L’art. 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, prevede, oltre alla presunzione che i versamenti bancari sono da considerarsi compensi o ricavi salvo che il contribuente non dimostri «che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine», che «sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni».
Quindi non solo i versamenti ma anche i prelievi bancari si presumono ricavi (per gli esercenti una attività di impresa) o compensi (per i professionisti e gli artisti), salvo che il contribuente «non ne indichi il soggetto beneficiario».
La presunzione de qua intende evitare gli acquisti “in nero” da cui poi scaturirebbero vendite e quindi ricavi “in nero”.
Una prima questione affrontata dalla sentenza in rassegna, che ha in qualche modo anticipato il pensiero del giudice delle leggi, riguarda l’applicabilità della presunzione ai professionisti. In effetti, siccome il meccanismo inferenziale proprio delle presunzioni si fonda sull’id quod plerumque accidit, nel caso dei professionisti ciò non vale: nessuno ha mai visto un avvocato o un medico acquistare codici o stetoscopi per rivenderli.
La struttura lessicale della norma non autorizza tuttavia l’esclusione dall’area applicativa della presunzione dei professionisti; prima della nota sentenza della Corte Costituzionale che è finalmente intervenuta ad escludere la riferibilità ai lavoratori autonomi della citata presunzione basata sui prelevamenti (1), la Corte di Cassazione ha sempre accomunato nel calderone presuntivo sia gli esercenti attività di impresa che i lavoratori autonomi medesimi (2).
Il fatto è – e qui passiamo alla seconda questione analizzata dai giudici reatini – che l’equazione spese = ricavi o compensi, se è strampalata per i professionisti, è irragionevole anche per gli imprenditori: come si può seriamente sostenere che tutti i prelevamenti bancari di un muratore, di un barista, di un carrozzaio siano destinati ad acquistare merce in nero? Non esiste: anche gli imprenditori pagano le bollette, pranzano, si vestono, ecc.
Ora, imporre ai contribuenti determinati oneri documentali – rinforzandoli con presunzioni a loro sfavore – può essere necessario laddove tali adempimenti siano utili per prevenire l’evasione fiscale. Ma laddove gli adempimenti fiscali siano, come nel caso dei prelevamenti bancari, un’inutile complicazione (dato che mirano a evitare comportamenti illeciti marginali, e forse più temuti che reali), allora non dovrebbero essere neppure pensati.
[-protetto-]
In altri termini, quando si discute della presunzione versamenti (e non prelevamenti) = ricavi o compensi, siamo tutti d’accordo: è normale che il contribuente sia tenuto a spiegare che il denaro incassato sia stato assoggettato a tassazione ovvero che ne sia stato legittimamente escluso. Fornire la prova contraria alla presunzione versamenti = ricavi o compensi è indubbiamente una seccatura: tuttavia è una seccatura accettabile perché chiunque capisce che il costo – in termini di tempo e di dispendio di risorse umane – che si paga per formare e conservare la puntuale documentazione che il denaro versato sul conto corrente è stato sottoposto a tassazione o legittimamente ne è esente, è nettamente inferiore al beneficio (per la collettività) rappresentato dall’impulso psicologico a dichiarare fiscalmente quanto viene incassato.
Tornando alla tipologia della prova contraria richiesta dalla legge per vincere la presunzione prelevamenti = ricavi [o compensi] (3) occorre quindi tenere presente sia che la finalità di detta presunzione è la dissuasione dagli acquisti “in nero”, sia che si tratta di una presunzione priva di un serio criterio inferenziale (se è normale che un versamento abbia natura reddituale non è affatto normale, anzi, è vero il contrario, che il prelevamento di una somma di denaro equivalga a una entrata tassabile). Allora è logico che la prova contraria per i prelevamenti sia superata mediante l’indicazione del beneficiario del prelevamento. È ovvio che sia così; dal contribuente non si può né si deve pretendere di più: e infatti l’art. 32 del D.P.R. n. 600/1973 stabilisce che la presunzione è superata fornendo il nominativo del beneficiario.
