanti da tali proventi nonché dalle precisazioni contenute nella relazione illustrativa. Si legge in particolare in quest’ultimo documento che “Tali strumenti, nella prassi denominati carried interest, comportano una partecipazione agli utili proporzionalmente maggiore rispetto a quelli degli altri investitori, generalmente a fronte dell’assenza di diritti amministrativi, dell’esistenza di temporanei vincoli alla trasferibilità e della postergazione nella distribuzione degli utili, in quanto potranno assumere rilevanza concreta solo se gli investimenti daranno complessivamente luogo a risultati economici al di sopra di determinate soglie”.
I diritti patrimoniali rafforzati cui la norma fa riferimento si configurano quale diritto a ricevere una parte dell’utile complessivo generato dall’investimento in misura più che proporzionale all’investimento stesso e ordinariamente presuppongono che la generalità dei soci abbia ottenuto il rimborso del capitale investito oltre ad un rendimento adeguato, definito nella prassi “hurdle rate”.
Il maggior rendimento connesso agli strumenti finanziari in esame è denominato “carried interest” – definizione ordinariamente adottata nel settore del private equity e venture capital – e rappresenta una forma di incentivo riconosciuto, al realizzarsi di determinati risultati, ai soggetti maggiormente esposti al rischio derivante dall’investimento.
Nel settore del private equity il carried interest, è generalmente attribuito ai manager amministratori e/o dipendenti della Società di gestione del risparmio (di seguito, SGR) e, talvolta, della società veicolo che effettua l’investimento, coinvolti – quali coinvestitori – nella sottoscrizione di quote, azioni o strumenti finanziari (che incorporano appunto il provento derivante dall’investimento) allo scopo di accomunare nella condivisione del rischio la loro posizione a quella degli altri soci.
L’assegnazione degli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati riflette le politiche remunerative e di allocazione dei proventi che, pur sulla base di modelli diversamente articolati, intendono promuovere la convergenza degli interessi dei gestori con quelli degli investitori ai fini della massimizzazione dei risultati della gestione. La relazione illustrativa precisa che “la finalità del carried interest è quella di allineare il più possibile gli interessi e i rischi dei gestori con quelli degli investitori, i quali normalmente richiedono che tali meccanismi vengano attivati”; l’incentivo in tal senso spinge i gestori ad una scelta più accurata degli investimenti maggiormente redditizi e ad una responsabilizzazione nell’attività di gestione. Obiettivo correlato, evidenziato nella relazione illustrativa è “lo sviluppo del mercato del private equity e del private debt, in mancanza del quale molte imprese a conduzione familiare rischiano di entrare in una fase di difficoltà gestionale nel delicato momento che tocca i passaggi di ricambio generazionale che stanno interessando una significativa parte delle PMI italiane”.
Occorre precisare che la norma in esame non ha ad oggetto la qualificazione dei proventi derivanti da strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati, che, pertanto, non può essere operata sulla base dell’art. 60 ma deve essere effettuata sulla base delle norme di volta in volta applicabili, tenendo conto delle caratteristiche specifiche dello strumento finanziario.
L’ampia formulazione con la quale la norma – sia pur ispirata al settore del private equity – indica le partecipazioni che possono attribuire il “carried interest”, fa sì che essa non risulti circoscritta alla operatività dei fondi e delle società d’investimento, ma comprenda anche gli analoghi strumenti emessi – nel rispetto dei medesimi presupposti e requisiti – in ambiti diversi da quelli prettamente finanziari (ad esempio nel settore industriale). Da un lato non risulterebbe privo di criticità un trattamento fiscale differenziato tra il settore del private equity e settori diversi in presenza delle medesime condizioni. Dall’altro lato non risulta contrario alla finalità dell’art. 60 favorire l’assunzione del ruolo di co-investitori da parte di dipendenti coinvolti nella responsabilità della gestione di società diverse da quelle di investimento finanziario.
