2 Maggio, 2018

1. Il binomio “capacità contributiva” ed “etica tributaria” (che poi è una specie della più generale etica sociale) si carica di significati suggestivi, anche perché il rapporto tra questi due termini si può atteggiare, secondo il corredo culturale dell’esegeta, in vario modo, in funzione della prevalenza accordata all’uno o all’altro nella costituzione e nello svolgimento di qualunque rapporto fiscale.

2. I due concetti non sembrano, almeno in prima approssimazione, assimilabili, nonostante l’accostamento nel titolo progettato di questi pensieri.
A tale equiparazione sembra ostare la diversità dell’ordine cui essi, rispettivamente, appartengono.
La capacità contributiva è un canone giuridico – con plurime accezioni – che designa l’idoneità alla sopportazione del peso fiscale rivelata da dati di carattere oggettivo e pratico, tecnicamente indifferenti agli afflati morali; l’etica, d’altro canto, allude (o sembra alludere) a principi di equità distributiva, alla sensibilità per esigenze perequative e a comportamenti pubblici moralmente ineccepibili.
Tuttavia la relazione dinamica tra i due enunciati non è necessariamente conflittuale; anzi l’impegno precipuo dell’ermeneuta consiste anche nella ricerca di un’accettabile conciliazione. Del resto l’etica fiscale – che esprime anche e precipuamente l’esigenza, come si diceva, di prevenire discriminazioni e diversità odiose nella distribuzione della ricchezza e di compiere sforzi per rimediare a quelle esistenti – trova precisi agganci con l’ordinamento istituzionale. Già l’art. 2 della Costituzione richiede “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. A sua volta l’art. 3 – in perfetta coerenza – prescrive che la Repubblica rimuova “gli ostacoli di ordine economico e sociale”, i quali generino limiti alla libertà dei singoli e disuguaglianze tra loro, ostacolando lo sviluppo della persona.

3. Un osservatore neutrale, non peregrinamente, potrebbe domandarsi se il sistema tributario – cioè la serie di prelievi coattivi, dominati appunto dal principio di capacità contributiva – sia il mezzo più adatto all’attuazione di un processo che attenui la differenza nell’allocazione della ricchezza e ottenga un’equa e agognata distribuzione.
Osservo, da un canto, che in qualunque Stato nel quale viga un regime istituzionale modellato sullo schema (almeno bisecolare) della democrazia liberale, l’unico strumento, ammissibile di fatto e giuridicamente, per raggiungere il risultato perequativo è, appunto, il sistema dei prelievi fiscali o parafiscali.
Non sarebbe lecita allo stato attuale (e verosimilmente duraturo) dell’ordinamento o comunque non darebbe esiti concretamente apprezzabili l’acquisizione diretta e immediata della ricchezza privata – presso coloro che la posseggano in misura ritenuta discriminante – per provvedere ad un riequilibrio equitativo.
Una simile manovra fatalmente implicherebbe – secondo le regole costituzionali – l’erogazione di una indennità, in favore di colui che subisce la privazione, sostanzialmente equivalente (ormai questa corrispondenza quantitativa è una regola acquisita, sia pure con qualche approssimazione); dunque tale misura estrema (semplicemente ipotizzata, poiché l’ordinamento positivo attuale non la contempla, come si diceva) potrebbe generare un mutamento qualitativo nella proprietà privata, un avvicendamento di suoi elementi costitutivi, ma non inciderebbe sensibilmente sulla sua consistenza.
Non resta dunque, per l’appunto, che lo strumento fiscale, nelle sue varie forme storicamente attuate, per il conseguimento dell’effetto redistributivo.
In passato si ricorse anche al prestito forzoso irredimibile, ovvero non rimborsabile – e quindi a fondo perduto – che rendeva peraltro un interesse modesto, capace comunque di conferire al popolo la figura illusoria di una comunità di investitori patriottici, e non di contribuenti vessati.
Più recentemente – e senza una diffusa e perfetta consapevolezza negli osservatori – aveva funto da mezzo socialmente riequilibratore l’imposta di successione e donazione, di fatto assai elevata (benché praticamente poco redditizia) prima della sua drastica riduzione quantitativa: si tratta infatti di un prelievo patrimoniale non periodico, ma occasionalmente certo.
In definitiva, la riallocazione della ricchezza – come pure si suole chiamare un qualunque programma riformatore, che corregga la disparità nel suo possesso –, mediante procedimenti giuridici diversi da un’appropriata (ma non arbitraria) politica fiscale, potrebbe avvenire nel quadro di un assetto costituzionale ed economico dispoticamente accentrato, nel quale l’intento correttivo si trasforma, addirittura, in una eliminazione della proprietà privata, con eccezioni insignificanti.