È poi utile chiarire che l’indicazione del beneficiario da parte del contribuente funziona solo per disinnescare la presunzione prelevamenti = ricavi [o compensi]; nulla di più.
Il merito della sentenza massimata è quello di avere centrato il cuore del problema: l’indicazione del beneficiario non significa affatto che il contribuente l’ha “sfangata”; significa solo che l’onere di provare che il prelevamento è un ricavo in nero si trasferisce sull’Ufficio. Eventualmente muovendo proprio dal beneficiario. Se infatti, ad esempio, un contribuente indica come beneficiario del denaro Tizio, l’Ufficio può convocare Tizio e chiedergli se corrisponde a verità quanto riferito dal contribuente. A quel punto gli esiti possono essere i più vari: ad esempio, Tizio ammette di avere ricevuto il denaro e, se esercita una attività di impresa o di lavoro autonomo, dovrà fornire la prova che la somma incassata non è tassabile o che è stata assoggettata a tassazione. Oppure, se Tizio nega di avere mai ricevuto la somma in questione, il contribuente che lo ha indicato come beneficiario dovrà provare la corresponsione della somma, ecc.
Potrà succedere che il beneficiario della somma sia innominabile perché, ad esempio, l’accipiens è un funzionario pubblico corrotto (e del reato di corruzione risponde anche il solvens) o perché il denaro è servito per l’acquisto di droga (e chi acquista sostanze stupefacenti anche per uso personale è assoggettabile a sanzioni amministrative ex art. 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) o, ancora, perché il denaro è stato regalato all’amante o speso al gioco, ecc. In tali casi, povero lui, il contribuente si troverà nella scomoda condizione o di pagare le tasse due volte o di incorrere in qualche doloroso inconveniente: dalla condanna penale per il corruttore alle sanzioni amministrative per chi abusa di sostanze stupefacenti. Anche chi tenta di dare una scossa alla quotidianità con frequentazioni extra ordinem si troverà inguaiato: non è semplice dovere scegliere tra le ire del coniuge o lo sguardo accigliato del funzionario del fisco.
Avv. Fausta Brighenti
(1) Ci riferiamo a Corte Cost. 6 ottobre 2014, n. 228, in Boll. Trib., 2015, 148, con note di P. Accordino, Il giusto rèvirement della Corte Costituzionale: i prelievi dal conto corrente bancario di un lavoratore autonomo non costituiscono compensi non dichiarati, e F. Brighenti, Lavoratori autonomi: l’abolizione da parte della Corte Costituzionale della presunzione prelevamenti bancari = compensi (un altro contenzioso come quello IRAP?), che risolvendo alla radice il problema dell’applicabilità della presunzione prelevamenti = compensi sottolineandone l’irragionevolezza, ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., limitatamente alle parole «o compensi».
(2) Cfr. ad esempio Cass., sez. trib., 27 settembre 2011, n. 19692, in Boll. Trib., 2012, 707, secondo cui «una simile presunzione [può] trovare giustificazione per imprenditori o lavoratori autonomi, per i quali le spese non giustificate possono infatti ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti».
(3) Ora espunti dalla menzionata previsione dell’art. 32, primo comma, n. 2), del D.P.R. n. 600/1973, per effetto di quanto statuito da Corte Cost. n. 228/2014, cit.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Motivazione per relationem a processi verbali della Guardia di finanza già noti al contribuente – Legittimità – Non comporta necessariamente la mancata valutazione autonoma degli elementi acquisiti dai verbalizzanti da parte dell’Ufficio finanziario.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Equiparazione dei versamenti non giustificati a ricavi o compensi – Inversione dell’onere della prova in capo al contribuente – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Equiparazione dei prelevamenti non giustificati a ricavi o compensi – Irragionevolezza della presunzione riguardo al libero professionista – Inversione dell’onere della prova in capo al contribuente – Esclusione.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Equiparazione dei prelevamenti non giustificati a ricavi o compensi – Superamento della presunzione – Indicazione del solo beneficiario dei prelevamenti – Sufficienza – Inversione dell’onere della prova in capo all’Ufficio finanziario – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Natura di presunzioni semplici dei dati bancari – Necessità di gravità, precisione e concordanza dei dati utilizzati per l’accertamento – Sussiste – Necessità di abbinamento dei movimenti a corrispondenti documenti o fatti – Consegue.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Conti bancari intestati al solo contribuente – Diretta operatività delle presunzioni reddituali con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente – Conseguono.