3. QUALIFICAZIONE DEL CARRIED INTEREST COME REDDITO DI CAPITALE O DIVERSO: REQUISITI
3.1. Investimento minimo
a) Fondi
La norma al fine di evidenziare il ruolo di co-investitore assunto dal management, richiede, al comma 1 lettera a), che “l’impegno di investimento complessivo di tutti i dipendenti e gli amministratori … comporti [a] un esborso effettivo pari ad almeno l’1 per cento dell’investimento effettuato dall’organismo di investimento collettivo del risparmio o del patrimonio netto nel caso di società o enti”.
La condizione di un ammontare minimo di investimento al cui raggiungimento devono concorrere tutti i dipendenti e amministratori titolari di diritti patrimoniali rafforzati impone una valutazione a livello collettivo del rispetto del requisito.
La natura collettiva del requisito si riflette sul soggetto cui compete la attestazione del requisito stesso, identificabile, a seconda dei casi, nella società di gestione del fondo o nella società al cui patrimonio netto è commisurato l’investimento.
Il parametro di commisurazione dell’entità dell’investimento minimo richiesto ai manager varia a seconda che il management detenga quote del fondo o partecipazioni in società; la considerazione dell’una o dell’altra grandezza (investimento complessivo del fondo o patrimonio netto della società), ai fini del calcolo dell’1 per cento, dipende dalla allocazione del diritto patrimoniale rafforzato, ovvero dalla circostanza che il provento derivi dal rendimento del fondo o dagli utili societari.
In particolare, l’investimento effettuato dal fondo costituisce la base di commisurazione dell’investimento minimo dei manager sia nei casi in cui i diritti patrimoniali rafforzati derivino da quote del fondo detenute direttamente dal manager, sia nei casi in cui derivino da quote del fondo detenute tramite la SGR o società delegate alla gestione, compresi i casi in cui le quote del fondo siano intestate a società (di qualsiasi tipo) o ad altre entità giuridiche (ad esempio, fondazioni o trust), riconducibili, direttamente o indirettamente, ai manager.
La soglia dell’1 per cento dell’investimento minimo deve, invece, essere determinata in base al patrimonio netto della società se lo strumento finanziario portatore del carried interest detenuto direttamente o indirettamente dal manager rappresenta una quota del capitale della società.
In caso di partecipazioni detenute nel fondo, il valore dell'”investimento complessivo effettuato dall’OICR”, comprensivo anche dei costi di gestione (quali ad es. le c.d. management fee), deve essere individuato nell’ammontare di capitale richiamato ed impegnato dal fondo, al netto dell’indebitamento assunto dal fondo medesimo per realizzare l’investimento. L’eventuale computo della quota di investimento sovvenzionata mediante l’accensione di debiti, avrebbe, infatti, l’effetto di alterare il calcolo della percentuale dell’1 per cento, poiché determinerebbe un valore dell’investimento complessivo superiore ai committment, ovvero all’ammontare totale delle sottoscrizioni.
Tale soluzione è peraltro coerente con il riferimento al ‘patrimonio netto’, da assumere quale parametro di commisurazione dell’investimento dei manager nel caso di società od enti, che esprime la differenza tra le attività e le passività di bilancio.
La norma ai fini dell’integrazione del requisito richiede che l’impegno di investimento complessivo dei manager e dipendenti comporti un esborso effettivo da intendersi come esborso monetario che espone il soggetto al rischio di perdita.
In relazione al momento di individuazione della percentuale dell’investimento minimo richiesto dalla lettera a) ai manager che detengono quote del fondo, occorre, in particolare, tener conto del meccanismo di funzionamento dei fondi – definito da ogni singolo regolamento – che, ordinariamente si articola in un primo periodo di sottoscrizione delle quote (committment), cui fa seguito il versamento mediante il c.d. “richiamo degli impegni” sottoscritti. Generalmente nei fondi di private equity il ‘richiamo’ non riguarda la totalità delle quote sottoscritte, ma è graduale, in funzione degli investimenti via via deliberati dal fondo e proporzionale alle quote sottoscritte. Per converso l’avvio del fondo è determinato dalla sottoscrizione di quote in misura non inferiore all’ammontare minimo stabilito dal regolamento (cfr. con riferimento ai fondi chiusi, caratterizzati da un numero predeterminato di quote invariabile nel tempo, Titolo V, par. 4.2.2 del Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio di cui al Provv. della Banca d’Italia del 19 gennaio 2015).