4. Fissate le linee fondamentali, secondo le quali si articola il significato ideologico dell’etica fiscale, si pone, in tutta la sua perentorietà, il problema di conciliare questo aspetto rilevante della vita sociale e delle sue innervature giuridiche con il principio di capacità contributiva, che presiede alla corretta genesi e gestione del diritto tributario sostanziale.
La norma costituzionale, che mi accingo a considerare, deve essere interpretata – come qualunque altra disposizione normativa – in conformità alla lettera, alla logica della espressione semantica e al sistema precettivo di cui è parte.
La sua origine è stata un suggerimento della Corte di Cassazione ai padri costituenti, per definire la partecipazione doverosa di ciascun soggetto avvantaggiato dai servizi pubblici allo sforzo finanziario dello Stato per lo svolgimento dei suoi compiti, definendo – con una formula breviloquente, ma significativa – il criterio fondamentale di tale partecipazione, ovvero la regola per un giusto riparto.
Rammento che lo Statuto Albertino collegava quantitativamente il concorso dei “regnicoli” alle pubbliche spese con i loro “averi”, formula semplice e intuitivamente comprensibile, ma grezza e poco pregnante.
Nonostante le iniziali svalutazioni di una dottrina, ancora e troppo impregnata di positivismo banale e codicistico, la capacità contributiva (o attitudine alla contribuzione, come ci accadrà di dire) designa, sinteticamente, ma pienamente (e anche con efficacia icastica) quei fatti e quelle condizioni che manifestano la possibilità di fronteggiare il pagamento dei tributi.
Il Costituente, fissando il dovere di concorrere alle spese pubbliche in ragione della capacità contributiva, ha inteso proclamare l’esigenza di attenersi, nell’imposizione dei tributi, ad un criterio razionale, che consenta una più apprezzabile distribuzione dell’onere relativo. Quell’esigenza necessariamente implica una discriminazione – positiva e razionale – poiché, in riferimento ad essa, non tutti i fatti della vita o non in tutta la loro dimensione possono rivelare attitudine contributiva.
L’espressione contenuta nella norma in esame ha dunque un significato peculiare, nonostante la sua apparente genericità. Anzi, l’assenza di rigidità e il carattere di larghezza formalmente indeterminata sono, a ben vedere, un pregio della disposizione costituzionale, poiché con essa, affermando un ideale di giustizia nell’attività tributaria, si è ad un tempo evitato opportunamente di irretire il significato del principio di capacità contributiva, che deve essere invece sensibile, pur nel quadro della Costituzione, allo sviluppo della coscienza sociale.
Né si potrà asserire che sia stato concesso al legislatore un illimitato e pericoloso potere discrezionale nella scelta dei criteri per la istituzione dei tributi, così legittimando qualsiasi interpretazione politica della realtà tributaria.
L’interprete non è peraltro libero nella sua opera: esso deve ispirarsi, oltre alla tradizione dottrinale e al contesto storico in cui si colloca, fondamentalmente all’impianto e alle radici ideologiche (e dunque al compromesso tra spinte evolutive e conservazione liberale) che esprime la nostra Carta fondamentale.