Accertamento imposte sui redditi e IVA – Accertamento – Accertamento bancario fondato sulle risultanze dei conti correnti – Conti bancari intestati anche ad altri soggetti diversi dal contribuente – Onere dell’Ufficio finanziario di provare il collegamento delle movimentazioni ad operazioni del contribuente – Consegue.
La funzione informativa della motivazione dell’avviso di accertamento viene rispettata anche dalla c.d. motivazione per relationem che rinvii a un precedente verbale di ispezione già in possesso del contribuente, idoneo ad illustrare le ragioni della rettifica, poiché la motivazione degli atti di accertamento per relationem, ossia mediante il rinvio alle conclusioni contenute nei verbali redatti dalla Guardia di finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio finanziario degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio.
L’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, postula l’esistenza di una coerente rispondenza tra i movimenti del conto bancario, compresi i prelievi, e le registrazioni, ed è finalizzata a verificare se le relative movimentazioni attive (accreditamenti) e passive (prelevamenti) siano o meno coerenti con la contabilità del soggetto sottoposto a controllo, prevedendo che quelle che non risultino dalle scritture contabili e per le quali il contribuente non ne indichi l’effettivo beneficiario siano da considerare ricavi o compensi accertati in capo allo stesso soggetto, evidenziandosi in tali casi una maggiore capacità di spesa non giustificata dalla parte interessata che si correla con ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero”, di talché da una lettura razionale e sistematica della norma consegue necessariamente che le operazioni attive possono ritenersi non rilevanti ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta solo se tale dimostrazione risulti positivamente e non già in via residuale per effetto della negazione della validità della presunzione, e che invece quanto ai prelevamenti non vale per il professionista la presunzione di reddito, poiché se dal versamento privo di giustificazione è ragionevole desumere il potenziale occultamento di ricavi e quindi di redditi, la stessa presunzione non può operare per i prelevamenti effettuati dal libero professionista, specie se avvocato, atteso che dal prelevamento esso non può produrre alcun reddito, a differenza dell’imprenditore, per il quale le spese non giustificate possono ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti e, dunque, di ulteriori ricavi non dichiarati.
L’art. 32, primo comma, n. 2), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, secondo cui i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei rapporti e delle operazioni bancarie sono posti come ricavi o compensi a base delle rettifiche e degli accertamenti tributari, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, è inequivocabile nel rendere sufficiente l’indicazione del beneficiario e null’altro, ovvero il meccanismo presuntivo “prelievi uguale compensi” viene vinto alla semplice condizione che il contribuente si limiti a fornire le generalità del beneficiario delle somme in questione, poiché la prova contraria idonea a vincere la presunzione è rappresentata dalla mera indicazione del nominativo dell’accipiens, a seguito della quale l’onere probatorio si sposta in capo all’Ufficio finanziario procedente.
Ai fini dell’accertamento tributario i dati bancari sono semplici presunzioni suscettibili di assumere il ruolo della certezza, gravità e precisione solo mediante un logico, deduttivo e provato abbinamento con altrettanti fatti contestati, poiché secondo le normali tecniche ragionieristiche ad ogni operazione finanziaria deve corrispondere quella economica in senso lato, con una precisa distinzione dei fatti contabili che possano essere permutativi, compensativi, remunerativi, incrementativi, decrementativi e produttori o meno di ricchezza reddituale che in assenza di utilizzazione, prelievo o investimento diviene ricchezza patrimoniale, potendo la somma di più fatti accertati e la qualità del loro rapporto determinare la gravità, precisione e concordanza richiesta dalla legge, di talché l’incasso di una somma in mancanza di fattura, presunzione di per sé semplice, assume la necessaria qualità grave, precisa e concordante allorquando venga abbinato ad un altro documento o fatto, anch’esso di per sé presunzione semplice, concernente il medesimo importo e dal quale sia possibile arguire la causale dell’operazione.