Le modalità descritte evidenziano che l’ammontare delle sottoscrizioni si riflette sulle risorse investite dal fondo; ciò, unitamente alla formulazione letterale della lettera a) dell’articolo 60 – che fa riferimento all’impegno assunto dai manager – consente di attribuire rilevanza alla fase della sottoscrizione, fase nella quale si manifesta l’impegno all’investimento.
Il requisito dell’investimento minimo può, quindi, ragionevolmente considerarsi soddisfatto se alla data di chiusura del periodo di sottoscrizione del fondo l’impegno complessivo dei manager/dipendenti rappresenta l’1 per cento del totale delle sottoscrizioni (committment), ferma restando la necessità che le quote vengano poi liberate a seguito del richiamo operato dal fondo, in applicazione del criterio dell’esborso effettivo, nell’ottica di garantire una effettiva partecipazione al rischio economico da parte del manager/dipendente.
Laddove l’ammontare delle quote richiamate sia inferiore a quello delle quote sottoscritte, per effetto dei minori investimenti deliberati, la determinazione della soglia dell’1 per cento risulterà riproporzionata in ragione del minor investimento del fondo. In tal caso, il requisito si intende comunque integrato se i complessivi versamenti eseguiti dai manager e dipendenti siano pari all’1 per cento degli investimenti effettuati dal fondo.
Raggiunta la soglia dell’1 per cento, eventi successivi alla chiusura delle sottoscrizioni, quali la successione ereditaria, per mezzo della quale le quote del manager che hanno concorso al raggiungimento del limite di investimento minimo dell’1 per cento vengono trasferite ad eredi non aventi qualifica manageriale (o di lavoratori subordinati), o la fuoriuscita del manager dalla compagine sociale, non fanno venire meno la sussistenza del requisito per gli altri manager o dipendenti, ferma restando la sindacabilità di eventuali comportamenti abusivi.
Con riferimento al requisito dell’esborso effettivo, il comma 2 dell’articolo 60 dispone che ai fini della sua determinazione “… si tiene conto anche dell’ammontare assoggettato a tassazione come reddito in natura di lavoro dipendente o assimilato o di lavoro autonomo in sede di attribuzione o sottoscrizione delle azioni, quote o strumenti finanziari”.
La norma ha la finalità di computare nell’ammontare degli investimenti complessivi di dipendenti, amministratori, manager anche gli strumenti finanziari, attribuiti a manager e dipendenti a titolo di remunerazione, per i quali la condizione dell’esborso effettivo si sostanzia nell’assoggettamento a tassazione del relativo valore.
Al riguardo, si ricorda che le erogazioni in natura, comprese quindi le assegnazioni della titolarità di azioni, (che non siano espressamente escluse dal reddito) concorrono alla formazione del reddito di lavoro dipendente sulla base del valore normale (cfr. circolare n. 207/E del 20002; ris. n. 63/E del 20023). Il medesimo criterio vale anche per i redditi assimilati a quello di lavoro dipendente, derivanti dalla attività di amministratore.
Il riferimento contenuto nel comma 2 dell’articolo 60 al lavoro autonomo deve coerentemente essere collegato ai casi di remunerazione in natura (mediante assegnazione di azioni) erogata in favore di manager/amministratori esercenti funzioni riconducibili alla propria attività professionale che sono in quanto tali ascrivibili alla categoria dei redditi di lavoro autonomo.
Ove si tratti di soggetti non residenti, per esigenze connesse a parità di trattamento il comma 2 prevede che si tenga conto, sempre ai fini della determinazione dell’esborso effettivo, “dell’ammontare che sarebbe stato assoggettato a tassazione nel caso in cui questi ultimi fossero stati residenti in Italia”.