5. Il principio di capacità contributiva è dunque un freno non tanto all’arbitrio statale (che è già un aspetto estremo della degenerazione politica, condannabile e condannata), quanto alla libertà decisionale del legislatore.
Quel principio non ha dunque alcuna funzione propulsiva, suggerendo o indicando al legislatore medesimo le direzioni, i campi o i settori della vita sociale verso i quali sia opportuno o massimamente producente orientare il prelievo tributario oppure, al contrario, farlo apparire un mezzo meno odioso per il ceto dei contribuenti.
La regola della capacità contributiva non svolge un ruolo attivo, ma meramente passivo, stabilendo solo condizionamenti e recinti invalicabili. Dunque la regola, di cui sto occasionalmente discettando, adempie ad un ruolo protettivo per il contribuente, come, del resto, rende palese il senso letterale della disposizione costituzionale.
Invero solo il soggetto contributivamente capace può concorrere a sostenere il peso delle spese pubbliche; e quindi tale qualità è lo strumento ineludibile di ripartizione del carico tributario complessivo: in tal modo – per riprendere il tema generale di queste riflessioni – il precetto costituzionale si salda con i doveri dell’etica pubblica, nel settore tributario.
Tuttavia, individuata la funzione giuridica e pratica del principio di capacità contributiva, è irrinunciabile, per dare senso concreto ai propositi espostivi dello scrivente, definire l’elemento in relazione al quale gli individui si possono definire atti obiettivamente a sopportare le gravezze fiscali.
Tale elemento non può non essere la ricchezza o la forza economica, giacché il tributo si risolve in un’obbligazione pecuniaria e la fonte, per soddisfarla, non può essere che lo stesso presupposto imponibile, parzialmente eroso per il bene della collettività.
Non hanno (o sembrano non avere) adeguata efficacia persuasiva quelle tesi, pur autorevolmente sostenute, secondo le quali la relazione simbiotica – che pare intuitivamente necessaria – tra sostanza economica e prelievo tributario non è, al contrario, aspetto essenziale e sostanziale della capacità contributiva.
Essendo questa – per gli indirizzi dottrinali innanzi evocati – un mero criterio di riparto, ogni riferimento necessario alla ricchezza è frutto di un arbitrio esegetico e di arcaica concezione dell’evento tributario, che deve tendere (anche o prevalentemente) alla perequazione patrimoniale.
Conseguentemente – ma è difficile cogliere la coerenza di questa deduzione – ogni circostanza che riveli una preminenza sociale o una condizione personale genericamente vantaggiosa può essere legittimamente assunta, senza alcun nesso con potenzialità economiche.
Questo sganciamento – che finora, nella storia del diritto tributario positivo, sembra essere avvenuto solo, e parzialmente, con l’imposta regionale sulle attività produttive, costruita su schemi concettuali discutibili di economisti nordamericani – consentirebbe di sfruttare il prelievo tributario per il riallocamento equitativo nella distribuzione della ricchezza, perentoriamente richiesto dai principi costituzionali di equità, solidarietà sociale nonché di sensibilità compartecipativa e dunque (ecco la saldatura) con l’etica collettiva.

6. Il semplice lustro personale sarebbe allora indice di capacità contributiva; ma l’osservatore critico potrebbe domandarsi, con fondatezza, quale effetto redistributivo della ricchezza, tra le diverse componenti della società nazionale, si otterrebbe facendo leva su quelle apparenze, se il prelievo prescindesse dall’oggetto stesso del progetto perequativo.
Questo, invece, trova posto efficacemente nel quadro di un sistema fiscale ancorato, secondo la tradizione plurisecolare, a indici di forza economica, qualora si affidi alla sagace gestione politica – animata anche da propositi di solidarietà sociale – l’assetto della pressione fiscale, nel rispetto dei limiti protettivi per l’economia privata desumibili dal principio di capacità contributiva.
I propositi riformatori sono, del resto, perfettamente compatibili con la funzione garantista del principio di capacità contributiva, poiché questa non protegge lo status quo, in un immobilismo reazionario, ma svolge una difesa essenziale e minima dell’economia privata, evitando effetti radicalmente eversivi.