Nell’ambito del potere di accertamento di un’eventuale evasione di imposte, attraverso l’esame dei movimenti di denaro registrati in documenti bancari la normativa vigente consente all’Ufficio finanziario di utilizzare le risultanze dei conti bancari formalmente intestati al contribuente, imponendo a quest’ultimo l’onere di dimostrare la non riferibilità degli accrediti a corrispettivi relativi all’unica attività professionale da esso esercitata, mentre viceversa, riguardo ai conti bancari non intestati solo al contribuente, l’Ufficio finanziario che intenda utilizzare le relative risultanze ai fini accertatori ha il preventivo onere di dimostrare il loro collegamento con le operazioni attribuibili al contribuente medesimo.
[Commissione trib. provinciale di Rieti, sez. I (Pres. Canzio, rel. Santilli), 5 agosto 2013, sent. n. 139]
IN FATTO – Con ricorso depositato in data 14.6.2012, rubricato al n. 269/12 R.G.R, il signor P.R. libero professionista “Avvocato” in Rieti, via … rappresentato e difeso dall’ Avv.to L.B. e da sé medesimo, si opponeva all’avviso di accertamento n. …, emesso dall’Agenzia delle Entrate, Ufficio di Rieti, afferente l’anno di imposta 2006, ai fini Irpef, addizionali, Irap e Iva, fondato su indagini finanziarie dei conti correnti bancari, intrattenuti dal ricorrente. Infatti, in data 9.6.2010 la Guardia di Finanza di Rieti iniziava nei confronti dell’Avv. P.R. esercente “l’attività degli studi legali” una verifica fiscale generale finalizzata al controllo del corretto adempimento delle disposizioni contemplate dalla normativa fiscale in materia di imposte dirette ed indirette, relativamente al periodo dall’1.1.2005 al 9.6.2010, il tutto riportato nel P.V.C, notificato alla parte.
A seguito del controllo della documentazione contabile e viste le risultanze delle indagini bancarie, i verificatori muovevano al contribuente le seguenti contestazioni:
1) maggiori ricavi per €. 36.748,44 e costi indebitamente dedotti per €. 529,25;
2) maggiore Iva a debito per €. 5.510,15;
3) iva indebitamente detratta di €. 884,43;
4) omessa regolarizzazione di acquisti senza fattura per €. 1.839,54.
In relazione al P.V.C, il contribuente in data 27.9.2011 presentava memorie difensive ai sensi dell’articolo 12, comma 7, legge 212/2000.
L’Ufficio, non ritenendo fondate le osservazioni mosse dal contribuente emetteva l’avviso “de quo” con il quale recuperava le maggiori imposte, oltre agli interessi e alle corrispondenti sanzioni. Lo notificava il 20.12.2011. In data 9.2.2012 il contribuente presentava istanza di accertamento con adesione e in data 28.3.2012 istanza di annullamento in autotutela. L’Ufficio, esaminata l’ulteriore documentazione prodotta, annullava parzialmente l’atto in autotutela e lo comunicava alla parte il 14.6.2012. Con il ricorso il contribuente impugnava il provvedimento dell’Ufficio eccependone l’infondatezza, ritenendo giustificate le movimentazioni bancarie.
Chiede la declaratoria di nullità con condanna dell’Ufficio alla rifusione delle spese di giudizio, nonché la sospensione dello stesso. Più in dettaglio, la parte ha cercato di spiegare i movimenti bancari ritenuti non giustificati ed eccepiva inoltre il difetto di notifica e di motivazione dello stesso avviso.