Per quanto concerne gli strumenti finanziari acquistati da manager e dipendenti con finanziamenti concessi a condizioni di particolare favore, si ritiene che la condizione dell’esborso effettivo, tesa a garantire l’effettiva partecipazione al rischio economico da parte del manager/dipendente, non sussista in caso di investimenti effettuati dal management mediante ricorso a finanziamenti accordati dal datore di lavoro o da terzi che, per effetto di rinuncia da parte del creditore o al verificarsi di determinate condizioni, escludano in tutto o in parte il rimborso del capitale sovvenzionato. In tale ipotesi, infatti, il manager o dipendente non assume un sostanziale ruolo di investitore non partecipando ad alcun rischio di perdita del capitale investito. Gli strumenti finanziari acquistati con tali finanziamenti, pertanto, non concorrono all’integrazione del requisito dell’investimento minimo richiesto ai fini della qualificazione reddituale del carried interest.
A diverse conclusioni può giungersi, invece, per quanto riguarda gli strumenti finanziari acquistati da manager o dipendenti con risorse derivanti da finanziamenti erogati a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato. In tal caso può ritenersi integrato il requisito della partecipazione al rischio dell’investimento fermo restando che tali finanziamenti erogati in connessione al rapporto di lavoro configurano una retribuzione in natura rilevante quale reddito di lavoro dipendente nella misura corrispondente al cinquanta per cento della differenza tra l’importo degli interessi calcolati al tasso ufficiale di sconto vigente al termine di ciascun anno e l’importo degli interessi calcolato al tasso applicato sugli stessi (cfr. art. 51, comma 4, lett. b) del TUIR); pertanto i titoli acquistati con tali finanziamenti assumono rilevanza ai fini del computo della soglia dell’1 per cento.
In relazione agli elementi che concorrono, al raggiungimento della soglia di investimento dell’1 per cento, ai sensi dell’art. 60, commi 1 e 3, occorre considerare sia l’ammontare sottoscritto da manager e dipendenti in strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati sia l’ammontare sottoscritto dagli stessi manager e dipendenti in strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati (comma 3).
Per ciò che concerne gli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati, il comma 1 considera la partecipazione sia diretta che indiretta, e, pertanto, comprende anche le quote di carried interest detenute da una società partecipata dal manager (laddove la partecipazione non sia totalitaria) in misura proporzionale alla percentuale di partecipazione, fermo restando il rispetto della condizione relativa all’esborso effettivo.
La formulazione della norma non consente, invece, di attribuire rilevanza, ai fini della determinazione della soglia di investimento minimo, agli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati sottoscritti da soggetti diversi dai manager, ad esempio altri soci o sponsor incluse le stesse società di gestione non partecipate dai manager.
Relativamente alle “azioni, quote o altri strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati”, il comma 3 non specifica se, ai fini del calcolo dell’1 per cento, rilevino solo se detenuti direttamente dai manager e dipendenti titolari di strumenti finanziari rafforzati o anche se detenute da soggetti diversi, compresa la SGR partecipata dal management: per coerenza sistematica si ritiene di dover includere anche questi ultimi nel computo della percentuale dell’1 per cento, sempre in proporzione alla quota di capitale riferibile al management.
b) Società
Le considerazioni svolte in ordine agli investimenti effettuati nei fondi sono riferibili, seppur compatibilmente con il diverso contesto, anche agli investimenti aventi ad oggetto partecipazioni societarie che, per questioni di ordine logico-sistematico, come la stessa norma dispone, vanno commisurati al patrimonio netto della società.