7. Del resto – in diversa, ma altrettanto rilevante prospettiva e in perfetta concordanza con il principio di capacità contributiva – l’etica è anche o principalmente moderazione; è l’opposto dell’aggressività, del massimalismo o anche della semplice e più ingenua – ma in verità più insidiosa – esagerazione nello svolgimento di qualunque funzione privata o pubblica. Il vizio – opposto alla virtù – consiste nell’abuso, nell’eccesso in una condotta di per sé lecita; esso non è tale per il contenuto intrinseco del comportamento, ma per la smodatezza rispetto all’esigenza di soddisfare esigenze legittime.
Giuridicamente, peraltro, il profilo quantitativo di un’attività è considerato, in genere, insignificante e lasciato al foro della coscienza; ma la moderazione, la misura e l’equilibrio sono il contrassegno di un contegno che il diritto può con fondatezza considerare giusto.
Il diritto positivo privato è più sensibile a questi aspetti, perché la legge civile è e deve essere neutrale, non essendo coinvolto – salvo casi eccezionali di ordine pubblico – un interesse prevalente per genere, carattere e teleologia.
Non così accade nell’ordinamento pubblico, nel quale l’asimmetria degli antagonisti è strutturale: da un canto si pone il privato, che anela a far valere o fa valere un suo diritto o una sua legittima prerogativa, e dall’altro l’ente, che è parte dell’organizzazione collettiva e che persegue una sua utilità prioritaria.
Ma è facile immaginare che proprio in questo contesto l’azione dell’ente possa degenerare.
In diritto tributario l’antietica – ovvero l’eccesso – non è rara. Ricordo l’invenzione amministrativa e giurisprudenziale dell’abuso giuridico, solo di recente codificato proprio per prevenire lo sfruttamento spregiudicato di quell’assunto e del precetto che ne è stato tratto.
Né può essere strumento di equilibrio la cosiddetta ragionevolezza – che è assunta a regola generale di civiltà giuridica – perché è troppo legata alle inclinazioni personali, al corredo culturale e alle predilezioni ideologiche del soggetto che deve esprimere un giudizio: anzi, secondo le ultime acquisizioni scientifiche, la morale è oggetto di studi neurologici e quindi è influenzata da cause genetiche.
Ancora, al dominio e all’invadenza delle Agenzie fiscali, nella progettazione e nell’esegesi delle norme, deve contrapporsi una tendenza pragmaticamente compensativa per il contribuente, anche e soprattutto nel contenzioso.

8. L’eccesso, che lede l’etica della condotta amministrativa, si riscontra peculiarmente in alcuni casi paradigmatici; mi limito a qualche accenno esemplificativo:
• la voluta disapplicazione di una norma civilistica regolatrice del contratto prescelto, quantunque l’ordinamento tributario non disciplini specificamente la fattispecie, il conseguente preteso riferimento a disposizioni impositive generali, in conflitto con quella norma, e la deroga non consentita al principio di derivazione contabile;
• la sistematica (e arbitraria) interpretazione limitatrice di regimi agevolativi, in difformità dalla ratio del provvedimento e dalla stessa intenzione del legislatore, con un parziale effetto, di fatto, inammissibilmente restrittivo;
• l’intenzionale qualificazione in senso perentoriamente soggettivo (e contro ogni evidenza concreta e storica) di una presunta inesistenza riguardante le operazioni descritte in fattura – fattispecie la cui dilagante e inconsulta generalizzazione ferisce e danneggia l’attività produttiva – con la conseguente riduzione, complice anche una criticabile tendenza giurisprudenziale, dei mezzi controdimostrativi a disposizione del contribuente;
• l’acritico, abituale e astratto riferimento a schemi probatori usuali e tralatizi, senza alcun processo di adattamento alle variabilissime condizioni di fatto e alla peculiarità del caso singolo;
• in materia di transfer pricing, la scelta preconcetta di processi statistici estimativi compiuta solo per l’ottenimento, in ogni caso, del maggior vantaggio fiscale, con la programmatica trascuratezza di criteri alternativi e mediani, conformemente all’equità.