Si costituiva l’Ufficio, con atti depositati il 17 e il 23 luglio 2012, ribadendo la legittimità del proprio operato e la fondatezza dei presupposti dell’atto impugnato. Comunque, con la comunicazione (prot. n. 15042 del 14.6.2012) per la rideterminazione in autotutela, su istanza di parte presentata il 28.3.2012, l’Ufficio faceva presente che l’avviso di accertamento era stato oggetto di un provvedimento di autotutela parziale n. …, con il quale, a seguito dell’esame della documentazione esibita dalla parte, l’Ufficio determinava le movimentazioni bancarie, giustificate e non.
Il reddito di lavoro autonomo rideterminato in autotutela è di €. 85.491,00 a fronte dell’accertato di €. 89.189,00 contro quello dichiarato di €. 51.912,00.
Con riferimento all’avviso di accertamento, così come determinato in autotutela, l’Ufficio ribadisce la legittimità del suo operato. Chiede, pertanto, il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle somme rettificate, sanzioni oltre gli interessi e le spese di giudizio. Nel merito, previa alcune puntualizzazioni circa la presenza di due ricorsi avverso lo stesso accertamento e l’inammissibilità del ricorso di parte, ribadisce la legittimità dell’avviso notificato, nonché l’infondatezza di tutte le eccezioni di parte. La sospensione in discussione nell’udienza del 4.8.2012, veniva dichiarata non luogo a provvedere, trattandosi di avviso di accertamento, anno 2006. Il ricorso veniva posto in discussione all’udienza del 29.3.2013, nella quale le parti si riportavano alle rispettive deduzioni in atti ed alla documentazione presentata dalla parte ricorrente.
Al termine, la Commissione riservava la decisione.
In data 27-7-2013, in camera di consiglio, a scioglimento della riserva la Commissione decide come appresso.
IN DIRITTO – Va premesso che il ricorso di parte va accolto parzialmente dato che l’accertamento originario è stato oggetto di un provvedimento di “autotutela parziale” e che a seguito dell’esame della documentazione esibita dalla parte ricorrente, l’Ufficio rideterminava il reddito di lavoro autonomo.
In via preliminare non ricorrendone i presupposti, vanno superate le eccezioni di nullità e di inammissibilità avanzate sia dall’ufficio che dal ricorrente, con rispettive motivazioni. Il contribuente eccepisce la violazione dell’art. 7, comma 1 della legge 212/2000 (chiarezza e motivazione degli atti). Non si concorda con quanto sostenuto dal ricorrente che il P.V.C. omette di elencare la documentazione acquisita, impedendo allo stesso di predisporre una adeguata difesa. Nel processo verbale di constatazione, infatti, i rilievi scaturiti dal controllo della documentazione contabile sono dettagliatamente riportati.
Non c’è alcun obbligo di allegare la documentazione acquisita (conti correnti bancari) in quanto trattasi di documentazione conosciuta e nella disponibilità del contribuente. Tra l’altro negli allegati al P.V.C. i verificatori hanno riportato anche l’elenco di tutte le movimentazioni bancarie rilevate dai conti correnti sia che potevano ritenersi giustificate che quelle non debitamente documentate.
Prive di rilievo, sono da ritenersi le contestazioni sulla mancata allegazione di alcuni atti (richiesta di autorizzazione alle indagini bancarie, provvedimento autorizzativo del comandante regionale del Lazio della Guardia di Finanza) e sulla violazione dei principi del contraddittorio e di difesa, in tal senso l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 10675 del 4 maggio 2010 (1) e la sentenza sempre della Cassazione n. 14023 del 15.06.2007 (2). L’eccezione sulla carenza di motivazione va anche rigettata perché nell’avviso di accertamento risulta indicata in modo succinto e fa riferimento ai processi verbali di constatazione già conosciuti ed in possesso del ricorrente. Per costante giurisprudenza la motivazione succinta è ritenuta sufficiente purché, come nel caso in esame, il ricorrente possa esercitare il diritto di difesa mettendo in discussione ogni punto dell’atto impositivo in relazione alle norme applicate per la verifica ed a quelle per porre in essere l’atto impositivo; oggetto di impugnazione. Le risultanze contenute nei verbali redatti dalla Guardia di Finanza sono stati esaminati dal ricorrente che ha sollevato le eccezioni sulla legittimità, sulla fondatezza del risultato finale e sulla veridicità o meno dell’assunto impositivo.