Con tale nozione il legislatore ha inteso riferirsi al patrimonio netto effettivo della società, da computarsi a valori correnti determinabili sulla base di apposite perizie di stima, tenendo conto anche dell’investimento effettuato dai manager o dai dipendenti; tale valore del patrimonio netto rileva sia nel caso in cui l’investimento avvenga mediante sottoscrizione di azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati in sede di aumento di capitale sociale sia nel caso di acquisto di tali titoli o strumenti da altri soggetti che li hanno sottoscritti o acquistati in precedenza. Ai fini della verifica del raggiungimento della soglia dell’1%, rileva l’investimento collettivo effettuato da tutti i potenziali beneficiari del regime in oggetto al momento della sottoscrizione dei titoli in sede di aumento di capitale sociale ovvero alla data del loro acquisto. Ciascun manager in tale momento deve considerare se il proprio investimento, unitamente a quelli effettuati dagli altri manager, rappresenti l’1 per cento del valore corrente del patrimonio netto come sopra determinato, ferma restando la condizione dell’esborso effettivo degli importi sottoscritti.
Date le modalità di raccolta delle sottoscrizioni di capitale da parte delle società, si ritiene che la base di commisurazione dell’investimento minimo sia condizionata anche da investimenti posti successivamente in essere – mediante sottoscrizione di quote/azioni in sede di aumento di capitale sociale o acquisto di partecipazione societarie – da altri soggetti, diversi dai manager. Ciò comporterà per i manager la necessità di adeguare i propri investimenti al fine di raggiungere la percentuale dell’1 per cento del nuovo valore economico del patrimonio netto.
Il necessario adeguamento riflette la ratio sottesa alla previsione dato che garantisce il mantenimento costante dell’allineamento di rischi ed interessi tra manager ed investitori, e dovrà avvenire entro la data di chiusura dell’esercizio nel corso del quale il terzo ha effettuato l’investimento.
Ai fini della qualificazione ex lege quali redditi di capitale o diversi dei proventi derivanti da strumenti finanziari rafforzati, è necessario che anche nel caso in cui tali strumenti siano detenuti in società diverse da quelle di investimento finanziario la distribuzione del carried interest avvenga dopo che sia stato erogato ai soci un ammontare pari al capitale investito, oltre ad un rendimento minimo.
Relativamente alle società, ad esempio, il requisito può essere riscontrato nei casi di liquidazione totale della società partecipata dal management (ad esempio manager che acquisisce quote di una società target, successivamente posta in liquidazione il cui capitale, oltre all’hurdle rate, è restituito agli altri soci). Altra ipotesi, in cui il requisito può essere integrato, è quella in cui la partecipazione del management è correlata ai risultati conseguiti dalla società per l’attività svolta in un determinato settore (cfr. art. 2350 c.c.) o in uno specifico investimento. In questo caso l’erogazione del diritto patrimoniale rafforzato richiede la previa erogazione di un importo pari al capitale, oltre all’attribuzione del rendimento minimo, riferibile a tale settore o investimento.
Resta ferma, in ogni caso, la rilevanza dell’intero patrimonio netto della società ai fini del calcolo della soglia dell’1 per cento.
3.2. Differimento nella distribuzione dell’utile. La relazione al ddl di conversione del decreto-legge (A.S. 2853) evidenzia che “i diritti patrimoniali ‘rafforzati’ sono di norma accompagnati da condizioni e clausole che garantiscono un certo ritorno minimo agli altri investitori ed un differimento nel tempo nella distribuzione degli utili a tali soggetti”. Le condizioni e clausole cui la relazione fa riferimento, e presenti nella prassi degli operatori, sono positivamente normate dall’articolo 60 comma 1 lettera b) e mutuate quale requisito per la qualificazione finanziaria del reddito. La disposizione in esame prevede la maturazione dei proventi considerati dalla norma “solo dopo che tutti i soci o partecipanti all’organismo di investimento collettivo del risparmio abbiano percepito un ammontare pari al capitale investito e ad un rendimento minimo previsto nello statuto o nel regolamento”.
