Ornella Vanoni – nella sua famosa canzone Ricetta di donna – lo aveva preconizzato: «le donne costano più dei gioielli dei motori e delle lacrime». Era un avvertimento che non doveva sfuggire: la bravissima Ornella di cognome fa Vanoni come il noto Ministro (Ezio) delle finanze cui si deve l’epocale riforma tributaria degli anni ’50 (con la quale venne introdotta la dichiarazione fiscale).
Nella vicenda sub iudice un avvocato (uomo) viene aiutato, nella conduzione dello studio legale, dalla moglie (pure lei avvocato). La moglie – affermano però i giudici della Suprema Corte – rende soggetto passivo dell’imposta ai fini IRAP il marito anche se i due coniugi non hanno costituito uno studio associato.
La moglie, nel caso al vaglio dei giudici di legittimità, collaborava (la sentenza massimata parla di «sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze» e di circolarità di competenze); e questo è bastato per fare scattare il presupposto ai fini IRAP in capo al coniuge.
L’art. 143 c.c. afferma che «dal matrimonio deriva l’obbligo … alla collaborazione nell’interesse della famiglia». Nel nostro caso la moglie collaborava con il marito. Ma collaborava nell’interesse dell’erario, e non della famiglia.
Ora, se due coniugi decidono di dare vita a uno studio professionale associato fanno una scelta precisa in cui l’aspetto organizzato professionale prevale sui rapporti personali. Esattamente come quando marito e moglie danno vita a una società: per libera scelta il rapporto di coniugio cede (giuridicamente) il passo al rapporto contrattuale proprio dell’assetto societario.
Ma se una moglie si limita ad aiutare il marito nell’esercizio della professione in seno a un rapporto di collaborazione familiare – oggi ti sostituisco in udienza ma vai tu a parlare con la professoressa di nostro figlio che ieri ha rimediato una nota e la professoressa vuole parlare con te – allora sostenere che il coniuge fa scattare il presupposto dell’IRAP è una tesi a metà strada tra l’inelegante e lo stravagante.
Il marito, però, osserva la sentenza massimata, può provare l’irrilevanza dell’apporto della moglie. Il professionista avrebbe dovuto fornire – sostiene la Corte di Cassazione – «la piena dimostrazione dell’assenza di rilevanza dell’attività del coniuge avvocato rispetto alla produzione di reddito».
Impresa titanica: bisognerebbe sostenere con l’Agenzia delle entrate che la moglie è un’incapace. O che in studio viene a innaffiare le piante. Però il funzionario dell’Agenzia delle entrate vorrà vedere dei documenti: e documenti – per forza di cosa – non ci possono essere.
Oppure ci si può appellare al divieto di doppia imposizione. Non pochi mariti sostengono che la moglie sia una tassa. E allora pagare una tassa sulla tassa è fiscalmente ridondante.
Avv. Fausta Brighenti
IRAP – Attività professionale – Professionisti non organizzati – Autonoma organizzazione – Professionista che si avvalga della collaborazione del coniuge, anch’esso professionista – Presupposto di imposta – Sussiste.
Il presupposto della “autonoma organizzazione”, richiesto dall’art. 2 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, ricorre quando il professionista responsabile dell’organizzazione si avvalga, pur senza un formale rapporto di associazione, della collaborazione di un altro professionista, compreso il coniuge, stante il presumibile intento di giovarsi delle reciproche competenze, ovvero della sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio.
[Corte di Cassazione, sez. VI (Pres. Iacobellis, rel. Conti), 18 gennaio 2018, ord. n. 1089]
FATTI E RAGIONI DELLA DECISIONE – Nella controversia concernente l’impugnazione da parte di M.P., esercente la professione di avvocato, dell’avviso di accertamento relativo all’IRAP, versata nell’anno 2007, la C.T.R. Liguria, con la sentenza indicata in epigrafe, nell’accogliere l’appello dell’Ufficio quanto alla debenza dell’IRAP da parte del contribuente, ha riformato la decisione di primo grado, che aveva rigettato [accolto, n.d.r.] il ricorso del contribuente ritenendo che, sulla base degli elementi acquisiti, il legale avesse utilizzato in modo permanente altro professionista legale per l’espletamento dell’attività professionale, tanto integrando il requisito dell’autonoma organizzazione.
Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della CTR Liguria, affidato ad un motivo.
L’Agenzia delle entrate ha depositato controricorso, mentre il ricorrente ha depositato memoria.
Il procedimento può essere definito con motivazione semplificata.
Il motivo con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione di legge e, in particolare, degli artt. 2 e 3 del d.lgs. 446/1997, per non avere la CTR considerato che il contribuente non si avvaleva di alcun collaboratore, è manifestamente infondato.
Giova premettere che il contrasto giurisprudenziale formatosi sulla res controversa è stato, di recente, composto dalle Sezioni Unite di questa Corte le quali, con la sentenza n. 9451/16 , hanno statuito, con riguardo al presupposto dell’IRAP, il seguente principio di diritto: il requisito dell’autonoma organizzazione – previsto dall’art. 2 del d.lgs. 15 settembre 1997, n. 446 –, il cui accertamento è rimesso al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia, sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui che superi la soglia dell’impiego di un collaboratore che esplichi mansioni di segreteria ovvero meramente esecutive.
Questa Corte, inoltre ha precisato che il presupposto dell’“autonoma organizzazione”, richiesto dall’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997, ricorre quando il professionista responsabile dell’organizzazione si avvalga, pur senza un formale rapporto di associazione, della collaborazione di un altro professionista (nella specie, del coniuge), stante il presumibile intento di giovarsi delle reciproche competenze, ovvero della sostituibilità nell’espletamento di alcune incombenze, sì da potersi ritenere che il reddito prodotto non sia frutto esclusivamente della professionalità di ciascun componente dello studio (Cass. n. 1136/2017 ).
Orbene, nel caso di specie la CTR ha ritenuto integrato l’elemento dell’autonoma organizzazione in relazione alla contitolarità dello studio legale del contribuente con la di lui coniuge, anche in assenza di prova circa il carattere associato dello studio professionale.
Ancorché la parte ricorrente abbia dedotto che la creazione di un’associazione professionale di fatto integrasse una mera supposizione, non risulta in alcun modo che il professionista abbia dimostrato l’irrilevanza di tale fattore rispetto alla sussistenza del requisito dell’autonoma organizzazione.
Né può revocarsi in dubbio che siffatto onere probatorio, incombendo sul contribuente, avrebbe dovuto sostanziarsi nella piena dimostrazione dell’assenza di rilevanza dell’attività del coniuge avvocato rispetto alla produzione di reddito e, conseguentemente, dell’assenza del requisito dell’autonoma organizzazione, invece indubbiamente conclamato dalla presenza, all’interno del medesimo studio, di un altro legale capace di rafforzare, attraverso le proprie competenze, l’offerta dell’altro collega con il quale opera in regime di contitolarità come ritenuto, con accertamento di fatto non sindacabile, dalla stessa CTR.
Sulla base di tali considerazioni, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza, dando atto, ai sensi dell’art. 13 c. 1-quater dPR n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dell’art. 13 comma 1-quater d.PR n. 115/2002.
P.Q.M. – Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in favore dell’Agenzia delle entrate in euro 1000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto, ai sensi dell’art. 13, c. 1-quater dPR n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dell’art. 13, comma 1-quater d.PR n. 115/2002.
(1) Cass. 10 maggio 2016, n. 9451, in Boll. Trib., 2016, 1422.
(2) Cass. 18 gennaio 2017, n. 1136, in Boll. Trib. On-line.