In conclusione l’eccezione sulla carenza di motivazione nell’atto impositivo va rigettata per sussistenza della stessa supportata da dati ed elementi individuati, analizzati e contestati per far valere in sede contenziosa i diritti di difesa.
In questo caso la funzione informativa della motivazione viene rispettata anche dalla “motivazione per relationem” che rinvia ad un precedente verbale di ispezione idoneo ad illustrare le ragioni della rettifica in possesso del contribuente, ed è da ritenersi legittima. Infatti la motivazione degli atti di accertamento per “relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio di poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (cfr., ex multis Cass. Sez. Trib. sentenza 15.9.2008 n. 23635 (3)). Nel caso in esame il P.V.C. è stato regolarmente notificato al ricorrente, quindi l’Ufficio ha fatto specifici riferimenti allo stesso, già in possesso della parte e successivamente anche allegato all’avviso d’accertamento in questione. Infondata risulta anche l’eccezione circa la violazione dell’articolo 12 comma 5 della legge 212/2000 che dispone che “la permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni ….”.
Infatti, come affermato dalla stessa parte nel ricorso, la verifica non si è svolta nella sede del contribuente. Va precisato che, in ogni caso, ciò che conta è la durata effettiva della verifica che non coincide necessariamente con l’intervallo temporale compreso tra la data di apertura e chiusura della stessa.
Nel presente contesto, comunque, non siamo in presenza di un accertamento induttivo ma i recuperi derivano da rilievi analitici e dalle risultanze delle indagini finanziarie (conti correnti). Del che, questo Collegio in base alla documentazione presentata ritiene di esaminare quanto contestato dall’Ufficio a seguito di indagini bancarie. Non sono da ritenersi censurabili i rilievi dei punti n. 2, 3 e 4 innanzi elencati, in quanto trattasi di maggiore Iva indebitamente detratta o per acquisti senza fattura, che l’Ufficio a seguito di annullamento parziale in esercizio del potere di autotutela (art. 12-quater del D.L. n. 564/94 convertito dalla legge n. 656/1994 e del D.M. n. 37/1997) deve rideterminare sul reddito di lavoro autonomo derivato dall’autotutela e da questa decisione. Si confermano, invece, i costi di €. 529,25 (spese non inerenti) indebitamente dedotti dal contribuente e ricalcolati dai verificatori nelle pagine 20, 21 e 22 del P.V.C. Questo rilievo è stato frutto di uno scrupoloso controllo contabile dell’Ufficio a fronte del quale le giustificazioni di parte risultano generiche e non idonee ad inficiare la richiesta fatta. Sull’omessa contabilizzazione di maggiori ricavi per €. 36.748,44 derivanti sia da versamenti nel conto corrente non coperti da fattura o da prelevamenti dai conti bancari, non giustificati, l’art. 32, primo comma, n. 2, secondo periodo del D.P.R. n. 600 del 1973, dispone in ordine alle risultanze di accertamenti bancari che “… i dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati … sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 stesso decreto, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine; alle stesse condizioni, sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni ...”.
La norma, postula l’esistenza di una coerente rispondenza tra movimenti, compresi i prelievi in conto corrente e registrazioni ed è finalizzata a verificare, nello specifico dei rapporti di conto corrente, se le movimentazioni, attive (accreditamenti) e passive (prelevamenti), ivi evidenziate siano o meno coerenti con la contabilità del soggetto sottoposto a controllo, prevedendo che quelle tra esse, che non risultino dalle scritture contabili e per le quali il soggetto controllato non ne indichi l’effettivo beneficiario, siano da considerare ricavi o compensi accertati in capo allo stesso soggetto. In questi casi, infatti, si evidenzia una maggiore capacità di spesa non giustificata dal contribuente, che si correla con ulteriori operazioni attive effettuate presuntivamente “in nero”.