Il riferimento alla generalità dei soci è coerente con il comma 3 dell’articolo 60, il quale dà rilevanza ai fini in esame agli strumenti finanziari ordinari detenuti da dipendenti ed amministratori, riconoscendo che i manager – in quanto investitori ordinari – possano ricevere la remunerazione dell’investimento al pari degli altri soci o partecipanti. Occorre ora chiarire se il differimento nella distribuzione dell'”extrarendimento” di cui dalla lettera b) precluda la possibilità di restituire (al pari degli altri investitori) ai manager titolari degli strumenti finanziari rafforzati il capitale e il rendimento minimo prima della maturazione del carried interest.
In proposito si osserva che è consolidata prassi nel mercato del private equity che l’extra rendimento maturi solo dopo che tutti gli investitori, ivi inclusi i titolari di strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati, abbiano percepito il rimborso del capitale richiamato e il rendimento minimo (hurdle rate) previsto dal regolamento del fondo. Prima della maturazione dell’extra-rendimento, pertanto, i titolari di strumenti finanziari rafforzati sono trattati come gli altri investitori. Ciò porta a ritenere che la distribuzione differita che costituisce condizione di accesso alla presunzione legale di qualificazione del reddito riguarda solo l’extra-rendimento, ovvero la componente finanziaria rafforzata e non anche il rimborso del capitale investito o il pagamento dei normali proventi correlati alle diverse categorie di quote emesse.
La norma reca la disciplina fiscale dei peculiari proventi conseguiti dai manager non solo in costanza di partecipazione, ma anche “in sede di riscatto, liquidazione e cessione delle quote” (relazione alla norma contenuta nel ddl A.C. n. 4444) in esito ad operazioni di dismissione dell’investimento. In tal caso, il diritto alla corresponsione del provento è subordinato – ai fini della qualificazione del reddito – alla condizione fissata dalla norma che gli “altri soci o partecipanti dell’investimento abbiano realizzato con la cessione un prezzo di vendita almeno pari al capitale investito e al predetto rendimento minimo”.
Il conseguimento del diritto patrimoniale rafforzato è disciplinato in relazione alle cessioni poste in essere nel caso di “cambio di controllo”, che determini un sostanziale mutamento degli assetti societari. In caso di cessioni effettuate (degli strumenti finanziari portatori di carried interest) al di fuori di tale ambito – cambio di controllo – non opera la presunzione legale di qualificazione del provento come reddito di capitale.
3.3. Periodo minimo di detenzione dell’investimento. L’art. 1, lett. c) richiede quale terzo requisito per la qualificazione ope legis del provento come reddito di capitale o diverso un periodo minimo di possesso degli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati “non inferiore a cinque anni” (c.d. holding period).
La previsione di un periodo di detenzione quinquennale riflette l’esigenza di garantire la tendenziale convergenza di interessi tra gestori e altri investitori per un orizzonte temporale non trascurabile. Tale esigenza comporta che il vincolo quinquennale di detenzione riguardi oltre a “le azioni, quote o gli strumenti patrimoniali aventi i suindicati diritti patrimoniali rafforzati”, anche gli strumenti finanziari non aventi tali diritti che, unitamente a quelli aventi diritti patrimoniali rafforzati, concorrono al raggiungimento della percentuale di investimento minimo. L’eventuale dismissione nel corso del quinquennio di tali strumenti finanziari senza diritti patrimoniali rafforzati può comportare, pertanto, il venir meno della qualificazione reddituale ope legis.
Quanto al computo dell’holding period, si ritiene esso decorra – sia per gli investimenti detenuti nei fondi che per quelli detenuti in società – dalla data delle singole sottoscrizioni.
Ai fini del computo quinquennale di detenzione vale, per espressa previsione normativa, anche il periodo di possesso delle predette quote da parte degli eredi, in caso di decesso dei dipendenti o amministratori.