9. Si può ancora stigmatizzare, in altro importante comparto delle vicende tributarie, la sostanziale e assiomatica trascuratezza, nei giudizi cautelari promossi dal contribuente, di ogni aspetto relativo al merito, con l’effetto d’imporre al soggetto, pur corredato da adeguati mezzi finanziari, un peso ictu oculi e con larga probabilità indebito e quindi di costituire surrettiziamente una gravezza patrimoniale temporanea, collidente con l’equità e con l’etica.
D’altronde ¬ per indugiare su quest’ultimo tema ¬ secondo le più vicine riforme dei sistemi processuali trainanti, il giudizio cautelare diviene l’occasione per decidere conclusivamente la controversia, stabilendo il giusto, qualora risulti manifesta la ragione del soggetto che lamenta un torto, negato inattendibilmente dall’antagonista.
Rammento – nel quadro del processo giurisdizionale amministrativo, disciplinato dal D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 – l’art. 55, decimo comma, a mente del quale il tribunale chiamato a emettere provvedimenti di tutela interinale, se ritenga che le doglianze del ricorrente meritino apprezzamento e siano tutelabili con una sollecita definizione del giudizio, rimette le parti davanti a sé per discutere il merito. Addirittura, in forza dell’art. 60, al tribunale è riconosciuta la facoltà di risolvere la lite con sentenza in forma abbreviata a conclusione del processo cautelare. Analoga accelerazione è prevista davanti al Consiglio di Stato, in sede d’impugnazione.
Nel diritto rituale civile si riscontrano regole analoghe, pur nell’ambito di un giudizio di stampo diverso. Ai sensi dell’art. 351, secondo comma, c.p.c., il giudice adito per la sospensione provvisoria della sentenza impugnata, se ritiene che la controversia sia matura per la decisione – in questo contesto procedurale la posizione delle parti è tendenzialmente paritetica, e quindi la norma garantisce l’assoluta neutralità del decidente, a differenza del processo impugnatorio, come si è visto poc’anzi – provvede con pronuncia istantanea o in una udienza successiva, dando lettura del dispositivo alle parti, in conformità all’art. 281-sexies c.p.c.
Da tali insiemi coerenti di precetti – che sollecitano al giudice la risoluzione definitiva della controversia, anche nel contesto di riti interinali, se già risulti chiaro il torto subito dalla parte dolente ¬ è dato arguire che comunque, in sede di cautela, il merito gode e deve godere di un risalto preminente. Tale prevalenza s’impone anche in un impianto processuale che contempli le garanzie intermedie, ma non preveda il potere del giudice di decidere la contesa, convertendo in sentenza definitiva il provvedimento provvisorio richiesto. In un simile scenario di colpevoli deficienze normative, il giudice – al quale si richiedono comunque solida preparazione e grande sensibilità – non deve limitarsi ad accertare l’esistenza di un pregiudizio irreparabile o grave in relazione alle circostanze, ma vagliare il merito, per cercare, ponderatamente, le tracce di una inequivoca ragione di colui che si duole di una offesa, e accogliere la domanda cautelare indipendentemente dal profilo del danno.
La soluzione s’impone anche nel processo tributario, in attesa che il riformatore si decida a disciplinare il rito delle tutele intermedie secondo il paradigma offerto dal contenzioso amministrativo; una simile condotta é pretesa non solo da un intransigente senso di equità, ma anche dal rispetto del processo giusto ¬ che la Costituzione auspica ¬ perché è tale se risolve, con pienezza di risultati, la lite qualora ne siano evidenti le condizioni legittimanti (1).

10. Una maggiore sensibilità etica dovrebbe condurre alla correzione di queste (e altre) sperequazioni e alle offese allo spirito autentico di giustizia, garantendo una lineare e cristallina conformazione del prelievo all’attitudine contributiva, proprio nel rispetto dei principi di solidarietà sociale saldati con la salvezza della persona.

Prof. avv. Gianfranco Gaffuri

* Lavoro destinato agli scritti in onore dei professori Augusto Fantozzi e Andrea Fedele.
(1) È ben vero che l’organo giuridico, adito per la sospensione della sentenza impugnata avanti la Corte di Cassazione, provvede esclusivamente in relazione al danno grave e irreparabile, poiché solo la Corte di vertice si occupa della controversia affidata al suo vaglio, e ogni altro giudice non può comunque interferire (art. 62-bis del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546). La norma peraltro concede al contribuente la possibilità di chiedere la sospensione dell’atto originariamente impugnato, derogando all’effetto sostitutivo generato dalle sopraggiunte pronunce della magistratura. In questo specifico ambito immagino che possa assumere influenza anche il fumus boni iuris. Se così non fosse, occorre prendere atto che, nel processo cautelare connesso ad un giudizio di legittimità, la definizione o anche solo la considerazione del merito è preclusa.

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