Da una lettura razionale e sistematica della norma consegue necessariamente che:
– le operazioni attive possono ritenersi non rilevanti ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta, ma tale dimostrazione deve risultare positivamente e non in via residuale per effetto della negazione della validità della presunzione;
– quanto ai prelevamenti, invece, non vale per l’avvocato la presunzione di reddito per i prelevamenti dal conto corrente.
Infatti, questo Collegio ritiene, che se dal versamento privo di giustificazione è ragionevole desumere il potenziale occultamento di ricavi e quindi di redditi, la stessa presunzione non può operare per i prelevamenti effettuati dal professionista specie se avvocato.
Non si vede infatti come una spesa possa fare presumere un’attività occulta agli uffici. In buona sostanza è ragionevole ritenere che la presunzione per i prelevamenti operi solo con riferimento ai redditi d’impresa ed ai redditi di lavoro autonomo con esclusione delle professioni cosiddette liberali.
In pratica, se la presunzione può valere per l’imprenditore, grande o piccolo, per il quale “le spese non giustificate possono infatti ragionevolmente ritenersi costitutive di investimenti e quindi di ulteriori ricavi non dichiarati”, non può invece valere per l’avvocato che dal prelevamento non può produrre alcun reddito. Nel caso in esame il contribuente è stato superficiale nei prelievi sul proprio conto corrente, anche se occorrenti per il proprio fabbisogno e quello della famiglia.
A questo proposito si deve tener conto che, in tema di prelievi, il meccanismo presuntivo prelievi uguale a compensi viene vinto alla semplice condizione che il contribuente si limiti a fornire le generalità del beneficiario della somma; in altre parole, la prova contraria idonea per vincere la presunzione è qui rappresentata dalla mera indicazione del nominativo dell’accipiens.
La norma è inequivocabile, basta l’indicazione del beneficiario e null’altro.
Se il contribuente indica (così come ha fatto) tra i percettori di reddito un famigliare, un parente o un amico, ha adempiuto all’onere probatorio che su di lui grava. La norma, infatti, è chiara: per superare la presunzione, nel caso di mancata indicazione nelle scritture contabili, è sufficiente la mera indicazione del percettore delle somme.
A questo punto, l’onere probatorio si sposta sull’ufficio.
In definitiva, questa sembra l’unica interpretazione accettabile; stiamo infatti discutendo di somme di denaro che provengono da una fonte di reddito e che sono già state sottoposte a regolare imposizione e che formano oggetto di una spesa da parte del contribuente; il che deve indurre ad estrema cautela nel considerare compensi ricchezza già tassata, perché, altrimenti si determinerebbe un inaccettabile vulnus al principio della capacità contributiva.
Per quanto riguarda i versamenti, e qui occorre dire che la presunzione ha una forza assai maggiore rispetto a quella relativa ai prelievi, il ricorrente non ha adeguatamente giustificato il deposito sul proprio conto corrente di alcuni versamenti (elencati nel prospetto, da questi giudici), per i quali la ripresa a tassazione deve essere ritenuta corretta.
Infatti, nei conti correnti vengono annotati assegni, cambiali, titoli, annotazioni finanziarie, ricevute bancarie ed altri documenti che non hanno comunque valore certificativo, per cui non possono essere assunti in modo definitivo come capo di prova.
I dati bancari sono semplici presunzioni suscettibili di assumere il ruolo della certezza, gravità e precisione solo mediante un logico, deduttivo e provato abbinamento con altrettanti fatti contestati, poiché, secondo le normali tecniche ragionieristiche, ad ogni operazione finanziaria deve corrispondere quella economica in senso lato, con una precisa distinzione dei fatti contabili che possano essere permutativi, compensativi, remunerativi, incrementativi, decrementativi e produttori o meno di ricchezza reddituale che in assenza di utilizzazione, prelievo o investimento diviene ricchezza patrimoniale.