La lettera c) del comma 1 dell’articolo 60 prevede, inoltre, una ulteriore deroga al vincolo temporale di detenzione – prima del decorso del periodo quinquennale – nel caso di “cambio di controllo o di sostituzione del soggetto incaricato della gestione”. La norma fa evidente riferimento alle vicende che possono interessare le società di gestione degli OICR, ma nulla esclude che il medesimo criterio possa valere anche per le partecipazioni detenute in società interessate da operazioni straordinarie di riorganizzazione, che portino i manager a cedere le partecipazioni in esse detenute. Una situazione tipica è quella in cui il management cede la propria partecipazione unitamente al trasferimento del controllo della società partecipata. Altra ipotesi equivalente è quella in cui il management detiene e cede la partecipazione nella società il cui controllo è trasferito, per il tramite di un proprio veicolo societario che dopo la cessione distribuisce gli utili e se del caso viene posto in liquidazione avendo esaurito il proprio scopo di investimento.
Ipotesi di cessione infra quinquennali diverse da quelle considerate comportano il venir meno della presunzione legale di qualificazione del reddito. Allo stesso tempo, nel caso in cui ad esempio il team dei manager sia sostituito con una nuova risorsa, il subentrante non risulta legittimato a sommare l’holding period del precedente titolare della partecipazione.
Il periodo minimo di detenzione dello strumento finanziario non preclude, tuttavia, in base a quanto si evince dalla disposizione, la percezione del carried interest prima del compimento del quinquennio. Si ritiene infatti che la maturazione dell’holding period possa completarsi anche dopo l’erogazione del provento derivante da “strumenti finanziari rafforzati”; eventuali proventi distribuiti prima del decorso del quinquennio potranno pertanto accedere alla qualificazione di redditi di capitale ai fini degli eventuali obblighi di sostituzione di imposta facenti capo alla SGR o ad altre società. Laddove detti strumenti dovessero essere ceduti prima del quinquennio dovrà essere rivista la relativa qualificazione reddituale ed eventualmente corrisposta dal manager la maggiore imposta dovuta per i redditi di lavoro dipendente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento.
4. QUALIFICAZIONE REDDITUALE DEL CARRIED INTEREST IN ASSENZA DEI REQUISITI
Il riconoscimento della natura finanziaria dei proventi in commento segue, come si è avuto modo di vedere nei precedenti paragrafi, il rispetto di criteri, riassumibili: a) nell’effettuazione di un investimento di ammontare minimo; b) nella maturazione successiva ed eventuale del provento, subordinata alla restituzione agli altri soci del capitale investito ed all’attribuzione di un rendimento minimo; c) in un periodo di detenzione minimo.
L’integrazione dei requisiti previsti dalla nuova disposizione attribuisce al provento percepito dal manager o dal dipendente natura finanziaria a prescindere da qualsiasi legame con l’attività lavorativa prestata presso la società, ente o OICR partecipati (o presso società od enti collegati o controllati dalle prime).
Anche la presenza di clausole particolari quali le clausole di leavership, che assicurino alla società un diritto di riscatto al venir meno del rapporto lavorativo con il manager, non assume rilevanza poiché al ricorrere delle condizioni di cui alle lettere a), b), c), i redditi derivanti dal carried interest sono comunque qualificati ex lege come redditi di capitale o diversi.
Il mancato rispetto dei parametri fissati dalla nuova disposizione pone invece la questione della qualificazione reddituale dei proventi rivenienti da siffatti strumenti. Se l’integrazione dei requisiti previsti attribuisce infatti all’emolumento natura finanziaria per presunzione di legge ed “esclude in ogni caso che esso possa rappresentare una remunerazione dell’attività lavorativa prestata dal manager” (audizione del Direttore al Parlamento del 4 maggio 2017), al contrario l’assenza di una delle condizioni richieste non comporta quale conseguenza l’automatica riqualificazione del provento come reddito da lavoro.
La relazione illustrativa chiarisce che “tale qualificazione reddituale è subordinata dalla norma alla presenza di alcuni requisiti volti a garantire le suddette finalità di allineamento di interessi e rischi, in assenza dei quali i proventi percepiti dai suddetti soggetti su azioni, quote o strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati devono essere qualificati come redditi di lavoro (dipendente, assimilato o autonomo) o redditi di natura finanziaria a seconda delle circostanze”.