La somma di più fatti accertati e la qualità del loro rapporto può determinare la gravità, la precisione e concordanza richiesta dalla legge.
L’incasso di una somma in mancanza di fattura, presunzione di per sé semplice, assume la necessaria qualità grave, precisa e concordante allorquando venga abbinato ad altro documento o fatto, anch’esso di per sé presunzione semplice concernente il medesimo importo e dal quale sia possibile arguire la causale dell’operazione.
Nell’ambito del potere di accertamento di una eventuale evasione di imposte, attraverso l’esame dei movimenti di denaro registrati in documenti bancari, acquisiti anche nel caso di verifica, la normativa vigente consente all’Ufficio di utilizzare le risultanze dei conti bancari formalmente intestati al soggetto verificato, spettando a quest’ultimo l’onere di dimostrare la non riferibilità degli accrediti a corrispettivi nella sola ed esclusiva attività professionale, mentre viceversa, nell’ipotesi di conti non intestati solo al soggetto verificato, l’Ufficio, che vuole utilizzare dette risultanze ai fini accertatori, ha il preventivo onere di dimostrare il collegamento delle stesse con le operazioni attribuibili al soggetto verificato.
Nel caso in esame, i conti bancari possono essere oggetto di considerazione ai fini dei maggiori ricavi, ritenuti occulti, in quanto i movimenti presenti sui predetti conti sono imputabili nella maggior parte al titolare; tale presunzione è riconducibile alla massima di esperienza che le rimesse in conto corrente sono normalmente derivate dall’attività del contribuente (Cass. 23852/2009 (4)).
La Commissione esclude dalle riprese fiscali a tassazione Irpef, Irap ed Iva, tutti quei movimenti i cui dati positivi sono emergenti dalle operazioni bancarie, mentre, in assenza di una precisa prova contraria, conferma quelle riprese, determinate a seguito di riscontri contabili eseguiti da questi giudici sui prospetti riassuntivi (redatti dalla Guardia di Finanza) degli assegni versati o versamenti in contanti accompagnati o no da fatturazione, ma, comunque, privi del requisito di inerenza e competenza in violazione dell’art. 75 del TUIR.
Va chiarito, comunque, a completamento delle conclusioni a cui siamo giunti, che “l’avvocato” come libero professionista (lavoratore autonomo) ai fini fiscali rientra nel regime di cassa, ossia emette la fattura al momento del pagamento.
Pertanto gli assegni e i contanti che il contribuente ha versato nel proprio conto corrente ai quali non corrisponde regolare fattura, sono da ritenersi introiti al nero.
Peraltro, tutte le giustificazioni di parte, finalizzate a “giustificare” i propri movimenti bancari, con tutta evidenza non sono persuasive e quindi non possono essere accettate per i seguenti movimenti riscontrabili nei conti correnti dell’avvocato P.R. per l’anno 2006, che vengono quantificati analiticamente in €. 19.500,00; meglio elencati nel seguente prospetto:
(Omissis).
Di conseguenza, per tali movimenti bancari ammontanti ad €. 19.500,00, resta applicabile la presunzione operata circa la loro riferibilità a ricavi non contabilizzati.
Per quanto sopra esposto il ricorso va parzialmente accolto e tenuto conto della parziale reciproca soccombenza, le spese di lite possono essere compensate.
La Commissione
P.Q.M. – In parziale accoglimento del ricorso determina in €. 19.500,00 l’importo complessivo dei componenti positivi di cui è stata omessa la contabilizzazione e conferma i costi non detraibili calcolati dall’Ufficio in €. 529,25.
Manda all’Agenzia delle Entrate la riliquidazione delle imposte Irpef, Irap ed Iva applicando la sanzione al minimo edittale e gli interessi di legge.
Compensa le spese di giudizio tra le parti.
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(2) In Boll. Trib. On-line.
(3) In Boll. Trib. On-line.
(4) Cass. 11 novembre 2009, n. 23852, in Boll. Trib., 2010, 58.
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