In altri termini la carenza di uno o più presupposti stabiliti dalla novella richiede una analisi volta a verificare caso per caso la natura del provento.
Un criterio rilevante di valutazione è sicuramente l’idoneità dell’investimento, anche in termini di ammontare, a garantire l’allineamento di interessi tra investitori e management e la correlata esposizione al rischio di perdita del capitale investito che contraddistingue l’investimento del management. Se tale caratteristica può costituire un indice della natura finanziaria del provento, pattuizioni che incidano in senso negativo sulla posizione di rischio del manager fino a neutralizzarla del tutto (si pensi a clausole che garantiscano al dipendente la restituzione integrale, in ogni caso, del capitale investito) mal si conciliano con la qualificazione dello stesso come reddito di capitale o diverso.
Riguardo alle clausole di good o bad leavership, in linea generale la loro presenza – e, a fortiori il loro utilizzo – costituisce un indicatore utile a collegare il provento all’impegno profuso dal manager nell’attività lavorativa (e quindi a produrre reddito di lavoro). Non può escludersi, tuttavia che la ricorrenza di altri elementi di segno opposto, quali ad esempio l’esposizione ad un effettivo rischio di perdita del capitale investito, possano far propendere per la natura finanziaria del provento. Viceversa, consentire al manager di mantenere la titolarità degli strumenti finanziari anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro costituisce un’indicazione sufficiente ad escludere in radice uno stretto legame con l’attività lavorativa del manager, ed indica la natura finanziaria del reddito in questione.
Ugualmente potrà essere valutata la presenza di una remunerazione adeguata spettante al manager per la propria attività lavorativa. Una remunerazione che si attesti ben al di sotto dei parametri di mercato potrebbe infatti indurre a considerare il carried interest una integrazione della retribuzione ordinaria sotto forma di bonus per l’attività lavorativa svolta.
Infine, un ulteriore elemento di valutazione, in particolare per quanto riguarda fondi di grandi dimensioni, è desumibile dalla stessa relazione illustrativa nella quale si precisa – con riferimento ai proventi disciplinati dalla norma – che “le azioni, quote o strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati possono essere detenuti anche da altri investitori, dalla stessa società di gestione o dai relativi soci”. L’eventuale detenzione di strumenti finanziari aventi le medesime caratteristiche da parte degli altri soci (al pari del management), può essere un indicatore della natura finanziaria del reddito in questione nella misura in cui riflette la remunerazione del rischio di perdita assunto con l’investimento.
Resta ferma in ogni caso la possibilità per il contribuente che voglia avere certezza in ordine al trattamento fiscale applicabile alla attribuzione del carried interest di rivolgere istanza di interpello all’amministrazione finanziaria.
5. DECORRENZA DELLA NUOVA DISPOSIZIONE
Per espressa previsione normativa, le disposizioni contenute nella norma in commento si applicano ai proventi delle azioni, quote o strumenti finanziari “percepiti a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge”, ovvero dal 24 aprile 2017.
Il riferimento alla ‘percezione’ consente di fare rinvio al criterio di ‘cassa’ ed includere nella disposizione normativa – in presenza degli altri requisiti – i proventi relativi a quote o azioni sottoscritti in data antecedente il 24 aprile 2017, ma distribuiti in data successiva.
Per i proventi percepiti anteriormente al 24 aprile 2017, la presunzione legale di qualificazione del reddito non opera, pur in presenza dei presupposti statuiti dall’articolo 60 del decreto-legge, i quali dovranno essere valutati alla luce dei criteri sopra evidenziati nel quadro delle complessive previsioni statutarie che regolamentano i rapporti tra la società interessata e i manager.
Nel periodo di prima applicazione ed in considerazione della portata chiarificatrice della disciplina si ritiene legittima la modifica dei piani di investimento già deliberati alla data di entrata in vigore della norma, al fine di integrare i requisiti richiesti per l’applicazione della presunzione legale purché ciò avvenga in data antecedente la distribuzione dei proventi”.